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Catanzaro
Io le voglio un gran
bene a quella città di Catanzaro, e piacevolmente mi ricordo sempre di tante
persone che vi ho conosciute piene di cuore e di cortesia, ingegnose, amabili,
ospitali. La città è sita sovra un monte in mezzo della Calabria: dietro le
spalle le van sorgendo altri monti sino alla gran giogaia della Sila, che di
verno si vede coperta di neve, e su la neve sorgono nereggianti i pini: dinanzi
le sta un vastissimo terreno ondulato di colline che sono sparse di giardini,
di orti, di case, di vigne, di oliveti, d’aranceti, e di pascoli dove
biancheggiano armenti: e tutto quel terreno si curva in arco sul mare Ionio che
tra i capi Rizzuto e Badolato forma il golfo di Squillace. Il mare è distante
da la città sei miglia, ma ti pare di averlo sotto la mano, e ne odi il
fragore: vi si discende per una strada che va lungo un torrente, e quando sei
su la riva trovi un villaggio che chiamano la Marina, dove i signori hanno loro
casini e la primavera vanno a villeggiare. Ad un miglio da la Marina sbocca il
fiume Corace, ed oltre il fiume s’inalza un antico tempio rovinato, che si vuole
edificato dai cristiani nel V secolo, e si chiama la Roccella: ci sono le
quattro mura, su le quali si aggira sempre un nugolo di mulacchie. Più in là
sul lido una grande pianura, che chiamano castra Hannibalis, e dicono
che ivi fu l’ultimo alloggiamento di Annibale che lì s’imbarcò per Africa.
Quando da un luogo della
città detto la Villa io guardai quella fioritissima veduta, volli trovare la
fede di battesimo di Catanzaro, e dissi: “Se la vostra cronaca narra che un
potente bizantino a nome Flagizio venne nell’ottavo secolo e fondò o ampliò la
città, egli le dovette dare questo nome di Catantheros, Catantharos,
(Κατανθήρος) che vuoi dire sul fiorito, e glielo
diede pel sito bellissimo ed amenissimo su cui forse ebbe una sua villa, e poi
surse la città”. “Oh, che Flagizio e che greco voi ci contate. Una volta
c’erano due fratelli briganti, Cataro e Zaro, i quali dopo molti anni che
scorsero la campagna, infine si pentirono, e vennero qui che era luogo forte, e
nessuno poteva toccarli: qui abitarono con la loro compagnia e le loro
famiglie, qui fabbricarono una chiesa e ci furono seppelliti; e così si formò
la città che porta il nome di tutti e due.” Ci ebbi una quistione lunga che non
è decisa ancora: anzi ogni buon catanzarese tiene per i due briganti, e non so
come non gli hanno messi tra i santi protettori della città.
Essendo la città posta
dove la terra d’Italia è più stretta e come strozzata tra il mare Ionio ed il
Tirreno, è battuta continuamente da venti che tolgono agli abitanti la pena di
spazzarla, rendono l’aria pura, ma variabile, e i cervelli mobili e facili a
dare di volta. Le case non so né belle né grandi e si abita per lo più in
baracche fatte di legno dentro e poca fabbrica fuori per difendersi dai
terremoti. La Calabria è il paese dei terremoti: ogni città, ogni terricciuola
ti presenta vestigie di rovine, e non passa anno che nella stagione di
primavera o di autunno la terra non tremi. Era il colmo di una notte ed io
dormivo in una stanza, presso la quale era un’altra famiglia: fui scosso da un
rumore come di venti carri d’artiglieria che passassero insieme per via; odo
alcune voci gridare: “San Vitaliano, aiutateci” sento il letto tremare, e
m’accorgo del terremoto. Saltammo dal letto, prendemmo alcuni panni, e fuori in
una piazzetta dietro la casa dove si raccolse anche l’altra famiglia. La città
fu piena di rumori, di voci, si aspettava la replica, ma non venne: vennero
amici e conoscenti che avevano una certa familiarità col terremoto, e andavano
facendo visite, e celiavano. La scossa fu leggiera, e si passò la notte in
veglia: ma quando le scosse sono gagliarde tutti tremano, un grido spaventevole
esce della città, e tutte le voci chiamano il santo protettore e la Vergine.
C’era stato il terremoto grande del 1832, e tutti ne parlavano con terrore, e
mi mostravano le rovine in vari luoghi, e narravano fatti dolorosissimi. “Ah,”
mi diceva uno, “se non ci fossero i terremoti ed i briganti, la Calabria
sarebbe il primo paese del mondo”.
La città più calabrese
delle Calabrie è Cosenza, dove predomina l’antica schiatta bruzia: Catanzaro è
la più grossa, con circa ventimila abitanti, nei quali scorgi l’indole e
l’ingegno greco, e li odi parlare un dialetto pieno di greche parole. Allora
aveva una gran corte civile per tutte e tre le Calabrie, e come capo di
provincia un intendente, una corte criminale, un tribunale civile, un
comandante le armi, un vescovo, vari uffiziali di finanza, un liceo, un
seminario, una scuola primaria, una tipografia, un solo libraio. Questa città
come molte altre, non ha vita propria, ma da la gente che vi corre per piati e
per faccende, sicché se la sede del governo provinciale fosse trasferita
altrove ella resterebbe deserta. I proprietari attendono a coltivare i loro
fondi con l’ignoranza e la negligenza antica, a vendere le derrate e i prodotti
delle loro mandre: ma industria nessuna, delle arti le sole necessarie, ogni
cosa, persino i solfini, viene da Messina e da Napoli. Vi è rimasta una memoria
dell’arte di tessere la seta, introdotta nelle Calabrie nel XII secolo da re
Ruggiero: pochi artigiani solitari e miseri hanno imparato quest’arte ciascuno
dal padre suo, e tessono per chi fornisce loro la seta, e fanno di bei lavori.
Così era Catanzaro quarant’anni fa, e da tre anni aveva la strada rotabile che
la congiungeva a Tiriolo, ché prima aveva un sentiero per dirupi, dove a pena
andavano i muli.
L’arte che tutti i
calabresi sanno benissimo, dal più ricco all’ultimo mendico, è quella di
maneggiare il fucile. Non esce di casa un possidente per andare ai suoi fondi,
o in paese vicino, o per divertirsi in campagna con la moglie e i figliuoletti,
senza che egli sia armato sino ai denti, e accompagnato da servi armati detti
guardiani, i quali guardano il padrone, la casa, i poderi, i bestiami; ed ogni
proprietario ne ha quanti ne può avere, e li arma con permesso del governo. Il
popolo vive miseramente, e in un’ignoranza che fa pietà: sono rozzi e fieri, ma
non sono sciocchi: pochi esercitano un’arte o un mestiere, gli altri servono, o
coltivano i campi o guardano gli armenti: per miseria rubano, e per natura
impetuosa trascorrono ai delitti di sangue. Chi ammazza un uomo, si nasconde;
se è cercato, si getta in campagna, dove per vivere deve rubare: un
fatto tira l’altro, un’offesa cagiona un’altra: se egli è veduto con altre due
persone armate, le autorità lo dichiarano fuorbandito o brigante, e mettono la
sua testa a prezzo. Allora quell’uomo diventa un lupo, si disfà di tutti i suoi
nemici, di tutti quelli dai quali si ricorda di aver avuto un torto. I
fuorbanditi si uniscono in compagnia, taglieggiano i proprietari, ricattano
uomini, fanciulle, donne, e non li rimandano se non hanno danari e robe: se il
proprietario non manda loro ciò che gli chiedono, gli scannano il bestiame, gli
bruciano il casino, e se colgono lui lo uccidono. La maggior parte del danaro,
degli ori, e degli argenti che così rapiscono la mandavano a qualche uffiziale
di gendarmeria, a qualche generale ancora, e a qualche proprietario che può
aiutarli, e molti piccoli proprietari sono diventati ricchi briganteggiando al
coperto. Parecchi briganti raccontavano a me nell’ergastolo come e a chi
davano, e come erano avvisati di ogni cosa, e trattati a dolciumi e a
galanterie: e mi dicevano il quando, il dove, e certi nomi di persone che erano
tenute per coppe d’oro. Uno mi diceva: “Io stava comodamente in casa del
capitano, e dormivo in un buon letto, e il capitano coi suoi gendarmi andava
camminando per trovarmi: io gli aveva dato duemila ducati”. Questa vecchia
piaga delle Calabrie, che il governo borbonico faceva le viste di voler curare,
e più l’inaspriva coi suoi gendarmi e coi suoi impiegati ladri e corrotti, non
può esser risanata che a poco a poco, e dalla sola libertà che è risanatrice di
tutti i mali. Quando le strade comunali, provinciali, e ferrovie metteranno i
Calabresi in facili comunicazioni tra loro e con le altre genti d’Italia,
allora si scioglierà quell’antica lotta chiusa in ogni paesello tra il
proprietario sempre usuraio lì, e il proletario sempre debitore, si ammansirà
quell’odio per oltraggi antichi che è la vera cagione del brigantaggio. Quando
quelle genti avranno lavoro, istruzione e giustizia, quelle loro nature sì
gagliarde nei delitti saranno gagliarde nel lavoro, nelle industrie, nelle
arti, nella guerra santa e nazionale. In nessuna contrada ho veduto più ingegno
che in Calabria, lì schizza proprio dalle pietre, ma raramente è congiunto a
bontà, spesso è maligna astuzia.
In Catanzaro trovai
poche persone colte, parecchi parlatori che parevan saputi; tutti, specialmente
i nobili, cortesi e amabili: il popolo lieto, motteggiatore, vago di spassi e
di feste, molti legisti e di valenti: in tutti quanti un po’ di rozzezza che
non dispiace perché sotto v’è buon cuore. Le donne, tranne pochissime, non
sanno leggere, ma con gli occhi dicono tutto. Dai paeselli vicini ne vengono
alcune d’una mirabile bellezza di forme, e mia moglie ne lodava specialmente
una che era povera fanciulla di Marcellinara, e aveva occhi, volto, persona
bellissima e perfetta.
Ci sono quattro
confraternite, delle quali fanno parte tutti i cittadini, che gareggiano
pazzamente in feste arredi luminarie, spendendo gran danari che andrebbero
meglio adoperati in opere civili. Ma che volete? I nostri padri, vivendo muti e
disgregati senza libertà politica, non avevano altro legame comune che la
religione, però fondarono queste confraternite dove avevano una certa libertà,
e voto, e magistrati, ed uguaglianza, e potere di legge più che di uomini, e
associazione di mutuo soccorso; e ragionevolmente amavano queste istituzioni
onde avevano molti benefizi. E perché l’arte è un bisogno del nostro popolo,
quando si celebra la festa del santo della confraternita, l’eloquenza la poesia
e la musica sono adoperate nella festa. Un prete o chierico sciorina un
panegirico, a cui il popolo batte le mani e grida l’evviva: sonatori vanno per
tutta la città, e poi quante persone sanno accozzare versi italiani, latini, e
greci ancora, e francesi s’il vous plaît ne recitano a dilungo. Come io
giunsi a Catanzaro trovai grandi preparativi per la festa dell’Immacolata che
si fa 1’8 dicembre; e poi che ebbi letta la mia prolusione nel liceo, fui tosto
invitato a fare da presidente a l’accademia che si doveva tenere in chiesa per
quella festa. Non ci fu verso a scusarmi, Peppino mio fratello mi disse che se
ne sarebbero offesi, dovetti pure leggere e scrivere un discorso sguaiato, e mi
sorbii sino all’ultimo tutte le poesie che si recitarono: ce ne furono bonine,
e ce ne furono da far spiritare anche il diavolo che sta sotto a la Immacolata.
Il liceo di Catanzaro
era uno dei quattro del regno, nei quali oltre l’insegnamento letterario si
dava il primo grado dell’insegnamento professionale, c’erano cattedre di
diritto, di medicina, di chimica, d’agricoltura, e di matematiche sublimi, e ci
si aveva la licenza: per la laurea poi si doveva venire all’Università.
Dopo il 1848 il Governo
per non far raccogliere in Napoli molti giovani provinciali, messe in tutti i
collegi l’insegnamento professionale, e li trasformò in licei, e li diede a
governare ai padri gesuiti o agli scolopi, che mirabilmente impecorirono i
giovani. Io mi messi ad insegnare con ardore e con amore a quei cari
giovanetti, che essendo poco minori di me per l’età m’intendevano e mi amavano
tanto. Poveri giovani! Ne ho riveduti parecchi nelle carceri e nelle galere con
la catena al piede; e sono venuti a visitarmi nell’ergastolo. I frati non li
fanno questi allievi.
Il rettore mi disse che
gli alunni del liceo due volte l’anno solevano far un’accademia nel giorno del
nome e nel giorno della nascita del Re, cioè recitare versi italiani, latini, e
greci in lode di Sua maestà; e che tutti quei versi doveva farli io professore
di retorica, perché gli alunni non sapevano, e gli altri professori non avevano
questo debito. Mi sentii rovesciato addosso una pentola d’acqua bollente; non
sapevo di aver quel dovere, e da adempierlo subito, ché tra pochi giorni
sarebbe venuto il 12 gennaio 1836, in cui re Ferdinando compiva il suo
ventesimo sesto anno. Mi dibattei come un cavallo selvaggio preso al laccio, e
mi sentiva avvilito innanzi la mia coscienza. Non c’era che fare. Si pensò che
la regina era per partorire, e che sarebbe stato meglio fare l’accademia in
occasione del parto. Ella partorì il 16 gennaio, ed io mi messi a cantare; ma
dopo quindici giorni venne la nuova che ella era morta, ed io dovetti cangiar
tuono!
La morte della regina
afflisse tutto il regno: il dolore fu sincero, il lutto generale. Giovane,
bella, pia, compassionevole, morire mentre era lieta d’un figliuolo, e così
subito, e mentre si festeggiava il suo parto, era veramente una pietà. Si
bucinò che Carlo principe di Capua avendo anch’egli la comune opinione che il
re fosse impotente a generare, e vedendolo per due anni senza prole, aveva
sperato di succedere al trono; ma che quando si accertò della gravidanza della
regina, e poi del parto, e della prole maschile ne fu corrucciato a segno che
venne a fiere parole col fratello, ed entrambi messero mano a le spade; che la
regina li udì, balzò dal letto, si gettò in mezzo, li divise; e che per questa
paura, essendo ancora tenera del parto, la poveretta in capo a pochi giorni si
morì. Questo fatto mi fu riferito da persona che soleva spillare tutti i
segreti di corte. Certo è che quel Carlo fu violento e malvagio da giovane, e
fieramente si odiarono col fratello. La cagione palese di quest’odio fu che
egli sposò una signora inglese, e fece al sangue dei Borboni una macchia che il
re fratello non gli perdonò mai, mai non volle riconoscerne la moglie e i
figliuoli, gli negò ogni avere, e lo ridusse ad andare povero e ramingo per
l’Europa; ma la ragione segreta di sì pertinace odio fu quella contesa. Egli
era noto per indole trista e brutte opere: di sua mano uccise un poveruomo che
egli sorprese in luogo riservato alla caccia reale presso Castellammare:
batteva e feriva chiunque ne provocava lo sdegno; pigliava danari in prestito e
non pagava: ed un creditore che andò a domandargli il suo avere, egli lo fece
sbranare mezzo dai suoi mastini, e colui indi a pochi giorni morì. Gli anni, la
buona moglie, i figliuoli, il bisogno mitigarono quell’animo. Né solo costui,
ma gli altri fratelli del re si macchiarono di laide colpe. Leopoldo conte di
Siracusa, luogotenente in Sicilia, fu richiamato per libidini troppe anche in
un principe. Poi fece lo scultore e il liberale, e molti liberali annacquati
gli erano intorno, taluno per bisogno. Ma Antonio conte di Lecce superò tutti
in bassezza e bestialità. Ritiratosi in un paese detto Giugliano, si accerchiò
di bravi che per suo conto rapivano fanciulle e maritate, battevano e ferivano
chiunque resisteva. Vestito da castaldo, andava pei mercati vicini, comperava e
vendeva porci, buoi, cavalli, grano, granturco: spesso rissavasi coi villani, e
dava e toccava pugna e nerbate: ingannava, frodava; truffava nei negozi, e se
ne vantava come di astuzie. Colto da un marito fu precipitato da una finestra:
così pesto, e marcio di libidini e di furfanterie, si morì ancora giovane.
Monsignore Scotti gli recitò l’orazione funebre, nella quale non lodò nulla, e
i vizi erano troppo noti e inescusabili, ma disse che era vissuto male e morto
bene, ché Dio è grande e poteva averlo perdonato, e diede per certo il perdono
e la salita di don Antonio in Paradiso. Gli altri fratelli Luigi e Francesco di
Paola non erano venuti su, e le loro valentie le fecero di poi. Intanto la
madre loro Isabella seguitava a fare figliuoli con un tedesco: lo scandalo era
troppo: il re volle che ella scegliesse pure un marito, ed ella finalmente si
messe in grazia di Dio e tolse a marito un bel giovane. Insomma in quel sozzo
lombricaio borbonico, il solo re Ferdinando fu costumato.
Dopo cinque mesi da la
morte di Cristina egli andò a Vienna e tolse a seconda moglie Maria Teresa
figliuola dell’arciduca Carlo. Costei scaricò una dozzina di figliuoli; odiò
cordialmente i Napoletani che parlavano sempre di Cristina, e ripeteva sempre
al marito: “Casticate, Fertinante, casticate”. Egli seguì subito e bene il
consiglio della nuova moglie, la quale gli stava sempre attaccata al fianco,
come chiodo a la scarpa, ed egli la chiamava Centrella. Ma torniamo in
Calabria.