XVI -
Quindici mesi a disposizione della polizia
Il carcere della Vicaria
fu trasformato dopo il 1860: io ve ne parlo come era allora che ci fui io, e ci
fui due volte: la prima che fu questa, e la seconda nel 1850.
Per entrare nel carcere
dei nobili bisognava passare per una grande stanza detta l’Udienza, nel mezzo
della quale erano due grossi cancelli di legno, distanti otto palmi l’uno
dall’altro, larghi quanto tutta la stanza, e ciascuno con una porta: di qua era
la gente libera, di là i carcerati: la porta di qua era tenuta da un custode,
quella di là ed interna da un chiamatore. Tra i due cancelli era un custode che
pigliava e porgeva le robe. Nessuno poteva vedere persona o parlarle se non a
traverso quei brutti e sozzi cancelli di legno; e di qua e di là era un
affollarsi, un urtarsi, un gridare, un guardare in bocca per intendere le
parole. La folla, l’afa, il puzzo era niente verso le grida del nostro popolo
che parla gridando, e le cantilene dei chiamatori. I chiamatori sono quei
prigionieri che hanno la buona grazia dei custodi e il privilegio di chiamare
gli altri per prezzo; hanno poi il dovere di fare la spia, di battere i
cancelli, e di accompagnare i custodi quando vanno ad aprire le segrete. Chi
cerca vedere un prigioniero, deve dare una moneta al custode e dirgli il nome:
ed il custode per farsi udire in quel frastuono sbatte forte il chiavaccio
della porta, e ripete il nome al primo chiamatore, e questi ad un secondo, sino
all’ultimo che è nella parte più anteriore del carcere. Onde senti gridare in
cantilena tanti nomi da tanti vocioni squarciati, e dopo le grida od i lazzi e
le oscene parole e le ingiurie, e le bestemmie: e bisogna pagare la chiamata.
Non si può immaginare che inferno era l’udienza in certe ore del giorno, e che
nefande cose vi si dicevano e vi si facevano.
Dopo l’udienza si
scendeva nel primo camerone, che era una grotta oscura, lunga, con un po’ di lume
giù in fondo che veniva da un finestrone. All’entrare gli occhi non vedevano
nulla, e se non avevi uno che ti guidava a mano, correvi il rischio
d’infrangerti una gamba. Poi che l’occhio s’era usato a quel buio vedevi
muoversi uomini con strane facce, e strane vesti o seminudi; e udivi strani
parlari. Verso le pareti erano alquanti letti o canili poggiati sopra scanni di
legno: un gran numero di farti ravvolti, legati con funicelle, e gettati per
terra la notte erano sciolti e distesi in mezzo al camerone, e vi dormivano in
oscena nudità la state, fra cenci l’inverno, fra sozzure sempre. Nel lato
sinistro di questo camerone si vedono sei chiarori, che vengono da sei stanze,
in cui si entra per usci bassi e muniti di cancello di ferro affinché non manchi
in tutto l’aria all’oscuro camerone. Nella quinta di queste stanze eravamo noi.
Nel lato destro era la cappella; e si vedevano murati gli usci di antichi
criminali, fra i quali più famoso era quello del Leone13.
Seguiva il camerone
detto di Porta Capuana, illuminato da finestre sporgenti sulla via, le quali
sono aperte in un muro grosso un venti palmi, e però danno poca luce: pure a
queste finestre si affollavano i prigionieri, come i pesci d’una peschiera
corrono al buco per dove entra l’acqua pura. Se togli l’oscurità del primo
camerone, qui è lo stesso fetore, le stesse sozzure, gli stessi letti, gli
stessi farti per terra.
Dopo un corridoio nel
quale c’è una scala che scende giù agli approvati, e sono altre stanze: si
entra nella infermeria, terzo e grande camerone luminoso. Solamente qui entra
il sole da quattro finestre, le quali oltre i cancelli hanno anche una rete di
fili di ferro, messavi nel 1821 quando qui furono ottanta militari della causa
di Monteforte, de’ quali i soli Morelli e Silvati perdettero il capo sul
patibolo, e gli altri tutti furono sepolti nell’ergastolo e nelle galere.
Qui finisce il carcere
de’ nobili dove erano circa quattrocento uomini tormentati dal puzzo, dal buio,
dagl’insetti, non mai confortati dal sole né dall’aria pura, chiusi per ogni
parte da ferri, mescolati insieme giudicabili e giudicati, imputati politici ed
assassini, lo studente che tardava a prendersi la sua carta di soggiorno, e chi
aveva fatto in pezzi la moglie, i ladri, i falsari, gli uomini più perduti e
nefandi: e spesso il letto dell’uno è vicino a quello dell’altro. Chi grida,
chi canta, chi bestemmia, chi siede sul letto e fuma, chi passeggia muto e
pensoso, chi scrolla i ferri delle finestre e freme; diverse immagini di dolori
profondi. La notte poi quando sono chiuse le finestre, nei cameroni vedi e
tocchi un’aria crassa, un fumo denso formato dal tabacco misto a’ miasmi che
esalano da tanti corpi, e dalle tine degli escrementi per modo che ti senti
serrare la via dello spirito, e se non venissero i custodi ad aprire le
finestre due volte la notte vi si morrebbe d’asfissia. Cinque volte il dì si
battono i ferri, a ventiquattr’ore, a mezza sera, a mezza notte, al far del
giorno, a ventun’ora. Viene un custode accompagnato da tre chiamatori, uno de’
quali porta appesi a le spalle molti mazzi di chiavi per aprire usci ed
imposte, un altro porta una lanterna o un torchio di pece, ed un altro un
martello con cui batte i ferri in aspra cadenza. E affinché non manchi nessuna
umiliazione ai prigionieri, la mattina e la sera sono contati da un custode, il
quale si mette a la porta fra i due cameroni, e manda intorno, come bracchi, i
camorristi, che raccolgono i prigionieri, e glieli fanno passare innanzi. “A
la conta, a la conta,” gridano quelli, e percuotono le tavole de’ letti con
qualche bacchetta: quegli conta, giunge a cinquanta, e ricomincia da uno.
Spesso sbaglia; e si rifà la conta, e senti dire: “Ce n’è uno soverchio.”
“Ammazzalo, e ti trovi”. Dopo la conta della sera si chiudono i cameroni e le
stanze.
Nella stanza numero
cinque noi non avevamo altro che i letti, una lucerna, un vase immondo: non una
seggiola, non un tavolino: il letto serviva per dormire, per sedere, per
mangiare, per scrivere, come in criminale. La finestra, volta a settentrione come
le altre, riguarda dirimpetto la chiesetta di Sant’Onofrio ed il quartiere dei
gendarmi, che fu antico conservatorio di musica, dove furono i vecchi maestri
Leo, Jommelli, Durante. A questa finestra non si poteva stare, non solamente
perché il sole nella state si riflette molesto dalle case dirimpetto, ma perché
dal carcere inferiore saliva un puzzo stomachevole come di vescicante, un puzzo
di carne umana corrotta, un puzzo che non può avere altro nome che puzzo della
Vicaria. Nel carcere inferiore erano stivati gli uomini come bestie, nudi,
lordi, senza neppure i farti dove giacere: e ad ogni finestra del carcere
inferiore c’erano uno o due che ad alte voci e lamentevoli cercavano limosina
ai passanti e tenevano per una cordicella legata ai ferri, una fiscella di
giunchi. Sulla sponda della via facevano mettere molte figure di santi e di
madonne, con sopra alcune pietre per non farle portare via dal vento. Chi
voleva far limosina deponeva una moneta sopra una figura, la sentinella la
prendeva e la poneva nella fiscella pendente, che subito era tirata su. Quelle
limosine, che non erano poche perché i napoletani sono pietosi e danno ad ogni
apparenza di sventura, non servivano né a sfamare né a ricoprire i disperati ma
andavano tutte in mano ai camorristi che davano la mancia ai custodi, e qualche
cosa al carcerato che non era veramente bisognoso ma faceva quel mestiere per
acquistar grazia presso i camorristi e per lucrare qualcosetta. Quest’uso di
far chiedere la limosina ai carcerati oggi non c’è più, ma allora c’era fra
tante altre vergogne che c’erano: anzi io ricordo che a Caserta andavano per le
vie due carcerati ammanettati e seguiti da un soldato armato cercando la
limosina, ed io fanciullo ne sentivo una pietà grande e davo sempre quello che
potevo. A la finestra dunque non si poteva stare per l’orribile puzzo e le voci
che salivano da basso, e per riflesso del sole che feriva di contro: né si
poteva camminare pel carcere fra tanta gente diversa: però ce ne stavamo nella
stanza a scrivere, o leggere, o udire qualche carcerato che veniva a chiedere
consiglio e ci raccontava i casi suoi. Povera gente! spesso era una pietà
grande a udire quelle sventure e quei delitti.
La bottiglia portava le
lettere e mia moglie mi scriveva puntualmente ogni giorno. “Sono stata dal
ministro, e l’ho trovato come un istrice. Mi ha detto: ‘L’affare non dipende da
me, ma dal Re.’ ‘Ed io anderò dal re’. ‘Andateci pure’.” Altre volte mi
scriveva: “Ho chiesto l’udienza al Re. L’usciere maggiore don Giovanni Lombardi
ed altre persone di corte, tutti fedelissimi servitori, mi fanno cortesia e mi
dicono di parlare forte al Re. Tutti abborriscono Del Carretto, e vorrebbero
vederlo distrutto”. “Finalmente ho avuto l’udienza dal Re. Sono entrati prima i
preti, poi le signore. Quand’io gli ho fatto riverenza, egli mi ha risposto con
un sorriso e un cenno di capo; ma come gli ho detto il tuo nome, si è
accigliato, ha posto il pugno su la tavola che aveva a fianco, e ha detto: ‘Ah,
questo è l’affare della giovine Italia: bene, bene, si provvederà’.” E quando
dopo molti mesi fu provveduto, ed io era ancora in carcere, la povera mia
moglie andò un’altra volta dal Re, e mi scriveva: “Afflitta come sono, e
ammalata, ed irritata da tanti mali che mi pungono gli ho parlato proprio col
sangue agli occhi: gli ho detto che dopo un giudizio e dopo tanto tempo tenerti
ancora in carcere è tormentare una madre e due creature. ‘Ma ora quest’affare
dipende dal ministro.’ ‘E il ministro mi ha detto che dipende da Vostra Maestà.
Io m’aspetto che V. M. scriva su questa supplica la liberazione di mio marito.’
‘Ci perdete il tempo ad aspettare.’ ‘Io non mi muovo di qui se V. M. non mi fa
la grazia.’ ‘E bene sedetevi.’ Allora ho capito, ho capito, ho preso per mano
Raffaele che voleva salire sopra un seggiolone, e sono andata via. M’è venuto
dietro don Giovanni Lombardi e mi ha detto: ‘Avete parlato molto forte al Re, e
mi maraviglio come egli non v’ha detto nulla’. ‘Perché sa che ho ragione.’
‘Basta una parola per far cacciare una persona dall’udienza.’ ‘Egli sa che ho
ragione’. Poi sono stata dal ministro, che all’udire come io avevo parlato al
Re s’è inalberato. ‘Ma sapete, o signora, che anche dopo il giudizio io posso
tenere in carcere vostro marito non solo per due anni ma per dieci, e mandarlo
dove io voglio?’ ‘Lo so, ma non sarebbe né giusto né generoso’.” Così pregava
mia moglie, e si faceva rispettare, né mai alcuno le disse parola se non
rispettosa.
Nelle lettere
quotidiane, delle quali mi rimangono una decina delle mie, e nessuna di quelle
che ella scriveva a me e che io dovevo distruggere, si parlava de’ nostri
dolori, e di Raffaele che già andava a scuola, e della Giulia che era molto
ammalata. “Questa cara e sventurata creatura,” mi scriveva mia moglie, “sta le
giornate intere con le manine agli occhi seduta sopra una seggiolella, e
poggiata il capo ad una seggiola comune. Se viene qualcuno a vedermi, ella
solleva il capo e le manine per guardare, e mi dice: ‘Mammà, questo è papà?’
‘No, figlia mia, non è papà?’. Ed ella si acconcia un’altra volta nella sua
posizione, e non parla più. Sta molto male: io te la manderò uno di questi
giorni, perché temo, e non so se potrò mandartela un’altra volta. Benedicila”.
Venne dopo due giorni in ora in cui non c’era gente all’udienza, e il custode
me la fece entrare. Stava con le manine agli occhi, poggiata su la spalla della
donna che la portava: io me la presi, e se la baciai! se la benedissi! se la
coprii di lagrime! ella si colorì un poco nelle guance, e mi sorrise: e da quel
giorno la mia creatura cominciò lentamente a migliorare.
Intanto l’Escalonne che
era con noi scrisse varie lettere al ministro di Francia duca di Montebello,
figliuolo del maresciallo Lannes, chiedendo come francese la sua protezione, e
dicendo che dopo di essere stato giudicato ed assoluto rimaneva ancora in
carcere, e non contento di scrivere e mandare queste lettere ne lesse alcuna ad
un lucchese carcerato come falsario, il quale lo denunziò all’ispettore. Un bel
giorno venne l’ispettore con ordine del ministro, ci fece uscire dalla stanza numero
cinque dove eravamo soli, e ci allogò nel camerone dell’infermeria dov’erano
carcerati i ladri, falsari, omicidi, avvelenatori di civile condizione e però
detti galantuomini. Trista compagnia, ma non così tristo il luogo. La metà del
camerone era occupata da’ letti, l’altra metà divisa da un cancello di legno,
con le finestre a mezzogiorno, era vuota e di giorno vi lavoravano i sartori:
ed io là me n’andavo, e me ne stavo immobile a riguardare il sole per lunghe
ore, e a pensare ai casi miei. Un pensiero continuo mi ardeva il cuore che i
figliuoli miei e mia moglie pativano per bisogno, ed io che avrei potuto
sollevarli col mio lavoro, io stavo lì inerte senza potere far nulla: e questo
non per legge o giudizio ma per volere d’un uomo che mi teneva lì. Ma io
l’avevo sfidato, ed egli più potente usava del suo vantaggio e mi feriva lì nei
miei figliuoli e nella donna mia. Io volevo lavorare, e dissi a mio fratello
Peppino di procacciarmi un qualunque lavoro anche da copiar carte: e mio
fratello che aveva pratica di architetti e di appaltatori mi fece avere Misure
a copiare. Ed io fui contento, e copiavo le giornate intere sino a dolermi
le mani. E quando non avevo da copiare scrivevo un dialogo intitolato Le
donne, e traducevo in versi l’arte poetica di Orazio facendovi un lungo
comento: le quali scritture non le ho lacerate come tante altre perché mi
ricordano l’infermeria, e quei sartori che cucivano panni da soldati, ed io tra
loro sopra una panchetta menavo la penna.
Nella Vicaria, che è
carcere giudiziario, noi altri non più giudicabili né condannati non dovevamo
stare; ed essendo a disposizione della polizia chiedevamo che ci mandassero a
Santa Maria Apparente che era carcere di polizia: perché almeno lassù c’è aria
e luce. Nel gennaio del 1842 fummo mandati nell’ospedale di San Francesco
soltanto noi tre, Musolino, Anastasio, ed io: l’Escalonne rimase nella Vicaria,
ed ebbe qualche aiuto dalla legazione francese.
In San Francesco al pian
terreno erano le sale dove la notte venivano a dormire quelli che erano usciti
di carcere ma rimanevano sotto la sorveglianza della polizia, e per lo più
erano stati ladri: v’era ancora il gabinetto d’anatomia patologica del
professor Nanula. Nel primo e secondo piano era l’ospedale delle prigioni: nel
terzo piano sotto il tetto erano alquante stanze a pagamento per pochi
carcerati di non grave causa e di civile condizione, e per preti: qui fummo
messi noi, Musolino ed Anastasio in una stanza, io in un’altra con Saverio
Bianchi che era lì anch’egli da molti mesi. Usciti dalla Vicaria, San Francesco
ci parve piuttosto una casa che un carcere: si passeggiava pei corridoi, si
usciva fuori una loggia scoperta, si vedevano persone umane e civili, si aveva
visite di parenti e di amici, e io vedevo mia moglie e i miei cari bambini e
Raffaele che mi portava i suoi esemplari di scuola, e la piccola Giulietta che
allora moveva i primi passi.
Erano fra gli altri, tre
gentiluomini condannati a sette anni di ferri per causa di duello. Re
Ferdinando volendo impedire i duelli che allora si facevano assai spesso fece
una legge severissima che li puniva, ed i primi colpiti dalla nuova legge
furono questi gentiluomini. Essi erano Carlo Davalos, che poi divenne marchese
del Vasto e di Pescara. Francesco Carrano, che combatté da prode a Treviso e a
Venezia nel 1848 ed ora è generale, e Silvio Duroni: il quarto Francesco
Spinelli perché minore d’età fu condannato a sei anni di reclusione ed era in
altro carcere. Stettero questi signori due anni in carcere, e non poterono aver
grazia, e per loro la chiedevano persone di illustri famiglie: il Re volle che
essi andassero nel bagno di Pozzuoli, vestissero le vesti di galeotti, e con la
catena al piede, e così gli chiedessero la grazia quando egli andava a
Pozzuoli, e solo così l’ottennero. Volle non pure punirli, ma umiliarli.
Fra i preti c’era un
vecchio chiamato zio Natale, che era stato in galera vent’anni per omicidio.
Questi pareva un uomo piacevole, rideva sempre, ma era stato un crudele, e
raccontava ridendo i colpi di coltello che aveva menati.
Il suo cibo quotidiano
non era altro che pane e un fiasco di vino: e quando aveva quel fiasco se lo
poneva al petto sotto il soprabito, e camminando come un gatto sorridendo ed
ammiccando a chi incontrava, se n’andava in camera, si poneva accanto al suo letto
e diceva: “Va, diciamoci ufficio”. L’ufficio era il fiasco, che egli baciava e
ribaciava lentamente, e quando l’aveva votato entrava in letto e
s’addormentava. C’era ancora un frate cappuccino, padre Vincenzo da Ferrandina,
un omaccione con una testa di cavallo, e la mascella inferiore stranamente
grande, e una voce come una campana: non aveva delitto alcuno, ma una fame di
lupo, per la quale era venuto a fiere contese coi suoi frati, e li aveva
battuti, e se li avrebbe divorati, e però era in carcere. Gli davano quattro
pani ed otto zuppe il giorno, e non lo saziavano. Non era ignorante, e
conosceva il suo male, e se ne addolorava: ma quando sentiva gli stimoli della
fame andava in furore come una belva. Dopo alcun tempo morì, e il professor
Nanula tolse la testa al cadavere per conservarla come una rarità anatomica; ma
i preti seppero il fatto e lo denunziarono come un’empietà contro un sacerdote.
Il professor Nanula ebbe molti fastidi, anche dopo che restituì la testa al
becchino.
Era credo il mese di
maggio, e noi una mattina guardavamo un ecclissi del sole dal maggior
finestrone dell’ospedale, quando venne un nuovo carcerato, un gentiluomo
pulito, con grossi baffi neri, di modi dolci e cortesi, ma profondamente
afflitto. Egli era un ricco proprietario della provincia di Reggio, e si
chiamava Francesco Pellicano; e avendo presa con me un po’ di dimestichezza, mi
raccontò i casi suoi e mi disse: “Io ho la sventura di avere mio padre e mia
madre che sono due santocchi: mi volevano far prete, ma io amava perdutamente
una mia cugina, e la sposai, e n’ebbi due figliuoli, un maschio e una femmina.
Io ero felice, io amavo ed ero riamato: mia moglie era un angelo, ma in capo a
pochi anni mi morì. Il mio dolore fu immenso, non avevo riposo né giorno né
notte, credevo d’impazzire: in quel dolore mi venne il pensiero, o mi fu
suggerito, di abbandonare il mondo e di farmi prete, e mi feci prete con grande
gioia dei miei genitori che presero cura de’ miei figliuoli. Ma come fui
consacrato, mi cadde un velo dagli occhi, e vidi l’errore fatto. Venni in
Napoli, trovai una ragazza che somigliava a mia moglie, me ne innamorai, e con
danari ebbi carte e testimoni e la sposai. Stava con lei da un mese in un
casinetto sul Vomero, quando venne mio padre da Calabria, e disceso al mio
indirizzo in Napoli dimandò di me al guardaporta, il quale così a la semplice
gli disse: ‘Sta con la moglie sul Vomero’. ‘Moglie? se mio figlio è prete!’ Il
vecchio fece un rumore grande, venne da me tempestando per modo che la polizia
seppe tutto, e condussero me qui e quella poveretta in casa della mamma”. Tutti
quanti prendemmo a voler bene al Pellicano, che in fondo non era altro che un
innamorato cotto e disfatto, ed un uomo amoroso con tutti. Stette in carcere un
pezzo, finché con danari non fece più parlare del falso nel matrimonio, ed
assegnò una pensione a la donna, ed egli dovette andare agli esercizi
spirituali in un convento di frati; ma indi a poco tempo morì di crepacuore.
Già passava un anno dal
giudizio, e ne sarebbero passati ben altri se mia moglie non parlava al Re,
come ho detto: gli parlò ancora Pasquale per suo fratello, e gli diede una
supplica in Castellammare: e il Re mandò le suppliche al ministro, e dissegli
che non voleva più di queste noie. Si cominciò dunque a parlare che tra breve
saremmo usciti, anzi venne un commessario di polizia a darci questa notizia, ma
ognuno doveva tornare nella sua patria, nessuno rimanere in Napoli. Io dissi:
“La patria mia è Napoli.” Napoli non può essere.” “È: e se non credete a me
mandate al municipio ed avrete la mia fede di nascita.” “Napoli no.” “Ebbene
mandatemi in esilio, purché sia presto.” “L’esilio è pena, e non vi si può
dare. Basta, riferirò.”
Finalmente il 14 ottobre
due ore dopo il mezzodì fummo chiamati in prefettura il Musolino, l’Anastasio,
il Bianchi, ed io; e ci venne anche l’Escalonne: ed il medesimo commessario
dopo averci fatto aspettare un pezzo ci disse: “Stanotte partirete con la
diligenza per le Calabrie, ognuno al suo paese: voi, signor Settembrini, che
siete napoletano potete andare a casa vostra”. Abbracciai i compagni, diedi la
mancia ai birri, ed uscii solo. Era verso sera e piovigginava, e io studiavo il
passo: come giunsi a la casa dove abitava mia moglie, dimandai ad una donna se
lì abitasse una signora che aveva il marito carcerato: la donna mi rispose di
sì, mi guardò fiso, indovinò chi ero, e diede un grido: “Il marito della
signora”. Raffaele mi corse incontro nelle scale, e mi diceva: “Papà, non
tornare più carcerato”; mia moglie con un sorriso di gioia mi abbracciò, la
Giulia mi strinse le braccia al collo e non mi lasciava. Dopo tre anni e mezzo
di prigionia io mi trovai nella mia famiglia; avevo i figli su le ginocchia,
mia moglie accanto, e la vecchiarella sua mamma piangeva e ci benediva. Io non
sapevo altro che ripetere i loro cari nomi, Gigia, Giulia, Raffaele: “Ora
finiranno i guai nostri, ora potrò lavorare”.