XVII -
Ritorno al mondo
“Sei stato tre anni e mezzo in prigione, hai
perduto una cattedra acquistata con onore, la tua famiglia ha sofferto tutti i
dolori e tutte le privazioni, tu ingoiate tante amarezze, e tutto questo
perché? Per una poesia, anzi per una pazzia. Hai fatto gran male a te ed ai
tuoi, e qual bene hai fatto agli altri? Chi ti ringrazia? chi ti compatisce? chi
ti conosce pure di nome? nessuno. Ma ti pare serio il proposito di ringiovanire
l’Italia, di scoparne tutti i principi, e di ordinarla in una grande
repubblica? E poi con le chiacchiere e le carte? E non guardi questo popolo, a
cui tu sogni di dare la libertà, che non la vuole e non la merita? Pensa un
poco a te, ed a vivere quieto”.
Così mi diceva taluno ed
aveva ragione allora. Io non rispondeva, né discuteva mai perché in cose di
sentimento non si discute: ma chi ama un’idea o una persona, più soffre per
lei, più se ne innamora. Mi messi a lavorare, cioè ad insegnare: andavo per le
case altrui, ché in casa mia non potei ottenere mai permesso di avere uno
studio. Il commessario Marchese mi disse: “Cotesto non lo domandate neppure,
non che sperare di ottenerlo mai”. Ma un vecchione liberale del ‘99 che mi
voleva bene, mi disse: “E non sai tu che in Napoli tutto è permesso senza
permesso! Non dare agli occhi, e fa come puoi”. Io dunque presi ad insegnare
anche in mia casa a pochi giovani, che non mai furono più di dieci. Era una
vita amara quella di andare correndo per le case dei signori, era il mestiere
affannoso dello zampognaro, che viene, fa la sonata, e va via; ma io la facevo
volentieri, e lavoravo sino a la stanchezza. Così campavo la vita, e cospiravo
ancora, perché insegnare per me era cospirare e non più a chiacchiere con gli
adulti, ma fare innamorare i giovani di certe verità e di certe bellezze, e
innamorati che sono faranno da sé e faranno davvero. La polizia mi sorvegliò un
pezzo, e come vide che io non mi occupavo che di studi, e che lavoravo da
mattina a sera, e non andavo in pubblici ritrovi, e non parlavo di cose
pubbliche, e non pubblicavo alcuna scrittura, disse: “L’abbiamo ammaccato:
faccia il maestro di scuola per vivere”. Non mi vedevano, non udivano il mio
nome, mi dimenticarono. Questo io volevo.
Così vissi sino al 1848
facendo il maestro di scuola. Di me dunque io non ho a parlare, ma del mondo
che mi stava intorno, e del gran dramma che si svolse innanzi agli occhi miei.
Il soldato, il prete, ed
il maestro di scuola sono i soli uomini che fanno le rivoluzioni: il soldato ed
il prete hanno sinora comandato il mondo, il maestro di scuola attende la sua
volta, la quale verrà quando il mondo sarà guidato non dalla forza né dal
sentimento, ma dalla intelligenza: e pare che si avvicini perché oggi,
risorgendo il popolo, prevale il maestro che deve sollevarlo con la scuola. Gli
uomini che fanno il mestiere di soldato, di prete, e di maestro di scuola sono
pochi e male retribuiti dell’opera loro: chi può degnamente retribuire il
soldato, il buon prete, il maestro che educa ed istruisce? E il mondo stima
poco quello che paga poco, e però tiene questi uomini in poco pregio. E
veramente chi vuol fare uno di questi mestieri per solo fine di guadagno lo fa
male, ed è meritamente spregevole: perché senza una grande abnegazione, senza
un grande animo, e senza poesia non si è bravo soldato, non si è buon prete, o
si è maestro ed educatore degli uomini. Io l’abnegazione, l’animo e la poesia
la sentiva in me, e però credevo e credo di esercitare professione nobilissima,
necessaria a la mia patria, e dirò ancora principale nella presente condizione
dei tempi; io aveva chiara coscienza di quello che facevo, e sapevo di mettere
anche la mia mano ad una grande opera. La rivoluzione del ‘48, si disse, fu
fatta dai maestri di scuola, i quali, come non avvezzi, sbagliarono, ma si
corressero nel ‘60: io dico che la grande rivoluzione europea è stata fatta dal
popolo, e chi ha educato ed ammaestrato il popolo l’ha prodotta.
Per intendere quello che
avviene in Europa da ottant’anni in qua, e prevedere nei limiti dell’umana
prudenza quello che dovrà avvenire, bisogna farsi col pensiero alcuni secoli
indietro, quando l’Europa era tutta feudale, ed ogni suo stato era composto ed
ordinato di tre elementi, re, baroni, plebe. Questo antico ordinamento si
scompagina: i baroni odiati dal re di cui vorrebbero usurpare i poteri, odiati
dalla plebe di cui sono oppressori immediati, a poco a poco vengono depressi, e
poi distrutti. I due vincitori crescono e da prima si fanno carezze tra loro:
il re feudale diventa monarca assoluto, la plebe diventa popolo, cioè comincia
ad acquistare coscienza d’uomo: i re scrivono nuovi codici pei popoli, i popoli
danno nuove lodi ai re, e nella seconda metà del secolo passato ci furono
quarant’anni di pace cordiale. Della monarchia assoluta nel secolo passato sono
rappresentanti i Borboni, che depressero il feudalismo in Francia e cacciarono
i gesuiti da tutti i loro stati. I due vincitori, come suole avvenire, tosto
vennero a contesa tra loro: il popolo, che era nuovo e forte nella novella
vita, distrugge interamente i baroni, e comincia un fiero duello col re, al
quale dice: “O ti trasforma o muori”. Il duello cominciò in Francia, poi si
sparse in tutta l’Europa, e tutti riguardarono a la Francia. I Borboni non
seppero trasformarsi, e forse non potevano perché essendo stati nobilissimi
rappresentanti d’un principio non potevano divenire rappresentanti di un altro
principio; e però, dopo di essere varie volte caduti e risorti, sono caduti né
più risorgeranno. Il popolo vincitore sente il bisogno di riorganarsi, e il
riorganamento chiamasi costituzione; quindi ogni grido popolare dice
costituzione. Ma quale sarà il riorganamento naturale del popolo, quale la
costituzione in cui potrà adagiarsi ed acchetarsi? Questo è il gran problema
che non si scioglie con le carte e gli statuti che sono ordinamenti esteriori e
posticci; ed ogni popolo ne ha lacerati parecchi, e più di tutti la Francia; ma
si scioglierà col tempo e coi travagli, ché il popolo è come il bambino che
impara a camminare dopo molte cadute. Il popolo di Francia poi ch’ebbe
atterrato il suo re, sfuriò in repubblica, che negò tutto il passato: poi si
compose a monarchia militare assoluta, e con le armi dominò l’Europa, ma
accorgendosi che la monarchia militare assoluta faceva rivivere un’idea che non
deve più vivere, abbandonò l’uomo che la sosteneva. I principi di Europa
cercarono di restaurare tutto il passato, e ricondurre i popoli alla soggezione
antica: nel 1793 il popolo atterra il re; nel 1815 il re atterra il popolo;
sono queste le vicende della lotta ché né l’uno né l’altro può morire ancora.
L’Encelado che pare fulminato è vivo, e sdegnato per l’offesa, e brontola
cupamente: tutta l’Europa da un capo all’altro pare un terreno vulcanico, dal
quale sorge qua un buffo di fumo, là una vampa, più in là una fiamma, e mentre
credi di spegnere in un luogo arde in un altro, finché non si apre terribile il
vulcano. Dal 1815 al 1848 in tutta Europa, or qua or là, non ci fu un anno
senza una vampa rivoluzionaria. Non era una setta, e molto meno un uomo, che
moveva tutto questo; ma era un moto che nasceva da sotterra, da la coscienza
mutata di tutti i popoli di Europa, da una vita nuova che cominciava: le sette
non erano che manifestazioni di questo moto interiore e l’uomo non era che uno
il quale formolava quello che tutti sentivano né sapevano esprimere. L’Europa
ha mutato il suo organismo: il suo feudalesimo è finito; rimane monarchia e
popolo, che lottano insieme; e dove la monarchia diventa popolare ella dura,
dove no, muore. Se io scrivessi il gran dramma della storia dal 1815 sino ad
oggi, io vorrei fare come un quadro di tutti i moti rivoluzionari in ciascun
anno in Grecia, in Italia, in Ispagna, in Francia, nel Belgio, nella Svizzera,
nell’Austria, nell’Ungheria, nella Germania, e sino in Russia ed in
Inghilterra; e mostrare come tutti i popoli d’Europa mossi da comune bisogno si
movono allo stesso scopo, e uniti dalle ferrovie e dai telegrafi ormai formano
un solo e grande popolo, un gran corpo che si agita perché deve riorganarsi ad
una vita nuova e grande. Ma io scrivo le mie ricordanze, e dico solamente
quello che io vidi intorno a me, un Borbone il quale non vedeva né voleva saper
nulla di tutto ciò che accadeva nel mondo, udiva e non intendeva la voce dei
suoi popoli che si agitavano con moti più frequenti che gli altri popoli
d’Italia e le altre nazioni di Europa.
Chi leggesse un buon
diario politico di quegli anni troverebbe che i moti rivoluzionari più
frequenti furono nel Regno delle Sicilie e nello Stato del papa. E la ragione è
questa: erano i due governi peggiori, che più opprimevano, ed erano composti
non di uomini d’ingegno, e forti, e naturalmente maggiori degli altri, e però temuti
e rispettati, ma da ignoranti e stolti, per modo che ogni omicciattolo si
credeva maggiore di essi e si sdegnava di dover ubbidire a così fatti. E
l’oppressione scendeva sino a le ultime classi del popolo; ed in ogni paesello
il prete ed il gendarme regnavano spietati su le misere genti, e con arbitri,
estorsioni, e soperchierie d’ogni maniera, pungevano ed irritavano chi stava
sotto. Nel Lombardo‑Veneto c’era lo straniero, che è peggiore di ogni
tirannide paesana; ma lì lo straniero era forte, non stolto, puniva feroce ogni
reato politico; ma favoriva la buona amministrazione interna, ed era giusto con
tutti fra certi limiti: lì erano come due campi, in uno gli stranieri,
nell’altro il popolo tutto unito che pur faceva qualche buona cosa da sé, e non
si moveva facilmente perché capiva che non poteva togliersi facilmente dal
collo un esercito straniero. Noi altri per contrario si aveva la tirannide
fraterna, che è la più crudele fra tutte, e non era Ferdinando il tiranno, no,
ma il prete, il gendarme, il giudice regio, il ricevitore, qualunque impiegato
con potere, che non ci lasciavano un’ora di pace, che continuamente, ogni
giorno, e in piazza e in casa ci stavano ai fianchi, e ci dicevano come il
ladro: “O dammi o ti pungo”. Questa oppressura corrompe una nazione sin nelle
ossa. Tutti se ne lamentavano, finanche gli oppressori piccoli che erano
schiacciati dai grossi: onde ciascuno era persuaso che se pochi arditi
levassero una bandiera e si mantenessero per quindici giorni, gli oppressi, che
erano tutti, correrebbero a loro e rovescerebbero un governo stolto e malvagio.
Questa persuasione spiega i moti napoletani tanto frequenti, i quali senza essa
sarebbero una pazzia. Basta cominciare, e durare un po’, si diceva da tutti, e
non mancavano uomini arditi che rispondevano: “Cominceremo noi”, e se
fallivano, nei incolpavano la fortuna, e c’erano altri pronti a ritentare la
pruova. Era giusta quella persuasione? A quelli che vogliono il bene soltanto
da la mano di Dio pareva di no; agli animosi pareva di sì, ed ebbero ragione
dal tempo.
Mentre noi eravamo
ancora in carcere nel 1841 la città di Aquila levò il grido di costituzione.
Avevano presi accordi coi paesi vicini, e con altre città degli Abruzzi, e con
Napoli dove dicevano che un reggimento nella festa di Piedigrotta dell’8
settembre si solleverebbe, ed essi l’8 settembre si sollevarono, e uccisero il
comandante le armi della provincia colonnello Gennaro Tanfano odiatissimo. Ma
né i paesi vicini, né Napoli si mosse, e gli Aquilani rimasti soli provvidero
ai casi loro, e i capi si salvarono con la fuga. Fu spedito all’Aquila un
generale, e furono tratti innanzi la commissione militare centotrentatré
accusati, ne furono condannati cinquantasei, quattro fucilati. Il governo
sospettò che il marchese Luigi Dragonetti avesse dovuto aver parte in questo
affare, ma non avendo pruove, si contentò di relegarlo tra i frati di
Montecassino.
Fallito il tentativo
dell’Aquila, ecco Cosenza offerirsi pronta a ritentare la pruova. Ci erano
simiglianti accordi, ed il disegno di entrare in Cosenza, farvi la rivoluzione,
e poi ritirarsi su i monti, e formare bande, e chiamare all’armi le Calabrie,
la Sicilia, il regno. Il 15 marzo 1844 una mano di giovani armati entrano nella
città, percorrono tutta la via della Giostra, si fermano a Portapiana dove
piantano la bandiera tricolore, e attendono i compagni. I gendarmi dopo qualche
esitazione escono comandati dal capitano Galluppi, figliuolo del filosofo, il
quale li assale a cavallo. “Capitano, ritiratevi, noi non l’abbiamo con voi, e
non vogliamo sangue”, disse una voce. Ma il Galluppi spronò il cavallo, e una
palla lo colpì in un occhio e lo fece cader morto. Cominciarono le fucilate: la
bandiera fu difesa ostinatamente e vi morirono cinque intorno. Caduta la
bandiera i giovani si dispersero e uscirono della città, e ciascuno si nascose,
e parecchi non furono conosciuti. Si venne agli arresti, ed al giudizio della
solita commissione militare: sette furono fucilati: altri quattordici
condannati a morte furono per grazia mandati all’ergastolo, molti altri in
galera diversamente tormentati.
Intanto in Napoli la
polizia arrestò Carlo Poerio, Francesco Paolo Bozzelli, Matteo de Augustinis,
Mariano d’Ayala, Michele Primicerio, Cosimo Assanti, Damiano Assanti, ed altri,
creduti capi ed ordinatori di tutte le rivoluzioni, e li chiuse in Castel
sant’Elmo.
La rivoluzione di
Cosenza, anche per questi arresti, levò un certo grido, ed i giornali ne
parlavano, ed un giornale di Malta, Il Mediterraneo, dando come fatto
ciò che era stato disegno, diceva che gl’insorti s’erano ritirati su le
montagne, che erano mille e cinquecento, che in vari scontri avevano vinti e
messi in fuga i soldati del re, che le Calabrie erano tutte sollevate; “oh, chi
va ad aiutare e guidare quei bravi calabresi?” I fratelli Attilio ed Emilio
Bandiera, e Domenico Moro, veneti, uffiziali nella marina austriaca, e
affiliati a la giovane Italia, si lasciarono prendere a queste bugie; ed
impazienti e generosi, credendo giunta l’ora della grande insurrezione
nazionale, disertarono, andarono a Corfù, dove si unirono al Ricciotti, al
Nardi, e ad altri esuli italiani, e preso a guida un bandito calabrese detto il
Nivaro, colà rifuggito, sbarcarono a la foce del fiume Nieto, e s’indirizzarono
verso San Giovanni in Fiore in giugno di quell’anno 1844. Subito il bandito
sparì. Come in San Giovanni in Fiore si seppe dal perfido Nivaro che erano
forestieri, gran signori, e con molti danari, le guardie urbane, guidate dal
loro capo e dal giudice regio, corsero ad assalirli. “Siamo vostri fratelli,
veniamo per liberarvi, eccovi la bandiera italiana”. Fu niente: le fucilate
fioccavano: essi si difero, alcuni caddero morti, gli altri furono presi,
battuti, spogliati di quanto avevano, menati prigioni a Cosenza. La commissione
militare li condannò; ed il 25 luglio nove di essi, tra i quali i due Bandiera,
il Moro, il Picciotti, il Nardi furono fucilati: gli altri mandati in galera.
Morirono gridando: “Viva Italia”, intrepidi, ammirati anche da quelli che li
condannarono, pianti in segreto da tutti. Il più giovane tra essi, Domenico
Moro, di ventun anno, era bellissimo della persona, e il presidente della
commissione avrebbe voluto salvarlo, e gli fece dire che chiedesse la grazia
della vita, e penserebbe egli; ma il giovane che aveva l’animo bello come il
corpo non volle, e morì senza macchia. Ho detto questo fatto che pochi sanno,
perché si è parlato sempre dei Bandiera come figliuoli d’un ammiraglio e più
noti, e pochissimo del Moro. Eppure io ho letto alcune lettere non belle di
Attilio Bandiera a re Ferdinando e al ministro Delcarretto, le quali stanno
nell’archivio di Napoli, e a me furono mostrate e fatte leggere dal direttore
Francesco Trincherà, il quale le serbava chiuse in un portafogli con altre
carte riguardanti Agesilao Milano. Il Nivaro ebbe perdono, e visse libero:
quelli che presero quei nobili giovani furono fatti cavalieri dell’ordine di
Francesco I, ebbero pensioni, impieghi, favori: la città di San Giovanni in
Fiore ebbe pubbliche lodi di fedeltà, larghezze, remissione di alcuni dazi.
Degli altri fatti avvenuti prima nel regno si era parlato poco, perché il
Governo ne aveva detto quello che voleva, e i condannati erano regnicoli ed
ignoti: di questo dei Bandiera, uffiziali austriaci e dei loro compagni
appartenenti a diverse parti d’Italia, si fece un gran parlare in Italia e
fuori, e re Ferdinando ebbe biasimo di crudele che fece morire nove uomini che
avevano fatto come una mascherata di rivoluzione: e che avrebbe fatto di più se
quelli gli avessero sollevata una provincia davvero, e lo avessero combattuto?
Ferdinando non usò clemenza, ma non violò le leggi.
C’era un’altra specie di
cospirazione senza impazienze violente, una cospirazione lenta, continua,
palese, nella quale prendevano parte tutte le persone colte, tutti gli uomini
di buon senno, e parecchi ancora di quelli che stavano intorno al principe, e
gli erano grati per benefizi ricevuti, ma non potevano approvare tutti gli atti
del suo governo, e le prepotenze della polizia, e l’onnipotenza del confessore
monsignor Cocle. Alcuni sollevavano quistioni economiche, nelle quali era una
velata censura del presente, e vagheggiavano l’unificazione monetaria in
Italia; altri trattavano quistioni storiche, e Carlo Troya andava pubblicando i
volumi della sua storia d’Italia; altri stabilivano in Napoli il primo asilo
d’infanzia, quasi a rimprovero del governo che nulla faceva per rialzare la
plebe; altri, specialmente il Puoti, si affannava negli studi della lingua, e
nella lingua cercava suscitare il sentimento ed il pensiero italiano; altri, e
fu Emmanuele Melisurgo, chiedeva di fare la ferrovia per le Puglie, e formava
una compagnia di capitalisti, e rizzava la prima stazione, e pregò il re
d’inaugurarla, ed egli promise, ma non vi andò, e il giorno appresso andò ad
inaugurare la chiesa dirimpetto i Granili; e quella ferrovia non fu mai fatta,
e Ferdinando di poi ne fu punito; altri finalmente notavano le stoltezze e le
ingiustizie del governo, e ne parlavano senza paura, e lanciavano il motto che
era subito ripetuto, e taluni anche fedelissimi non risparmiavano neppure il
re. Il marchese di Pietracatella, presidente dei ministri, diceva in sua casa
agli amici: “lo gliel’ho detto molte volte. Mettete in carrozza monsignore, e
mandatelo ai confini: licenziate il Gendarme , a cui avete dato troppo potere;
dividete in due il mostruoso ministero dell’interno; ed il governo anderà senza
innovazioni. Noi leggi ed istituzioni abbiamo buonissime, gli uomini che si
scelgono sono cattivi. Ma egli non vuoi sentire”. “È lui la cagione di tutti i mali,”
diceva Giuseppe Caprioli, già segretario del Re, e presidente della consulta, e
divotissimo ai Borboni; “è lui che non sa fare il Re, e rovinerà se stesso ed
il regno.”
Stavano così le cose in
Napoli quando ci venne un libro che fece una rivoluzione profonda in tutta
Italia, il Primato del Gioberti. Noi eravamo servi, divisi, sminuzzati,
spregiati dagli stranieri che ci dicevano una stirpe degradata, l’Italia terra
di morti non di uomini vivi, non altro che un nome rimasto nella geografia e
scancellato dal novero delle nazioni d’Europa; noi stessi ci tenevamo inferiori
a tutti gli altri, e per tanti secoli di misera servitù avevamo offuscata la
coscienza dell’essere nostro, quando costui ci dice: “Voi italiani, siete il
primo popolo del mondo.” “Noi?” “Sì, voi avete primato civile e morale sopra
tutti”. Non mai libro di filosofo, e neppure di poeta o di altro scrittore è
stato più potente e più salutare di questo. Il Gioberti per fare entrare il
libro in Italia e farlo leggere da tutti, e fare penetrare la sua idea nella
coscienza di tutti, con fine accorgimento, non propone alcun mutamento, loda i
principi, loda il papa, loda persino i gesuiti, non dicendo il falso, ma
rilevando il bene, ammonendo con benevolenza, e mettendo innanzi una sua idea
di una lega tra i principi italiani sotto la presidenza del papa. Dell’Austria
non parlò. Il libro fu letto da ogni condizione di persone, e tra noi persino
in corte, e la regina Isabella madre del Re (non il Re che non leggeva) lesse
con gran piacere il Primato, e volle leggere poi gli altri del Gioberti
e se ne scandalizzò, e diceva: “Il Primato sarà sempre il primo”.
Prodigioso fu l’effetto del libro, scosse e sollevò la coscienza di un popolo
prostrato: e questo fece non pure con ragioni nuove e potenti e vere, e con
parola dominatrice, ma con accorgimento finissimo e senza offendere nessuno. I
soli gesuiti se n’accorsero, e fecero scrivere una confutazione da un loro
padre Curci: non l’avessero mai fatto; ché il Gioberti entrato in casa, e
acquistata la benevolenza di tutti, disse il vero senza riguardi e scrisse il Gesuita
moderno. Io non parlo della sua filosofia e della sua dottrina cattolica,
che per me è parte esteriore e mutabile del suo libro, e negli altri libri egli
la mutò, ma considero il solo concetto, la idea madre del libro: la quale a
molti parve allora una esagerazione: sì, ma fu un’esagerazione salutare e
necessaria, e un’esagerazione, cioè uno sforzo straordinario, una gran fede ci
voleva, per dire al Lazzaro quadriduano: “Tu sei vivo, sorgi e cammina”. Ma
oggi 1875 si può dire che fu veramente ed interamente un’esagerazione? Noi dopo
di aver dato al mondo l’impero romano ed il papato, dopo di aver insegnato
all’Europa tutto quello che sa, e di aver prodotti i capilavori nell’arte
moderna, cademmo in un abisso di servitù e di miserie, e perdemmo sinanche il
nome di popolo: e pure risorgemmo, ci unimmo in uno stato, rifacemmo l’Italia
che ora si asside fra le grandi nazioni, ed ha un altro grandissimo ufficio a compiere,
trasformare la coscienza cristiana di tutti i popoli civili. Senza grandi e
singolari facoltà morali e civili non si fa tutto questo, non si risorge, e a
questo modo, e con questo fine. Senza superbia adunque e senza voler
dispregiare nessuno, si può dire che noi siamo naturati ottimamente, e che il
buon Gioberti fu e poeta e profeta, e come filosofo civile non s’ingannò.
L’Italia deve annoverare quest’uomo tra i suoi maggiori benefattori.
Siamo pure i primi, ma
che dobbiamo sperar noi? Il Gioberti non ha voluto dirlo, ma bisogna che si
sappia, e se ne discuta il come. Prima di ogni altra cosa trovar modo di
liberarci da lo straniero; e stringerci intorno al papa, e ai nostri principi
naturali. Così diceva Cesare Balbo nel suo libro Le speranze d’Italia,
che fu pubblicato un anno dopo, e non ebbe la forza e la potenza del Primato.
Era cosa che sapevamo e volevamo da molti secoli. “Non è solo lo straniero ma
il papa che è nemico d’Italia, e vi ha chiamato tutti gli stranieri, ed è la
cagione di ogni divisione, di ogni corruttela, di ogni servitù nostra,” diceva
il poeta Giambattista Niccolini nel suo Arnaldo, che fu letto ed
imparato a mente dai giovani. Insomma era come una grande discussione, che il
Gioberti pose con arte e fece accettare da tutti, e ognuno vi disse la sua
opinione, e il concetto si chiarì e dilargò, e più tardi divenne azione, e poi
fatto.
Intanto nel 1845 si
raccolse in Napoli il settimo congresso degli scienziati italiani. Il primo era
stato in Pisa nel 1839, e negli anni seguenti in altre città d’Italia: I
principi e la stessa Austria li avevano accolti nei loro stati; solo papa
Gregorio non ne volle in casa sua. Il ministro dell’interno Nicola Santangelo,
che pur fece molte cose buone e sarebbe ingiustizia dimenticarle, lo propose al
Re, e lo difese: il Del Carretto e qualche altro consigliere della corona
dicevano di no; ma spirava l’aura mossa dal Gioberti, e il Re, che sapeva di
essere tenuto nemico di ogni sapere, per mostrar falsa l’accusa, volle il
congresso ed ordinò che gli scienziati fossero accolti ed ospitati
splendidamente, ed invitati anche a corte. Il congresso si riunì il 20
settembre nell’università, nella bella sala del museo mineralogico, e ci venne
il Re, e parlò, e disse come egli era lieto di accogliere nel suo stato il
fiore degl’ingegni italiani, dai quali sperava che le scienze avessero
incremento. Il Santangelo ne fu il presidente. In quei giorni venne a vedermi
F[ilippo] M[arincola] che fu mio caro discepolo, e acquistata l’amicizia del
ministro Del Carretto era stato fatto giudice regio, e mi dimandò: “Non siete
nel congresso anche voi?” “Non mi hanno voluto.” “Come? e vi siete presentato?”
“Sì, ed ho detto di aver laurea e nomina di professore, e mi hanno risposto che
non basta. La risposta non mi ha fatto né caldo né freddo, e mi sono ritirato.
Fui tra la folla il primo giorno, e forse ci anderò qualche altra volta per
udire. E tu che fai con Sua Eccellenza?” L’ho lasciato adesso: sbuffa come un
toro e dice che questi scienziati gli danno molte noie per sorvegliarli, e mi
ha mostrato un fascio di lettere sopra una tavola dicendomi: ‘Son tutte
relazioni su questi signori’. Stava nel suo studio, e scriveva, e si nettava la
penna sul soprabito bianco che era tutto sporco d’inchiostro. Per voi poi
meglio così, che non vi hanno voluto; ché il vostro nome sarebbe anche in
quelle lettere”. Finito il lavoro degli scienziati e delle spie , si cominciò a
dire (ed erano voci suggerite dalla polizia) che dei principi italiani il solo
papa aveva senno, che quegli scienziati erano tutti settari della giovane
Italia mandati dal Mazzini in ogni parte per suscitarvi la rivoluzione. E poi
che la rivoluzione avvenne: “Avete visto che era la setta? molti di quelli sono
stati celebri rivoluzionari”. Così dicevano e dicono ancora quelli che non
sapendo né parlare né pensare se non imboccati dal prete non concepiscono che
le rivoluzioni non si fanno per comando de’ superiori e di un capo setta, ma
erompono dalla coscienza dei popoli.
Ma indi a poco quasi
come contravveleno a la rivoluzione venne in Napoli l’imperatore Nicolò I di
Russia, e fu alloggiato nella reggia. Ci venne con l’imperatrice che era stata
alquanti mesi in Palermo per curarsi d’una malattia della quale s’era risanata.
Le accoglienze a quel gigante de’ monarchi furono grandi e magnifiche, e re
Ferdinando per questa amicizia si sentì più forte e sicuro. Durante la sua
dimora in Napoli le vie furono spazzate meglio, non si vide più un mendico; gli
agenti di polizia si diedero gran faccende, e il commessario Campobasso seguiva
l’imperatore quando usciva in incognito, il quale una volta se ne accorse, e
gli fu sopra, e, se quegli non diceva subito chi era, lo strozzava. Tornato a
Pietroburgo mandava in dono al re quei due cavalli di bronzo tenuti a mano da
due cozzoni, i quali ancora si vedono innanzi la porta settentrionale della
reggia, e furono lodati come opera d’arte, e sono consiglio come s’hanno a
tenere i popoli che sono bestie dai monarchi che sono gagliardi uomini.