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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE SECONDA (1849-1859)
    • Racconto di mia moglie [il primo]
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Racconto di mia moglie
[il primo]

Mio caro e sventurato Luigi,

Con indicibile piacere e dolore ho letto la narrazione che tu mi hai fatto di ciò che soffristi in quei terribili tre giorni. La lettura non mi ha fatto chiudere gli occhi questa notte, mi ha di nuovo squarciate le innumerabili piaghe che porto nel cuore, mi ha fatto sospirare amaramente e poi sono caduta in un'angoscia mortale, e mi si è fatto presente tutto ciò che io feci e soffrii in quei tre giorni. Io non conosceva bene tutto quello che ti avvenne, perché subito dopo che uscisti dalla cappella si comandò che fossi sepolto nell'ergastolo e noi non potemmo scambievolmente narrarci le angosce sofferte.

Ora che tu mi hai fatte note le pene tue, voglio che tu conosca le mie, acciocché la memoria delle nostre sventure resti come eredità ai nostri figliuoli che un giorno impareranno da noi a soffrire con coraggio e dignità. Dal primo giorno che divenimmo marito e moglie altro non ricordiamo che carceri, persecuzioni, condanna a morte ed ergastolo: e chi sa quali altri dolori mi staranno conservati! Sì, Luigi mio, io penso al futuro, e quando mi sento l'anima oppressa mi vengono terribili pensieri, e dico tra me: “Sono questi gli ultimi dolori che io soffro? che avverrà di nostro figlio? sarà felice, ovvero avrà la sorte del padre? andrò io più visitando carceri, castelli e galere? udrò più condanne di morte?” Ahi che a questo pensiero io non reggo. Spesso vado richiamando antiche illusioni per ingannare me stessa, ma vano mi riesce ogni tentativo di consolazione, quei miei tristi pensieri mi tornano sempre dinanzi brutti e scuri.

Guardo il mio Raffaello, lo vedo già grande di quattordici anni, ed incomincia ad essere uomo: egli sente fortemente le scelleraggini che tu hai ricevute dagli uomini e spesso ne freme: egli mi guarda, mi vede pallida e scarna, e mi dice: “O povera mamma mia, come vi hanno ridotta i dolori!” La Giulia mi consola e dice: “Mamma, un giorno di questi all'improvviso ci vedremo papà innanzi: non dubitate: voi farete una buona vita”. E così, o mio Luigi, io passo i miei giorni fra timori e speranze.

Tutto il passato mi sembra una favola avvenuta ad altre persone, poiché mi sembra impossibile che sia avvenuto a me. Io non ho cuore di ricordarmi il passato, ma pure voglio fare forza a me stessa: ed Iddio mi darà forza di scrivere i miei dolori, come me la diede per soffrirli. E poi non siamo noi compagni di ogni dolore? Non mi hai tu scritto tutto perché sai che io ho la forza di leggerlo? Sì, Luigi mio, il cuore della tua Gigia è sempre lo stesso: se si è consumato il mio corpo, in questo io non ho colpa; ma l'anima mia sarà sempre salda fino alla morte. La tua povera Gigia non ha avuto altro nel mondo che un'anima instancabile nel soffrire: e pare che la natura mi abbia fatto così perché io era destinata compagna di un uomo che dovea soffrire tutta la sua vita. Se dunque è così, leggi questa mia povera scrittura. Ma che dico? Chi sa quando ci rivedremo, chi sa quando tu potrai leggere questa lettera lunga che io ti scrivo per consolarmi coi miei stessi dolori. Io non ho altra mira che di narrarti quello che ho sofferto, e di farlo tenere a mente ai nostri figliuoli.

Il sabato 1° febbraio, dopo che ti lasciai, scendendo le scale con la signora Agresti, io l'esortai a venirsene in mia casa, come quella che è più vicina alla Vicaria, per avere il commodo di tornare subito ad ascoltare la decisione della vostra e nostra sorte, perché noi credevamo di poterla ascoltare. La signora acconsentì e venne meco. Quali fossero i discorsi che noi povere disgraziate facevamo, lascio a te l'immaginarli. Un silenzio per tutto il paese, un lutto generale, squallidi volti, una mestizia indicibile. Quelli che ci conoscevano, ci guardavano, ed additandoci dicevano: “Povere signore, poveri ragazzi!” Se incontravamo persona amica, appena aveva forza di domandarci: “Come state? come sta vostro marito?” Dopo le mie risposte, diceva: “Non temete, o signora, e sperate in Dio”. Io rispondeva: “E di che debbo temere? Non avete intesa la discussione della causa, e le difese? che cosa è contraria a mio marito?” “Nulla di contrario, ma ricordatevi quanto vostro marito è odiato.” “Lo so,” replicava io: “sarà condannato al ferri perché si chiama Luigi Settembrini, ma tutto il mondo sa che viene assassinato, che già sono designate le vittime. Egli sarà condannato ai ferri, ma quelli che lo condanneranno avranno infamia eterna, ed i loro figli per vergogna dovranno prendere altro cognome.” Mi rispondeva con sospiri:

“Faccia Dio che sia condannato ai ferri!” La signora ed io facevamo molta maraviglia come si poteva temere condanna maggiore dei ferri. “In verità io vedo brutti segni; tutti sono in gran timore; si teme di morte; ma chi sarà condannato a morte? Non conosciamo noi il processo? non abbiamo udite le difese degli avvocati? Non abbiamo udita la difesa che si ha fatta Luigi? Tutto è analizzato, tutto è chiarito: perché dobbiamo temere? Sono certa che non usciranno di carcere se non quando Iddio avrà pietà di questo sventurato paese. Non credo che i giudici saranno tanto scellerati, non credo che si giungerà a tanto; ma se non fossero capaci di tutto non sarebbero giudici in questi tempi: ma non sono tutti crudeli...” Mentre così parlavamo nel mezzo del cammino una donna ci avvisò che alcune signore ci chiamavano. Ci volgemmo e vedemmo la signora Cecilia moglie di Vincenzo Dono tuo compagno di causa; e la sorella. Giunsero a noi mezzo convulse e preseci tutte per braccio, dicevamo: “O che giorno è questo per noi! sino a che non sapremo la decisione staremo come morte”. Pure ci davamo coraggio scambievolmente, e pregavamo Iddio che avesse dato lume a chi stava decidendo della nostra sorte. La signora Cecilia mi narrò come a stenti aveva potuto vedere il marito per poco, ed io le narrai come aveva trovate maggiori difficoltà per vederti, e come infine dopo di aver parlato invano col commessario, dopo non aver voluto ascoltare gli avvocati che mi consigliavano di ritirarmi, Raffaello aveva ottenuto il permesso dal procurator generale, ed io ti aveva veduto; come tu mi desti quella lettera che io aveva in mano, e non aveva letta ancora. La buona Cecilia mi guardava con gli occhi pieni di lagrime e mi disse: “Stiamoci tutti uniti in mia casa, che è la più vicina alla Vicaria: acciocché appena anderanno i gendarmi a San Francesco per prendere mio marito e gli altri e condurli ad ascoltare la decisione, noi saremo subito avvisate ed andremo anche noi”. Mi piacque ed andammo tutti in casa Dono accompagnate da Giovanni tuo fratello.

Sedemmo ad un divano tutte aggravate di mestizia, perché uno era il dolore di tutte. Ondeggiavamo in mille pensieri, in mille palpiti, ognuno di noi sospirava, pensava, diceva: “Chi sa che avranno deciso i giudici! O Dio mio, e qual colpo ci toccherà di sentire fra breve! questo giorno deciderà della nostra sorte”. Lo zio di Cecilia, vecchio e venerando sacerdote, ci consolava con fatti della sacra scrittura e con esempi di santi, e ci animava e ci esortava a sperare in Dio padre degli oppressi. Così passammo quelle amare ore con le orecchie tese, ad ogni suono di campanello il cuore ci palpitava, e dimandavamo: “Chi è? è aperta la camera?” ci rispondevano:

“Non ancora”. La signora Cecilia con tutta quella ottima famiglia ci obbligò a prendere un brodo: sedemmo a tavola: ma che cibo? Il brodo non voleva scendere in gola. Ci guardavamo, e dicevamo cogli occhi: “Che sarà! quando finiranno queste agonie?” Ecco un suono di campanello; io dimando: “Che cosa è? è qualche avviso?” Cecilia rientrò, e mi rispose che non era nulla: ma io la vidi turbata, vidi la famiglia turbata, nessuno gustava cibo, la smania cresceva, io mi levo dalla tavola e vedo la Giulietta, che viene a me e dice: “Mamma, zio Vincenzo è fuori seduto da molto tempo, e dice che vi sono brutte cose per papà”. Corro io fuori come una forsennata, non bado più a nessuno, vedo Vincenzo... Luigi mio, io non reggo più a continuare, io ricordo di quale spada fu trafitto il mio cuore in quel momento, sento anche adesso quel dolore: mi sento stringere l'anima: sospendo lo scrivere.

“Adunque,” dimando a Vincenzo tuo fratello prete, “la decisione?” Egli risponde: “Che debbo dirti?” “Per carità,” gli dissi, “dimmi, levami da queste angosce.” Mi dice: “Luigi, Agresti, e Faucitano condannati a morte”. “A morte!” gridai io, “ed è possibile questo? O scellerati magistrati, per non perdere la pagnotta si hanno bagnate le mani nel sangue di uomini troppo conosciuti per virtù e per morale!” Queste sole parole io dissi con poche lagrime, e poi non piansi mai più, che gli occhi ed il cuore mi si impietrarono, e non potetti piangere mai. La povera signora Agresti sedeva in un angolo della stanza e singhiozzava: il sacerdote zio delle signore, tuo fratello prete e Giovanni piangevano; piangeva Cecilia, piangeva sua madre, e la sorella presa da forte convulsione sbatteva e gridava, e nessuno poteva tenerla; i figli nostri, i cari figli nostri, piangevano e gridavano. La Giulia mi diceva: “Mamma, andiamo a vendicare papà: mammà, mammà, non ci fate morire papà: date a me un coltello: gli scellerati debbono morire, non papà mio che è un uomo giusto”. Raffaello diceva: “Come noi resteremo senza padre? tra ventiquattro ore non avremo più padre? O padre mio, e che male avete fatto? perché dovete morire? O fate morire anche a me!” E tutti e due dicevano: “Mamma, andate a dire ai giudici che facessero morire noi, e salvassero papà nostro”. O mio Luigi, io non posso dirti che cosa doveva soffrire il cuore di una madre nel sentire queste parole dai figli, e come io mi sentiva striturata dal dolore. Chi può dirti che scena fu quella! pure dopo di averli fatto sfogare un poco il dolore, comandai loro che non facessero più strepiti e che soffrissero con più dignità. Quel santo sacerdote esortava i poveri figli a sperare in Dio e nella Vergine. Tutti gli altri stavano concentrati in atto di terribile dolore. Io cominciai a pensare profondamente, e poi presi a leggere la tua lettera che sino a quel punto aveva tenuto nascosta. E così immersa in quel dolore me ne tornai a casa. Arrivata a casa, tuo fratello Vincenzo mi disse come tuo fratello Peppino con gli avvocati era andato a Caserta. Questa parola “Caserta” mi fece tremare. “Si va a domandare grazia dal Re: dunque veramente Luigi è condannato a morte? già è stato condotto in cappella. E si avrà la grazia?” Tutto questo io meditava, e rare volte parlava. Vincenzo tuo fratello volle leggere la tua lettera ad alta voce: piangeva egli e chi l'ascoltava. Poi cominciò a venire molta gente, molte persone che io non aveva mai vedute; poche persone amiche io vidi, ché molte non ebbero il coraggio di vedermi in quello stato. Infine la mia casa divenne sede di pianto e di dolore: tu ancora vivo eri pianto come morto. La sera dovetti pormi a letto perché mi sentiva aggravata la testa da forte dolore. Dopo un poco venne da me l'egregio avvocato Castriota, e pieno di affetto e di dolore mi assicurava della grazia per te e pel signor Agresti, mettendo in dubbio quella pel Faucitano: io sentiva dolore per tutti, sperava e non sperava, e mi sentiva straziare. Volle leggere la tua lettera e pianse e si costernò molto, me ne domandò una copia, che io poi gliela mandai. Andato via il signor Castriota, io restai con i figli, e con l'Agresti. Tutta la notte, e che notte fu quella, non facemmo altro che considerare il vostro stato, e sospirando chiamavamo il dì novello. Fatto giorno incomincia di nuovo la molta gente ad andare e venire: e sapemmo che gli avvocati erano tornati la sera a quattr'ore di notte da Caserta, ma non erano stati ricevuti dal Re; che il signor Marini Serra aveva mandato al Re un foglio, ed il Re lo aveva accolto bene. Ed ecco un altro raggio di speranza: ma venne tosto spenta ogni luce, perché ci fu detto che il Re aveva dato ordine di non fare entrare nel palazzo le famiglie dei condannati. Peppino tuo fratello era rimasto a Caserta sperando farci ottenere un'udienza. Giovanni andava spesso alla strada ferrata per sapere qualche nuova, e non sapeva mai niente. Molta gente andava alla strada ferrata: ed ecco si sparse la voce che la grazia era fatta, e giunse questa nuova anche nelle prigioni di San Francesco e di Santa Maria Apparente, dove si cantarono preghiere, rosari, litanie, tedeum.

Alcuni venivano a congratularsi con me; ed io diceva loro: “Per carità, non mi tormentate con queste voci: mio cognato non è ancora tornato da Caserta, mio marito è ancora in cappella: come è venuta questa grazia?” O mio Luigi, che dolore sentimmo a sapere che voi eravate ferrati e vestiti dei panni del fisco! La gente più cresceva in mia casa: tutti facevano compagnia al nostro dolore. Una impareggiabile signora estera rimase in mia compagnia per molte ore. Oh come grondavano di lacrime i suoi occhi! Mi prendeva le mani ed esclamava: “Povera amica mia sventurata; come sento il vostro dolore!”

Verso il mezzodì ti mandai quella letterina ed i figli ti scrissero anche essi. Sentimmo che i giudici si erano riuniti in casa dell'empio presidente Navarra per quel rescritto che tu sai. Intanto il giorno si avanzava, i palpiti crescevano, nulla di positivo si vedeva, se non grande desiderio in tutti di vedervi presto fuori pericolo di morte.

Mentre così stavamo giunse un foglio scrittomi da Michele Pironti e Carlo Poerio dicendomi le seguenti cose:

 

Stimatissima e venerata signora Raffaella,

Qui sono giunte notizie di dolorose perplessità in cui vi hanno gettate notizie contraddittorie, io mi affretto a scrivervi per liberarvene. Qui non vi ha nulla di mutato da ieri, è falso che siasi data nessuna disposizione, anzi il mio carissimo e diletto Luigi con Filippo e Faucitano poco fa li abbiamo veduti, e tutto predice che in breve li riabbracceremo tra noi. La signora Dono sarà già da voi; se non ancora è giunta vi dò la notizia della principessa Torchiarolo, cioè che la grazia è già fatta.

Vivete di buon animo, infelice e generosa donna, io spero vedervi ben tosto presso il mio dolcissimo amico. Un bacio ai cari ragazzi e credetemi

vostro dev. ed affez. servo

Michele Pironti

P. S. Ore 23,30. La grazia è giunta in Napoli, ed è presso il ministro di giustizia. Già gl'ispettori straordinari che erano di guardia sono stati chiamati con una [lettera] pressante. La notizia è certa.

 

Rispettabilissima signora,

State di buon animo, e tenete per certo che tutte le funeste apprensioni sono allontanate. La notizia è certa, e viene da tre fonti diverse.

Accogliete i sensi della mia venerazione per la vostra maschia virtù, e credetemi per la vita

vostro affez. servo

Carlo Poerio

 

Verso mezz'ora di notte tuo fratello Vincenzo viene e dice: “Peppino ha scritto che voi tutte dovete andare subito a Caserta, perché l'affare prende brutta piega: vestitevi, ch'egli adesso verrà con la carrozza, e si andrà”. O Luigi mio, che parole furono quelle per noi. Debbo confessarti che in quel momento perdetti tutte le forze, m'intesi un gelo alla fronte, e le ginocchia che mi tremavano. Giulietta tremava da capo a piedi, e diceva: “Mamma, e di notte dove andremo?” “Figlia mia, andiamo a fare il più grande sacrifizio, andiamo a Caserta a domandare al Re la testa di tuo padre.” “Mammà,” diceva essa, “e se il Re non vuole sentirci, che sarà di papà?” “Figlia, se il Re non vuole sentirci, vuole la testa di tuo padre; e dopo domani a quest'ora sarai orfana, e senza il padre tuo, ma vestiti subito, ed andiamo in nome di Dio.” Raffaello stava irritatissimo, e diceva di non volere pregare, e non volere venire a Caserta. In quel momento venne l'ottima ed amorosa duchessa C[ampochiaro] che sgridò Raffaello, e mi diede a colpa che io aveva fatto passare una giornata senza correre a Caserta, poi piena di dolcezza mi disse: “Andate, andate, si tratta di salvare la testa di vostro marito, del padre de' vostri figli”. Oh quanto mi confortò quella buona signora! subito mandammo a chiamare la moglie di Faucitano, che venne con suo cognato e tre figli, povere creaturine innocenti che furono svegliate dal sonno: e come io le vidi mi sentii tutta commossa. Durante tutto questo tempo la signora Agresti stava tutta concentrata, pensierosa e spettatrice di quanto accadeva in mia casa.

Il gran concorso di gente mi dava grande fastidio, ci porgevano gli abiti, i cappelli, ci accompagnavano coi lumi per le scale, con grande pianto di tutti.

Scesi giù, le carrozze erano accerchiate di gente; in una ci ponemmo la signora Agresti, io coi nostri due figli e Vincenzo e Peppino tuoi fratelli: nell'altra la moglie, i figli, ed il fratello di Faucitano. Erano due ore di notte: il viaggio fu silenzioso, nessuno disse una parola, di tanto in tanto gettavamo sospiri. Dopo tre ore giungemmo a Caserta. La notte, quel gran palazzo, quella grande largura, le sentinelle chiuse in certi cappotti con cappucci bianchi, che li coprivano da capo a piedi, un silenzio generale, tutto faceva terrore, io mi sentiva stringere il cuore, e diceva fra me stessa: “E perché mi trovo qui di notte? Ah io sono qui per domandare la vita del mio Luigi. O mio Dio, dammi forza, aiutami, e dà forza a quello sventurato! Chi sa ora che fa, che dice, che pensa, se pensa che io sono qui!” Entrammo nel palazzo reale: Peppino fece chiamare un capitano e gli domandò di poter parlare al re, o al segretario del re signor Corsi, il quale poche ore innanzi gli avea consigliato di condurre le famiglie, farle vedere dal re sottomesse ed umiliate. Il capitano rispose che non si poteva passare alcuno avviso né al re né a Corsi, perché erano a tavola. Peppino seguitava a parlare: noi tremavamo di freddo, e stavamo vicino una sentinella che ci dimandò: “Voi siete le famiglie dei condannati a morte?” “Sì,” rispondemmo, “e siamo venute per parlare al re.” “Mi pare difficile,” riprese, “perché vi sono ordini contrari, e neppure i vostri avvocati sono stati ricevuti. Ma sperate in Dio che tutto può.” Noi all'udire le umane parole del soldato ringraziammo Iddio che non eravamo scacciate con le armi. Quel giovine dabbene vedendoci tremare pel freddo ci fece entrare nella sua garitta, ch'era ben grande, e fremendo diceva: “Ha finito coi calabresi, ed ha cominciato coi napoletani. Io non posso farvi portare una sedia, né darvi un soccorso, perché appena il Re vede fare un atto di umanità dice, che anche noi siamo della pasta, e guai a noi”. “Lo so,” dissi io, “lo so, oggi, e qui l'umanità è peccato.” Peppino ci fece sentire che non v'era da sperare per quella notte, e che bisognava aspettare il dimani.

Cercammo di trovare un albergo, ma nessuno volle ricevere le famiglie de' condannati a morte. “Ma come,” diceva Peppino, “non avete letti, non una stanza in un albergo così grande?” “Non abbiamo niente: ma voi chi siete, che venite da Napoli a quest'ora? che siete venuti a fare?” “A te che importa a sapere de' fatti altrui?” “Non ho letti, andate via.” Respinti da ogni parte, fermati in mezzo la piazza di Caserta, intirizziti dal freddo con cinque bambini, non sapevamo che risoluzione prendere, era passata la mezza notte, ci ricoverammo nelle carrozze. Ma il freddo grande, la puzza della stalla vicina, la stanchezza de' corpi, i dolori che ci tormentavano, i tre bambini di Faucitano gittati vicino alla madre, i figli nostri vicino a me, noi non potevamo nemmeno poggiare la testa. Tutto era terrore quella notte: il nostro stato avrebbe intenerito i più duri sassi. Il Re tutto conosceva, come ci fu detto la mattina. Ci fu detto che un trattore intenerito del nostro stato ci offeriva una stanza senza letti, perché non ne aveva. Noi vi andammo per stare almeno al coperto. Quel povero uomo ci diede due materassini, dove facemmo coricare i nostri bambini, e noi ci mettemmo a sedere sopra sedie. Io mirava quei bambini, e mi sentiva squartare il cuore, specialmente i figli di Faucitano che dormivano mi facevano più pietà de' figli miei, perché erano più piccoli. La povera Mariannina moglie di Faucitano non cessava mai di piangere, il fratello don Gennaro pel dolore era sfigurato: la signora Agresti piangeva e stava immobile; i tuoi fratelli piangevano anche essi: ed avevano sui loro volti un pallore di morte: io mi sentiva il cuore arido come legno, gli occhi mi ardevano, l'anima piena di terrore, guardava tutto, e considerava, ed immaginava di vederti in mezzo ai Bianchi, con l'abito di tela e ferrato, come aveva inteso il giorno innanzi: già sentiva le voci delle sante messe, già vedeva innalzato il palco, e vedeva te bendato che camminavi, e poi salivi il palco. O Dio, Dio! che quadro funesto mi stava innanzi! Di tanto in tanto sollevava il capo, che teneva appoggiato ad una sedia che mi stava innanzi, per vedere se spuntava il giorno, e non spuntava mai. Finalmente vidi l'alba: allora tutti mettemmo un profondo sospiro, chiedemmo un po' di acqua per lavarci, aprimmo il balcone, e si svegliarono tutt’i nostri figli.

La moglie ed il fratello di Faucitano stavano in un angolo della stanza, non cessavano mai di piangere. Io secondo che più cresceva il dolore ed il timore, mi sentiva più vogliosa di operare, e dissi a Peppino: “Facciamo qualche cosa e facciamo subito, sai tu che Luigi a quest'ora si trova coi Bianchi?” “Lo so,” rispose Peppino, “ma che possiamo fare a quest'ora? non prima delle undici potremo vedere qualche persona.” A questo la moglie di Faucitano dà un grido, e mi dice: “Come i Bianchi? che mi volete far morire?” Io la guardai con maraviglia, perché credeva che avesse capito le conseguenze della condanna: ma la povera donna allora lo capì, e da quel punto cadde in uno stato di stupidità, di delirio, di pazzia: e di tanto in tanto mi domandava: “Sono andati i Bianchi da Salvatore?” e non diceva altro, e piangeva. Io cercai di darle speranza, di farle capire tutt'altro; ma l'infelice non aveva forza né di capire né di soffrire, Vincenzo tuo fratello prete propose di andare dal cardinale Cosenza, arcivescovo di Capua, ch'è un santo uomo, per pregarlo di farci avere subito una udienza dal Re. Seguimmo il consiglio, e così infervorati subito prendemmo due carrozze per Capua.

Giungemmo a Capua verso le otto del mattino, il cardinale diceva la messa; i servitori ci fecero sedere in una stanza, poi in un'altra, nella quale il cardinale dopo la messa veniva a fare il suo ringraziamento. Noi attendevamo in quella stanza fredda più di un'ora senza pronunziare una parola. Uno, non so se cameriere o segretario, sedette anch'egli e non so se a caso o per malizia, per prendere parole con noi, disse: “Questa mattina alle dieci si fa giustizia in Napoli”. Tutti tremammo a quelle parole; io vidi tutte le facce più incadaverite di prima. Peppino rispose: “No, sarà domani non oggi, assicuratevi”. Quegli riprese, che stamane sarà l'esecuzione, perché è venuta una persona da Napoli, e lo ha detto. Nessuno rispose. Io m'intesi un gelo per tutta la persona e dubitava s'era vero quello che sentiva, il cuore mi agonizzava, io diceva tra me: “Sarà questo un inganno che mi hanno fatto dicendomi un giorno per un altro e facendomi allontanare da Napoli. Come dice costui, io sto qui, e Luigi si sta preparando per salire il palco. O mio caro Luigi, e che cosa starai soffrendo a quest'ora? dove ti troverai? a che starai pensando? ti ricordi della tua Gigia, e de' figli tuoi? Ah, noi più non ci vedremo. Mio Dio, dàgli forza per soffrire, e non fargli capire in che punto si trova. Dio mio, dàgli speranza, dàgli aiuto, consolagli il cuore. Ed il cardinale ancora non si vede! e che ci dirà quando esce?” Mentre io diceva fra me queste cose ecco il cardinale il quale subito che ci vide disse: “Io nella messa ho pregato Dio per voi”. Queste parole, la sua dolce fisionomia, mi animarono un poco, Vincenzo il prete e Peppino gli parlarono, gli parlai anche io, le mogli di Agresti e di Faucitano piangevano. Io dissi quel che poteva dirgli una moglie ed una madre disgraziata, ed in quello stato. In prima egli rispose di non potere far nulla e diceva: “Andate questa sera nella cappella reale dove sono le quarantore e tutti possono entrare, e là vedrete il Re e lo pregherete”. “Dio mio,” io risposi, “come? si tratta di vita, mio marito si trova in cappella, dimani a quest'ora più non esisterà, e noi tre mogli sventurate saremo vedove, ed i nostri figli non avranno padre. Il Re ha dato ordine di non fare entrare le famiglie de' condannati, non vuole neppure vederci: come possiamo parlargli? Vostra Eminenza deve far tutto.” Il cardinale commosso grandemente, guardava noi ed i nostri figliuoli pietosamente, poi disse: “Scendiamo tutti in chiesa, andiamo a pregare Dio voi ed io; vediamo che cosa il Signore m'ispira”. Poi ad un tratto dice: “Oh mi è venuto un altro pensiero. Adesso scriverò una lettera al Re, e voi la porterete al vescovo di Caserta, il quale gliela presenterà”. Noi fummo contenti, ché più di questo non desideravamo. Scrisse la lettera, la quale come poi ci disse il vescovo di Caserta, pareva dettata dallo spirito santo, ed il vescovo di Caserta la lesse con grande commozione di animo. Consegnandoci dunque la lettera ci fece sopra molte benedizioni, benedisse anche noi, e disse: “Andate, io non diffido di questa lettera, andate in pace”. Poi prese per mano i nostri figli, guardò la moglie di Faucitano, e disse: “Voi siete la madre di sette figli?” Mariannina rispose più con le lagrime che con le parole.

Ritornammo a Caserta, benedicendo quel santo pastore, quell'uomo di Dio che ci aveva data una speranza, che ci aveva detto: “Andate in pace”. Andammo dal vescovo di Caserta, che ci fu anche egli benigno: gli demmo la lettera, ed egli senza mettere tempo in mezzo rispose: “Adesso corro a palazzo”. Andammo innanzi la reggia, dove una persona mi si fe' innanzi e mi dice: “Non temete più, vostro cognato Giovanni ha scritto che Luigi ed Agresti sono sferrati, usciti dalla cappella, e sono nella stanza dov'erano”. Io non gli credetti. Giunse per la strada ferrata una donna da Napoli che accertava esservi sospensione per due meno che pel Faucitano. Mariannina l'intese, e disse: “Dunque per Salvatore non vi è grazia? dunque solo mio marito è rimasto co' Bianchi?” La donna diceva di aver veduti i Bianchi. Io le raccomandai a non dire altro per non uccidere quella sventurata, alla quale io dava tutti i conforti che io poteva, e l’assicurava che la grazia dovea essere intera. Intanto vedo la carrozza di monsignore che veniva a palazzo, gli corro incontro e gli dico: “Monsignore, corre voce che vi sia sospensione per due, e non per Faucitano, se ciò è vero pregate il Re per Faucitano ch'è padre di sette figli”. Monsignore esclamò: “Per carità non mi dite niente più: io adesso moro; che cosa è avvenuto questa mattina? lo non ho più sangue alle vene. Faccia Dio, faccia Dio”. E così entrò nella reggia, ma non potè parlare subito col Re, perché stava in consiglio di Stato; parlò prima con la regina, ed attese che il Re uscisse per poco dal consiglio per non so quale cagione, per fargli dare la lettera del cardinale.

Mentre questo accadeva nel palazzo noi stavamo fuori aspettando. Intanto sapemmo che il fratello di Faucitano, che non era venuto a Capua con noi, era stato arrestato e costretto a tornarsene in Napoli, dove fu libero. L'ora si avanzava, il sole mi faceva male agli occhi, il freddo, il vento e la stanchezza non mi facevano reggere in piedi, cercai di sedermi su di un poggiuolo ch'è a piè del muro del palazzo, e vicino mi sedettero tutt'i bambini che si mangiavano delle ciambelle. Certi uffiziali ci videro, parlarono all'orecchio delle sentinelle, che con brutti modi ci scacciarono da quel luogo. Io che non mi reggeva cercai di entrare in carrozza, ma anche le carrozze furono respinte ed allontanate. Stemmo dunque sulla via fino a ventiquattr'ore. Monsignore se n'era tornato a casa; il consiglio di stato finì assai tardi: speravamo di sapere qualche cosa; ma udimmo che il Re era uscito a passeggiare, e che al ritorno andava alle quarantore. Disperate tornammo da monsignore, il quale ci consigliò di partire, e ci promise che dopo la benedizione sarebbe tornato dal Re e se il Re si ostinava egli sarebbe andato a Capua la notte stessa ed avrebbe condotto il cardinale a pregarlo. Ci promise tutto, e volle che restasse in Caserta tuo fratello prete per fargli sapere una risposta. Lo ringraziammo, lasciammo Vincenzo e partimmo, dopo aver passato una notte ed un giorno in mezzo alla via, senza trovare un conforto, un tetto, una persona pietosa. Oh, mi ricorderò sempre della terribile Caserta!

Giungemmo in Napoli a tre ore di notte. Mariannina coi figli andò a casa sua. Io, i figli, la signora Agresti, i fratelli tuoi andammo a casa mia, dove trovai molta gente che mi aspettavano, mi vennero incontro coi lumi, mi dicevano della sospensione, e che ti avevano veduto ad una finestra, e che tu dimandavi di me e de' figli. La signora Agresti se ne tornò a casa sua: io pregai tutti a lasciarmi sola.

Dopo alquanto tempo venne don Gennaro Faucitano, e mi disse: “Signora, sapete che hanno preparata la guillottina per mio fratello? io l'ho veduta con gli occhi miei, e si sono mandati gli avvisi per le sante messe”. Questo fu un altro colpo; nondimeno io gli narrai ogni cosa, e gli dissi la promessa del vescovo, e lo confortai come meglio poteva. Così andò via; io mi gettai sul letto, e stava con gli occhi aperti, e con le orecchie intente. Verso sette ore di notte sento salire la scale, poi la voce di Vincenzo, il quale entra e dice: “La grazia per tutti: monsignore è sceso dal Re a tre ore di notte, e mi ha detto che ha fatto grande fatica a persuaderlo. Io l'ho ringraziato, sono montato in calesse, e sono corso. Sono stato dalla famiglia di Faucitano, ma la moglie ha accolto questa notizia con indifferenza, non l'ha capita, perché la sventurata ha perduto il senno”.

Quantunque fossi molto stanca, non potetti chiudere gli occhi il resto della notte, e guardava i figli che dormivano a me vicino, e sulle loro facce io vedeva il terrore vinto dalla stanchezza: erano pallidi come cera. Io pensava: “Domani vedrò Luigi: ma sarà vero che lo vedrò? sarà vero che egli non muore? e se ora mi ingannano? Oh dimani, vedrò tutto con gli occhi miei”. Quanti timori, quanti pensieri, quante angosce in quella notte! All'alba balzai dal letto, si levarono i figli che erano storditi e spaventati. Intesi nel cortile certe donne che dicevano: “Avete inteso una voce delle sante messe”. “Come?” dissi io, “si parla di sante messe? che cosa è cotesta?” intanto sento nella strada una voce straziante che grida: “Accompagnamo questa anima con le sante messe!” Oh mio Dio, o Dio mio, e che cosa io sentii in quel momento! come mi fu straziato il cuore! che amarezza, che morte fu quella. Allora perdei tutta la speranza, e come forsennata io dissi: “Ah! non solo Faucitano ma anche Luigi mio va a morte. Io ho inteso le sante messe, ecco tutto compiuto. Mio Dio, dammi forza per soffrire questo acerbo dolore che mi spezza l'anima, dà forza al mio Luigi. Anch'egli ha udito le sante messe, e che dirà? Già l'ora si avvicina, dunque Luigi più non esiste? ed è possibile? O Luigi mio, in che stato si trova il tuo cuore? A quest'ora tu pensi a tua moglie, ai figli tuoi? Ah! tu hai preveduta la tua sorte, e stavi preparato a tutto prima di decidersi la tua causa come ho veduto dalla lettera che mi consegnasti sabato. Tu da uomo sagace tutto antivedevi perché conoscevi che uomini sono i giudici, e che voleva il governo. O scellerati! ma tu sei giusto, tu muori come morirono i santi martiri, tu muori per aver troppo amato questa patria infelice. Ed i figli? poveri figli miei, non avete più padre, non avete che il nome di vostro padre, nome onorato”. Mentre stava in quella agonia ecco venire una persona e mi dice che ti aveva veduto alla finestra e che tu volevi vedermi coi figli. Io corsi subito, e venimmo tutti: mi parevano mille anni di vederti, ringraziava Dio, ringraziava la beata Vergine e diceva: “O mio Gesù crocifisso, tu agonizzasti tre ore, io ho agonizzato tre giorni. Abbi pietà del mio Luigi, abbi pietà de' figli miei, abbi pietà di me povera donna abbandonata”.

Era martedì, era il 4 febbraio, erano le nove del mattino quando io ti rividi vivo e ti abbracciai.

Tutti piangevano, io sola non piangeva, e ti guardava perché temeva ancora di perderti. Tu mi guardavi, mi domandavi come stava, ti addoloravi vedendomi quasi impietrita: io ringraziava Dio che mi aveva dato tanta forza da sostenere tanti dolori: io non poteva sentire altre angosce, e però io era impietrita.

Mentre io mi proponeva di non lasciarti per quella giornata, ecco l'ordine di presta partenza. Io ti dimandai: “Per dove?” Tu mi rispondesti: “Andiamo sepolti per sempre in un ergastolo; ma non ti addolorare, c'è un Dio per noi: fida nel tempo, e nella umanità che cammina”. Ed io ti dissi: “Dopo che ti ho veduto condannato a morte, posso sentire altro dolore?” Io ricordo tutte le parole che dicesti in quel momento. Tu mi dicesti: “Ti raccomando la tua salute ed i nostri figli”. E rivolgendoti ai figli: “Figli miei,” dicesti, “voi non avete più padre, perché io sarò chiuso in un ergastolo, e chi sa per quanti anni non ci vedremo. Non piangete, perché i vili piangono, vostra madre non piange, ubbidite a vostra madre, amatela, assistetela, non vi resta che lei. Siate buoni, siate virtuosi, pensate che l'anima mia è sempre con voi: pensa, o Raffaele, che sventura è venuta nella tua famiglia; se vuoi vendicare tuo padre, affaticati a studiare, diventa uomo dabbene e virtuoso, e così lo vendicherai, perché i nemici di tuo padre ti vorrebbero vedere ignorante e malvagio. Ricordati queste tre parole: Dio, patria, onore. E tu, o mia Giulietta, ricorda queste parole, non allontanarti mai da tua madre, statti sempre vicino a lei, sì buona, sì pietosa, ricordati che sei figlia mia, sei figlia di tua madre”. Queste furono le ultime parole che dicesti ai tuoi figli. Io le ricordo ed i poveri figli piangevano.

Venne l'ora della partenza, ci demmo l'ultimo bacio e l'ultimo addio; tu benedicesti i figli, e fummo divisi.

Io con la signora Agresti, la signora Dono, ed altre mogli de' tuoi compagni di sventura, ed altre donne pietose ti aspettai nel cortile della Vicaria. Vidi scendere la lunga catena, tu andavi legato con Agresti. Oh come si commossero nel vedermi quelle anime generose! Oh con che sentimento mi strinsero la mano e mi diedero un addio il barone Poerio e Vincenzo Dono! Essi a me io a loro dicevamo: “Coraggio, coraggio”. L'anima mia aveva mille commozioni, mi sentiva la gola stretta.

Dopo che passaste tutti, noi prendemmo le carrozze, e vi accompagnammo fino alla darsena. Là mi levai nella carrozza, ti vidi l'ultima volta, salutasti me ed i figli, e dicesti col volto, con gli occhi, col fazzoletto tante cose, entrasti e non ti vedemmo più.

Con le altre donne disgraziate ci mettemmo in un battello per vedervi sul vapore: ma non potemmo avvicinarci, e tornammo a terra; dove trovammo un gran popolo che piangeva e dimandava, ed avrebbe voluto vedervi. Venivano attorno a noi; onde io mi congedai dalle amiche sventurate, e con Peppino tuo fratello salii in carrozza, e tornai a casa dove cercai un poco di solitudine. Rimasi sola coi cari figli miei nella casa piena di lutto. Rimasi miseramente mesta ed addolorata; e tale sarà, o mio carissimo Luigi, la tua sventurata moglie sintanto che Iddio non ti restituisce a me ed ai cari figli nostri, che sono rimasti senza padre.




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