L'ergastolo
Chi si avvicina a Santo Stefano vede da mare
sull'alto del monte grandeggiare l'ergastolo, che per la sua figura quasi
circolare sembra da lungi una immensa forma di cacio posta su l'erba. Il gran
muro esterno, dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di
macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che dànno
luogo solo al trapasso dell'aria. Per iscendere sull'isola si deve saltare su
di uno scoglio coperto d'alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una
stradetta erta e scabra, si trova in prima una vasta grotta, nella quale il
provveditor dell'ergastolo suol serbare sue provvigioni; poi montando più su si
vede il dosso del monte industriosamente coltivato. Sino a pochi anni addietro
l'isola era tutta selvaggia ed aspra: ora è coltivata, tranne una ghirlanda
intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle
rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte più larga e piana
del monte sorge l'ergastolo. Non si può dire che tumulto d'affetti sente il
condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i
campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non
dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l'ultima volta
quell'aria pura; con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l'immagine
degli oggetti che gli sono intorno. Fermato innanzi la terribile porta vede una
strada lunga un cento cinquanta passi, in capo della quale un casolare
fabbricato sulle rovine della villa di Giulia; e vicino a questo un recinto di
mura con una croce che è il cimitero de' condannati. Se gli è permesso di
camminare un poco verso la sinistra dell'ergastolo vede una casetta del
tavernaio divenuto coltivatore dell'isola, ed un'altra stradetta più malagevole
della prima, per la quale con l'aiuto delle mani e dei piedi scendesi al mare.
E null'altro vede, perché null'altro v'è fuori che il mare, ed il cielo, e le
isole lontane, e il continente più lontano ancora, a cui vanamente il misero
sospira.
Un edifizio di forma quadrangolare sta innanzi
l'ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore. Il lato anteriore o la
facciata di questo edifizio ha due torrette agli angoli, ha cinque finestre, ed
in mezzo una trista porta guardata da una sentinella: su la porta sta scritto
questo distico:
Donec sancta
Themis scelerum tot monstra catenis
vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus.
“Finché la santa Legge tiene tanti scellerati in
catene, sta sicuro lo stato, e la proprietà.” Parole non lette o non capite dai
più che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo
avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale
egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtù per non
disperarsi. Varcata la porta ed un androne si entra in un cortile quadrilatero
intorno al quale sono le abitazioni di quelli che sopravvegliano l'ergastolo,
magazzino per provvigioni, il forno, la taverna. Custodi dell'ergastolo, come
di ogni altro bagno, sono il comandante, che è un uffiziale di fanteria di
marina, un sergente suo aiutante che è detto comite, pochi caporali, e bastevol
numero di agozzini; un altro uffiziale comanda un drappello di soldati, i quali
guardano l'esterno. Vi sono ancora due preti; due medici, un chirurgo, e tre
loro aiutanti: v'è il provveditore, ed il tavernaio. Nel cortile sei circondato
dagli agozzini coi loro fieri ceffi, i quali ti ricercano e scuotono le vesti,
ti tolgono la catena se sei condannato all'ergastolo, e te la osservano e
ribadiscono se sei condannato ai ferri. Uno scrivano ti dimanda del nome e
delle tue qualità personali: ed il comandante, dopo averti biecamente squadrato
da capo a piè, ti avverte di non giocare, non tener armi, starti tranquillo, se
no vi sono le battiture e la segreta: e ti manda al luogo che egli destina
facendoti accompagnare dal sergente e dagli agozzini.
Dopo il cortile entri in un secondo androne, nel
quale un custode apre una porta, e ti fa entrare in uno spazzetto scoperto,
chiuso intorno da un muro con palizzata e da un fosso, su cui è un ponte
levatoio. Un secondo custode apre un cancello di legno, varchi il ponte, ed
eccoti nell'ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto,
dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi, che sono i tre
piani delle celle dei condannati: immagina che in luogo del palcoscenico vi sia
un gran muro, come una tela immensa, innanzi al quale sta lo spazzetto chiuso
dalla palizzata e dal fosso: che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia
coverta, che comunica con l'edifizio esterno, e su la quale sta sempre una
sentinella che guarda, e domina tutto in giro questo teatro: e più su in questa
gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Così avrai l'idea di
questo vasto edifizio, che ha forma maggiore di mezzo cerchio, con in mezzo un
vasto cortile, ed in mezzo al cortile una chiesetta di forma esagona, chiusa
intorno da vetri. Il cortile è lastricato di ciottoli, ha due bocche di
cisterne, e tre basi di pietra, con ferri che sostengono fanali. Il lastricato
e le cisterne son fatte da pochi anni: prima nel cortile erano ortiche e
fossatelle d'acqua, dove i condannati andavano a bere, e spesso coi coltelli
contendevano per dissetarsi a quelle fetide pozzanghere.
Ciascun piano è diviso in trentatré celle: nel
primo e nel secondo piano sono trentatré archi, ciascuno innanzi ciascuna
cella: nel terzo piano è una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle, e
non è più larga di quattro palmi. Ogni cella ha una porta ed una piccola
finestra ferrata che guardano nel cortile; e sul muro opposto ha un buco o
feritoia lunga un palmo, stretta tre dita, dalla quale trapassa l'aria esterna,
e si può vedere una striscia di mare. Il primo piano è a livello del cortile, e
tiene innanzi un muro con sopra una palizzata, onde chiamasi le barriere, anche
perché è scompartito da mura in varie porzioni, ciascuna contenente diverso
numero di celle. Nello spazio tra la palizzata e le celle passeggiano i
condannati; ed è brutto di fango e di acqua che vi gittano o vi cade da sopra.
Per montare ai piani superiori vi sono due scale a destra e sinistra della gran
tela di muro; ma chiuse da cancelli di legno tenuti da custodi. Il secondo
piano ha innanzi una loggia coverta formata da un secondo ordine di archi, e larga
quanto quella del terzo piano; ed è diviso in due porzioni. Nel terzo piano le
ultime undici celle sono divise dalle altre, ed addette ad uso di ospedale: e
queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate, dalle quali si
può vedere un po' di verde e la vicina Ventotene, hanno invetriate, e pareti
bianchite. Una metà delle celle del primo piano è destinata per un centinaio di
condannati ai ferri: in tutte le altre celle sono gli ergastolani: nell'altra
metà del primo piano i più discoli; nel secondo i meno tristi; nel terzo quelli
che han dato pruova di essere rassegnati.
I soli condannati ai ferri hanno la catena che li
accoppia, e possono passeggiare nel cortile. Tra essi i fortunati vanno soli,
portando o tutte le sedici maglie della catena o pure otto maglie: i
fortunatissimi ne portano quattro, e fanno uffizio di serventi o di cucinieri,
votano i cessi, portano acqua, vanno a spendere alla taverna: sono beati quei
pochi che escono fuori a lavorare la terra. Gli ergastolani non hanno catena;
ma nessuno può uscir del suo piano e del suo scompartimento: un tempo nessuno
poteva uscir dalla sua cella. Queste divisioni sono necessarie per impedire le
continue risse che nascono per stolte e turpi cagioni, e pel sempre funesto
amore di parti; dappoiché questi sciagurati, che una pena tremenda dovrebbe
unire, sono divisi tra loro secondo le province: e siciliani, calabresi,
pugliesi, abruzzesi, napolitani, si odiano fieramente fra loro, spesso senza
cagione e senza offese; e se per caso si scontrano si lacerano come belve e si
uccidono. Non si cerca di spegnere questi odi di parte, perché per essi si
hanno le spie, si vendono favori, si fanno eseguir vendette, si fa paura a
tutti: una è l'arte di opprimere, ed ogni malvagio la conosce.
Per questa condizione de' luoghi e degli uomini,
gli ergastolani non hanno altro spazio che le celle, e la stretta loggia, dalla
quale invidiando guardano il cortile dove non possono passeggiare, ed il cielo
che è terminato dalle alte mura dell'ergastolo, e che come un immenso coverchio
di bronzo ricopre il tristo edifizio e ti pesa sull'anima. Se passa volando
qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con
la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi
cari, ai giorni di gioia e di amore, che sempre ti tornano a mente per sempre
tormentarti. Ma neppure puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie
e di uomini che ti urtano, gridano, cantano, bestemmiano, accendono fuoco,
fendono legne: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente
le sonanti catene, taluno d'essi con oscena voce andar gridando: “Vendiamo e
mangiamo”: spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture, spesso la
barella con entro cadaveri di uccisi. Il vento ti molesta, il sole ti brucia,
la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti
nella cella.
Ogni cella ha lo spazio di sedici palmi quadrati,
e ce ne ha di più strette: vi stanno nove o dieci uomini e più in ciascuna. Son
nere ed affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo; con i
letti squallidi, coperti di cenci, e che lasciano in mezzo piccolo spazio; con
le pareti nere dalle quali pendono appese a piuoli di legno pignatte, tegami,
piattelli, fiaschi, agli, peperoni, fusa, conocchie, naspi ed altre povere e
sudicie masserizie: una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo. È
vietato ogni arnese di ferro, e persino i chiodi, le forchette, i cucchiai, le
bilance sono di legno: ed invece di coltellaccio per minuzzare il lardo usano
un osso di costola di bue. Con un'industria incredibile fendono grossi ceppi e
tronchi di albero mediante piccolissimi cunei di ferro, non permessi ma
tollerati, e però da essi nascosti. Chi non vuole il cibo cotto in comune, e che
non è altro che fave o pasta, lo cuoce da sé in fornacette di tufo, che si
mettono sul davanzale della finestra ed anche sulle tavole del letto. Pochi
fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ciascuno
accende il suo fuoco, onde esce un fumo densissimo che ingombra tutta la cella
e le vicine, ti spreme le lagrime, e ti fa uscire disperatamente su la loggia,
dove trovi altre fornacette accese che fumano, ed invano cerchi un luogo non
contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte. Alle
due pareti opposte della stanza è legato uno spago, dal quale pende una canna,
che dall'altro capo fesso in su tiene sospesa una lucerna di latta, la quale
con questo ingegno può portarsi qua e là, e pendere nel mezzo della stanza, per
dar lume la sera a tutti che fanno cerchio intorno e filano canape.
Tetre sono queste celle il giorno, più tetre e
terribili la notte; la quale in questo luogo comincia mezz'ora prima del
tramonto del sole, quando i condannati sono chiusi nelle celle, dove nella
state si arde come in fornace, e sempre vi è puzzo. O quanti dolori, quante
rimembranze, quante piaghe si rinnovellano a quell'ora terribile! Nel giorno
sempre aspetti e sempre speri: ma quando è chiusa la cella ed alzato il ponte levatoio,
più non aspetti e non speri, e ti senti venir meno la vita. Allora non odi
altro che strani canti di ubbriachi, o grida minacciose che fieramente
echeggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse; talvolta odi
un rumor sordo ed indistinto di gemiti o di strida, e la mattina vedi cadaveri
nella barella. Quando stanco d'ozio, d'inerzia, e di noia cerchi un po' di
riposo e di solitudine sul duro e strettissimo letto, mentre dimenticando per
poco gli orrori del luogo corri dolcemente col pensiero alla tua donna, ai tuoi
figliuoletti, al padre, alla madre, ai fratelli, alle persone care all'anima
tua, senti il fetido respiro dell'assassino che ti dorme accanto, e sognando
rutta vino e bestemmia. O mio Dio, quante volte ti ho invocato in quelle ore di
angosce inesplicabili; quante notti con gli occhi aperti nel buio io ho
vegliato sino a giorno fra pensieri tanto crudeli, che io stesso ora mi
spavento a ricordarli.
Ritorna il giorno, e ritornano i suoi dolori, e
l'un giorno non è diverso dall'altro. Sempre ti stanno innanzi gli stessi
oggetti, gli stessi uomini, gli stessi delitti, le stesse azioni. Ogni giorno
primamente ti si porta un pane; poi una porzione di orride fave o di arenosa
pasta, che molti prendono cruda e poi cuocciono essi stessi con miglior
condimento, poi cinque grani ai soli condannati all'ergastolo. Due volte il
mese ti si da un pezzo di carne di bue: son due giorni di festa, in cui si beve
più vino, e si fanno più delitti. Quando il mare non è agitato vengono alcune
donne da Ventotene: portano a vendere pesce e verdure, e comprano il nero pane
de' condannati col quale sostengono sé stesse ed i loro figliuoli. Tanta
miseria è in quell'isola, che di là si viene a spendere nelle taverne
dell'ergastolo. Sebbene il continente sia poco lontano, pure raramente vengono
barche, e se vengono ed approdano a Ventotene, non sempre si può traversare il
canale su i battelli e venire a Santo Stefano, dove spesso si manca anche del
necessario alla vita. Anche più raramente hai lettera o novella della tua
famiglia. Ogni lettera che ricevi o mandi deve essere letta, ogni oggetto
rivolto e ricercato per ogni parte. La prima lettera che io ebbi, e che io
tanto avevo aspettata, mi strappò molte lagrime, e mi rendette convulso per più
giorni. Io serbo ancora quella prima lettera, unita ad un'altra della mia
figliuola Giulietta, che mi fu conceduto di tener caramente stretta in mano
durante quei due giorni che io stetti condannato a morte in cappella; perché mi
pareva che tenendola in mano io sarei morto abbracciando e benedicendo i miei
figlioli. Qui si vive a discrezione de' venti e del mare, divisi dall’universo,
e soffrendo tutti i dolori che l'universo racchiude.
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