Rimembranza
11 Marzo: Prendo la penna per disfogare scrivendo l'amarezza dell'anima mia, che
mi sento oppressa da crudeli rimembranze, e da tristissimi pensieri. Mi ritorna
innanzi la mente tutta la vita dei due carissimi figliuoli miei, me li vedo
innanzi bambini e balbettanti, poi fatti grandicelli, poi più cresciuti,
finalmente quali ora sono: mi ricordo tutto quello che facevano, e che
dicevano, quante gioie, quanti piaceri, quanti palpiti ho avuto per loro. O
crudeli rimembranze, che come tante punte avvelenate mi trafiggono il cuore. Ed
ora che sarà di essi? che faranno a quest'ora che io penso e scrivo e piango
per essi? Dove sarà il mio caro Raffaele, la speranza della vita mia, l'amore
dell'anima mia? Povero figlio! Non ha compiuto quindici anni, e già lontano
dalla casa sua, va esule e ramingo pel mondo, destando in altrui quella pietà
che è virtù bella in chi la sente, ma è assenzio amarissimo a chi deve
sperimentarla. Povero figlio, a 15 anni esule e mendico pel mondo, perché porta
il mio nome! Quanti accidenti potranno sopravvenirgli, da cui né io né sua
madre potremo salvarlo! Quante volte vorrà un consiglio, e non troverà chi lo
consiglia: quante volte chiamerà sua madre e me che sono suo padre. O figlio
mio, rivolgiti a Dio padre di tutti gli sventurati, rivolgiti a lui sicuramente
con fede viva, ed egli risponderà ai tuoi lamenti, egli t'infonderà nell'anima
la forza e il consiglio necessario a reggerti nel cammino della vita, in cui
sei entrato troppo presto e non hai trovato che dolori: rivolgiti a lui, e
pregalo di una sola cosa, o figlio, di una sola cosa, che ti serbi l'anima
pura, che ti liberi dal male che è peggiore della morte, dal vizio. Io so che
tu hai bisogno di aiuto, hai bisogno di chi ti ama davvero: ed io che sono tuo
padre sono nell'ergastolo, e tu vai ramingo pel mondo. Oh! e queste erano le
mie speranze quando tu nascesti, e facesti dire a tua madre quelle parole che
io sempre ricordo con tenerezza: Figlio mio, benedetti tutti i patimenti che
ho sofferti per te. Ella te chiamò figlio la prima volta, te baciammo
amendue, te benedicemmo.
Ricordo il giorno, ricordo l'ora, ricordo il
luogo dove tu nascesti. O quanto ci eri caro, o quanto eri vago, o figliuol
mio: tutti volevano vederti, tutti non si saziavano di pascere gli occhi nella
tua bella persona che ogni giorno fioriva e cresceva mirabilmente: avevi certi
capei biondi e lunghi, certi occhi grandi ed intelligenti, un sorriso d'un
angioletto. Tutti me lo dicevano, tua madre ed io lo vedevamo, e sentivamo il
cuore tocco, da inesplicabile dolcezza. Crescevi all'amor nostro, alle nostre
più care speranze, mostravi, quale ancora hai, intelligenza e parola esatta e
pronta; eri la gloria nostra. Tua madre ricorda sempre quando la sera io
tornava a casa e ti portava alcuna cosetta dolce, e tu mi aspettavi, e subito
mi venivi incontro, conoscevi il rumore dei miei passi, il mio picchiare. Avevi
due anni, eri nato il dì 8 aprile 1837. Io fui arrestato, tu cercasti invano le
cosette dolci che ti soleva portare tuo padre: venisti a vedermi, e capisti la
tua e mia sventura. Ti rividi dopo due mesi in Napoli nella prigione di S.
Maria Apparente. Ma tu non eri più desso: eri sfiorito, non più quei bei
capelli, non più quel sorriso, gli occhi soli eran tuoi, ma erano ammalati: mi
vedesti, mi abbracciasti, ti addormentasti tra le mie braccia. Poco dopo avesti
una sorella: o cara, o infelice, o diletta figliuola mia Giulia: la tua nascita
mi fu annunziata da un custode mentre io ero in una segreta, e mentre ripensava
ai dolori ed agli stenti di tua madre. Buon per voi, o figli miei, buon per voi
che non sapete, e non ricordate quello che nella prima vostra età soffriste voi
e i vostri genitori. Sono dolori senza numero e senza nome, sono strazi di
cuore che al solo ricordarli fanno spavento! Quanto soffrì vostra madre non è
mente umana che possa immaginarlo. Figli miei, siate voi tanto felici quanto
sono stati miseri i vostri genitori.
Veniva mia moglie nel carcere a visitarmi: e nel
carcere vidi la prima volta e baciai la cara mia Giulia: bambina leggiadra come
una stella, e poi tutta piaghe per la persona, anzi una piaga sola, perché
nutrita dal latte di sua madre, che pativa ogni tormento fisico e morale,
persino la fame, la vera fame! E non era allora chi avesse avuto pietà di lei,
che avesse saputo i suoi dolori, altri che io e voi, o figli, che tutto
vedevate, ma non comprendevate nulla, e poi tutto dimenticaste. La povera mia
Giulia era moribonda, ed una volta la madre me la mandò per baciarla e
benedirla l'ultima volta! Io ero allora nella Vicaria, io rabbrividisco a
ricordare quello che sentii quel giorno. Ma il mio bacio e la mia benedizione
fu vita alla figlia mia, che a poco a poco lentissimamente usciva dal male. La
povera bambina, mi diceva la madre, stava i giorni interi seduta su di una
seggiolina, con le mani agli occhi ammalati, e quando udiva che veniva qualche
persona, levando il capo e le mani, e scoprendo un poco gli occhi diceva:
Mamma, questi è papà? Ed alla risposta che no, tornava alla sua posizione, e
più non diceva. Io voleva vedere i figli miei, e la madre me li conduceva. Raffaele
mi faceva veder suoi esemplari, perché cominciava ad andare a scuola, e Giulia
cominciava a camminar sola. Dopo tre anni e mezzo di carcere e di pene crudeli
tornai a casa mia. Era la sera del 14 ottobre 1842: piovigginava: io discesi di
carrozza e dimandai ad una donna se lì abitasse una signora che aveva il marito
carcerato: la donna mi rispose di sì, e indovinando chi io mi fossi diede un
grido, e chiamò la mia serva. Salgo, e vedo su la porta aperta il mio piccolo
Raffaele che mi abbraccia, e piangendo mi dice: Papà, non tornate più
carcerato. Mia moglie, oh! mia moglie, mi abbracciò, io l'abbracciai: oh
che momento! Io non so se ritornerà un'altra volta quel momento di gioia, che
io non so esprimere, che nessuno può sentire se non ha sofferto quello che
aveva sofferto io. Le parole di mio figlio mi suonano ancora all'orecchio: Non
tornate più carcerato! La Giulia stava seduta sul letto, e non parlava. Io
l'abbracciai, ed ella mi si strinse al collo. Oh che scena fu quella in una
casetta di una stanza nel vicolo Paradiso! che scena di pietà e di amore. Che
gioia fu per me assidermi a mensa con mia moglie ed i miei figliuoli, e gustare
un'insalata di lattuga, del pane, e del vino, che fu la miglior cena che la
misera moglie mia poté darmi in quella festa. Io era felice, io era beatissimo,
io mi stringeva tutti insieme mia moglie ed i miei figli, io ero in una stanza
che potea dir casa mia. La Giulia non parlava, ma pareva occupata da un solo
pensiero: la notte si svegliava più volte, e dimandava alla madre: C'è papà?
E poiché la madre le diceva di sì, ella voleva toccarmi la faccia, e poi
tornava ad addormentarsi. Da che io fui libero, la mia figliuola fu sana; ogni
giorno più andava in meglio, e sua madre ed io benedicevamo Iddio. Mi ricordo
che la prima volta che menammo i figli a spasso in carrozza, la Giulia, che non
v'era mai stata più, temeva e rideva di un riso convulso, e Raffaele rideva
anche egli, che v'era stato solo una volta, ma era più grande.
Mi posi a lavorare: faticosamente lavoravo, ed
ero lieto di poter temperare i dolori della infelicissima donna mia che per
tante sventure ebbe implacabile malattia nervosa, e con lei mi consolava
vedendo crescere i due nostri figliuoli, che formavano la nostra cura, e la
nostra gloria. Con che amore e con che fatica la madre cuciva loro begli
abitini, e cercava si avvezzassero alla nettezza ed al decoro: quanto ella
faticava in casa, quanto io fuori: appena avevamo quanto bastava a soddisfare
ai nostri più stretti bisogni! Eppure eravamo contenti!
Dopo sette anni il 23 giugno 1849 fui arrestato
un'altra volta: i miei figli volevano piangere, la madre li sgridò innanzi
all'Ispettore di polizia, dicendo loro che i figliuoli non debbono piangere
quando il padre è carcerato per causa d'onore. Piansero un'altra volta quando
fui richiesto a morte: piansero quando udirono ch'era stato condannato a morte,
e mi abbracciarono uscito dalla cappella. Mia moglie, la mia diletta e forte
Gigia, non pianse mai, la misera non ha avuto mai il conforto del pianto: tanto
il dolore l'ha impietrita! Ma io solo conosco gli strazi del suo cuore.
Io sto per compiere il trentesimonono anno di mia
vita. O mia diletta Gigia, quanti anni abbiamo penato, quanti pochi anni sono
stati sereni per noi! In che abbiamo adoperato la vita? In soffrire: a sofferir
sempre, e sofferir tutto. Mai il sorriso non è spuntato sulle nostre labbra,
mai non abbiam potuto dire: ecco un giorno lieto per noi! E che abbiamo noi
fatto da dover sofferire tanto, e sempre? E perché ci fu data la vita, se dovevam
vivere solamente per sentire ogni strazio? O Dio, padre degli afflitti, quando
avrai pietà di noi? che cosa ci hai preparato nel futuro? altri dolori, o un
poco di pace? Mira come la mia donna ed io siamo stanchi e deboli, e come i
poveri figli non hanno sentito finora che afflizioni, e sono in sul fiorire
della vita! Abbi pietà di queste due povere pianticelle, difendile dal rigore
del tempo e dalla mano dell'uomo che vorrebbe schiantarle: abbi pietà delle
anime loro, difendile dal vizio e dal peccato. Deh, serba i due non vecchi
tronchi, ma sfrondati e spogliati, serbali finché crescano questi due rampolli.
Fa che gli occhi di mia donna ed i miei veggano felici i nostri figli, e poi si
chiudano in pace. Niente al mondo ora più m'importa, niente più mi piace, se
non i figli miei. Tutt'altro ho perduto, tutt'altro mi disgusta, tutt'altro non
mi fa colpo nell'anima, che ho provati tutti i dolori, tutti, fino ai dolori
della morte. Avevo gioventù, se ne è ita disfiorata tra gli orrori dei carceri,
avevo una scintilla d'ingegno e la sento diminuita: mi deliziavo negli studi,
ed ora ogni studio m'incresce, il bello delle arti non mi fa più palpitare il
cuore: il vero delle scienze non mi innamora più la mente: conosco che nulla ho
saputo, che nulla ho fatto, sento vergogna di me stesso, mi adiro con me stesso
perché avrei potuto pur fare alcuna cosa grande, sentivo in me una potenza che
mi urtava a farla, e non ho fatto nulla. E che potevo io fare, se gli uomini e
la fortuna si sono uniti contro di me? Ho lottato con gli uomini e la fortuna,
sento che non sono stato interamente vinto, ma non sono stato io vincitore.
Come darmi agli studi se ho dovuto faticare per vivere? se ho guadagnato appena
tanto da disbramare la fame? Se ho tratti lunghi anni nel carcere? se è
meraviglia a me stesso se ancora io penso? O quanto vero mi è nascosto, e che
io sento che è, e che è a me nascosto, e non posso gustarlo! o quanto bello è
chiuso agli occhi miei! Studiai a caso e di furto, nacqui e crebbi sol pel
dolore: e tra i dolori non è ultimo questo immenso desiderio di conoscere che
mi tormenta l'anima, e che mi fa accorto della mia nullezza, che mi avvilisce
innanzi la mia coscienza, che mi strazia sempre e non mi dà posa mai. Invano lo
tento di scusare me stesso: il fato mi opprimeva, ed io doveva lottar col fato,
e superarlo. Ma che dico io? io nacqui a patire e sento che Iddio non mi ha
dato la mente se non per conoscere maggiormente il mio patire. Forse su di me
Iddio ha voluto accumulare i dolori miei e quelli destinati ai miei figliuoli:
se così è, son contento. Ma perché deve patir meco quella sventurata donna?
Perché tanti dolori fisici e morali anche per lei? Che fece ella? che peccato
commise? Perché quelli pochi che mi amano devono sofferire anch'essi?
Si dice che anche il dolore ha i suoi piaceri. E
questi piaceri torbidi soli questi io ho gustati. No, io mentisco, io calunnio
Iddio che mi si è mostrato padre amoroso, e pietoso sempre, sì sempre. Non fu
solamente beato per me il giorno in cui vidi gli occhi della mia donna, in cui
l'amai, in cui l'ebbi mia, in cui ella mi diede la prima volta un carissimo
figliuolo: non fu solamente beato per me il giorno in cui uscito dal carcere
abbracciai in un gruppo la mia famiglia; no. Iddio benedetto mi ha dato altri
giorni di consolazione che io ingrato dimenticavo. Nei più acerbi dolori ho
sentito una pace ed una serenità di coscienza, che mi ha compensato di ogni
dolore. Gli uomini che sono detti felici nel mondo hanno essi questa pace
serena? Io nol so, perché sono stato sempre infelice, ma io l'ho sentita e la
sento: e però ne ringrazio e lodo Iddio anche nell'ergastolo in cui sono.
O che cosa tremenda è questo ergastolo! che pena
inesplicabilmente tormentosa! Vivere con uomini lordi di tutti i delitti,
vivere sempre con essi, morire tra essi, aver sepoltura comune con essi. Ho
veduto il cimitero. O mio Dio, o padre, o speranza mia, deh, non far che io
muoia nell'ergastolo: che le mie ossa sieno mescolate con le ossa di chi uccise
e rubò, di chi sparse sangue. O mio Dio, fa che gli occhi miei sieno chiusi dai
miei figliuoli. Come l'anima mia può venirti innanzi, se partirassi da questo
inferno di tutti i vizi e di tutti i dolori? Ne uscirò io vivo? e quando?
Questo è pensiero che mi angoscia; ma un pensiero che mi angoscia di più è: ne
uscirò io puro, come vi sono entrato? O uomini crudeli che tormentate il corpo
e contaminate l'anima; perché attentate voi all'anima, che è fattura di Dio,
che è spirito di Dio, che è parte di Dio?
Io ho faticato tutta la vita, ho sostenuto tutte
le privazioni per serbarmi l'anima pura, e voi volete contaminarmela? E sperate
voi di contaminar l'anima mia? Eccovi il corpo, straziatelo, legatelo,
percuotetelo, fatelo a brani, ma l'anima è mia, è dono di Dio e nessuno può
staccarmela né voi avete potere su l'anima mia, anzi essa ha potere su di voi.
O mio Dio, io qui ho bisogno del tuo aiuto: sovvieni alla tua creatura, non
permettere che io contamini l'anima mia.
Io ho letto molti libri di filosofi, ma nessuno
mi ha pienamente contentato, nessuno ha potuto riempire quel vuoto che io
sentiva in me. L'anima mia allora disse così: io penso, dunque v'è Dio, v'è una
cagione del mio pensiero. O mente, o pensiero, o Dio, o cagione di quanto è, se
l'anima mia ti ha così voluto e riconosciuto e sentito, tu l'abbandonerai?
abbandonerai chi ti sente come sente che pensa? Ma perché dubito che egli non
mi abbandoni, se io lo sento, se ha cura della mia famiglia, se ha toccato il
cuore di uomini onesti, ed a me sconosciuti, che han preso pensiero del mio
Raffaele? Io ho detto: che ho fatto per essere tanto infelice? doveva dire: che
ho fatto per pretendere di essere felice? Che cosa onesta io ho dimandato a
Dio, e non ho avuto? Osai dimandargli anche quello che tutti i saggi amano, la
fama: e l'ebbi: ma io voleva averla per opere d'ingegno grande, e Iddio volle
che io l'avessi per dolori grandi. Bisogna adunque che io rispetti il
destinato: ancora coi miei dolori io posso recare utilità agli uomini,
mostrando come si deve sofferirli. O voi che volete sapere come io fo a sofferir
tanto, uditemi: io porto un grave fascio di affanni e di tormenti, io cammino
nel buio e tra precipizi sicuramente, perché ho sempre l’occhio levato al
cielo. O mia cara e sventurata compagna che con minori forze porti fascio più
grave, leva gli occhi di pianto al cielo, né moverli punto dal cielo: colà
voleremo, colà ci troveremo, colà ci ameremo di amore così dolce come fu quello
dei primi giorni delle nostre nozze quando entrambi giovanotti ci amavamo con
tutta l'ebbrezza della gioventù, colà non piangeremo più, colà avremo quella
pace che ci fu negata in terra. E voi, figliuoli miei, o parte della anima mia,
apprendete dai vostri genitori come si deve sofferire. Se il vostro fascio sarà
di dolori, levate gli occhi al cielo: se sarà di piaceri, o cari miei, ei sarà
più difficile a portarsi, vi sarà più grave, e però dovrete con più forza levar
gli occhi in alto, e tenerli fisi in Dio.
11 marzo 1852.