Diario 1854-55
Santo Stefano, 6
febbraio 1854.
Oggi compie il terzo anno che sono giunto
nell'ergastolo: fui condannato a morte il 1° febbraio 1851: mi fu annunziata la
grazia della sola vita la notte fra il tre e il quattro. Era giorno di giovedì
quando giunsi qui, faceva molto freddo, era giorno da un'ora, entrai mentre
s'apriva l'ergastolo: entrai io prima degli altri.
Tre anni sono per me un giorno solo, e brevissimo
e lunghissimo. Mi rivolgo a contemplare con la mente questo tempo non distinto
da avvenimenti e mi par breve: un giorno non è dissimile dall'altro; si vede
sempre lo stesso, si soffre sempre lo stesso. Qui il tempo è come un mare senza
sponde, senza sole, senza luna, senza stelle, immenso ed uno. Molti ergastolani
che sono qui da trent'anni parlando di cose che videro o fecero trent'anni fa,
dicono spesso: “Ultimamente vidi questo, feci quest'altro”. Anch'io dico:
“Ultimamente fui condannato a morte”. Ma quando io contemplo me stesso, e
l'anima mia, e questo povero cuore straziato; quando conto i miei dolori, e
scopro le piaghe profonde che mi vanno sino alla sostanza dell'anima, oh allora
questi tre anni mi paiono un tempo infinito; mi pare ch'io non son vissuto
altro tempo: non ricordo i pochi piaceri e i molti dolori che ebbi prima: i
dolori di questi tre anni immensi son tutta la vita mia. Tre anni: e se dovrò
dir dieci, e venti, e trenta? Io nol dirò, perché non ci vivrò tanto.
Ho il corpo e le vesti sozze: non mi giova uso di
nettezza: il fumo e la sozzura mi rende schifo a me stesso. Ho l'anima anche
sozza, sento tutta la bruttura, l'orrore, il terrore del delitto, e se avessi
rimorso mi crederei anch'io un malvagio. L'anima mi si va guastando, mi pare
che anch'io ho le mani lorde di sangue e di furto: ho dimenticata la virtù e la
bellezza.
O mio Dio, o Dio padre degli sfortunati, o
consolatore di chi soffre, deh salvami l'anima da queste sozzure: e se hai
scritto che io qui debba finire la mia vita dolorosa, deh, fa che venga presto
questa fine. Tu il sai, il dolore non mi spaventa né mi vince: io sopporto la
mia croce, io la trascino anche camminando con le ginocchia per terra: ma io
temo di divenire un malvagio, io temo che l'anima mia diventi scellerata, io
già non la riconosco più. Come io ti verrò innanzi con quest'anima? Richiamami
presto: che fo io più su la terra, anzi su questo scoglio di dolori e di miserie,
grave a me stesso, inutile agli altri? Fammi la grazia della morte, giacché gli
uomini per tormentarmi mi han fatto la grazia della vita.
Omnia perdidimus, tantummodo vita relicta est,
praebeat ut sensum,
materiamque malis.
Io sfido tutta la barbara e la civile crudeltà a
tormentarmi, pestarmi, lacerarmi, dilaniarmi queste fragili membra, questo
corpo debole: eccovi le mani, legatele con le funi e le manette: eccovi i
piedi, stringeteli co' ceppi: saziatevi delle carni e del sangue mio: ma non mi
guastate l'anima mia, l'anima mia son io: sull'anima mia non han potere gli
uomini: una cosa teme l'anima mia, il delitto. Il mondo non lo sa né lo
concepisce, pochissimi lo sanno e lo sentono, che il primo di tutti i dolori
possibili ed immaginabili è vedersi guastare l'anima. E questo dolore sento io
ora: quando nol sentirò più o sarò divenuto malvagio, o sarò morto.
E che ho fatto io per meritare tanti strazi, per
esser mescolato e confuso co' ladri, con gli assassini, co' parricidi? Cristo
agonizzò tre ore fra due ladri, io agonizzo da tre anni fra settecento
scellerati pessimi.
Santo Stefano, 3
marzo (1854).
È un mese da che ho scritto le parole precedenti,
ed a me pare un giorno. Quante cose sono avvenute nel mondo durante questo
mese, quanti uomini sono morti, quanti son nati, quanti piaceri si son goduti,
quante persone conteranno nella loro vita questo mese come felicissimo o
infelicissimo, come un'età, come uno spazio della loro vita. Per me questo
mese, e tutti gli altri passati e gli altri che qui mi troveranno, sono per me
un nome. Che ho fatto io in questo mese? Ho sofferto come negli altri mesi che
furono e che saranno. Ve stato un solo avvenimento, è venuto il marinaio
Colonna a recarmi lettere di mia moglie e della povera mia figliuola Giulietta.
Questo marinaio è per me il misuratore del tempo. E quando egli ritornerà? Oh,
quando potrò riavere l'unica consolazione che mi è rimasta, di vivere col
pensiero un quarto d'ora fuori l'ergastolo leggendo lettere della mia famiglia?
Viene così tardi, ogni venti, venticinque, trenta giorni: io l'aspetto con
un'agonia, con uno struggimento di cuore, guardando il cielo, osservando i
venti, dimandando del mare, facendo tra me il conto, può esser partito da
Napoli, può essere in Ischia, potrebbe far vela, potrebbe venire. Ma ei non
viene, se non di rado: e quando viene bisogna aspettare che il mare non si
turbi, che sia cheto il canale fra Santo Stefano e Ventotene, che egli salga,
che dia le lettere, che queste sieno lette, che ci sieno portate. Quand'egli parte
il cielo mi si oscura per alquanti giorni, poi ricomincio a sperare ad
aspettare, ad agonizzare. Vita di strazi, di stupidità, di dolori senza tempo,
senza regola, senza qualità, senza diversità. Se ci fosse l'inferno ei saria
come l'ergastolo: compagnia diabolica, tormento senza termine, senza speranza,
senza tregua. E questi vizi, queste brutture fisiche e morali, queste oscene e
nefande malvagità, questi delitti atroci e bestiali non bruciano l'anima più
che il fuoco? E che altro potrebbe essere il fuoco dell'anima se non il
delitto? Misero a me! dove vado con la mente? Non vi saria dunque un castigo
alle iniquità di questa vita? E perché io soffero? e perché tanti uomini hanno
sofferto prima di me e per tutta la loro vita? Gloria, sapere, potere, tutto è
niente, tutto è ombra fuggevole: nel gran vuoto dell'universo esiste una sola
cosa, la coscienza dell'uomo, nella quale esiste la virtù. Io ora sono come uno
di quegli aeroliti che vanno vagando negli spazi immensi dell'universo, finché
avvicinati ed attirati da un pianeta o dalla nostra terra, vi cadono. Tutto è
vuoto e niente intorno a me, io non ho meco che i miei pensieri stanchi: le
memorie della vita passata sono come le stelle lontane da noi milioni di
milioni di miglia, e le quali spesso si celano interamente al nostro sguardo
quando l'atmosfera è carica di vapori: intorno a me non v'è luce: io vo notando
negl'immensi ed opachi silenzi del niente; non sento che l'io, che la
mia coscienza. Quando incontrerò un dove cadere ed aver pace? Questa solitudine
mi spaventa assai; onde talvolta io parlo con questi che mi circondano, e cerco
veramente di fuggire da' miei pensieri.
Il volgo a me nemico ed odioso
(chi il crederia ?) per mio rifugio io chero:
tal paura ho di ritrovarmi solo!
PETRARCA
E che volgo è quello che io chero! Spesso
mi passo la mano forte forte su la fronte, e nei capelli per smuovere, scuotere
il cervello, e quasi fisicamente scacciarmi dalla mente certi pensieri obbliqui
che mi lacerano come acuti coltelli la vita, che in me pensa e sente. Spesso
con un ciabattino che è allogato vicino a me, col letto suo vicino al mio, e
che siede a tirar lo spago innanzi al suo bischetto mentre io scrivo e penso e
fantastico seduto presso le tavole del mio letto, spesso io parlo con lui di
scarpe, di ciabatte, di suola, di pelli, e riguardo stupidamente i molti e
sudici strumenti della sua arte.
Santo Stefano, 5
marzo (1854).
Dopo tre mesi che giunsi nell'ergastolo ne feci
una descrizione, che non so se sia andata perduta, come son perdute tante altre
carte che ho scritte. Io scrivo perché scrivendo il duol si disacerba, perché
ho bisogno di scrivere; e s'io non scrivo, non vivo. Che orrore e che tremore
io sentivo allora vedendomi in questo luogo e tra questi uomini: come
raccapricciavo ad udire raccontare da fiere bocche fierissime uccisioni,
descrivere i colpi di coltello, l'assalire, il ferire, il morire; come
inorridivo al veder le continue risse, e le spesse uccisioni! Ho veduto versar
tanto sangue, far tante scellerataggini, ho udito da tre anni parlar di tanti
delitti, che ora vedo ed odo ogni cosa freddamente: l'anima mi si è incallita,
non sento più orrore pel delitto, misero a me, che mi manca per essere anch'io
uno scellerato? O madre mia, o padre mio, deh venite a salvare il figliuol
vostro: vedete, o anime benedette e carissime, vedete tra quali orrori io son
caduto: pregate Iddio innanzi al quale ora siete, che abbia pietà dell'anima
mia, che la sciolga da questo corpo, che non la faccia più insozzare in questa
putrida cloaca di sangue e di misfatti. E voi, o carissime immagini della
pudica e dolente moglie mia, di quella angioletta della mia Giulia, e del mio
Raffaele, venite innanzi a me, fate che io vi rimiri, e mi santifichi questi
occhi, co' quali non vedo altro che orrori nefandi. Dove sono gli occhi tuoi, o
Gigia mia, il tuo sorriso, le tue parole che mi scendevano sì soavi al cuore?
Povera compagna della vita mia e delle sventure mie, dove sono i nostri
figliuoli che un dì ci stavano intorno? Io mi poneva Raffaele sopra un
ginocchio, e Giulia sopra un altro, e li abbracciava e diceva loro tante parole
care e tante altre ne udivo da essi: tu ci guardavi tutti e tre, udivi, e
tacitamente godevi rimirando tuo marito e i tuoi figliuoli. Dov'è la pace, la
serenità, la innocenza della nostra famigliuola? Tutto è svanito e non tornerà
più. I nostri figliuoli son cresciuti fra i dolori, non ricordano altro che
sventure. Raffaele ancora fanciullo ha dovuto esulare dal suo paese, dove il
padre fu dannato a morte;ed ora va vagando sull'oceano ai lidi delle Americhe,
e da quelle lontane regioni, ed in mezzo al flutti ed alle burrasche egli manda
un sospiro ed un pensiero al padre suo sepolto nell'ergastolo, alla madre sua
ed alla sorella, due donne sole, derelitte, dimenticate dal mondo. Mandiamo la
nostra Benedizione al figliuol nostro. Iddio lo protegga, Iddio lo difenda,
Iddio lo benedica come lo benediciamo noi.
Ora qui è cominciato il passaggio degli uccelli:
e quasi ogni dì io vedo in quello spazio di cielo che ricopre l'ergastolo
passare stuolo di grandi e di piccoli uccelli. Oh quanto io invidio le ali ad
una rondine, ad una lodoletta, ad una tortorella! Se io avessi le ali, io
volerei senza stancarmi mai, e saprei trovare la nave che porta il figliuolo
mio diletto: mi poserei sovra un'antenna e lo riguarderei. Vorrei vedere quanto
è cresciuto, come ha abbronzata la faccia al sole ed al mare, vorrei udirlo
parlare, guardarlo negli occhi per sapere che fa e che sente.
Spesso quando il tramonto è sereno ed io con gli
altri sette, che son meco nello stesso covile, sono chiuso, mi siedo e volgo
gli occhi alla piccola e bassa finestra ferrata. A quest'ora io taccio, e
malinconicamente guardo il cielo a traverso i ferri, e nel cielo vedo una
stella bellissima e lucente, nella quale io fisso lo sguardo, e il pensiero, e
l'anima. Parmi talora che io voli a lei, e talora che ella venga a me, che io
le parli, che ella mi sorrida col sorriso del mio Raffaele, e Raffaele mio che
mi parla; così vivi, così lucenti splendevano gli occhi suoi. Quante cose io
dico a quella stella, al mio Raffaele, il quale parmi che mi si avvicini,
prenda i ferri con la mano, e mi dica: “Beneditemi, o padre mio”: ed io lo
benedico. La stella tramonta, e s'accende il lume, si chiude la finestra, ed io
scrivo quello che vado fantasticando dolorosamente.
Santo Stefano, 7
marzo (1854).
Cinquantadue anni prima di me fu in Santo Stefano
anche mio padre nel 1799. In quale di queste novantanove celle stette il povero
mio padre? Oh, se lo sapessi, vorrei baciare quel luogo, vorrei occupare io
quel luogo dove mio padre penò quattordici mesi, ed ivi pregare più
affettuosamente da Dio la pace de' giusti a quella cara anima. Pensava egli
allora che cinquantadue anni dopo verrebbe qui un figliuolo, che gli nascerebbe
nel 1813?
Santo Stefano, 9
marzo (1854).
In una cella di sedici palmi ogni lato, siamo
otto prigionieri, tre politici, e cinque comuni. I tre politici siamo Silvio,
io, e un povero giovane siciliano il quale combattendo in Calabria ebbe portato
via da una palla un occhio, la parte superiore del naso, e più che la metà del
senno, di cui prima aveva anche poco. Dei comuni il primo (io li dipingo
secondo i posti che hanno nella stanza) è un contadino abruzzese di un paesello
del Chietino, un ometto grigio, con certi occhiuzzi neri, lucenti e maliziosi,
con un naso come tromba pel quale è chiamato Nasone, con una voce stridula e
fendente tartaglia strane parole del suo dialetto: avaro, sudicio, schifo oltre
ogni dire, ha un letto che sarebbe onorato se fosse chiamato canile: presta
danari ad usura, come i più fanno, e ne raschia anche l'untume: serba il
tabacco in una pina selvaggia scavata, e di tanto in tanto ne versa un tantino
sul dorso della mano, vi pone su il trombone e tira. È da venticinque anni
nell'ergastolo per molti furti con ferite ed un omicidio, commessi con altri
compagni, che sono anche qui ma in altre stanze. Avendo serbata buona condotta
egli spera che compiuti trent'anni sarà libero, come già molti altri: e questo
pensiero lo fa stare in una lieta stupidità, e beffare gli altri ergastolani, i
quali perché dannati a morte ed aggraziati non hanno questa speranza.
Il secondo è un altro contadino abruzzese del
contado di Chieti, di sessantaquattro anni, secco asciutto, senza barba, con
l'aria, il contegno, il sussiego, la cravatta, e le labbra strette del giudice
criminale Scudieri suo parente, il quale, mettendo da banda i costumi, era un
gran legista perché sapeva leggere e scrivere con pochi errori, e citare gli
articoli del codice senza sbagliarne i numeri. Io dunque gli ho messo nome il
giudice, e però è poco, perché a vederlo e a udirlo parlare è un uomo di grande
affare, un de' più nuovi matti ch'io m'abbia veduto. Non sogna e non parla
d'altro che di grandezze, di signori, di feste, di belle donne, di piaceri:
dice, e lo crede, che ha nascosti millecentotredici ducati, in monete d'oro e
di argento, ed or li seppellisce sotto una ficaia, ora a pie d'un muro, ora li
mura nella parete d'una casa, ora li mette in una pentola di rame venti palmi
sotterra. Da un altro ergastolano si ha fatto dipingere o meglio imbrattare
sopra una carta la pianta di un gran podere con in mezzo un casino: nel podere
un colore segna l'oliveto, uno il vigneto, un altro il seminatorio, un altro
l'orto: nel casino vorrebbe far vedere il disegno di poche stanze, di una gran
cantina, gran pollaio, grandissima cucina. Mostra a tutti quella carta, e dice
che dovrà fare quel ch'egli ha designato. Non sa leggere né scrivere, e parla
di politica, di re, di popoli, di tutto: udendo leggere i giornali ricorda ogni
cosa: e quando udiva qualche caso strano accaduto nella Cina, in Africa, o in
America, la notizia di una scoperta, l'annunzio di un disastro avvenuto per
fame, freddo, o incursione di belva, un fatto insomma che lo colpiva, tosto
spendeva pochi quattrini per farsi copiare l'articolo: così ha fatto due buoni
volumi, che gli costano buoni danari, e che egli, il mio giudice, voleva far
stampare e mettervi in fronte il suo nome, Rosario Peca. Dove s'è andata a
ficcare la smania di parere scrittore! Il suo letto è alto da terra sette
palmi, e poggia sovra due bastoni di legno conficcati nel muro, e sostenuti
all'altro capo da due altri bastoni a guisa di colonne. Sotto questa specie di
tettoia egli stassene poche volte. Più spesso sta appollaiato su, e di là in un
atteggiamento che pare serio, guarda con una sorte di disprezzo le cose e le
persone che stanno in basso, di lassù parla, ma perché ha una parlantina
entrante, acuta, continua e noiosissima spesso gli è rotta la parola in bocca
dagli altri, ed egli parla tra sé come femminella che borbotta, o come prete
che si rode l'uffizio. Se talora, o io, o Silvio, o altri gli andiamo un po' a
verso, e gli diam ragione per quello che ei dice, il che suole accadere la sera
in sul tardi quando egli è coricato, si leva nudo a mezzo il letto e parla e
mena le mani, e si riscalda, e in fine si pone a sedere con le gambe spenzolate
e nude; come Socrate che giaceva, e parlando dell'immortalità dell'anima si pose
a sedere su la sponda del letto. È poverissimo, ma non sudicio, pieno di
debiti, spesso senza neppure il pane tra perché spende in cose che non sono
necessarie se non alla sua vanità, e perché ha dato malleveria e protezione a
certi ergastolani che sono nati in condizione gentile, i quali furbi e tristi,
veduto il nuovo pesce, lo carezzano, lo ravviluppano, lo spogliano, ed egli un
poco se ne sdegna, un poco li compatisce e sempre si compiace di aiutare e
proteggere galantuomini. Fu condannato a morte per omicidio e furto, per grazia
venne nell'ergastolo, dove è da ventinove anni, donde non spera di uscirne come
il Nasone per grazia, ma per un rivolgimento del mondo, che accaderà nel modo
che egli immagina; e poi quando sarà libero si prenderà quei suoi denari
sepolti, torrà moglie giovane, si fabbricherà una casa, e non si occuperà di
altro che di nutrire in una grande aia un'immensa quantità di galline, di
tacchini, di papere, di anitre, di pavoni e di ogni maniera di polli. Chi non
fa i suoi sogni? chi non ha le sue speranze? Anch'io fo i sogni miei, ed ho le
mie speranze in questo sepolcro dov'è morta ogni speranza!
Santo Stefano, 22
marzo (1854).
Che ho fatto io in questi dodici giorni? Niente
se non sofferire e nell'anima stanca, e nel corpo stanchissimo. Ogni cosa mi è
grave, mi fa dolore, mi spossa: vorrei non pensare, e credo che la morte non
debba essere quella mala cosa che tutti la tengono, perché in essa non v'è il
pensiero, non v'è la coscienza di essere, non v'è il sentimento del dolore. La morte
fa paura; e a me fa paura la vita, e troverei un po' di quiete nel nulla donde
sono uscito, e dove ritornerò dopo di aver valicato un mare di dolori e di
miserie senza numero e senza modo. Io fo come Giobbe, mi siedo sul mio
letamaio, scopro le mie piaghe e le riguardo, vedo i vermi e la pudredine che
mi rodono, e nell'amarezza del dolore involvo sententiam meam sermonibus imperitis. Io non so che mi dico, e spesso il dolore mi fa
la lingua bugiarda. Ma seguitiamo a dipingere i compagni della mia cella.
Il terzo è un omiciattolino di civile condizione,
nato in un paesetto presso Napoli, e carcerato fin da quando era giovinetto di
sedici anni. Bruno, acceso, butterato, facile ad infiammarsi come un
solfanello, giuocatore, bevitore, pronto e veloce come una vespa, con certo
buon senno, con alquanto garbo di maniere, ed ora per l'età e i patimenti meno
stizzoso. Uccise un prepotente che, essendo congiunto del ministro Delcarretto,
perseguitava lui e suo padre: e fu condannato a venticinque anni di ferri: in
carcere fece il camorrista, uccise un altro, ed ebbe altra pena di ventidue
anni di ferri nel presidio. Due pene cumulate che oltrepassano i trent'anni si
espiano nell'ergastolo: egli è qui da ventidue anni: e non desidera, non sogna,
non chiede altro che andare ad espiare nel presidio la seconda pena. Ventidue
di ferri nel presidio gli sembrano un paradiso a petto dell'ergastolo perpetuo!
Costui del mondo conosce quello che un uomo onesto conosce della galera: dice
che gli pare d'essere nato in carcere: non parla che di carcere e di carcerati,
o del suo vecchio padre, unica persona del mondo a cui egli è legato di
affetto. Vende, compera, va, viene, non trova posa, ha sempre faccende per
mano, fa servigi a tutti, fa conti, legge, e se talora trova dipinto in un
romanzo qualche scellerato, egli lo abborrisce, si sdegna, e con terribili
parole dice che saria stato bene a punirlo con una brava coltellata. Nel cuore
anche dei tristi è il sentimento d'una giustizia, la quale essi vogliono per
gli altri, e non per sé e a modo loro.
Il quarto è un bestione,
rosso di peli, con tre denti in bocca, che per omicidio e furto è qui da
ventitré anni: è di un paese di Terra di Lavoro. Costui fa qualche servigio a
Silvio ed a me: a me pochissimi, perché io amo farmi ogni cosa da me, e sento
un certo orrore a riguardare le mani di costoro. Io vo superbo che in certo
modo basto a me stesso, e non ho bisogno d'altri che in poche e piccole cose.
Per qualche mese il giudice ci faceva i servigi, ma voleva parlar molto,
moltissimo, voleva fare quello che voleva e a modo suo, e con le parole si
sforzava dimostrare che faceva benissimo: spesso doveva fare io servigi a lui.
Ora il poveretto ci fa anche egli qualche servigetto, e contiene la lingua
quanto può: ma spesso la scatta, e corre velocissima come la molla che rompesi
in un orologio.
Il quinto è il calzolaio. Nato in un villaggetto appiè del Matese, ha il
sangue, la fierezza, la durezza d'un antico Sannita. Il lavoro che santifica tutto,
e la presenza di uomini che parlano di virtù han fatto aprire gli occhi a
questo sciagurato, che certo non nacque per essere un ribaldo, perché ora
conosce i suoi errori, e li piange maledicendo chi non lo educò, uno zio che lo
menò alla via della perdizione, e i cattivi compagni. Quest'uomo che a
quarantaquattro anni ha i capelli grigi, serba tutta la forza e la gagliardia
di un giovanotto: e racconta i vari e poetici casi della sua vita con una
ruvida espressione poetica che è impossibile ritrarre, con gesti e tuono di
voce terribili ma non dispiacevoli. Garzoncello, ei custodiva, come suo padre,
le torme di cavalli del duca di Laurenzana: un suo zio materno, tristo
bravaccio ed astuto ladro, veduta l'indole svegliata del giovanetto, lo prese
ad allettare, a menar seco, a fargli parte de' suoi ladronecci e in fine gli
pose una carabina in mano. Pasquale non sapeva come usarla, moriva di voglia di
vederne gli effetti; e una sera, per uno scherzo, per una curiosità, dice egli,
per una pazzia, la volse alla finestra della casa della sua innamorata, e
sparò: la palla entrata per la finestra percosse nel muro dirimpetto due palmi
sovra il letto dove dormiva la povera giovane con due sorelle. Egli viste le
genti levate a rumore, corre a nascondere la carabina, tornò al luogo dove
aveva fatta quella pazzia, e si pentì d'aver dato per nulla tanto spavento alla
donna amata ed alla sua famiglia, che facevano mille congetture, e non seppero
mai il vero. Per un caso strano egli amò questa fanciulla che si chiamava
Lucia. Una notte lo zio lo condusse a fare una serenata con altri giovinastri
del villaggio tutti armati come si suole. Messe le poste alle cantonate, si
cominciò a sonare e a cantare: ma ecco da una banda un fischio, segno che
veniva qualcuno: lo zio che faceva da caporione va a quella banda, accenna con
la mano a tutti di starsi, tacere, non temere; tutti obbedirono e videro
passare in camicia bianca e tutta nuda e scalza una donzella con un barile in
capo. Lo zio con un cenno imperioso fece andar via tutti, ed egli col nipote
tenne dietro alla fanciulla ch'era sonnambula, e figliuola di onesti genitori.
Ella leggiera e bellissima, come dice Pasquale, andò alla fontana che è fuori
il paesello, riempì il barile, se lo ripose in capo, e s'avviò per tornare, ma
per caso inciampò in una pietra e cadde. Svegliatasi in quel luogo e a
quell'ora mise un grido di spavento: Pasquale le si avvicinò e la ricoprì col
suo mantello: lo zio le fece animo, le disse che ella era sonnambula: “Non
dubitare di noi, ritorna a casa, noi ti accompagneremo e ti guarderemo”. La
poveretta non fiatò più, si chiuse nel mantello, e per la via più breve si
ridusse a casa; dove entrata per la porta che ella stessa aveva rimasa
socchiusa con un altissimo grido disse: “Mamma mia”. La madre, il padre, la
famiglia si levarono uscirono nella via, seppero il caso, raccomandarono al zio
di non parlare, e di far tacere il nipote, che per carità non dicessero quella
vergogna d'una fanciulla onesta. Lo zio promise tutto, e accennando a Pasquale
disse: “Se questi parla gli taglio la testa”. Quella notte Pasquale non poté
più dormire, e pensò sempre a Lucia: la quale dipoi quando lo vedeva si faceva
rossa in viso come una vampa di fuoco. Felice Pasquale se avesse sposata quella
buona fanciulla, che poi lo amò teneramente, perché non poté mai dimenticare
quel mantello che la ricoprì quella notte; felice lui, se si fosse inebbriato
solamente d'amore! Che pietà mi desta costui quando parla di Lucia, e me la
dipinge bella ed amorosa, e quasi gli spuntano le lagrime ricordandosi come
ella lo ha visitato nel carcere e nella galera, e per molto tempo non ha voluto
maritarsi per serbargli la fede che gli aveva data, e dalla quale egli l'ha
disciolta. Più dell'amore fu forte in lui la malvagia usanza dello zio e del
compagni: i quali lo trascinarono al furto, e poi ad un omicidio, e poi al
carcere, alla condanna di morte che gli fu commutata in trent'anni di ferri. In
galera Pasquale fu camorrista, diede ed ebbe di brave coltellate, imparò l'arte
del calzolaio, mediante la quale usciva dal bagno e andava per la città di
Capua incatenato con un compagno accompagnato da un custode. Un dì egli ed il
compagno legarono ed imbavagliarono il custode, si sciolsero la catena e
fuggirono nella provincia di Avellino, dove menarono vita di briganti, armati
rubarono, scorsero la campagna, stettero ai servigi di un signore prepotente.
Dopo otto mesi Pasquale tornò al suo paesello per vedere la sua Lucia, le
sorelle, ed il fratello che si era impadronito di tutta la roba sua, e più non
gliene aveva voluto dare: ma quella notte che vi entrò, il fratello chiamò i
gendarmi, e fece riprendere il forzato fuggito. E così ebbe pena gli altri otto
anni, ed è nell'ergastolo. Da che io son venuto in questa stanza mi ho fatto
fare le scarpe da lui, gli ho dato qualche consiglio per farle bene, l'ho
predicato come buon calzolaio, ho mandato a comperargli cuoia e pelli, l'ho
persuaso che il lavoro onora l'uomo e lava il delitto, che egli deve perdonare
al fratello: ed egli ora di ciabattino, è divenuto calzolaio, fa scarpe a tutti
i politici, a tutti gl'impiegati dell'ergastolo, ha un po' di capitale, grande
amore alla fatica, e ne vede lieto i frutti, ha perdonato al fratello. Mentre
io scrivo queste parole egli mi sta vicino, seduto innanzi al suo bischetto, e
tira lo spago: né potrebbe mai immaginare che io scrivo di lui, e della sua
bella Lucia.
Santo Stefano, 24 marzo (1854).
Da otto mesi ho preso a voltare dal greco in
italiano le opere di Luciano. Io ero pochissimo intendente di greco, ed ora non
ne so più di prima; ché la memoria mi si va spegnendo, e tutte le forze
dell'anima me le sento e me le vedo intisichire ogni giorno. Nella mente non
entra niente più, e se v'entra non vi fa colpo, non vi rimane. Un lavoro di
composizione mi sarebbe impossibile, e da tanto tempo io non sento più la dolce
febbre della composizione, che si chiama estro ed è rapimento soave dell'anima.
Un'altra febbre mi consuma e mi lima la vita. Per non perdere affatto l'uso di
scrivere italiano, per impratichirmi del greco, e per una certa simpatia che ho
avuto sempre col leggiadrissimo Luciano, mi determinai a farlo italiano e di
prendere una fatica immensa, una fatica da vero galeotto. Ho il testo nudo,
senza neppure una virgola di note o di dichiarazioni: quattro volumetti,
edizione di Lipsia: ho un vocabolarietto manuale greco-latino, anche edizione
di Lipsia: ed una grammatica greca ad uso del seminario di Padova, nella quale
già studiò il mio Raffaele, che scrisse il suo nome su la coperta. Con questi
tre libretti ho avuto il disperato ardire di mettermi non dico a tradurre ma a
lottare con uno scrittor greco mirabile per eleganza, e per una tale facilità
che è difficoltà spinosissima a chi intende. La fortuna mi è stata sempre
nemica spietata ed implacabile, che m'ha tenuto stretto nelle sue tanaglie:
spesso avrei molto da dire, e mi manca la parola facile: avrei voluto vedere il
mondo, e non ho potuto mai partirmi del nido: avrei desiderato libri per
pascere almeno la mente avidissima. A questa mia nemica io oppongo il mio
coraggio, ma non basto: posso resistere come tetragono ai suoi colpi, ma
vincerla no. Dovrò cadere certamente: cadessi almeno come gli eroi della poesia
greca che soccombevano al fato, e cadevano gloriosamente! La gloria non mi fu
destinata: io nacqui solamente per patire. Chi sa se potrò compiere questa mia
pesantissima fatica e se compiutala, avrà la sorte di riuscire buona e di darmi
un po' di fama? E che fama sarà quella di buon traduttore? E chi saprà quanto
mi costa, come l'ho fatta, con quali mezzi, in qual luogo, tra quali spasimi?
Che importa di tutto questo al leggitori, i quali riguardano solo all'opera, e
non vogliono saper come è fatta? Ma e che importa a me de' leggitori, della
fama, e del mondo? Se ho perduto ogni cosa, se mi hanno tolto la pace, la
famiglia, l'aria, il moto, il cielo, e m'han gettato in un sepolcro, debbo io
serbare ancora illusioni, e cercar la gloria che è l'ultima camicia di cui
si spoglia il savio, come fu detto? Fo questa fatica per occupare la mente
e non farla inselvatichire stupidamente: l'occupazione mi giova, perché mi fa
sentir meno l'ergastolo: dunque la fo per me: se la gioverà anche agli altri,
mi piacerà di aver giovato agli altri anche dal luogo dove io sono: se no,
tanto meglio, avrò giovato a me solo.
Ma pognamo che io faccia una buona traduzione, avrò io fatto bene a
vestire all'italiana un greco che non credeva a nulla e si rideva di ogni cosa,
e, come alcuni lo chiamano, un empio beffatore? Una traduzione di Luciano
(ponendo da banda le cose che offendono il pudore e i costumi presenti) sarebbe
ella un'opera utile, non dico per la leggiadria dello stile, ma per
l'importanza della materia? Di questo voglio discorrere più ad agio.
Santo Stefano, 12 aprile (1854).
Chi mi porta su la collina di Posillipo, in quel
mio vago giardino tutto fiorito di rose, e profumato dal soave odore della
magnolia? Chi mi ridona di potere di là salutare il sole che il mattino si leva
dal Vesuvio, come giovane innamorato, e riguarda la città che come bellissima
donzella sovra un letto di verdura, posa il capo alla collina e stende i piedi
sino al mare? Perché più non lo saluto quando si nasconde dietro Miseno, e pare
addolorato che non seguita a rimirare tanta bellezza? Non vedo più i campi
sparsi di case che fumano in su la sera; non odo la canzone villereccia che dal
fondo della valle saliva liquida e soave sino all'altura; non mi viene
all'anima il canto dell'usignolo nella pace della sera. Dove sono i miei
figliuoletti che mi ruzzavano intorno, e la donna mia che meco passeggiava al
chiaror della luna? Come odorava la terra, l'erba, gli alberi, i fiori! che
soave brezza veniva dal mare, nel quale come in uno specchio d'argento, si
mirava dubbiosa la luna! Dopo le lunghe fatiche della giornata che dolcezza era
per me montar la collina, entrar nel podere, udire il latrato di Turco il cane
del colono, fare un fischio, udirmi rispondere “papà” da due care vocine, e
correndo tra gli alberi venirmi incontro i due figliuoli miei, baciarmi,
dimandarmi se avessi portato loro qualche cosa e prendendomi uno da una mano
una dall'altra, giungere presso alla casina, dove la mia Gigia dal balcone
m'aspettava e mi salutava con un sorriso d'amore. Il sole seguita ad illuminare
quella collina, ma non vi trova più la mia famigliuola, il mio cuore che lo
salutava con tanto affetto, gli occhi miei che lo miravano con tanta gioia,
l'anima mia che volando si riposava in lui, e poi saliva sino a Dio. Quella
terra e quei campi sono ancora belli di erbe, di fiori; quell'aere ancora
olezza; ma chi vi vide, come vi vedeva io, passeggiare ninfe e sirene e
lievissimi spiriti? chi sente risonare in quell'aere una poetica melodia, un
inno d'ineffabile dolcezza? chi va ad adorare la tomba di Virgilio, e
sfogliando le rose e spargendovele sopra, vi ripete quei cari versi? Spargite humum
foliis? chi vi aspetta zefiro
che tornando da lontane contrade rabbellisce la terra di erbe, di fiori e di
mille soavità d'odori, e poi che l'ha abbigliata come giovane sposa la
vezzeggia e la bacia con l'alito delle aurette e coi lievi sussurri, mentre gli
uccelli venuti con lui da lontani lidi gli cantano con tante voci la canzone
delle nozze? O uccelli che passate per questo spazio di cielo che ricopre
l'ergastolo, e non vi curate de' dolori che qui sono, o fortunati uccelli, andate
su quel colle, che non trovereste altrove più bei verde, più sereno aere, più
dolce riposo: là fatevi il nido, ed allevate i figliuoli vostri, come io
v'allevava i miei. O mesto usignuolo, va su la tomba del tuo poeta, dove è
l'ombra di un alloro, appiccavi il nido, che là nessuno aratore ti strapperà
gl'implumi figliuoletti, e tu non piangerai, ma canterai d'amore, ed il tuo
canto parrà forse a qualche anima il canto del poeta. Ma tu lo conosci quel
luogo, o mesto usignuolo, tu più volte hai fatto il nido sopra gli alberi
vicino alla tomba, e forse tu fosti quello che con la melodia del tuo canto
rapisti tutte le potenze dell'anima mia, e mi facesti credere di vedere la
romana ombra del poeta andar lieve vagolando sul pendio della collina, ed io andargli
incontro reverente, e salutarlo nel latino idioma, e nell'italiano con le
parole di Dante:
“Oh se' tu quel Virgilio; quella fonte
che spande di saper si largo fiume?”
risposi lui con vergognosa fronte.
“O degli altri poeti onore e lume
valgami il lungo studio e il grande amore
che m'han fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro, e 'l mio autore”.
Io l'ho veduto ne' deliri della mia fervida
giovinezza, io l'ho veduta l'ombra del gran poeta, e le ho parlato, e ne ho
avuto un sorriso: io non mentisco, io l'ho veduta, e le ho parlato davvero.
Ancora me ne ricorda, ancora ho innanzi agli occhi quelle onorate sembianze,
ancor mi suonano dentro il cuore le sue parole di gravità soave. Oh, chi mi
ritorna ai delirii della mia giovinezza, chi mi ridona un sol giorno della
primavera della mia vita? O fortunato inglese che riposi presso la tomba di
quel poeta 3; come è bello il dormire a canto a Virgilio! Oh potessi
anch'io passare in quel luogo questa carne travagliata e queste ossa, vorrei pure
morir presto e non indugiarmi d'un giorno. Chi è sepolto colà deve certamente
avere anche sotterra qualche sentimento, qualche amore, qualche idea, qualche
fantasia: perché quella terra non è terra bruta, ma è viva e palpitante, e
quasi parla e canta. Ahi misero me! Dove io vedo spalancata la fossa per me?
qui: in una fossa cogli assassini e i parricidi. Ahi strazio crudele! oh
disperazione! Deh voi, che siete nemici della vita e della mente mia, che
m'odiate vivo, non siate crudeli anche con un morto, rendete le mie ossa ad una
mano amica, che le poserà in un angolo remoto di quella terra.
Non vedo il mare, non vedo la terra, vedo solamente tanto spazio di cielo
quanto ne ricopre l'ergastolo, e pur nell'aria che va facendosi tiepida e nel
cielo purissimo io sento e ricordo il ritorno della quarta primavera che qui mi
ritrova.
Ah perché non
distendon le nubi
su l'ergastolo un
funebre velo?
Perché tanto sorriso
di cielo
su lo scoglio del vile
dolor?
Santo Stefano, 17 aprile (1854).
Ho baciato il tuo ritratto, o mia diletta, ma
l'ho baciato segretamente. Gli uomini tra cui sono, se m'avessero veduto
m'avrebbero deriso, perché non conoscono la virtù e l'amore. Che nuovo tormento
è questo di dover tenere celato come delitto il più sacro, il più casto degli
affetti? Ho baciato il tuo ritratto, ho riveduto gli occhi tuoi, ma non son
dessi, non hanno quella luce e quell'amore. Gli occhi tuoi li ho qui nell'anima
mia, e qui scintillano come due stelle, e mi spandono una luce soave per tutta l'anima.
Quanto mi sarebbe necessario rivedere ogni giorno la tua immagine, per chetarmi
un po' l'anima conturbata dal continuo e permanente spettacolo d'ogni bruttezza
fisica e morale! Quanto vorrei esser solo anche in una segreta per poter
abbandonarmi alla fantasia, venire vicino a te, e chiamarti per nome! Oh il tuo
nome qui nol profferisco mai, perché mi parrebbe di contaminarlo.
Sai che mi ritorna
sempre a mente? Il primo sguardo tuo quand'io ti vidi la prima volta e t'amai,
la prima parola che tu mi dicesti. Era l'aprile del 1834: io aveva ventun'anno,
tu sedici. Che amore! che ebbrezza! quant'era bello il mondo! quanto sereno il
cielo! come suonava la voce tua, come splendevano gli occhi tuoi! che divina
bellezza ti dipingeva tutta la persona! Io ne ricordo, e ancor tremo e palpito
d'amore. Sì, tu sei ancor quella, gli occhi tuoi hanno la stessa luce, le tue
parole la stessa melodia: io t'amo con la stessa caldezza, benché passati
tant'anni e tante sventure. Ricordi tu quel bacio, il primo bacio che io ti
diedi quella sera! Oh, perché mi dicesti che m'amavi? Povera fanciulla, angelo
di bellezza e d'innocenza, tu non sai quante lagrime e quanti dolori tu avrai
per questo giovane sfortunato, cui dài l'amor tuo: non amarlo... No, no, amami
o angelo consolatore, perché Iddio t'ha creata per amare e consolare una
sventura.
Se alcuno leggesse queste parole che io scrivo certo riderebbe di me e
del mio amore. Ma tu, non ne riderai tu, o diletta mia. Chi non ha sofferto
come noi, non può intenderci, non capisce che la sventura accresce ed affina
l'amore. Oh, se questo amor nostro è una dolcezza inesplicabile, è un balsamo
soave sull'anima lacerata, è una luce, è una armonia che ci fa pure
sopportabile questa sventura, ringraziamo il sommo Iddio che ci ha dato la
sventura e l'amore.
17 settembre 1854.
Tra le ventidue persone che per causa politica sono state dalla fortuna
gettate meco all'ergastolo, è un giovane albanese di Calabria, nato a Civita,
paesello della provincia di Cosenza. Voglio parlare di lui per consolarmi e per
riposarmi; perché l'anima mia è stanca di contemplare tanta oscena bruttezza di
uomini e di cose.
Nel collegio italo-greco di San Demetrio stette egli sino a venti anni
sotto quella stolida disciplina che si chiama e si crede educazione. Volevano
farlo prete, ma vedendone l'indole troppo ardita, e certe scapataggini
d'amorazzi, gli lasciarono scegliere una professione, ed egli scelse quella del
notaio. Per apprenderla andò in Castrovillari paese distante un otto miglia dal
suo villaggio; e quivi si diede a studiar legge e a far versi e l'amore. Aveva
ventidue anni, ingegno vivido e poetico, cuore caldissimo e saldo, e non era
ancora uscito dal nido quando venne il 1848, anno di tanta vita e di tante
speranze: ed egli che da giovane amava la libertà per istinto d'animo generoso,
e per averla veduta dipinta così bella nei libri dei greci e dei romani, sentì
che una ignota potenza gli sollevava il cuore e la mente. La Calabria nel
giugno di quell'anno si levò in armi: ed egli preso il moschetto chiamò a
seguirlo diciassette albanesi del suo paesello; andò ad accamparsi a
Campotenese, e quando si dové combattere, combatté da prode, da leone, come si
combatté a Maratona, col coraggio di Cinegiro. Animoso spensierato, sicuro che
tutti gli altri avevano il cuore suo, si avanza solo, non ode chi gli grida di
ritirarsi, combatte fra le palle che gli fischiano intorno e sollevano un
nugolo di polvere. Ora disteso boccone a terra, ora dietro un albero, ei solo
tien fronte a cinquanta nemici irritati e meravigliati di tanto ardire. Due
soldati non visti lo assaltano di fianco, gli scaricano due fucilate, una palla
gli porta via il moschetto e il dito indice della mano destra, gli vanno sopra
per trapassarlo con le baionette; ma egli, benché disarmato e ferito,
slanciasi, afferra con le mani le due baionette, le separa, le svia, e abbranca
uno dei soldati per farsene scudo, e non morir solo. Sovraggiungono gli altri,
che gli danno vari colpi in testa, sulla fronte, in una natica; e l'avrebbero
disonestamente ucciso, se un caporale da lui ferito in una gamba, non l'avesse
generosamente salvato e frenata l'ira soldatesca.
Mutilato e sanguinoso, è
trascinato in Castrovillari: e risanato dalle ferite, dopo due mesi, è gettato
nel carcere di Cosenza; dove sempre lieto, sempre confidente, cantava, poetava,
occhieggiava quante donne si volgevano al suo canto. Interrogato dal giudice,
disse schiettamente il fatto com'era andato; e ripreso dall'avvocato che quella
schiettezza lo perderebbe, rispose: “Oh era meglio mentire e disonorarmi?” La
prima causa politica trattata innanzi la corte criminale di Cosenza, fu la
causa sua e di Giovanni Pollara, giovane palermitano, al quale in un altro
combattimento una palla tolse un occhio e metà del naso: ed ambedue furono
dannati a morte. Con la scure sul collo, in mezzo ai più fecciosi assassini e
nel più scellerato carcere, egli sperava, confidava, rideva, cantava,
verseggiava, folleggiava giovanilmente e si compiaceva del dispetto che si
avevano coloro che avevano pensato di atterrirlo. Dopo dieci mesi venne la
generosa grazia ad entrambi; e la pena di morte fu commutata in quella
dell'ergastolo. Indi a poco i due mutilati ed onorati giovani con una lunga
funata di settantadue ribaldi condannati alla galera, furono menati da Cosenza a
Paola, dove imbarcati sovra un brigantino rimorchiato da un battello a vapore,
sbattuti pel Faro e lo Spartivento, pel Jonio, per l'Adriatico, sbarcarono a
Pescara, e furono chiusi in quel bagno. Colà rimasero i galeotti: i due giovani
con altri due ergastolani furono per gli Abruzzi, di carcere in carcere,
orribilmente trascinati per lunghissima via sino a Gaeta. Fa pietà a udire gli
strazi che patirono; in Pescara avevano la febbre, dimandarono un po' di brodo
dell'ospedale o il permesso di farsene a loro spese, e fu loro risposto dal
feroce comandante: “Per voi c'è il brodo delle fave”. E più feroce del
comandante era un cappellano sbilenco e deforme nella faccia, che all'udire i
poveri giovani lamentarsi di certe durezze soverchie, voleva farli battere
colle verghe; e il tigre chiercuto l'avria pure fatto se la moglie del
comandante impietosita non avesse dissuaso il marito da quell'atto scellerato.
Per il lungo viaggio coi polsi stretti dalle manette e le braccia dalle funi,
non avevano forza di camminare: la pioggia gl'immollava, affondavano nelle
fangaie, la febbre li bruciava, i gendarmi li insultavano e li spogliavano,
morivano di fame e non avevano denaro da comprarsi il pane, la notte tremavano
di freddo e non avevano per ricoprirsi che le vesti immollate d'acqua, spesso
erano chiusi in orrendi cessi e dovevano poggiare il capo su fetide cloache;
gli sfortunati credevano di morire di stenti, di fame, di spossatezza. Da
Gaeta, dove finalmente giunsero furono sopra una barca trasportati in Santo Stefano,
in ottobre del 1850: qui non erano altri ergastolani politici.
Nel giorno che io e i miei due compagni giungemmo in Santo Stefano, che
fu il 7 febbraio 1851, mi fu presentata una lettera che io apersi e dentro vi
lessi un sonetto a noi indirizzato e sottoscritto da Gennarino Placco. Il
sonetto era bello, affettuoso, pieno di nobili sensi. Dimandai chi fosse lo
scrittore: mi fu risposto essere un giovane calabrese politico. “E perché,”
dissi, “non è qui sul terzo piano?” “È al pianterreno col suoi paesani,” mi
risposero. Mi affacciai, lo vidi, lo salutai, lo ringraziai del bel sonetto.
Dopo forse un quindici dì una sera eravamo stati chiusi allora allora nei
camerini, quando udimmo un grido terribile, vedemmo accorrere i custodi verso
il pianterreno e gli ergastolani chiusi meco dissero: “Sangue tra i calabresi”;
ed affollati alla finestra dicevano fra loro: “Chi sarà?” “Sarà qualche ferito
grave, vengono gl'infermieri per portarlo all'ospedale.” “No, viene la bara:
sarà morto; è morto, chi, sarà? Lo portano: ai calzoni pare che sia don
Gennarino...” “Gennarino!” rispos'io, ''Gennarino assassinato, e perché?” e mi
sentii spezzare il cuore. Uno seguitò: “Forse non è desso”.
Io non dissi più, venne il buio, fu deposto il cadavere nella bara,
levato il ponte, ogni cosa tacque. Che notte orribile fu quella per me, piansi
per quel povero giovine, che già sentivo di amare. L'altro giorno come s'apre
la porta, dimando ansiosamente dell'ucciso, so che era uno sciagurato, voglio
riveder Gennarino, lo saluto, e gli dico che egli deve ad ogni modo uscir di là
e montare sul terzo piano.
Quel giorno stesso ci montò, ed io abbracciai un bel giovane, una faccia
greca, occhi scintillanti, parlante con certa sua enfasi albanese, e con l'erre
come la pronunziava Alcibiade. Stringendogli la mano gliela vedo mutilata
dell'indice: ed egli sorridendo mi dice: “Lo perdei combattendo presso
Castrovillari”.
Corre il quarto anno che questo valoroso e sfortunato giovine è mio amico
ed io lo amo con tenerezza fraterna, e son certo di essere da lui riamato. Ora
ha ventinove anni, ma egli sente, ed a me pare, e tutti dicono che egli non
giunga a venti; non perché il povero giovine non porti sul volto i profondi
solchi che vi segna la sventura, e non abbia gli occhi dipinti di mestizia; ma perché
l'anima sua odora di tutta la freschezza, di tutta la ingenuità, di tutta la
spensieratezza, di tutta la candidezza d'un fiorente giovanetto.
Egli è rozzo nelle maniere, anzi talora è selvatico, come albanese e
montanaro: ma a me piace assai quella durezza, segno di animo saldo e maschio,
quel suoi recisi no e sì, senza quella convulsione civile che
chiamasi sorriso, senza quelle cortesi parole che sono intonaco sopra muro
fradicio: sotto quella dura scorza palpita un cuore nobile e generoso. Di sé sente
assai modestamente: eppure ha sufficienti studi, ingegno vivo e facile, scrive
bei versi: facilmente ha appreso il francese e l'inglese dai compagni
dell'ergastolo: non c'è faccenda da cui non sappia cavar le mani, non c'è
bisogno d'amico a cui egli non corra, volentieri rende servigi a tutti, è
sempre operoso, sa molto fare, poco parlare; sdegnasi se alcuno lo ringrazia di
alcuna cosa che egli fa. Scrive, legge, copia scritture d'amici, purché abbia
da fare, è contento. Pretende d'essere astuto e malizioso, ma la sua è malizia
di seminarista, è acume di giudizio che non è esercitato né in molte cose né in
malvagità.
Non cape malizia in un cuore come il suo, senza superbia, senza
pretensione alcuna. Fra gl'ignoranti non ha spaccio di sapere, come molti fanno
che non vergognano di volere ammirazione dagli stolti: con le persone colte non
si smarrisce, né si fa disprezzare; facile con tutti, è sempre desso, schietto
e semplice. Del mondo, degli uomini e delle cose non conosce altro, se non
quello che ne ha letto sui libri, o ne ha veduto in un cerchio di poche miglia
intorno il suo paesello, il quale, come tutti gli altri albanesi del regno, è
rimasto nello stato di tribù, ancora mezzo barbaro: nell'ergastolo egli ha
vedute, udite ed imparate molte cose a lui prima sconosciute del tutto, né
nasconde questa sua ignoranza, ma ne ride, e cerca sempre di apprendere ogni
cosa da chicchessia. Un giorno io comperai un'aligusta, che non ne aveva veduto
mai, ne fece le meraviglie e le risa grandi: la ghermì, mentre batteva, la
guardò, la considerò attentamente, ne dimandò tante cose, né si persuadeva che
la si potesse mangiare. Un altro dì mi diceva: “Se io dovessi menare una donna,
una signora a braccetto io morirei di confusione. Oh che le dovrei dire? e come
potremmo camminare?” Un'altra volta mi portò a vedere un passerino che uscito
la prima volta dal nido che era in mezzo dell'ergastolo gli era caduto innanzi
ai piedi. “Povero passerino,” gli dissi io: “è simile al povero Gennarino che
al primo volo che spiccò dal nido cadde nell'ergastolo.” “Sì davvero,” mi
rispose, “e lo voglio educare, perché la sorte sua è simile alla mia.”
Spesse volte egli discorre meco della lingua e della poesia albanese, mi
recita e mi spiega molte belle canzoni, alcune fatte da lui all'improvviso, e
che la notte andava cantando per le vie del suo paese innanzi le case delle
amate donne. Mi descrive le usanze, le cerimonie, i riti che usano nei
funerali, nelle nozze, nella nascita dei figliuoli; mi narra come le donne
credono ciecamente alle fatture e agli stregoni, e come egli, l'astuto
seminarista, le dava a bere a quelle poverette certe sue trappolerie per
carrucolarle ai suoi voleri, e mi vuol far credere che esse cadevano spaurite
dalle sue baie, e non prese dai suoi occhi lucenti e dalla bella giovinezza che
gli fioriva sul volto. Mi dipinge i suoi monti, il suo paese, la sua casa, la
sua famiglia tutta quanta, il collegio di San Demetrio, i suoi studi, i suoi
compagni, le sue follie, le sue audaci imprese d'amore: come la notte dalla finestra
della sua stanza si calava per una fune e andava a cantare ed amoreggiare: come
al tempo della mietitura egli andava in campagna per ischerzare con le
spigoliste, e come si mescolava alla gioia delle fanciulle che spannocchiavano
il gran turco. È usanza di queste fanciulle che quale trova una spiga rossa di
gran turco deve dare un bacio a chi ella vuole, e poi rompe la spiga. Ora egli
adoperava ogni arte per avere in mano una spiga rossa e dare un bacio a
qualcuna; e la baciata, per non rimanere essa sola col bacio, cercava di
trovare la spiga rossa e nascostamente la dava a lui, affinché ne baciasse
un'altra; questa faceva lo stesso: tutte volevano che avesse egli la spiga in
mano; e il baciatore era sempre egli. A questi racconti che ei mi fa con parole
vive e palpitanti, con motti pittoreschi, con affetto crescente, con gesti
animati agitando la mano mutilata che io sempre gli guardo, io mi sento
rinfantocciare, mi pare che sono fuori l'ergastolo, e che con lui mi aggiro pei
monti: mi tornano a mente i lieti giorni della mia fanciullezza, la casa mia,
la famiglia mia: mi si ridestano tante memorie, tanti affetti.
E tal'altra volta mentre
la sera i compagni o passeggiano, o dormono, o ciarlano a caso, io mi distendo
tacito sulle tavole del mio letto, ed egli compagnescamente viene a distendersi
vicino a me, e per lunghissime ore mi parla della sua famiglia con affetto
immenso che quasi mi sforza alle lagrime. “Mio nonno,” egli dice, “era un prete
albanese, ed io me lo ricordo vecchio vecchio, di novantasei anni, accanto al
focolare con un bastoncello in mano, col quale tirava bastonate da orbo alla
pignatta che bolliva al fuoco, o alla povera madre mia che cuciva vicino a lui,
credendo che fosse il gatto o il cane che forse gli era passato fra le gambe.
La mia famiglia era povera; ma mio padre attendendo ai lavori della campagna, e
mio zio prete amministrando e regolando gli affari di casa, solamente con le
fatiche e col giudizio, a poco a poco ci hanno acquistato una certa comodità.
“Mia madre che aveva nome Marta, fece cinque figli tutti maschi, dei
quali io sono il primogenito, e la perdei che avevo sedici anni. Povera madre
quanto mi amava, e che crudele malattia ella ebbe! Io la vestiva, la prendeva
tra le braccia, io la tramutava da un letto ad un altro, ed ella morì tra le
mie braccia chiamandomi a nome e benedicendomi.
“Io l'accompagnai alla chiesa, io primo mi accostai alla bara, le baciai
la mano e la faccia per l'ultima volta. Quanto era buona quella cara mamma e
quanto mi amava!
“Rimasti così tutti e cinque noi fummo educati da un nostro zio, che è un
savio e dabben uomo, e ci ha tenuto luogo di madre e di padre. Mio padre, come
sapete, è morto per una caduta da cavallo, e qui ne ho avuto la trista novella.
Nel carcere di Cosenza seppi d'aver perduto di febbre un fratello. Ora la mia
famiglia si compone di mio zio, di tre fratelli, e di me che sono
nell'ergastolo, e non so se potrò rivedere la casa mia, se potrò tornare
accanto a quel focolare dove ho veduto mio nonno, dove ho dormito tra le braccia
di mia madre, dove baciavo le vecchie e dure guance del padre mio, quando la
sera tornava dai campi; se potrò sedere un'altra volta a mensa con mio zio e
coi miei fratelli vicino a quel fuoco; se potrò un'altra volta baciare la mano
al mio buon zio, e chiedergli perdono dei miei trascorsi giovanili, che tanto
addoloravano lui e mio padre. Io ne ho fatte molte pazzie giovanili, ed ora
merito ciò che soffro.”
E così affettuosamente parla di cose che io non potrei né saprei ridire.
O mio caro Gennarino, caro e sfortunato giovane, se molti ti udissero e
ti conoscessero come ti ascolta e ti conosce l'amico tuo, molti ti amerebbero
come io t'amo.
Fa cuore, o mio Gennarino, Dio certamente non vorrà che un sì
bell'ingegno, sì bel cuore, sì schietta anima si perda nell'ergastolo.
Non si male nunc et olim sic erit. Non è senza un perché cotesta confidenza,
cotesta lietezza che ti sta nell'animo; ed è certo presagio di un avvenire men
reo!
Che se altrimenti è scritto di noi, se dovremo penar qui per lunghi anni,
e forse qui morire, ti sia conforto l'affetto e la stima di un amico, il quale,
essendo sventurato come te, non ti chiede altro se non che tu seguiti a
riamarlo.
Santo Stefano, 1 dicembre 1854.
...Son passati sei anni,
e chi sa quanti altri ne passeranno, e quanti pochi di noi usciran vivi di
questo naufragio! Alcuni de' miei compagni, specialmente i più vecchi, sperano
e credono che usciranno tra breve, e da che sono entrati in carcere hanno
sempre sperato e creduto che fra un mese, fra due, fra sei, fra un anno al più
sarebbero fuori: e se talvolta si dice loro che hanno sempre sperato e creduto
invano, essi rispondono che oggi non è come ieri, e dimani non sarà come oggi.
Quanto io li invidio! quanto vorrei anch'io così credere e sperare! Desidero
sì, ma spero poco. C'è tra noi un vecchietto di sessantadue anni, arzillo e
allegro, il signor Michele Aletta di San Giacomo in provincia di Salerno, il
quale da che venne nell'ergastolo quattro anni fa ha detto e dice sempre, che
egli sta qui provvisoriamente, che uscirà nel mese corrente. “Io voglio uscire,
debbo uscire, ed uscirò.” “Non usciremo, don Michele.” “Ed io vi dico che
usciremo subito.” “Usciremo morti.” “No, vivi, per Dio: mi han veduto nel mio
paese due volte con la bandiera in mano, nel 1820 e nel 1848, mi rivedranno
così la terza volta, e diranno come dissero: ‘Costui non muore più’.” “Sì, ne
usciremo dopo trent'anni.” “No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a
prenderci. Il mondo cangia in un momento.” “Noi siamo morti.” “Siamo vivi, ed
io vivrò sino a novant'anni: lo sento: così sarà. Voi non mi fate paura, none,
none! Non ci facciamo il malaugurio!” E così vive il povero vecchio condendo
una scodella di fave o di pasta, che egli stesso pulitamente si cuoce, con
quest'accesa speranza che in lui non viene mai meno, anzi più contrastata più
cresce: sicché egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare!
Santo Stefano, 7 dicembre (1854).
Ed anche nell'ergastolo doveva io trovare uno che
mi ravvivava le primissime memorie della mia fanciullezza, e che dice di avermi
portato tra le braccia quando ero fanciullo. Costui è di Avella, paesetto
vicino Nola, e chiamasi Stefano Simeone: è qui da trent'anni, ed attende la
grazia sovrana solita a concedersi agli ergastolani che per trent'anni serbano
buona condotta. È amato da tutti come buonissimo forzato, quando s'ubbriaca non
fa altro che ridere. Io ne vidi la moglie, donna provetta, ma bella asciutta,
intatta per serbata castità, per amore che ella porta al marito, che ella è
venuta a vedere ventisei volte in trent'anni (esempio unico), perché ella mi
diceva: “Mio marito è innocente: la notte che fu commesso il misfatto pel quale
è condannato, egli era con me coricato, eravamo sposati da otto mesi.
Considerate voi se posso saperlo!”
Quanto mi piace che quest'uomo non sia creduto ribaldo! Ora egli tra un
mese o due tornerà alla sua buona Agata, che l'aspetta e lo ama come quando
avevano vent'anni entrambi. Dopo trent'anni! quanto tempo io sono vissuto e
ricordo, tanto tempo egli è stato qui.
Santo Stefano, 15 dicembre (1854).
Da che tutti i ventidue ergastolani politici
siamo riuniti in queste due stanze, che hanno due finestre sul mare,
l'ergastolo ci fa meno orrore. Io sento che mi ritorna un'aura di vita nella
intelligenza che m'era spenta del tutto: non odo più parole orribili di sangue
e di misfatti: non vedo quelle facce, quelle belve parlanti, o le vedo quando
voglio e sol da lontano. Siamo tra noi, abbiamo il gran conforto di poter
liberamente parlare, di guardarci in viso senza dover subito bassare gli occhi
per l'orrore, di guardare un'isoletta, il mare, e pochi battelli pescherecci:
di dormire la notte senza udire il russare dell'assassino. Io non ho più vicino
a me quel calzolaio che mi martellava il cervello per tutto il giorno, e nelle
prime ore della notte, quando cominciavo a dormire, ei mi svegliava con quello
spietato martello che mi ammaccava e mi lacerava tutte le membra del corpo. Ora
vicino al mio letto sta quello del mio buon Gennarino, che la sera non si
addormenta se prima non mi parla della sua famiglia e del suo paese, e di mille
cose piacevoli, dopo le quali a un tratto prende un atteggiamento fanciullesco,
si mette la mano sotto una guancia e s'addormenta: e la mattina prima di far
giorno entrambi poggiamo una tavoletta sul letto suo o sul mio, e sovr'essa
facciamo il caffè, che beviamo insieme.
Ieri sera mentre eravamo tutti coricati, e Gennarino mi narrava ciò che
tante volte mi ha narrato, e che sempre mi par nuovo e mi dà nuovo dolore, il penoso
viaggio che egli fece da Pescara a Gaeta, il dottore Innocenzo Veneziano che
udì questo discorso, ci narrò distesamente come per ventisette giorni
dall'ultima Reggio sino a Napoli egli con suo fratello, con Francesco
Bellantonio, e con una quindicina di malfattori, fu menato a piedi, legato i
polsi dalle manette, le braccia dalle funi; così mangiavano, così dormivano e
solamente quattro volte in ventisette giorni furono disciolti dalla
crudelissima catena ond'erano legati giorno e notte, perché fermaronsi quattro
volte in quattro carceri sicuri. Gli strazi patiti dal povero dottore, dal
fratello podagroso, condannato alla galera ed ora nel bagno di Procida, e dal
giovane Bellantonio sono stati l'argomento d'un lungo e doloroso ragionamento
iersera, e di un crudele sogno che io ho fatto stanotte. Nel quale mi pareva di
essere anch'io legato così e trascinato dai gendarmi, e sentiva ribollirmi
tutto il sangue agli insulti che quella gente stoltamente e ferinamente crudele
faceva a me ed agli altri: e parevami che io avessi a un subito tanta forza da
sciogliere tutti, ma non me stesso che mi sentiva legato da mani e da piedi da'
gendarmi che solo me volevano trascinare per terra per vendicarsi di me che
aveva sciolti gli altri.
L'ergastolo è la casa
de' sogni: qui si sogna ad occhi aperti, e ad occhi chiusi: perché la speranza,
che è il sogno de' desti, ci fa parlare il giorno, ci muove il cervello la
notte. La mattina come apriamo gli occhi, ciascuno, come tra persone oziose,
racconta i suoi sogni, che sono fantasie stranissime. Ravvolti i letti, e
spazzata la stanza ciascuno pensa a cuocersi il cibo, che è fave, o fagiuoli, o
ceci, o lenti, o pasta e raramente si ha un po' di carne o un po' di pesce, e
non da tutti. Mentre i fuochi ardono, e le pentole bollono (finalmente dopo
tante fatiche abbiamo potuto dimostrare e persuadere che i carboni sono
innocenti nelle mani nostre, e che ci servono per cucinar e non per fabbricare
coltelli), alcuni fumano, alcuni passeggiano, altri chiacchierano a sproposito,
altri legge, altri scrive, altri fa niente, altri sbeffa; spesso sembriamo una
gabbia di matti. Mezz'ora prima del mezzodì ciascuno spiega una salvietta su le
tavole del suo letto, o sovra a un tavolino che s'apre e si chiude come un
libro, pone su la salvietta un pane, un orciuolo o un bicchiere d'acqua, una
scodella entro cui versa il cotto, e quasi tutti a un tempo pranziamo, e
compagnescamente l'uno offre all'altro di ciò che ha. Pochi mangiano a coppia:
quasi tutti soli; spesso per un giorno o più si uniscono due o tre, poi
ciascuno torna solo. Le continue sofferenze ci han renduto tutti bisbetici; la
mancanza di ogni libertà fa desiderare a ciascuno di essere liberissimo in ciò
che egli può. L'ergastolano è un uomo d'eccezione, diverso da tutti gli altri,
anche dagli stessi condannati ai ferri; certi giorni, certe ore del giorno ha
la febbre. Se si facesser tra noi alquante compagnie, se uno in ciascun giorno
o in ciascuna settimana, avesse l'incarico di provvedere o di cucinare per gli
altri, costui avrebbe un peso enorme, si sentirebbe oppresso da un giogo
insopportabile. E poi non v'è spazio, non vi sono utensili, non vi è maniera
d'accomunarsi nel desinare. Se n'è fatta molte volte esperienza: ma ciascuno ha
desiderato di esser libero anche nel suo capriccio. Oh chi è condannato a viver
tutta la vita sua nell'ergastolo, talor s'incresce anche di se stesso! Per
amarci, compatirci, e vivere insieme, ciascuno di noi deve poter dire: “In
questo io son libero”.
Mezz'ora dopo il mezzodì quasi tutti si coricano, pochi, tra i quali io,
escono sulla loggetta a passeggiare, se è buon tempo; se no, si rimane al
proprio posto tacitamente, ed io mi distendo su le tavole del letto e o leggo o
penso. Quando i dormenti si svegliano (e si dorme anche di questa stagione per
non avere che fare) si ricomincia a parlare, passeggiare (passeggiare mo', si
passeggia come il leone nella gabbia, si danno sei sette passi, e si dà la
volta), a fumare, a leggere, a sospirare, a fremere, a fare ciò che non si può
narrare esattamente, ma può essere immaginato da chi è stato in carcere.
Col cadere del giorno son chiuse le stanze in cui siamo; e chi mangia un
po' di pane e cacio, o qualche cibo rimastogli dalla mattina, chi si aggruppa
con un altro sopra un letto a parlare, e chi si mette a studiare. A due ore di
notte cessa lo studio: si chiacchiera un po', spesso si chiacchiera a lungo, e
poi tutti andiamo a letto. Così un giorno, così tutti i giorni.
Io, per aver tempo di
studiare, per non imbrattarmi, e per non fare ciò che non saprei, e che,
facendolo, mi darebbe una noia e una stizza grande, mi fo fare il cotto da un
buonissimo e carissimo giovane di Reggio, a nome Francesco Bellantonio, che ho
creato mia siniscalco. Spesso, forse un due o tre volte la settimana, pranzo
col mio carissimo Gennarino, e con Francesco de Simone, galantuomo di Cosenza,
condannato alla galera per i fatti del 1844, e poi pei fatti del 1848
condannato all'ergastolo, bravo, affettuoso, leale, amato moltissimo da
Gennarino, che lo chiama per celia: “Signor zio”, ed amato anche da me per
molte sue buone parti. Il mio siniscalco è un giovane di ventisette anni, ma
della più buona pasta del mondo; del più bel cuore che io mi abbia conosciuto
mai. Figuratevi un giovinastro alto, diritto, ben fatto della persona, e con
lunga chioma, ma un uccellacelo, scapato, sventato, distratto, che parlando nel
suo dialetto pare un tartaro, anzi gestisce più che parla, e leva le mani in
alto, e mugola inarticolatamente: che ora corruga gli occhi loschi e sorride,
ora li straluna e piglia un atteggiamento goffamente tragico: facile a
sdegnarsi, facile a placarsi, spesso in veste ed aria di gentiluomo, spesso
tinto, lordo, affumicato, rabbuffato come un fornaio: e fornaio era la sua
arte. Se ha per mano qualche faccenda, ed uno gli dice qualche parola, egli si
dimentica la faccenda che ha per mano, leva alto le braccia e comincia a
parlare per modo che bisogna chiamarlo, gridare, scuoterlo per farlo attendere.
Buono, onesto, leale, affettuoso, sincero, segreto, ha avuto sempre l'affezione
di quanti lo han conosciuto. Se i suoi paesani gli cercano qualche cosa, ei non
sa dire di no; se non ha danari li toglie in prestito per soccorrere chi non
ha. L'altr'ieri lo udii che chiamava a gran voce un ergastolano del pian
terreno, e gli diceva: “Vedi, debbo dare un grano ad un vecchierello e non so
chi sia: vedi tu, fa uscire tutti i vecchi”. L'ergastolano non capiva, chiamava
or uno, or un altro. Intanto ci fu persona che disse a Francesco: “Perché fai
tanto rumore? Non ti è stato dimandato il grano, lo darai quando ti sarà
dimandato”. E Francesco prendendo un'aria grave rispose: “Non voglio esser
dimandato quando debbo dare, e se si scorda egli, non debbo scordarmi io”. Fu
trovato il vecchierello, e gli fu gettata la moneta.
Io non potrei mai descrivere a parola lo spasso che ci dà questo
festevole e dabbene giovane quando ci narra le avventure della sua vita e le
sue disgrazie con certe parole strane, con gesti, con atti, con tuono di voce
indescrivibile. Quando egli parla si deve interpretar le parole, togliere le
parentesi, e riordinare il discorso che comincia dalla coda e finisce al capo.
“Io sono il Napoleone di Reggio,” dice egli, “venite a Reggio, dimandate chi è
Napoleone: e tutti vi risponderanno: ‘È Francesco Bellantonio’. Nelle sassaiuole
che facevano tutti i ragazzi sul lido del mare io era Napoleone.” E qui mostra
molte cicatrici che ha sul capo e sulla fronte per sassate ricevute. “Una volta
la signora spagnuola padrona del nostro forno aveva una bella servetta, io le
posi l’occhio addosso, ed essa mi rideva, passò qualche tempo, essa mi dava
sempre parole. Una sera la signora ed essa sole sole passeggiavano su lo
stradone della marina, io le vedo, mi salta un pensiero di rubarmi la criata,
me la afferro tra le braccia, che pareva una piuma, e scappo, e me ne vo dietro
certi scogli. Poi mi ritirai al forno, e mi posi a dormire sopra una tavola.
Stavo facendo un sonno saporitissimo, quando mi sento rompere le ossa: apro gli
occhi e vedo la spagnuola che con una pala del forno mi menava forte, ed io
strillava più forte per farle capire che mi faceva male assai. Poi la signora
mi chiamava, e innanzi molti galantuomini mi faceva contare come io rubai la
criata. Giovanotto, con un cervellaccio pazzo, ne ho fatte, e ne ho fatte!
la polizia m'acchiappava, e ma mamma correva dal cancelliere, portava,
racconciava i guasti. Povera mamma! Povera mamma mia!”
Non è a dire se Francesco prese parte alla rivoluzione di Reggio del
1847: fu preso, battuto, strapazzato da persone di una certa contrada detta la
Sbarra, e poco mancò che non fu fucilato. Quando narra questo fatto egli esce
di sé, spalanca gli occhi, li fissa sul muro, sovra un letto, sovra una
seggiola, sovra un orinale, e scuotendo il capo e col braccio e il dito teso:
“Ah, Sbarroti,” dice, “santo diavolo! debbo distruggere la Sbarra! Su, portate
i cannoni: io sono il generale: assalite, mi ricordo quello che hanno fatto a
me”. Nel 1848 fu nelle bande armate di Calabria. Una notte una banda alloggiava
in un casino, stavano coricati in un grande stanzone: Francesco mezzo brillo
faceva la guardia fuori. A un tratto le travi che sostenevano il pavimento
dello stanzone, si piegano, si spezzano nel mezzo, e tutti uomini, armi e
masserizie fanno un mucchio senza grave danno di nessuno. Sbigottisce il povero
Francesco, scende giù, apre una porta per fare uscire la gente, stende le mani,
tocca una cosa pelosa, dice: “Fratello, ti sei fatto male?” Poi si sente un
grande sbuffo, un fiato caldo, e vede una gran faccia cornuta: “Madonna!” dice:
“Il diavolo!” e fugge. Era un bove che tentava di uscire dalla stalla! Passò in
Sicilia e fece a schioppettate in Messina e in Catania: andò in Palermo, e di
là fuggì a Malta. Ma senza danari, confidando nell'amnistia pe' fatti di
Sicilia, e nella sua condizione oscura, tornò, ma fu arrestato. De' fatti di
Sicilia non fu accusato, anzi non ne fu neppure interrogato: ma fu accusato di
cospirare contro lo stato con un galantuomo in casa del quale egli soleva
andare. Egli dice: “Io credeva che l'accusa era una chiacchiera. Cospirazione!
che cosa è cospirazione? Ma aspetta la sentenza, e don Cristofaro è condannato
alla prigionia, Bellantonio all'ergastolo. Vedete che giudizio di cristiani
avevano i giudici! Bellantonio era più di don Cristofaro, Sapete chi è
Bellantonio? È più di Poerio, il quale fu condannato a 24 anni, e Bellantonio
all'ergastolo”. “Ma tu che cosa volevi quando pigliasti le armi?” “I diritti
miei.” “E che cosa sono i diritti tuoi?” “La giustizia.”
Io non saprei dire se è peccato o vergogna, ma forse è l'una cosa e
l'altra, l'aver mandato all'ergastolo un povero giovane fornaio. Ha imparato
qui a leggere e scrivere, e gli è stato maestro Gennarino, il quale lo ama
moltissimo, e scherza sempre con lui, ed è il suo confidente. Giorni fa gli
capitarono fra mani non so come le lettere di Annibal Caro: ed egli dopo di
aver letto un pezzo, venne da me, e mostrandomi il libro, ed a stenti
compitando la parola conciossiacosacché, mi domandò: “Che significa
questa santa diavola di parola?” Io non sapendo che rispondergli per farglielo
capire, me ne uscii pel rotto della cuffia: “È una cosa simile al tuo santo
diavolo”.
Povero Francesco! quanta pena mi fa a vederlo nell'ergastolo!
Santo Stefano, 23 gennaio 1855.
Oggi è stato un bellissimo tramonto: l'aere tiepido e sereno, il mare
tranquillo. Io ho aperta la finestrella più vicina al mio posto, la quale, se
non foss'io, raramente si aprirebbe da alcuni miei compagni che sempre parlano
di non so quali catarri e raffreddori, e mi son messo a riguardare. Gli occhi
miei si riposavano sulle acque del canale che è tra Santo Stefano e Ventotene
leggermente increspate per la corrente, e vedevo sette battelli pescherecci
quale immobile quale guizzante e lasciantesi indietro una lunga striscia su
l'acqua. L'isoletta di Ventotene, col suo paesello che scende declinando sino
alla marina, e con le biancheggianti mura del suo camposanto, mi si dipingeva
tutta quanta innanzi agli occhi come una ninfa marina che solleva dal mare la
bella faccia con le chiome verdeggianti di alga. Nelle campagne di questa
isoletta sono molte casette sparse qua e là, da due delle quali le più lontane,
saliva nell'aere una verghetta di fumo che si spandeva e vaniva. Le grotte
incavate nel tufo, nelle quali abitano i pescatori, il porto, un ponticello
sopra una vallata, alcuni scogli, e più sopra un cannone con la bocca rivolta a
Santo Stefano tutto mi appariva distintamente. Più in là di Ventotene il mare,
e in fondo all'orizzonte l’isola di Ponza, dietro la quale si nasconde
Palmarola, a sinistra si vede Zannone, ed a destra lo scoglio detto la Botte
che ad occhio nudo sembra una gran nave lontana. Sono stato lungamente a
riguardare questo spazio di mare, quest'isoletta vicina, e quelle lontane, quei
battelli dove vedevo muovere uomini, quel camposanto dove dormono per
istanchezza di dolori alcuni disgraziati compagni, e le onde dell'infecondo
mare, e il cielo dipinto dalla benedetta luce del sole, e sentiva venirmi sul
volto, entrarmi nei polmoni un filo d'aura vitale che mi ha ristorato le forze,
mi ha messo nell'anima quella dolce malinconia che spesso ho sentito al suono
d'uno strumento musicale, mi ha armonizzata la vita ed il pensiero. Mentre così
stavo, io sognavo ad occhi aperti, e mi veniva a mente il mio caro figliuolo
che ora va scorrendo i mari, e che non so dove ora sia, che son circa quattro
mesi e non ho sue lettere: e mi ricordavo quando lo vidi e lo benedissi
l'ultima volta il 18 dicembre 1851 prima che egli partisse per l'Inghilterra.
Chi sa che fa ora il povero figliuol mio, che patisce e quanto patisce! Chi sa
se potrò più rivederlo! Egli ha già diciotto anni! oh quanto vorrei vederlo! Se
il legno dove egli è navigasse per queste acque, se da lontano ei vedesse
questo scoglio, e il tetro ergastolo sulla cima di questo scoglio, oh che
sentirebbe il povero figliuol mio a questa veduta! Che dolore, che strazio
avrebbe il povero giovane?
Mentre così pensavo e stavo per più profondarmi in questo doloroso
pensiero, mi sono sentito una mano su la spalla, e Gennarino mi ha detto: “Che
guardi?” “Il mare ed il cielo,” ho risposto. Sono sopravvenuti altri, ed io mi
sono allontanato da quel pensiero e da quella finestrella. La quale è già
chiusa, perché è notte, e ciascuno al suo posto o legge, o scrive, o mangia, o
fuma, o fa niente: ed io spiegato un rozzo tavolino sul quale la sera Gennarino
ed io sogliamo leggere e scrivere, ho presa la penna, e questo quaderno di
memorie che da quaranta giorni non vedevo e non toccavo più, e in esso mi sono
messo a scrivere a caso come gitta la penna.
Sono passati quaranta
giorni: e che ho fatto? Ho sofferto: non potrei, non saprei dire che ho
sofferto: il corpo è stanco e disfatto, l'anima torpida e dormente. Sono
quattro anni da che dormo nell'ergastolo: e sono come il ghiro che nel verno
dorme e si nutrisce la vita coi succhi e col sangue acquistato mangiando la
state: così vivo anch'io, e nutrisco la vita della mia mente con le ricordanze
del passato. In questi giorni ho letto due volumi del Cosmos
dell'Humboldt libro stupendo, che vorrei rileggere e studiare, e non so se mi
sarà possibile. Il disprezzo, la dimenticanza in cui siamo tenuti, e
l'ignoranza, o voglio dire anche la bonarietà di chi ci ha in custodia, non fa
guardare a' libri che abbiamo. L'ergastolo senza libri dev'essere (vedo chi non
legge) un tormento inesplicabile. La mattina traduco Luciano, l'altre ore del
giorno che posso studiare piglio una grammatica inglese, perché m'è venuto in
mente d'imparar questa lingua. Io non so se sia l'età in cui sono, o se sia la
mia mente che non è più capace di ritenere ciò che leggo, io profitto
pochissimo. Forse imparerò a capire qualche scrittore inglese, m'inchioderà di
forza nella memoria quelle benedette parole che non so, né altri qui sa dirmi,
come pronunziarle; ma credo che se un giorno m'incontrerò in qualche inglese,
non saprò dirgli altro che good morning. Spesso mi ricorda che molti
scrissero opere pregevoli, o acquistarono grande pratica in un'arte stando in
carcere, come Antonio Serra che scrisse il suo libro che fu la prima opera di
economia, nella prigione di Castel Capuano; Tommaso Campanella che in carcere
scrisse quasi tutte le sue opere; il Paganini che in carcere diventò un
mirabile suonatore di violino: e tanti altri dei quali ora non mi ricordo i
nomi. Sì, ma nell'ergastolo non si pensa: almeno io fra gente come questa non
mi sento l'ardire di pensare. In una prigione perpetua, sovra uno scoglio, dove
la vista del mare e di un'isoletta è un piacere concesso a pochi, lontano dal
mondo, lontano da ogni immagine di bellezza e di virtù, nell'ergastolo il
pensiero muore dopo poco tempo, rimane solo il corpo che vegeta come pianta
stentata, cresciuta all'ombra, ammalata e fiacca. Non vorrei dirlo, perché mi
fa orrore e ribrezzo a me stesso che ormai sono usato a vedere e sentire ogni
più grande nefandezza: ma pure il dirò. Cinque o sei giorni fa un forzato fu
messo su lo scanno, e lo scrivano lesse un ordine pel quale quel malvagio aveva
avuto legnate per avere stuprato un fanciullo di otto anni, figliuolo di non so
quale impiegato dell'ergastolo, e tentato di gettarlo a mare. Le grida di tutti
gli ergastolani che all'udire l'orribilità del misfatto, incitavano i battitori
a menare senza pietà, avrebbero distratto Archimede. E ieri altre grida simili
e fischi contro un ergastolano, il quale per aver rubata e stuprata una gallina
ebbe cinquanta legnate, mentre gli era tenuta sotto il muso la gallina morta.
Or va e studia, or va e pensa nell'ergastolo!
Santo Stefano, 1 febbraio 1855.
Sento una noia, un rincrescimento, una stizza che
io stesso non so comprendere né spiegare. Lo studio mi disgusta, il far niente
mi pesa, il conversare coi compagni mi dispiace, e non vorrei udirli parlare,
non vorrei vederli; aborrisco tutti e me stesso, e tutto quello che è, che fu,
che sarà. Da prima io era un uomo di buona pasta, ora sono di pasta di
cantaridi: per nulla mi adiro, vo' sulle furie: mi sono renduto grave a tutti,
insopportabile a me stesso. Oh! se potessi gettare su questa carta gli affanni
che ho chiusi nel petto, se sapessi che queste carte non saran lette da nessuno,
io scriverei parole di dolore grande, scoprirei piaghe profonde che mi vanno
sino all'anima.
Io non sono più uomo, ma la centesima parte di un uomo: il corpo è grave
e stanco, nel capo non ho più lume ma una tenebra oscurissima, nel cuore molti
squarci profondi e dolorosi che mi fanno male assai assai.
Non
son chi fui: di me perì gran parte,
questo
che avanza è sol languore e pianto
Questo volevano: e
l'hanno ottenuto: spegnermi l'intelletto, avvelenarmi il cuore, distruggere quel
poco di buono che io avevo, e rimanermi il cattivo e il bestiale. Oh, ed io
posso amare gli uomini? E son uomo io più? M'avete imbestiato, e volete che vi
ami? Mi avete ucciso l'intelletto, mi avete spento questo caro lume della vita,
e volete che io vi ami? Va, io non vi aborrisco, ma vi disprezzo. Siamo tutti
una mistura sozza di moltissima sciocchezza, di alquanta malizia, e di poche
goccioline di senno; tutti, non ne eccetto neppure quei gran savi che ti
spaccano le più belle e tonde sentenze come se fosser melloni, e te le mostrano
tenendole alte fra le mani, e gridando: “Ecco il senno, ecco il vero”. Sapete
che cosa è il vero? Il vero è quel punto, quel corpo, che non si sa se sia
scuro o luminoso, mobile o immobile, se esista o non esista, intorno al quale
dicono gli astronomi che giri il sole del nostro sistema planetario, e gli
altri soli che sono negli spazi interminabili dell'universo. Io ho cercato, e
non l'ho trovato: io l'ho amato e son rimasto deluso e addolorato. Foss'egli il
dolore? foss'egli la morte? Oh! dovrò saperlo una volta.
Che cosa ho scritto? Io nol so, né voglio rileggerlo, so che sto male
assai, e che una cupa malinconia mi fa aborrire me stesso e tutte le cose e gli
uomini che mi stanno intorno. Capisco che sono ammalato: che questa stizza, che
quest'ira bestiale e sciocca mi passerà fra pochi dì: ma finché dura, so io che
sento dentro, e che scuri pensieri mi si attraversano biechi per la mente!
Santo Stefano, 8 febbraio 1855.
Sull'anima
mia è passata una tempesta. Una volta anche io serbava l'imperturbabile
serenità del savio, e temperava le amarezze con lento sorriso: ora mi sento dai
piedi salirmi un fuoco alla testa, e poi battermi forte il cuore, e velarmisi
gli occhi.
Oh come mi ha trasfigurato l'ergastolo! Alle pene fisiche mi sono già
abituato: alle pene morali non mi abituerò giammai, soccomberò sì, ma
combatterò sempre, mi difenderò sempre il cuore, che è la mia rocca, la mia
inespugnabile fortezza. Oh povera mente, povero cuore mio, quanti nemici
assaltano l'uno e l'altra! Mi viene a piangere quando riguardo me stesso, e
miro la mia mentale e morale dissoluzione. No, no, non mi vincerete: io
combatterò sino all'ultimo, finché mi palpiterà il cuore. Oh tremendo
ergastolo! oh angoscioso ergastolo che mi squarci tutte le fibre della vita.
Oh, mi si spezzasse il petto, e la finissi una volta per sempre!
Santo Stefano, 5 marzo 1855.
E
quel che più ti graverà le spalle
sarà
la compagnia malvagia e scempia,
con
la qual tu cadrai in questa valle.
Sì,
questo è il peso che più mi grava le spalle, e poco mi giova l’avere fatta
parte da me stesso.
Oh,
vorrei non esser nato uomo.
Santo Stefano, 17 marzo 1855.
Oh
quanti strazi, oh che crudeli strazi di cuore sono nel doloroso ergastolo! Il
mio povero amico Gennarino ha ricevuto in una lettera di suo zio la novella che
suo fratello Luciano, giovane di ventisette anni, marito e padre di due
angeletti, fu assassinato dai ladri. Già il mio amico sapeva che suo fratello
dormendo una notte, che fu quella del 17 settembre dell'anno passato, in una
casetta di un suo podere, fu preso, e menato via da alcuni ladri, i quali
richiesero per riscatto una grossa somma di danaro, ed ebbero settecento trenta
ducati: ma il giovane non fu rimandato. Alla dolente famiglia molti per pietà,
per malizia, per iscellerata voglia di guadagno erano andati a dire ora che i
briganti erano usciti fuori della provincia, ora che erano stati veduti col
giovane al tal luogo, ora al tale altro: e la famiglia diceva: “Se sono
briganti vorranno altro danaro, noi lo manderemo, e Luciano tornerà”. Anche
Gennarino era in questa aspettazione, e da quattro mesi attendeva che una
lettera gli dicesse: “È tornato”. È venuta una lettera, e gli ha detto:
“L'infelice tuo fratello Luciano fu assassinato forse la stessa notte che i
ladri ebbero il danaro”: lo zio gli narra come fu discoperto l'orribile
misfatto. Nei primi giorni del mese di febbraio un villano andando a tagliar
legne in un vallone profondo presso a un roveto vide riescir dalla terra le
ossa di un piede umano: corse tosto a riferirne al giudice istruttore di
Castrovillari, il quale, sapendo la presa del giovane, come udì la novella,
disse tosto: “Questi è il povero Placco assassinato”. Andò nel remoto vallone,
fe' cavare la terra, trovò le ossa di un cadavere, il cranio traforato come da
una palla, le vesti non interamente disfatte, ed un portafoglio nel quale erano
alcune carte dove il giovane scriveva di sua mano i conti della campagna,
quanti buoi, quante pecore, quanti lavoratori aveva: erano una canzoncina scritta
da suo fratello Ciro, una immagine della beata Vergine, un calamaio, un
pettine, uno specchio. Il giudice trovando questi oggetti, disse: “Questo
giovane era un santo”. Le ossa, le vesti, il portafoglio furono portati in
Castrovillari, riconosciuta ogni cosa dai parenti. Sepolte le poche reliquie,
sono stati scoperti gli assassini, è cominciato il processo.
La
famiglia di Gennarino col lavoro del padre e col senno dello zio prete ha
acquistata una certa comodità nel suo paesello: ed il giovane Luciano con le
stesse arti del padre suo, col lavoro, con la buona fede, con la semplicità di
costumi, s'era acquistata la generale benevolenza. Non armi, non intrighi, non
nimicizie, non amorazzi: ma campagna casa e chiesa, questo era il mondo per
lui. Due ribaldi del paese, fatta una combriccola con altri di paeselli vicini,
pensano che da questa famiglia possono prendere molto danaro e nulla temere,
come da gente quieta ed innocente. E messo ad effetto facilmente lo scellerato
pensiero, ed avuto il danaro uccidono il disgraziato giovane, il quale li
conosceva quasi tutti, ed era stato compagno della fanciullezza. E questa è
stata la cagione dello scellerato assassinio. Il buon giovane è stato compianto
da quanti lo conoscevano, o n'hanno udito parlare.
Il
mio povero amico ha pianto a leggere la lunga e dolorosa lettera, ed ha fatto
piangere anche me: ma egli già sapeva la sua disgrazia da un'altra breve e
terribile lettera scritta ad uno suo paesano che è nell'ergastolo, dalla
moglie. Ei non pianse a leggere quella lettera, ma lo vidi far pallido come un
cadavere, impietrire gli occhi, stendere la mano quasi additando qualche cosa,
e profferire certe parole albanesi. Ei vedeva le ossa del fratello, e quel
teschio traforato e spezzato sotto il roveto; quelle ossa, ei mi dice, gli
stanno sempre innanzi agli occhi. Gli fummo tutti intorno: ma chi poteva
consolare quel dolore muto e profondo? Egli amava questo fratello
tenerissimamente, egli m'aveva parlato tante volte della loro fanciullezza,
della loro prima giovinezza, me lo aveva dipinto bello, amabile, ingenuo,
semplice: m'aveva detto quante canzoni albanesi egli aveva composte per lui che
la notte spesso andava cantando e facendo le serenate; mi aveva narrato come
egli sposò una bella e cara fanciulla, la quale lo fece padre di una bambina e
di un bambino, che si chiamano Marta e Lodovico, come si chiamavano il padre e
la madre loro; mi aveva descritti tutti minutamente i riti di quel matrimonio,
solennità che gli albanesi celebrano religiosamente con una certa poesia simbolica
ed antica onde anch'io ho pianto la disgrazia di quell'onesto giovane, ed ho
innanzi agli occhi quelle due creaturine, che Gennarino dice ora sono figliuoli
suoi. Povero amico! Egli mi parla sempre di questa disgrazia, egli ha il cuore
sbranato dal dolore, e mi dice: Vedi: io ho cinque ferite, ho una mano storpia,
fui dannato a morte, ora sono nell'ergastolo per aver voluto fare il bene: e mi
hanno assassinato mio fratello, Luciano mio tanto buono e caro! Ed a chi aveva
fatto male, a chi poteva egli far male quell'angelo?”
Io
non ho cuore di descrivere il suo dolore, di riferire le sue parole: io sento
voglia di piangere anch'io.
Santo Stefano, 8 aprile (1855) giorno di pasqua.
Sono circa un quindici giorni che il mio amico Silvio Spaventa ed io siamo
in una grande stanza dell'ospedale, non per malattia di corpo, ma per fuggire
l'ergastolo, avere un po' di quiete e di solitudine, poter leggere e scrivere
in silenzio, e tentare di risanare la mente ammalata. E già mi pare di essere
uscito dal tremendo ergastolo: mi vedo alquanto spazio intorno, mi vedo netto,
passeggio sovra un pavimento di mattoni, non più quelle belve nell'anfiteatro,
non più quelle voci; mi pare quasi di sognare. Oh durasse questo sogno! non
tornassi più là!
Dal
largo ed alto finestrone, che ha una buona invetriata, si vede lo spazzo che è
innanzi l'ergastolo; la campagna dell'isola divisa in vari scompartimenti da
muri a secco e da siepi di fichi d'india; una casipola che è sulla vetta più
alta di questo scoglio, dove sorgeva la casa di Giulia figliuola di Augusto;
una valletta nella quale pascolano una vacca, un'asina, alquante pecore e
capre, guidate da un pecoraio forzato, e che si mantengono per il latte
dell'ospedale: si vedono filari di viti, il grano che verdeggia sul terreno, e
alquanti zappatori lontani che alle giubbe rosse si riconoscono per forzati: la
sera vedo il cielo stellato, il giorno riposo l'occhio sul verde e sul mare e
sulla strada che scende giù alla marina, per la quale sono salito, ora sono più
che quattro anni, e non so quando e come discenderò.
Su
lo spazzo passeggiano soldati, impiegati ed altre persone libere: e vi sta
sempre una nidiata di fanciulli che corrono, saltano, strillano, tendono
trappole agli uccelli, scagliano sassi, si bisticciano, si voltolano per terra,
fanno tutto ciò che i fanciulli sogliono fare. Io li riguardo con una
tenerezza, con un amore, con uno struggimento grande. Tra essi vi è uno di un
forse dieci anni che somiglia moltissimo al mio Raffaele quand'era a quell'età.
Io lo amo, lo riguardo con una passione indicibile, e stamattina l'ho veduto
prestissimo scherzare con due cani, e correre, e far mille giri e rigiri. Ho
voluto vederlo da vicino, gli ho dato de' zuccherini, me l'ho fatto amico: si
chiama Antonio, è figliuolo di un aiutante del chirurgo, è simigliantissimo a
Raffaele sì, ma quegli occhi, quelle due stelle che sono in fronte negli occhi
del mio Raffaele, quella vivacità, quella prodigiosa elasticità di membra,
quella sveltezza e snellezza di persona, non l'ha questo caro fanciullo, che è
piuttosto tranquillo e bonario. Oh quanto è diverso da questo il mio Raffaele,
ora giovane di diciotto anni (ed oggi, oggi appunto ei li compie) marino, che
su la flotta sarda forse veleggia per la Crimea. Va, o mio figliuolo, va,
benedetto da tuo padre che col pensiero e con l'affetto ti accompagna: va,
difendi l'onor nostro, e torna vittorioso. Se passando vedi questo scoglio
doloroso, non piangere, ma saluta tuo padre, il quale cacciando la mano dai
cancelli, a cui sta affisso per iscorgere la tua nave, ti benedirà da lontano.
Potessi rimanere in questa quiete sepolcrale, sì, ma quiete, per tutto il
tempo che dovrò penare nell'ergastolo! si arrestasse a questo punto il disfacimento
dell'anima mia, la scomposizione del mio pensiero, l'amarezza che mi circola
per tutte le vene col sangue e mi fa battere più forte il cuore. Avessi una
stilla di pace, un raggio debolissimo di luce nella mente: si rompesse questa
gran tenebra che mi circonda!
Nella nostra stanza, quasi a ricordarci che stiamo nell'ergastolo, sono
due altri ergastolani: uno che ci serve, ed un altro che custodisce le
biancherie e le masserizie dell'ospedale, che sono poste in un'altra stanza
precedente alla nostra. Ogni giorno il mio buon Gennarino mi manda una lettera
affettuosa, ed io ogni giorno gli rispondo. Quanto mi duole che sono diviso da
lui! Se potessi serbare le lettere che egli mi scrive, e che io a lui scrivo,
resterebbe una anatomia di strazi e di tormenti che vincono ogni immaginazione,
e forse si vedrebbe un nuovo genere di conforti e di consolazioni che due amici
in una grande sventura si scambiano tra loro. In queste carte io non iscrivo
tutto quello che sento, e che penso, e che vedo, e che odo: perché se anche
avessi la forza di farlo, come e dove nascondere queste carte? Se sono prese e
lette, non offenderanno nessuno. Io le scrivo non per narrare altrui ciò che
patisco, ma per poter un giorno leggerlo io, e ricordarmi di queste sventure.
Io potrei dimenticarmi, io temo di perdere anche la memoria: saria veramente
doloroso per me se dimenticassi anche queste sventure, che son l'ultima cosa
che mi rimane, e quasi direi mi son divenute care.
Santo Stefano, 30 aprile 1855.
Iersera è morto Antonio Prioli, sacerdote, di
Saracena in Calabria giovane di trentadue anni, condannato per causa politica a
sette anni di ferri. Un malore lo ha distrutto in cinquanta giorni. Stamane gli
altri sacerdoti condannati politici gli hanno renduti gli estremi uffici, lo
hanno accompagnato al camposanto. Dalla finestra ho veduto la bara, e i dolenti
compagni, ed ho pianto come un fanciullo. Oh che giorno di dolore è stato
questo per tutti i politici! Nel camposanto sono due pietre dove sta scritto:
“Felice Petrassi 1847”, ed “Antonio Prioli 1855”: sotto quelle pietre stanno le
reliquie di due giusti, fra tanti e tutti scellerati. Chi sa se qualche altro
di noi anderà con quei due! Il buon Prioli era amato da tutti per la bontà
dell'indole, ed una virginale purezza di costumi: ed è pianto da tutti,
specialmente dal sacerdote Francesco Surace, che gli era fratello
nell'amicizia. Possa quell'anima affannata avere da Dio il premio della buona
vita che ei menò fra gli uomini, i quali lo perseguitarono e lo condussero a
morire in galera. Possa dormire in pace e non essere turbato dal rumore della
zappa che scaverà la fossa per altri suoi compagni.
Santo Stefano, 12 maggio 1855.
È morta, è morta! Due gemine stelle
lucevano nel cielo; una si spense
e cadendo vanì: l'altra sorella
senza luce rimasta e senza amore,
per gl'infiniti, oscuri, sconsolati
spazi dell'universo va piangendo
e cercandola invano. Alle compagne,
che van pel firmamento pellegrine,
e scintillano liete del sorriso
di quella Intelligenza che le move
e le innamora, chiede l'affannata:
“dite, dov'è l'intelligenza mia?”
“È morta,” le rispondono, “è caduta
nel nulla che circonda l'universo.”
La disperata prosegue l'andare.
E al nulla va, ché non desia che il nulla.
Rinverdirà, rifiorirà quel tronco
che il turbine e la folgore percosse,
e solcato lasciò di larghe piaghe?
L'albero rigoglioso or fatto è brullo
e secco tronco; e di vitali umori
più la terra nol nutre inaridita.
O giorni lucidissimi, o sereni
della mia giovinezza, dove siete?
Una tenebra fitta e dolorosa
stammi d'intorno; il lume che splendeva
nella mia mente è spento, e l'armonia
che dentro il cor mi risonava, or tace.
Orbo, cammino, e levo il mento in suso
disiando che vengami negli occhi
un raggio di bellezza: brancolando
cerco il vero e nol tocco: ad ogni passo
par che mi si apre sotto i piedi ignota
voragine, entro cui precipitando
i' non vi trovo mai fondo, né morte.
O Lume, o Mente, o Intelligenza mia,
dove se' tu? Come garzon che piange
su l'amata fanciulla che per lento
morbo sfioria languendo e si moriva:
così piango su te, che a poco a poco
vidi mancarmi, e disparire in guisa
di fumo che nell'aere vanisce.
Chi mi rapì la mia diletta? Forse
sì bella altrui non era: a me leggiadra
m'inleggiadrìa tutte le cose. Meco
ella nacque, e gemelle innammorate
trascorrevam le solitarie vie
della vita mortale, riguardando
serenamente gli uomini, e le loro
gioie, e gli affanni, e l'opre, e l'insolente
giuoco della Fortuna, e le rovine
del tempo, lento domator del tutto.
Era amore ogni cosa intorno a noi.
Noi sentivamo il palpito segreto
della terra, che d'erbe, d'animali
e di tutti i colori e le vaghezze
s'ammanta per parer più bella al cielo,
che la mira con tanti occhi ridenti.
E quando vedevam più forti e ardite
nell'aere librate altre gemelle
gli spazi navigar del firmamento:
“levati,” mi diceva, “Anima, ardisci”;
e dal disio portate entrambe il volo
dell'aquile prendendo, fin nel sole
giungemmo, e quivi a due vive fontane,
donde talor piovono spruzzi in terra,
bevemmo il vero e il bello. Oh, vita mia,
or chi mi guida il volo, ed a quell'acque
mi riconduce? Per me spento è il sole,
seccate le sue fonti, e in mezzo al buio
dell'universo un ventilare io sento:
certamente è la morte che a me viene.
Il tagliar d'una spada
apremi le palpebre,
e una voce m'interroga: “Che vedi?”
“Una spada rovente
in questo universale tenebrore
splender sinistramente.”
“Or ch'hai veduto, credi.
La spada del dolore
è il solo ver che esiste in mezzo al niente.
Quella che chiamano - luce di scienza
è breve tenue - fosforescenza
che delle lucciole - sta sotto l'ale.
Perché la dicono - luce immortale?
“La
parola creava
un
mondo, e il colorava.
Ed
essa d'ogni cosa
è
la sustanza ascosa,
il
nocciolo del frutto
che
vietato e gustato
produsse
tanto lutto.
“Così
gli uomini sciocchi
credettero
con gli occhi
proprio
di vedere
le
ragioni immortali
e
de' beni e de' mali.
Ma
fu solo un parere;
fu
un'eco ripercossa
a
cui dier polpa ed ossa.
“Il
vero è tutto buio,
e
non ha alcun colore,
come
il tempo continuo
non
distinto per ore,
né
altro se ne sente
che
il dolore del niente.
Questa
vostra ragione
s'affatica
s'affanna
con
un bocciuol di canna
far
bolle di sapone:
che
vaganti, tremanti,
infine
si disciolgono
in
gocciole di pianti.
Ed
a voi par che in mano
tenga
del mondo il perno,
e
ne sieda al governo.
Sì,
ne avete le prove!
Quanto
riso mi muove
questo
genere umano!”
Questa
voce crudele
il
cor m'empie di fiele.
O
mia mente perduta, dove sei?
Salvami
da costei.
Santo
Stefano, 22 agosto 1855.
Da quanto tempo non piglio queste memorie! Me n'ero
proprio dimenticato, come mi sono dimenticato di tante cose. Quante cose vi
avrei scritto in quattro mesi da che non le tocco, se avessi voluto e potuto
scrivere in esse tutto ciò che ho sentito!
Da un mese son ritornato nell'ergastolo, nell'orribile pandemonio. Silvio
ed io abbiam dovuto lasciar la quiete di quella stanza, la veduta della
campagna, e tornare in un camerino, dove siamo cinque politici, Silvio,
Gennarino, De Simone, Calafiore, ed io. Come è brutto l'ergastolo quando vi si
ritorna! Il camerino, che era uno di quelli che appartenevano all'antico
ospedale, ha il numero 25, ha una finestrella che guarda un pezzo di Ventotene,
proprio quello dove sorge il tristo camposanto, e lo spazio di mare che è tra
l’isola di Ponza, e Monte Circello fino a Terracina.
Mia moglie nel mese di
aprile chiese permesso e passaporto per venire a vedermi dopo tre anni: le fu
dato il passaporto il primo giorno di giugno: ella era per venire, ma la Giulia
cadde ammalata. Io aspettava. Il ventotto giugno vedo una barca, la guardo col
cannocchiale, vi scorgo a poppa una donna ritta in piedi: i forzati mi dicono
di avere udita la voce dei marinai, che gridando annunziano venire la famiglia
del signor Settembrini. Io vedo, io sento ad un palpito del cuore che quella ritta
in piedi era la mia Giulietta. Accompagno la barca nel porto di Ventotene,
aspetto più d'un'ora il battello, il quale finalmente esce dal porto. Io
scendo, e mi trovo tra le braccia della mia diletta figliuola Giulietta, e poi
della cara e sventurata compagna mia. Oh che momento fu quello! Quanta
consolazione, e quanta amarezza! Prima delle due afflitte, erano venuti ordini
al comandante la piazza di Ventotene, e al comandante l'ergastolo, “di vigilare
la nominata Raffaela Settembrini che con la figlia Giulietta va a visitare il
noto condannato di tal nome, e d'imporle di ritirarsi al più subito dopo di
aver veduto il marito”. Si voleva eseguire l'ordine a puntino: che mia moglie
mi vedesse una sola volta, e partisse nello stesso giorno. Ma la bonarietà degli
uomini, la mancanza di barche che partissero subito, le ragioni, le persuasioni
ed un argomento che fece dare sepoltura a Giacomo Leopardi, fecero sì che mia
moglie stette sei giorni, e partì il 4 luglio.
Come volarono presto quei sei giorni, e che immenso desiderio m'hanno
lasciato nell'anima! Io ho innanzi agli occhi quella povera afflitta, e sento
ancora il suono della sua voce carissima. Non parlammo di altro che dei nostri
figliuoli, del nostro Raffaele che ora è sulla flotta sarda in Crimea, e della
nostra Giulia, già fatta donzella di sedici anni. Povera figliuola! gentil
fiorellino di candidezza e di freschezza. Io la vidi bambina, ora l'ho riveduta
donzella, e non mi par vero. Quanta mestizia ha nei begli occhi, e nel volto!
Così tenera, così afflitta! O Giulia mia, o colomba mia innocente e cara, dove
sei ora? perché io non ti vedo? Ella è stata richiesta da un buono e bravo e
colto giovane, che non teme d'avvicinarsi alla famiglia d'un ergastolano
politico. Qual dote io posso dare alla diletta figliuola mia? Mi venne un
pensiero: farle dono della mia traduzione di Luciano, cederne a lei la
proprietà: e questo pensiero mi ha riaccesa la vita, rischiarata la mente,
cresciute le forze. Io non penso, non leggo, non iscrivo altro: mi pare così
bello e dolce il lavorare, che prima mi stancava e mi noiava: sento una
baldanza allegra che io posso anche nell'ergastolo lavorando giovare alla mia
creatura: sento la dolce compiacenza che sentivo una volta quando lavorava, e
del frutto del mio lavoro sostentava la mia famiglia! Non trovo più difficoltà,
non sento più stanchezza, lavoro facilmente, tutto mi riesce secondo il mio
concetto: le carte che scrivo mi paiono abbellite dal sorriso della mia Giulia,
la quale mi sembra che venga a sedersi vicino a me, e legga ciò che io scrivo e
mi sorrida, e m'incoraggi a lavorare. Dacché ho questo pensiero io mi sento più
che io. Picciolo è il dono che io posso farle, ma altro non posso: vorrei
potere la Gerusalemme, e dargliela, ma dov'è l'ingegno?
Quando elle erano qui, in alcune ore della mattina ed in alcune del
giorno, nelle ore di udienza, noi eravamo insieme: io stava in mezzo a loro, e
tenendo fra le mie una mano di mia moglie ed una mano di mia figlia,
ragionavamo: io guardava ora l'una ora l'altra. Quante cose mi proponeva di
dire, e non dissi! quanto desiderio mi è rimasto nell'anima! La sera quando
dovevamo separarci elle venivano su lo spazzetto che è innanzi l'ergastolo, e
quivi innanzi il finestrone della stanza sedevano sovra un poggiuolo di pietra,
mi salutavano, scambiavamo alcune parole, e stavamo un pezzo senza che le
sentinelle dicessero una parola. Questi soldati ci riguardavano con reverenza:
e quando la Giulia giunse e corse ad abbracciarmi e baciarmi la mano, io vidi
la sentinella che è innanzi la porta voltarci le spalle e asciugarsi gli occhi
col dorso della mano. Quando elle partirono io non poteva riguardare quel
poggetto: mi pareva di vederle lì, di udirne le voci. “Addio, Luigi,
buonanotte.” “Buonanotte, papà, beneditemi.” “Buonanotte, Gigia; buonanotte, o
Giulia, sii benedetta.”
Il primo giorno che elle
giunsero andammo per cortesia a visitare il comandante, che ha moglie, e
parecchi figliuoli tre le quali due donzelle: queste al vedere la Giulia, come
tra fanciulle si suole, le fecero festa, e mostrandole un loro gravecembalo, le
domandarono se sapesse suonarlo: ella sedé a quel povero gravecembalo, e
cominciò a suonare. Le fanciulle, la madre, altri lì presenti la guardavano
maravigliati. Io che non avevo udito mai la Giulia suonare, e che da tanto
tempo non avevo udito una musica, mi sentii commosso in un modo indicibile, mi
si serrò la gola, non potetti reggere più: ed essendo l'ora tardi, mi levai,
strinsi la mano a mia moglie, diedi un ultimo sguardo alla Giulia, e senza
poter profferire una parola mi ritirai! Oh non si può immaginare che effetto
produce nell'anima di un ergastolano una musica, ed una musica d'una cara
figliuola!
Quando io le rivedrò? quando udirò un'altra volta una musica della mia
Giulia? Vidi la barca partire, e sulla barca un fazzoletto bianco che si
agitava: non vidi niente più.