I
Verseggiando a meraviglia ed
anche poetando stupendamente, si può spropositare in politica, anzi non capirne
un acca. Gli esempli abbondano. Fra i contemporanei il più splendido ed ovvio è
quello del besanzonese Vittor Hugo, il quale divulgò un volume di giambi
archilochei contro la Maestà di Napoleone III, tanto belli ed ingiusti che,
resi inoffensivi dalla esagerazione stessa, venivan declamati per ischerzo ed
isvago ed ispasso ed iscapricciamento dalla Imperatrice Eugenia e dagl’intimi
della corte, durante le prosperità del magnanimo alleato nostro e benefattore.
Jacopo Sannazzaro ci offre un’altra istanza più remota di valore epigrammatico
unito ad insipienza politica. A credergli, i patroni e gli amici suoi sarebbero
stati tanti valentuomini e galantuomini; chi poi loro li avversava, chi gli o
loro noceva, dappoco e furfante. Piaggia gli uni stomachevolmente, ingiuria
smodatamente gli altri; ora scodinzola e lambisce e poi ringhia ed azzanna; ma
sempre in que’ suoi terribili epigrammi, in quelle saporite epistole non truovi
giudizio che non sia uterino: esclamazioni enfatiche e vomiti biliosi.
Certo, se
qualche papa avesse pensato a conferirgli lo ambito cappello cardinalizio, non
avrebbe imprecato a tutti i pontefici contemporanei. L’odio singolare contro
Alessandro VI, dipende dalla parte che questi, offeso dallo avergli Re Federico
negata una figliuola pel Duca Valentino col principato di Taranto in dote e
costretto ad allearsi a’ franzesi, ebbe nella caduta degli Aragonesi di Napoli.
Il Sannazzaro esulta della catastrofe de’ Borgia e non intende quale sciagura
fosse per la patria. Assiste sorridendo ed applaudendo agli ultimi sforzi, alle
lotte estreme di Cesare, che a lui sembran meri giuochi anfiteatrali:
Ne tibi, Roma,
novae desint spectacula pompae,
Amphitheatraleis reddit arena iocos.
Scandalizza l’allegrezza sua per
la pace effimera, anzi momentanea, che seguì la morte di Alessandro, gioia
criminosa o stolta come quella d’un italiano moderno il quale si fosse
rallegrato per la quiete letale che tenne dietro a Novara. Stomacano gli
endecasillabi a Marino Caracciolo, ne’ quali giubila perché il Gonfaloniere di
Santa Chiesa, ille maximus Urbis imperator, debba rivomitare in un
giorno cinquecento città divorate in cinque anni.
Quingentas modo
qui voravit Urbes...
Urbes sub ducibus suis quietas...
Ecce, ecce
evomit! O Jovem facetum,
O pulchram
Nemesim, o venusta fata,
O dulce ac lepidum, Marine, factum!
Non affermerò che Cesare Borgia
fosse un santo; non esaminerò le nefandezze imputate al padre ed a lui,
quantunque parecchie siano discutibilissime ed alcune dimostre false: dò tutto
per vero, concedo tutto. Ma nessuno negherà loro l’ambizione santa di fondare
nella Italia centrale un vasto regno e forte, il quale avrebbe potuto poi
agevolmente annettersi la rimanente penisola tutta, tranne forse i dominî della
Serenissima. Poco mancò che il pio disegno non diventasse fatto: se un veleno
bevuto in fallo non avesse ad un tempo ed ucciso il pontefice e messo all’orlo
del sepolcro il figliuolo, l’Italia si sarebbe probabilissimamente unificata
qualche secolo prima, e quando produceva quegl’ingegni miracolosi in ogni
disciplina, che le mancano nella età presente. E condanneremmo, noi italiani,
chi tentava redimerci e soccorrere a’ nostri mali? Quel pensiero, quello
intento compenserebbe ogni nequizia, emenderebbe ogni indegnità. Contro tanta
pietà verso un popolo intero, che pesano nella bilancia della divina giustizia,
ossia nella conscia Istoria, che possono pesare, qualche nefandigia privata, o
le rapine e le crudeltà ne’ singoli, in chi attraversava, impediva, ingombrava,
intralciava la strada? Quanto appunto l’ingenuo autor dell’Arcadia
rimprovera con maggior acrimonia al Duca Valentino, c’induce a venerarne la
memoria. Avea divorato cinquecento città; e non era sazio; e diceva Aut
Caesar, aut nihil; e voleva inghiottirne quante ce ne ha nella penisola, e
distruggere ed amalgamare centinaia di repubblichette ignominiose, di signorie
vituperevoli, tutte imbelli, tutte dappoco, tutte senza importanza al mondo,
tutte incapaci di giovare anche a loro stesse, non essendovi per gli stati né
bene, né dignità senza forza. Quale uomo assennato compatirà mai le sventure o
lo scempio di quelle dinastiucole che consumarono l’Italia come una scabbia,
come una ruggine? «È contrario alla misericordia l’increscerci di colui che non
solo non l’ha conosciuta, ma non sa che cosa si sia fede, bontà, virtù e
gentilezza» diceva il Firenzuola. Il Voltaire, in un’Oda alla Verità,
sclama:
Que Borgia,
sous sa tiare,
Levant un front incestueux
Immole à sa fureur avare
Tant de citoyens vertueux,
Et que la sanglante Italie
Trembie, se taise et s’humilie
Aux pieds de ce tyran sacré:
O terre: ô peuples qu’il offense!
Criez au ciel, criez vengeance;
Armez l’univers conjuré.
L’è una bella strofa; ma forse
sarebbe stato molto imbarazzato il ser gentiluom di camera del Re
Ludovico XV, se altri lo avesse pregato di mentovare qualcuno de’ tanti
cittadini virtuosi, ch’egli asserisce sacrificati allo avaro furore di Papa
Alessandro VI.
Gli uomini e
gli eventi si giudicano rettamente solo da’ tardi posteri, che ne veggono la
conformità o la discrepanza dalla missione dell’epoca. Ora si comincia a
scorgere e riconoscere lo scopo della nostra istoria medievale e moderna e
quindi siamo a modificare i giudizi convenzionali e tradizionali sugli attori e
sulle azioni; perché buono e grande è chi coopera alla soluzione d’un problema
istorico e l’agevola, malvagio e sciocco chi la ostacola; belli e da lodarsi
que’ fatti che spianano la via alle nazioni, brutti e da biasimarsi quelli che
la guastano o che le forviano. La storia d’Italia avea per iscopo la creazione
dell’unità nazionale interna ed esterna, d’un popolo italiano e d’uno stato
italiano, d’una Italia unanime come la odierna, magnifico arnese che in pugno
al suo Re farà prevalere le idee ch’è chiamata a rappresentare. Per formare
questo popolo e questo stato, occorreva assimilare a poco a poco gli elementi
eterogenei; opera non ancor perfetta e che dura da secoli. L’epoca de’ comuni e
delle repubblichette, che gl’illusi stimano gloriosa e splendida, fu il tempo
della massima nostra miseria e sciagura; ed il suo fatuo splendore è da
paragonarsi alla fosforescenza della putredine. Da tanto frazionamento non si
sarebbe mai potuto procedere d’un tratto alla unità, che anche imposta
esternamente dalla violenza, avrebbe poi soggiaciuto in breve alle potenti
forze disgregatrici interne. Ci vollero le gare municipali e le guerre
fraterne, che distrussero parte delle repubblichette, costituendo staterelli,
dalla riduzione continua del cui novero s’andarono man mano formando stati
ampli, eliminandosi sempre più discrepanze e minorando le varietà de’ tipi.
Quando poi gli stati fur sette soli e schiavi, bastò un momento, un’occasione
ed un gran Re, per sopprimerli e fonderli in uno e libero: se invece avessimo
avute ancora mille repubblichette, mille signorie, tutte indipendenti, con
cittadini contenti delle leggi e de’ principi loro, non si sarebbe conchiuso
nulla. Dunque, chiunque, comunque ha contribuito a sopprimere una
repubblichetta, allo ingrandimento d’una signoria, alla distruzione della
indipendenza d’un comune, è benemerito della patria, avendo collaborato ad
unificarla, a farla. Chiunque invece ha rivendicato a libertà un municipio, od
in qualsivoglia modo contrastato a’ creatori degli stati grossi, con le
migliori intenzioni del mondo ha combattuto il bene vero della patria, ha
contraddetto la volontà divina manifestata nella storia. Per esempio, son da
riprovarsi il Ferruccio e gli altri difensori di Firenze, né possono
commendarsi equamente Alessandro VI, Clemente VII, Paolo III, che studiandosi
di ampliare le famiglie loro, facevan opera santa. Oh eran cattivi pontefici! A
noi che importa? Giovarono od almeno intesero giovare alla Italia? Qui giace
Nocco per me. Forse un buon pontefice dev’esser fatalmente cattivo italiano,
funesto e senza viscere per questa nostra terra diletta. Alessandro VI ed il
Duca Valentino, loro, loro de’ quali narrano tante turpitudini, volevano
servirla e liberarla dagli Sforza e da’ Malatesta, da’ Manfredi e da’ Riari,
da’ Varano e dagli Appiani, da quanti tirannelli, da quante repubblichette anarchiche
ed aristocratiche la infestavano, loro tentarono di creare un argine saldo alle
invasioni barbariche e caddero a mezzo l’onesta impresa. Il Machiavelli li
approvava e riconobbe in Cesare Borgia l’unico principe capace di fare quel
ch’e’ vagheggiava; il suo principe; l’eroe che vive pe’ propri disegni, che
sacrificando alla ragion di stato ed al bene pubblico quanto ha di umano,
diventa inesorabile al pari delle leggi di natura, né cura se il vulgo lo
esecra e lo infama, né gl’importa di lasciare un nome abominato a’ posteri
medesimi che raccoglieranno i benefici delle carneficine e delle rapine.
Tragico è il fallire de’ disegni di uno eroe così fatto quando egli è
più vicino ad incarnarli, come appunto avvenne al Borgia. Fallire dopo tante
fatiche e tanta effusion di sangue che rimarrà versato inutilmente e quasi per
capriccio. Sentirsi sul capo le maledizioni della plebe inconsulta, ripercosse
anzi promosse anche da’ buoni, ma miopi! Non poter giustificare con l’uso del
potere i mezzi ed i modi adoperati per impossessarsene! Non poter salvar nulla
dal naufragio de’ nobili schemi vagheggiati, amati! Vedersi tradito da tutti e
tutto e languire prigioniero in una miserabil bicocca, dopo aver occupato di sé
l’universo!... Povero Cesare Borgia! cos’ha dovuto soffrire chiuso e custodito
dalla slealtà spagnuola nel castello di Medina-del-Campo! E quando immagino che
alcun codardo epigramma del Sannazzaro, giungendogli allora ha potuto strappare
una lagrima dall’occhio superbo del nostro Eroe, del nostro vindice, dello
sterminatore di signorotti e sovvertitore di repubblichette... penso che non
vorrei la immortalità del Sannazzaro al prezzo di questa azione, io. Il posto
del gran poeta sarebbe stato accanto al gran politico e guerriero, non accanto
a quel da meno di Re Federigo.
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