II
Dicono che Gonsalvo di Cordova
annoverasse fra’ suoi tre rimorsi il tradimento usato al Duca Valentino; e gli
altri due erano un tradimento simile verso il Duca di Calabria o l’ommesso
tradimento contro il Re d’Aragona, avendo avuto podestà ma non cuore
d’insignorirsi per conto proprio della corona di Napoli. «Mandò a chiedere il
Borgia» dice Pietro di Bourdeilles, abate e signore di Branthôme, ne’ suoi
zibaldoni, «mandò a chiedere al gran capitano un passaporto e salvacondotto,
per recarsi a visitarlo in Napoli... L’altro glielo spedì liberissimamente,
valido ed ampio. Stando in quella città discutevano grandi schemi per
impadronirsi di tutta Toscana: un giorno avendo Cesare augurata la felice notte
a Gonsalvo nelle stanze di lui e ritirandosi ed avendolo Gonsalvo
affettuosamente abbracciato per mostra; fu nell’uscire dalla stanza costituito
e sostenuto prigione in castello; e si mandò allora per allora al suo alloggio,
per torgli e prendere il salvacondotto antecedentemente datogli (cerimonia
superflua davvero!)... Si guardi bene prima di dare o ricevere uno di questi
benedetti salva condotti. È degna cosa il mantener comunque la fede. Grande è
la tentazione di romperla per regnare (come diceva lo antico Cesare); ma il
romperla per tor la vita ad un misero prostrato dalla fortuna o per chiuderlo
in prigione perpetua, come voleva fare il Re d’Aragona, è imperdonabile; e
Gonsalvo si disonorò e s’infamò eseguendone gli ordini». Il Borgia, non valendo
ned a resistere, ned a fuggire, desiderò almeno di venir tradotto a
Medina-del-Campo, dove soggiornavano Ferdinando ed Isabella, sperando molto da
un abboccamento con le Altezze loro (questo era il titolo assunto per lo più
dai Monarchi in quel tempo, prima che Carlo V pretendesse della Maestà a tutto
pasto). Confidava che i buoni uffizi del cognato, Re di Navarra; che la memoria
de’ servigi e dell’arrendevolezza del padre; che il ricordar le promesse
fattegli; che le qualità sue personali, onde chiunque lo avvicinava solea
rimaner affascinato, avrebbero indotto i sovrani spagnuoli a restituirgli la
libertà. Doloroso certo, per chi era giunto all’apice delle grandezze, il
rotolar giù, e ricominciare daccapo ad arrampicarsi come Sisifo senza troppa
fiducia di raggiungere la meta; però, sempre meglio questa fatica frustranea,
che l’inerzia. Viaggiando viaggiando, Cesare architettava nuovi schemi ed
arditi. Forse il tempo, ch’è galantuomo, dicono, gli serbava nuovi allori ed un
miglior destino. Forse capitanando l’esercito del cognato Re di Navarra o gli
uomini d’arme e le artiglierie dell’altro suo cognato, del marito della sorella
sua carissima, forse avrebbe potuto riconquistarsi qualche principato. Alla
peggio, i reali coniugi (che pochi anni prima avevan fidato tre legni ad un
avventuriere genovese per iscoprire quel mondo nuovo spartito quindi da suo
padre tra spagnuoli e portoghesi) non negherebbero anche a lui qualche
bastimento per andare a scoprire ed assoggettare reami sconosciuti, là nelle
Indie. E già, prevenendo l’evento con l’agile speme, pensava di rimunerarli da
par suo, col rendersene poi independente: i Borgia non si preparano per la
vecchiaia de’ rimorsi di ommesso tradimento, come asseriscono averne avuti
Gonsalvo di Cordova. Ed immaginava anzi che Ferdinando ed Isabella venissero a
visitar gli acquisti da lui fatti; e giurava a sé stesso che non sarebber mai
tornati indietro da quel viaggio. Un Cesare Borgia non ha ritegni, che il
trattengano da quanto può assicurargli lo impero e non si espone a tardi rimpianti
come quel Gabrino Fondulo, signor di Cremona, che Filippo Visconte catturò con
astuzia e fe’ giustiziare nella sua ducal Milano. Il quale rispose a’ frati
assistenti: «Non ch’io mi penta di quel che ho fatto per ragion di guerra, ma
duolmi ch’io non precipitassi dal Torrazzo Papa Giovanni XXIII e Gismondo
Imperatore, quando me ne venne il pensiero e mi vergognai di far tanta ingiuria
a chi s’era fidato di me come amico. Se non avessi avuto quel rispetto, ora non
sarei assassinato».
Siffatte
speranze, lusinghe, ipotesi, immaginazioni e fantasticherie rianimavano il Duca
Valentino e gli rendevan tollerabile lo stato suo. Non c’è uomo infelice che
non si consoli fabbricandosi un castell’in aria, e riparandovi, ricoverandovisi
da’ dolori della vita. Lì spende le migliori ore della giornata; lì passa notti
voluttuose. Vi si riduce per ogni strada, sognando, fantasticando: ogni
pensiero, ogni avvenimento, ogn’incontro gli è pretesto per batterne la strada.
Questo castell’in aria è diverso in ogni uomo, più o men bello, più o men
nobile: per taluni è amore, per altri è gloria, per altri, altro: ma chiunque
ha una siffatta villeggiatura ideale ed ottiene e gode con la fantasia, ciò che
forse non asseguirà mai nel mondo delle cose. Il povero Leopardi ha un bello assicurarci
che «la speranza è una passione turbolentissima, perché porta con sé
necessariamente un grandissimo timore che la cosa non succeda; e se noi ci
abbandoniamo a sperare e per conseguenza a temere, con tutte le nostre forze,
troviamo che la disperazione e il dolore sono più sopportabili della speranza».
Esagerazioni ipocondriche! come ben disse Antonio Muscettola, egregio
secentista, dimenticato e trasandato a torto:
…Il tristo core
Vive tra
mille morti e mai non more.
Ché vitale
alimento
Gli ministra
la speme ogni momento.
E pur,
senza speranza,
Più
tormentoso assai
De
l’inferno sarebbe il nostro mondo.
Per lei del
mare insano
Sprezza
l’ondosa rabbia,
E cerca in
fragil legno,
Sé medesmo
fidando al vento in lido,
Nocchiero
avaro inaccessibil lido.
Per lei tra
ceppi avvinto
Prigioniero
infelice
D’armonioso
metro
Fa risonar
cantando il carcer tetro
Da lei, più
che dall’arte
De
l’Epidaurio nume,
Spesse
volte riceve
Egro
languente medicina al male.
Se arma
cuor disperato
A’ propri
danni suoi destra feroce,
Tosto la
speme incontro al ferro crudo
Fa di sé stessa adamantino scudo.
In tale disposizione d’animo il
Borgia giunse a Medina-del-Campo. «Medina» scriveva un quattro lustri dopo il
Naugerio «è buona terra e piena di buone case, abbondante assai, se non che le
tante fiere che vi fanno ogni anno, ed il concorso grande che vi è di tutta
Spagna, fanno pur che il tutto si paga più di quel che si faria. Ha pur qualche
gentiluomo. Ha assai buone strade... Ha un castello assai buono in un alto, nel
quale stette il Duca Valentino prigione. La fiera è abbondante certo di molte
cose, ma sopra tutto di spezierie assai, che vengono di Portogallo; ma le
maggiori faccende che vi si facciano sono cambi».
Ma, giuntovi,
Cesare non poté vedere né Ferdinando d’Aragona, ned Isabella di Castiglia, e
per buonissime ragioni: il primo n’era partito e la seconda aveva commessa la
corbelleria solenne di morirvi pochi giorni prima, il ventisei novembre di
quell’anno MDIV. Il cadavere di lei viaggiava anch’esso, per Granada, dov’è tuttora
sepolto, se pure qualche insurrezione internazionalista, cantonalista,
intransigentista o che so io, non ha pensato bene di spargerne le ceneri al
vento: ché le plebi son sempre disposte ed a prostrarsi ai piedi del despota
vivo ed a profanar le tombe dei tiranni morti. Il Duca Valentino venne chiuso
nella rocca di Medina-del-Campo e s’ingiunse di strettamente custodirlo al
castellano, vecchio militare bilioso e podagroso, chiamato
Andrea-Jacopo-maggiore-Matteo-Pietro-Mattia - Simone-Filippo-Tommaso-Giovanni -
Bartolomeo-Jacopo-minore-Taddeo Orteguilla-y-Zumarraga. Il cui padre, povero
Idalgo, non potendo usare al figliuolo altra liberalità che di nomi, gli avea
dati per patroni tutti e dodici gli apostoli; e per non peccar d’irriverenza
verso alcuno, fece pigliar dodici mozziconi di candela d’una stessa egualità e
peso e scrisse su ciascun d’essi il nome d’un apostolo e secondo l’ordine in
cui si consumarono impose i nomi al fanciullo. Al quale tanti protettori
celesti assicuravano per certo lo ingresso ed un buon posto in paradiso; ma la
mancanza di patrocinio in questo basso mondo e l’amor de’ dadi, avea impedito
di far peculio, non che fortuna, quantunque, come ogni buono spagnuolo de’ suoi
tempi, avesse più scrupoli religiosi che scrupoli morali. Invecchiava
oscuramente da governatore di un castello che non veniva più considerato come
piazza di guerra, anzi serviva da prigion di stato. Per occupare gli ozi del
servigio e le tregue della podagra, gli era saltato il grillo e venuto il
ticchio di scrivere una cronaca, il celebre Teatro Universale delle Istorie
de’ suoi tempi, che nella prima edizione occupa sei volumi in-folio ed
occuperebbe, se si ristampasse, una cinquantina de’ nostri in-sedicesimo
almeno. Raccoglieva quindi indefessamente notizie ed informazioni da’
personaggi che, o capitavano con la corte in città, o venivano affidati alla
sua custodia in castello. Chi potrebbe descriverne il giubilo quando seppe
dell’arrivo del Borgia? Che fortuna per un cronachista, di poter interrogare a
quattr’occhi e con tutto comodo uno de’ principali attori dell’epoca! di
poterne chiedere la testimonianza ed il giudicio ad ogni istante, sopra ogni
avvenimento! Figuratevi, lo infastidiva del continuo, chiedendogli la verità
vera or di questa or di quella cosa. « E che fece, che disse, che pensò, che
ordinò allora Vostra Mercè? E perché Vostra Mercè si regolò così e così? E
perché antepose il tale al tale altro consiglio la Mercè Vostra? Ed a qual
partito il signor Duca si sarebbe appigliato se le cose fossero andate
altrimenti? Ed è vero quel che si racconta di Vossignoria Illustrissima?». Non
giurerei che fra le tante domande indiscrete, non ce ne fosse anche qualcuna
sulle accuse di fratricidio e d’incesto mosse al Borgia! Il quale, benché la
mania dell’Orteguilla-y-Zumarraga dovesse irritare, stuzzicare, inciprignire le
piaghe del cuor suo, pur seppe cavarne un mezzo di spasso dandogli ad intender
le bubbole più solenni, le menzogne più badiali, le fiabe più fantastiche, le
bugie più maiuscole, le frottole più colossali, le fanfaluche più goffe, gli
spropositi più imperdonabili e le minchionerie più ridicole, che immaginar si
possano. Don coso, credeva ed inghiottiva tutto; e tutto registrava
accuratamente ne’ suoi quaderni, taccuini, stracciafogli, zibaldoni e volumacci;
e notando, ben inteso, d’attingere il tal chiarimento, il tal altro particolare
da don Cesare Borgia, Duca Valentino. Così, rimpinzata di svarioni e di
capestrerie, di scempiaggini e di assurdità, la sua cronaca c’è pervenuta
intrinsecamente falsa ed apparentemente autorevolissi ma. Tutti i compilatori
moderni la citano con venerazione, come una delle fonti più sicure per que’
tempi:
Et voilà justement comme on écrit l’histoire.1
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