IV
Immascherato da girolamino, il
Borgia, uscendo da Medina-del-Campo, s’incamminò col padre Ildefonso alla volta
di Nostra Signora di Guadalupe. Viaggio, per que’ tempi, lungo e disastroso,
anche avendo come le signorie loro ottime cavalcature ed una scorta di
alguazigli per proteggere i bezzi del santuario. Si fermavano od in conventi
dello stesso ordine, od in altri conventi co’ quali i Girolamini avevano trattato
di ospitalità, o finalmente in case di ricchi signori, che si facevano un
pregio di ospitarli, pascerli, accarezzarli e largheggiavan con loro di
abbondanti elemosine e donativi magnificentissimi, ricambiati generosamente da
padre Ildefonso con immagini di santi, rosari e benedizioni. Se la paura di
venir inseguiti e presi non li avesse angustiati, sarebbe stato una delizia
quel viaggio, nel quale, accolti dovunque da una ospitalità sfarzosa, non
misero mai piede in un albergo, in una posada, in una osteria, in una locanda,
né mai mano alla crumena. Gli osti, con le loro bindolerie, amareggiano ogni
piacere a chi va peregrinando. Come dice il poeta,
Deh quanto
dolce e dilettoso fora
L’andare
intorno, il veder monte e lido
Di questa
bella macchina talora
Che Iddio
fe’, perché a noi sia seggio lido;
Se l’uom
trattar non convenisse ognora
Con queste
arpie che vendon cibo e nido;
Con questi
ladri oltre misura arditi
Che ruban sempre e non son mai puniti.
Sventuratamente i due non
pensavano a tenere un diario, un giornale di quanto loro incontrava o parea
degno di nota: peccato! Che pregio avrebbe ora per noi un itinerario del Duca
Valentino, il quale ci descrivesse le cose com’egli le vide allora e ce ne
tramandasse le impressioni! Sarebbe assai più prezioso del Viaggio in
Ispagna del Navagero, che pur si legge con maggior gusto d’ogni altra
scrittura dello arguto veneziano, di tutt’i suoi scarabocchi latini;
quantunque, come diceva un editore, «stimeranno alcuni per avventura, che senza
discapito della fama di lui, anzi con gran vantaggio di essa, potesse
tralasciarsi; scorgendosi appena in tale scrittura (toltane la pura e semplice
notizia de’ luoghi e de’ fatti) acume d’ingegno, bellezza di locuzione o lume
di eloquenza». O tempi, in cui la ingenua e schietta descrizion delle cose o
narrazione degli avvenimenti si posponevano agli arzigogoli ingegnosi, alle
leziosaggini rettoriche ed alle cianciafruscole oratorie!
Don Ildefonso
ed il pseudogirolamino, attraversando Olmedo, Valviadero, Arevalo, Villigillo e
Santa Maria-de-Neva, furono il terzo giorno a Segovia, grande e buona città, in
migliori condizioni allora che adesso, ma già decaduta dalla prosperità
dell’epoca moresca. Non aveva ned ha cosa più bella, né per altro era ed è più
degna di venir visitata, che per un acquedotto antico, al quale non si trova
pari neppure in Italia. Tutto di pietra viva senza calcina, di opera rustica
come l’anfiteatro veronese, cui somiglia di lontano per la grossezza delle pile
e l’altezza de’ tre ordini di volte, mena da circa un miglio, nella città posta
in cima ad una cinghia di sasso, l’acqua, che poi discende al borgo nel piano.
Salvo la sostituzione di qualche santo marmoreo a’ simulacri degl’Imperadori
romani che lo eressero, il monumento è integro ed intatto. Il Duca non era
apprezzatore delle virtù miti cristiane: non poteva comprendere la grandezza
del pensiero che surroga alle immagini de’ padroni assoluti del mondo, dei
vincitori di cento battaglie, de’ legislatori d’un impero sterminato, le umili
effigie di un zoccolante o d’un domenicano. Le sue idee eran tutte mondane, e
rifletté mestamente alla ingiustizia del volgo che abbatte le statue de’ propri
benefattori e ne cancella la impronta dal dono stesso magnifico, per
sostituirvi le figure di chi non curò la cosa pubblica, non provvide ad alcun
bisogno popolare, non ebbe pietà di alcuna miseria umana, ed attendendo alla
sola salvezza dell’anima propria, si chiuse nello egoismo spirituale: «Se
invece di purgar l’Umbria, le Romagne, la Marca, la Toscana, de’ tirannotti impotenti
che vi formicolavano, mi fossi rintanato su qualche cacume impervio o per
qualche balza dirupata, oziando, pregando, predicando, facendo penitenza, sarei
stato seguito e venerato dalle turbe, mi si innalzerebbero templi dopo morto!
Ma non vorrei una gloria, che non poggiasse su grandi opere o mi si concedesse
solo dalla estimazione del vulgo».
In quattro
altre tappe, valicando per pessimi sentieri e sassosi, da non meritare il nome
di strada, le montagne che separano la Castiglia vecchia dalla nuova, i nostri
viaggiatori giunsero a Madrid o Merdid, come fu poi chiamata per
ischerno da noialtri, alludendo alla sudiceria che vi trionfava, la capitale
del reame cui soggiaceva tanta parte d’Italia. Quando in seguito si ripulì, la
ingiuriammo per la sua nettezza e l’Alfieri le disse:
Qui pur già
trovo il gallicume inserto,
Che dalle
vie sbandito ha gli escrementi,
E così
scemo assai l’ispano merto.
Fatte hai,
Madrid, tue vie tersi cristalli;
Ma,
sottentrando a’ sterchi i gallici usi,
Vedrai quanto perdesti in barattalli.
A’ tempi del Valentino, non era
metropoli. Vent’anni dopo il Navagero sapeva dirne solo: «Madrid è buonissimo
loco e posto in bel paese ed ha molti cavalieri ricchi e persone nobili che vi
abitano: a tanto per tanto, forse tanti come nessun altro luogo di Spagna». Qui
riposarono alcun giorno i nostri, ché una settimana di viaggio su’ muli in
Ispagna importava strapazzo maggiore d’un mese di marce forzate in Italia.
Sentite bella descrizione che quattordici lustri dopo facea della contrada Filippo
Sassetti: «Questo è un paese da curarsene, quanto al sentirne novelle; che del
resto io non ci veggo altro di buono che ’l vino e le donne». O Le par poco,
sor Pippo? «E se il Re Pietro d’Aragona venne in Cicilia, com’e’ fu chiamato,
non ve ne maravigliate, perché io vorrei anzi essere podestà di Montespertoli
per un anno, che viceré d’Aragona, dove non occorre dire: Io fuggirò il sole
all’ombra di quello arbuscello; e se voi avete fantasia della cenere che
gettano via le nostre fanti, quando elle la cavano de’ colatoi da ranno, fate
vostro conto che tutto il paese sia una cosa tale. E male per que’ luoghi, dove
fiume non corre, ché si bee acqua piovana, ricolta in certe pozze, simili a
quelle buche che vengono fatte in alcuni luoghi da’ fornaciai per fare i
mattoni. Egli è bene il vero, che beendo si ha questo contento, che nella
caraffa si sente cantare il ranocchio, e vi si veggono dentro varie specie
d’animaletti rossi, verdi, azzurri ed altri colori: o va’ tu in Ispagna». Ma il
Borgia non c’era mica venuto per volontà sua propria e libera. Lo Alfieri,
quasi tre secoli dopo, rinnova le lagnanze e parla «delle pessime strade di
quel Regno affricanissimo»; e dice:
…Ell’è
guerriera impresa
Peregrinar,
dove ogni ostacol trove
Senz’agio
alcuno; e triplicar la spesa
Per esser
tutto strada, strada niuna;
Tale Arabia in Europa assai pur pesa.
Da Madrid a Toledo si metteva tre
giorni: ed è gita di qualche ora in ferrovia adesso. Toledo «è posta in uno
scoglio aspro, circondato quasi da tre parti dal fiume del Tago. La parte dove
non passa il fiume è forte per l’ascesa del monte ratta ed aspra; ma ha innanzi
sotto di sé una pianura, che si chiama la Vega. Da tutte l’altre parti,
passato il fiume, sono scogli e monti asprissimi e più alti che ’l monte dove è
la città; di modo, che la città, ancorché sia in alto, per esser superata quasi
da ogni canto da monti maggiori, è oppressa e sì serrata, che e la state vi fa
un grandissimo caldo, che si serra in que’ monti; e l’inverno è umidissima, per
non vi entrar molto il sole e per le esalazioni continue del fiume; e massime
che la parte piena e libera da’ monti che è la Vega, è dalla parte di
settentrione. I monti che sono circa Toledo sono tutti molto sassosi e nudi di
arbori ed asprissimi». Così la descrive insuperabilmente il Navagero; eppure in
una descrizione tanto evidente, quantunque buttata lì come la penna detta, di
cui ned io, ned alcun altro contemporaneo sarebbe forse capace di scriver
l’uguale, a me pedante, danno noia quegli asprissimi; avrei preferito che
mettesse asperrimi; e’ mi sembra quasi un reato; e se non misfatto e
delitto, almeno almeno una contravvenzion... grammaticale, il dire miserissimo
invece di miserrimo, celebrissimo invece di celeberrimo e
simili. I nostri viaggiatori albergarono fuori città, al convento detto las
Islas «che è de’ frati Girolami; nel qual è un bel capo d’acqua, che fa il
luogo bello ed abbondante d’arbori; cosa da estimar assai in quel paese».
Il Borgia
veniva presentato come un padre siciliano. Avrebbe potuto spacciarsi per
ispagnuolo, e tutti lo avrebbero agevolmente tenuto per tale, ché in fin de’
conti suo padre era di quelle parti; ed egli parlava il castigliano in modo
perfetto: ma le azionacce di Gonsalvo e di Ferdinando gli avevano messo in
cuore un odio mortale contro tutta la nazione; e si trovava presso a poco nella
condizion d’animo di quel fanatico lettor di giornali in non so più qual
commedia del Goldoni, che aborriva tanto il gran Cane de’ tartari, da non poter
più veder cani. Ora in questo convento di las Islas si trovò un frate,
che avendo passati alcuni anni in Sicilia, volle onorare il supposto siciliano
imbandendogli i maccheroni. Ché i maccheroni sono siciliani di origine; e prima
de’ napoletani, i quali anticamente venivan chiamati mangiafoglia, si
chiamarono mangiamaccheroni que gl’isolani. Ned allora si cucinavan come
adesso. E per comodo delle lettrici vaghe di prepararli alla cinquecentista,
riferirò un brano di messer Anonimo d’Utopia, vulgo Ortensio Lando, che
insegna come si condissero: «Fra un mese, se i venti non ti fanno torto,
giungerai nella ricca isola di Sicilia, et mangerai di que’ macheroni, i quali
hanno preso il nome dal beatificare. Soglionsi cuocere insieme con grassi
caponi et caci freschi da ogni lato stillanti butiro et latte, et poi con
liberale mano vi sovrapongono zucchero et canella della più fina che trovar si
possa: ohimè, che mi viene la saliva in bocca sol a ricordarmene. Quando io ne
mangiava, mi doleva con Aristoxeno, che Iddio non mi havessi dato il collo di
grue, perché sentissi nel trangugiarli maggior piacere; mi doleva che il corpo
mio non si facesse una gran capanna». A Cesare non piacquer gran fatto questi
maccheroni col brodo di cappone, col caciocavallo, col zucchero e con la
cannella; dové mangiarne, per dimostrar la sicilianità sua, ma sostenne che
maccarone non venisse da ma'caroç, beato, anzi da manicarone, quasi grosso
mangiare, come manicaretto vuol dire mangiare gentile. Maccarone,
per sincope, prodotta dall’uso. Quel modo di condire i maccheroni, stomacherebbe
noi del XIX secolo. Nec mirum. Anche l’ideale gastronomico, come ogni
altro ideale artistico, religioso, politico, muta col tempo. Le fogge del
cinquecento ci paiono ridicole, le cerimonie di quel secolo ci sembran buffe,
le credenze di allora ci muovono a riso; l’arte stessa che in quel centennio
toccò la perfezione, non risponde più a’ nostri bisogni. Un egheliano tedesco
direbbe che i momenti gastronomici e le categorie culinarie sono
storicamente fluidi. Chi mai gusterebbe a’ dì nostri le quaglie col
zucchero ed acqua rosa, come si rileva dalla scena XV dell’atto III dello Filosofo
dello Aretino, che allora si mangiassero? chi, de’ fegatelli di pollo
inzuccherati? a chi salterebbe in capo di spremere melarance, invece di limoni,
su fritto? E pur così facevasi allora sempre. Ne citerò in testimone il Cieco
d’Adria e questo brano d’una sua dicommedia:
VOLPINO Odi:
fa mèttere
I fegatelli
di polastri a cuòcere
in su le
brage.
BRANCO Anzi
più tosto a friggerli
Ne la
padella con grasso; e con spezie
E
melarancio poi condirli e zucchero.
VOLPINO Perdio,
tu dici il ver; questa è la regola
Degli antipasti.
Ed altrove, il medesimo:
CRAPULO Hai
compro poi melaranzi da spremere
Sopra gli
arrosti?
RIGO Messer
no.
CRAPULO O
che bestia!
Non varran nulla.
Da Toledo a Toryos fu breve
tappa, e qui don Ildefonso ed il compagno trovarono un’altra casa di Girolamini
pronta ad ospitarli: se ne terminava appunto la costruzione a spese d’una
vecchia bigotta pinzochera, per nome donna Teresa Henriquez. Vedova con un
figliuolo unico, delle entrate sue grandissime dava poca parte al futuro erede
necessario, tenendolo a stecchetto; ed il più spendeva in monasteri e cose di
devozione. Il figliuolo, uomo già maturo d’età, facetissimo, parlava sempre per
bisticci e parabole; ma si mostrava spesso maninconioso pel desiderio delle
rendite di cui la madre lo privava. Avendogli il padre Ildefonso chiesto come
stesse la signoria sua, rispose: «Ho un mal nuovo e non consueto di venire agli
uomini, che è mal di madre». Udendo poi l’oriuolo donato dalla madre alla torre
de’ Girolamini sonare a rovescio, sclamò: «Questo non è oriuolo, ma erraiuolo».
Vantandosi inventore di un sistema di filosofia, com’e’ diceva bisticciosa, ne
avea sempre in punta di lingua le sentenze principali. L’idea per lui era il
principio di tutto, perché idea, Iddea. Ciò che è, non potrebbe
non essere, perché fatto, fato. Insomma, a lungo andare, riusciva
più fastidioso di quel demonio Tiritera, cui, come narra Perlone Zipoli:
«Ben tu puzzi,
di pazzo, ch’è un pezzo»
Disse Pluton, bestiaccia per
bisticcio.
Cadde il discorso su’ grandi
uomini che non sempre riescono ad incarnare i disegni magnanimi, e lo
Henriquez: «Chi giunge alla meta, chi solo alla metà, non c’è altro divario che
d’un accento». Ma quando, non potendo immaginare chi fosse lì presente, ripeté
l’epigramma di Pasquino contro Alessandro VI:
Vende
Alessandro e porpora,
E chiavi, e
crisma, e Cristo:
Se pria ne
fece acquisto
Venderli a dritto or può;
durò fatica Cesare a trattenersi
e gli abbisognò gran prudenza per non inveire contro chi, a dritto od a torto,
frizzava, ingiuriava, vituperava, infamava la memoria del padre suo diletto.
La dimane si
andò a Talavera ad albergare in una altra girolamineria, bellissima. Il giorno
appresso ad un altro convento della religione stessa a Ponte dell’Arcivescovo;
ed il seguente a Villaneda; e quello di poi si pervenne finalmente a Guadalupe,
castello giacente in grembo ad una valle fertile e piena di acque, con un
santuario dove concorrevano genti innumerevoli e dal Portogallo non lontano e
da tutti i regni di Spagna, per la devozione grande che vi avevano. V’era
maggior concorso sempre che a Loreto in Italia. Il castello, oltre al
monastero, apparteneva tutto ai frati: «Il monastero certo è bellissimo, ed ha
dentro tutte le arti necessarie ad una città, nonché ad un monastero: e tutto
quel che può abbisognar di fuori cosa alcuna. È ben fabbricato; e tra le altre
cose ha due bellissime volte da tener vino, l’una per botti molto grandi, l’altra
per vasi di terra. Ha bellissimi giardini, pieni di aranci e cedri bellissimi,
quali sono anche nel resto del loco, abbonda di un grosso capo di acqua della
qual si serve prima il monastero e per li giardini e per tutto il resto: poi
esce e serve a tutto il castello». Così ragguaglia il Navagero. I terrazzani
bevevano l’avanzaticcio de’ religiosi.
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