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Vittorio Imbriani
L'impietatrice

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  • IV
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IV

Immascherato da girolamino, il Borgia, uscendo da Medina-del-Campo, s’incamminò col padre Ildefonso alla volta di Nostra Signora di Guadalupe. Viaggio, per que’ tempi, lungo e disastroso, anche avendo come le signorie loro ottime cavalcature ed una scorta di alguazigli per proteggere i bezzi del santuario. Si fermavano od in conventi dello stesso ordine, od in altri conventi co’ quali i Girolamini avevano trattato di ospitalità, o finalmente in case di ricchi signori, che si facevano un pregio di ospitarli, pascerli, accarezzarli e largheggiavan con loro di abbondanti elemosine e donativi magnificentissimi, ricambiati generosamente da padre Ildefonso con immagini di santi, rosari e benedizioni. Se la paura di venir inseguiti e presi non li avesse angustiati, sarebbe stato una delizia quel viaggio, nel quale, accolti dovunque da una ospitalità sfarzosa, non misero mai piede in un albergo, in una posada, in una osteria, in una locanda, né mai mano alla crumena. Gli osti, con le loro bindolerie, amareggiano ogni piacere a chi va peregrinando. Come dice il poeta,

Deh quanto dolce e dilettoso fora

L’andare intorno, il veder monte e lido

Di questa bella macchina talora

Che Iddio fe’, perché a noi sia seggio lido;

Se l’uom trattar non convenisse ognora

Con queste arpie che vendon cibo e nido;

Con questi ladri oltre misura arditi

Che ruban sempre e non son mai puniti.

Sventuratamente i due non pensavano a tenere un diario, un giornale di quanto loro incontrava o parea degno di nota: peccato! Che pregio avrebbe ora per noi un itinerario del Duca Valentino, il quale ci descrivesse le cose com’egli le vide allora e ce ne tramandasse le impressioni! Sarebbe assai più prezioso del Viaggio in Ispagna del Navagero, che pur si legge con maggior gusto d’ogni altra scrittura dello arguto veneziano, di tutt’i suoi scarabocchi latini; quantunque, come diceva un editore, «stimeranno alcuni per avventura, che senza discapito della fama di lui, anzi con gran vantaggio di essa, potesse tralasciarsi; scorgendosi appena in tale scrittura (toltane la pura e semplice notizia de’ luoghi e de’ fatti) acume d’ingegno, bellezza di locuzione o lume di eloquenza». O tempi, in cui la ingenua e schietta descrizion delle cose o narrazione degli avvenimenti si posponevano agli arzigogoli ingegnosi, alle leziosaggini rettoriche ed alle cianciafruscole oratorie!

Don Ildefonso ed il pseudogirolamino, attraversando Olmedo, Valviadero, Arevalo, Villigillo e Santa Maria-de-Neva, furono il terzo giorno a Segovia, grande e buona città, in migliori condizioni allora che adesso, ma già decaduta dalla prosperità dell’epoca moresca. Non aveva ned ha cosa più bella, né per altro era ed è più degna di venir visitata, che per un acquedotto antico, al quale non si trova pari neppure in Italia. Tutto di pietra viva senza calcina, di opera rustica come l’anfiteatro veronese, cui somiglia di lontano per la grossezza delle pile e l’altezza de’ tre ordini di volte, mena da circa un miglio, nella città posta in cima ad una cinghia di sasso, l’acqua, che poi discende al borgo nel piano. Salvo la sostituzione di qualche santo marmoreo a’ simulacri degl’Imperadori romani che lo eressero, il monumento è integro ed intatto. Il Duca non era apprezzatore delle virtù miti cristiane: non poteva comprendere la grandezza del pensiero che surroga alle immagini de’ padroni assoluti del mondo, dei vincitori di cento battaglie, de’ legislatori d’un impero sterminato, le umili effigie di un zoccolante o d’un domenicano. Le sue idee eran tutte mondane, e rifletté mestamente alla ingiustizia del volgo che abbatte le statue de’ propri benefattori e ne cancella la impronta dal dono stesso magnifico, per sostituirvi le figure di chi non curò la cosa pubblica, non provvide ad alcun bisogno popolare, non ebbe pietà di alcuna miseria umana, ed attendendo alla sola salvezza dell’anima propria, si chiuse nello egoismo spirituale: «Se invece di purgar l’Umbria, le Romagne, la Marca, la Toscana, de’ tirannotti impotenti che vi formicolavano, mi fossi rintanato su qualche cacume impervio o per qualche balza dirupata, oziando, pregando, predicando, facendo penitenza, sarei stato seguito e venerato dalle turbe, mi si innalzerebbero templi dopo morto! Ma non vorrei una gloria, che non poggiasse su grandi opere o mi si concedesse solo dalla estimazione del vulgo».

In quattro altre tappe, valicando per pessimi sentieri e sassosi, da non meritare il nome di strada, le montagne che separano la Castiglia vecchia dalla nuova, i nostri viaggiatori giunsero a Madrid o Merdid, come fu poi chiamata per ischerno da noialtri, alludendo alla sudiceria che vi trionfava, la capitale del reame cui soggiaceva tanta parte d’Italia. Quando in seguito si ripulì, la ingiuriammo per la sua nettezza e l’Alfieri le disse:

Qui pur già trovo il gallicume inserto,

Che dalle vie sbandito ha gli escrementi,

E così scemo assai l’ispano merto.

Fatte hai, Madrid, tue vie tersi cristalli;

Ma, sottentrando a’ sterchi i gallici usi,

Vedrai quanto perdesti in barattalli.

A’ tempi del Valentino, non era metropoli. Vent’anni dopo il Navagero sapeva dirne solo: «Madrid è buonissimo loco e posto in bel paese ed ha molti cavalieri ricchi e persone nobili che vi abitano: a tanto per tanto, forse tanti come nessun altro luogo di Spagna». Qui riposarono alcun giorno i nostri, ché una settimana di viaggio su’ muli in Ispagna importava strapazzo maggiore d’un mese di marce forzate in Italia. Sentite bella descrizione che quattordici lustri dopo facea della contrada Filippo Sassetti: «Questo è un paese da curarsene, quanto al sentirne novelle; che del resto io non ci veggo altro di buono che ’l vino e le donne». O Le par poco, sor Pippo? «E se il Re Pietro d’Aragona venne in Cicilia, com’e’ fu chiamato, non ve ne maravigliate, perché io vorrei anzi essere podestà di Montespertoli per un anno, che viceré d’Aragona, dove non occorre dire: Io fuggirò il sole all’ombra di quello arbuscello; e se voi avete fantasia della cenere che gettano via le nostre fanti, quando elle la cavano de’ colatoi da ranno, fate vostro conto che tutto il paese sia una cosa tale. E male per que’ luoghi, dove fiume non corre, ché si bee acqua piovana, ricolta in certe pozze, simili a quelle buche che vengono fatte in alcuni luoghi da’ fornaciai per fare i mattoni. Egli è bene il vero, che beendo si ha questo contento, che nella caraffa si sente cantare il ranocchio, e vi si veggono dentro varie specie d’animaletti rossi, verdi, azzurri ed altri colori: o va’ tu in Ispagna». Ma il Borgia non c’era mica venuto per volontà sua propria e libera. Lo Alfieri, quasi tre secoli dopo, rinnova le lagnanze e parla «delle pessime strade di quel Regno affricanissimo»; e dice:

…Ell’è guerriera impresa

Peregrinar, dove ogni ostacol trove

Senz’agio alcuno; e triplicar la spesa

Per esser tutto strada, strada niuna;

Tale Arabia in Europa assai pur pesa.

Da Madrid a Toledo si metteva tre giorni: ed è gita di qualche ora in ferrovia adesso. Toledo «è posta in uno scoglio aspro, circondato quasi da tre parti dal fiume del Tago. La parte dove non passa il fiume è forte per l’ascesa del monte ratta ed aspra; ma ha innanzi sotto di sé una pianura, che si chiama la Vega. Da tutte l’altre parti, passato il fiume, sono scogli e monti asprissimi e più alti che ’l monte dove è la città; di modo, che la città, ancorché sia in alto, per esser superata quasi da ogni canto da monti maggiori, è oppressa e sì serrata, che e la state vi fa un grandissimo caldo, che si serra in que’ monti; e l’inverno è umidissima, per non vi entrar molto il sole e per le esalazioni continue del fiume; e massime che la parte piena e libera da’ monti che è la Vega, è dalla parte di settentrione. I monti che sono circa Toledo sono tutti molto sassosi e nudi di arbori ed asprissimi». Così la descrive insuperabilmente il Navagero; eppure in una descrizione tanto evidente, quantunque buttata come la penna detta, di cui ned io, ned alcun altro contemporaneo sarebbe forse capace di scriver l’uguale, a me pedante, danno noia quegli asprissimi; avrei preferito che mettesse asperrimi; e’ mi sembra quasi un reato; e se non misfatto e delitto, almeno almeno una contravvenzion... grammaticale, il dire miserissimo invece di miserrimo, celebrissimo invece di celeberrimo e simili. I nostri viaggiatori albergarono fuori città, al convento detto las Islas «che è de’ frati Girolami; nel qual è un bel capo d’acqua, che fa il luogo bello ed abbondante d’arbori; cosa da estimar assai in quel paese».

Il Borgia veniva presentato come un padre siciliano. Avrebbe potuto spacciarsi per ispagnuolo, e tutti lo avrebbero agevolmente tenuto per tale, ché in fin de’ conti suo padre era di quelle parti; ed egli parlava il castigliano in modo perfetto: ma le azionacce di Gonsalvo e di Ferdinando gli avevano messo in cuore un odio mortale contro tutta la nazione; e si trovava presso a poco nella condizion d’animo di quel fanatico lettor di giornali in non so più qual commedia del Goldoni, che aborriva tanto il gran Cane de’ tartari, da non poter più veder cani. Ora in questo convento di las Islas si trovò un frate, che avendo passati alcuni anni in Sicilia, volle onorare il supposto siciliano imbandendogli i maccheroni. Ché i maccheroni sono siciliani di origine; e prima de’ napoletani, i quali anticamente venivan chiamati mangiafoglia, si chiamarono mangiamaccheroni que gl’isolani. Ned allora si cucinavan come adesso. E per comodo delle lettrici vaghe di prepararli alla cinquecentista, riferirò un brano di messer Anonimo d’Utopia, vulgo Ortensio Lando, che insegna come si condissero: «Fra un mese, se i venti non ti fanno torto, giungerai nella ricca isola di Sicilia, et mangerai di que’ macheroni, i quali hanno preso il nome dal beatificare. Soglionsi cuocere insieme con grassi caponi et caci freschi da ogni lato stillanti butiro et latte, et poi con liberale mano vi sovrapongono zucchero et canella della più fina che trovar si possa: ohimè, che mi viene la saliva in bocca sol a ricordarmene. Quando io ne mangiava, mi doleva con Aristoxeno, che Iddio non mi havessi dato il collo di grue, perché sentissi nel trangugiarli maggior piacere; mi doleva che il corpo mio non si facesse una gran capanna». A Cesare non piacquer gran fatto questi maccheroni col brodo di cappone, col caciocavallo, col zucchero e con la cannella; dové mangiarne, per dimostrar la sicilianità sua, ma sostenne che maccarone non venisse da ma'caroç, beato, anzi da manicarone, quasi grosso mangiare, come manicaretto vuol dire mangiare gentile. Maccarone, per sincope, prodotta dall’uso. Quel modo di condire i maccheroni, stomacherebbe noi del XIX secolo. Nec mirum. Anche l’ideale gastronomico, come ogni altro ideale artistico, religioso, politico, muta col tempo. Le fogge del cinquecento ci paiono ridicole, le cerimonie di quel secolo ci sembran buffe, le credenze di allora ci muovono a riso; l’arte stessa che in quel centennio toccò la perfezione, non risponde più a’ nostri bisogni. Un egheliano tedesco direbbe che i momenti gastronomici e le categorie culinarie sono storicamente fluidi. Chi mai gusterebbe a’ nostri le quaglie col zucchero ed acqua rosa, come si rileva dalla scena XV dell’atto III dello Filosofo dello Aretino, che allora si mangiassero? chi, de’ fegatelli di pollo inzuccherati? a chi salterebbe in capo di spremere melarance, invece di limoni, su fritto? E pur così facevasi allora sempre. Ne citerò in testimone il Cieco d’Adria e questo brano d’una sua dicommedia:

VOLPINO     Odi: fa mèttere

I fegatelli di polastri a cuòcere

in su le brage.

BRANCO     Anzi più tosto a friggerli

Ne la padella con grasso; e con spezie

E melarancio poi condirli e zucchero.

VOLPINO Perdio, tu dici il ver; questa è la regola

Degli antipasti.

Ed altrove, il medesimo:

CRAPULO Hai compro poi melaranzi da spremere

Sopra gli arrosti?

RIGO     Messer no.

CRAPULO     O che bestia!

Non varran nulla.

Da Toledo a Toryos fu breve tappa, e qui don Ildefonso ed il compagno trovarono un’altra casa di Girolamini pronta ad ospitarli: se ne terminava appunto la costruzione a spese d’una vecchia bigotta pinzochera, per nome donna Teresa Henriquez. Vedova con un figliuolo unico, delle entrate sue grandissime dava poca parte al futuro erede necessario, tenendolo a stecchetto; ed il più spendeva in monasteri e cose di devozione. Il figliuolo, uomo già maturo d’età, facetissimo, parlava sempre per bisticci e parabole; ma si mostrava spesso maninconioso pel desiderio delle rendite di cui la madre lo privava. Avendogli il padre Ildefonso chiesto come stesse la signoria sua, rispose: «Ho un mal nuovo e non consueto di venire agli uomini, che è mal di madre». Udendo poi l’oriuolo donato dalla madre alla torre de’ Girolamini sonare a rovescio, sclamò: «Questo non è oriuolo, ma erraiuolo». Vantandosi inventore di un sistema di filosofia, com’e’ diceva bisticciosa, ne avea sempre in punta di lingua le sentenze principali. L’idea per lui era il principio di tutto, perché idea, Iddea. Ciò che è, non potrebbe non essere, perché fatto, fato. Insomma, a lungo andare, riusciva più fastidioso di quel demonio Tiritera, cui, come narra Perlone Zipoli:

«Ben tu puzzi, di pazzo, ch’è un pezzo»

Disse Pluton, bestiaccia per bisticcio.

Cadde il discorso su’ grandi uomini che non sempre riescono ad incarnare i disegni magnanimi, e lo Henriquez: «Chi giunge alla meta, chi solo alla metà, non c’è altro divario che d’un accento». Ma quando, non potendo immaginare chi fosse presente, ripeté l’epigramma di Pasquino contro Alessandro VI:

Vende Alessandro e porpora,

E chiavi, e crisma, e Cristo:

Se pria ne fece acquisto

Venderli a dritto or può;

durò fatica Cesare a trattenersi e gli abbisognò gran prudenza per non inveire contro chi, a dritto od a torto, frizzava, ingiuriava, vituperava, infamava la memoria del padre suo diletto.

La dimane si andò a Talavera ad albergare in una altra girolamineria, bellissima. Il giorno appresso ad un altro convento della religione stessa a Ponte dell’Arcivescovo; ed il seguente a Villaneda; e quello di poi si pervenne finalmente a Guadalupe, castello giacente in grembo ad una valle fertile e piena di acque, con un santuario dove concorrevano genti innumerevoli e dal Portogallo non lontano e da tutti i regni di Spagna, per la devozione grande che vi avevano. V’era maggior concorso sempre che a Loreto in Italia. Il castello, oltre al monastero, apparteneva tutto ai frati: «Il monastero certo è bellissimo, ed ha dentro tutte le arti necessarie ad una città, nonché ad un monastero: e tutto quel che può abbisognar di fuori cosa alcuna. È ben fabbricato; e tra le altre cose ha due bellissime volte da tener vino, l’una per botti molto grandi, l’altra per vasi di terra. Ha bellissimi giardini, pieni di aranci e cedri bellissimi, quali sono anche nel resto del loco, abbonda di un grosso capo di acqua della qual si serve prima il monastero e per li giardini e per tutto il resto: poi esce e serve a tutto il castello». Così ragguaglia il Navagero. I terrazzani bevevano l’avanzaticcio de’ religiosi.

 




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