V
L’abate Didaco, o Diego che dir
si voglia alla spagnuola, accolse a braccia aperte il cugino; ma non istimò savio
partito il manifestare alla intera comunità chi fosse l’ospite. Alcuni de’
maggiori ufficiali del convento eran suoi nemici: e poi, fidarsi è bene e
non fidarsi è meglio; nessuno fu mai tristo per le troppe cautele e per la
troppa diffidenza. Certo il quondam cardinale Duca Valentino, conduttor
di eserciti, non avea modi ed aspetto fratesco: ma in que’ tempi non era cosa
da insospettire, e perché il frate viveva molto nel mondo e perché molti
sgannati e disillusi si ricoveravano in tarda età ne’ chiostri e perché molte
vocazioni sendo sincere, non s’era ancor generalizzato quel tipo monacale tra
l’apata e l’ipocrita. L’abate il presentò come un amico conosciuto a Roma
presso il zio papa, dove gli era stato largo di cortesie, che ora, scomparso il
comun protettore, fuggiva la corte e si rincantucciava in fondo all’Estremadura
per camparvi ignoto ed oscuro. Né que’ monaci, triplamente taciturni e per la
regola e perché spagnuoli, e perché d’altro non si curavano che di mangiare e
digerir bene, molestarono il nuovo compagno con inchieste pettegole.
Ignoto ed
oscuro! Pur troppo! Può immaginarsi condanna o stato più acerbo, per un uomo
della tempra di Cesare Borgia, con quel passato, nel vigor dell’età, con tali
forze intellettuali? Ignoto ed oscuro chi avea dichiarato di voler esser Cesare
o Nulla! Era nulla ora. Ripeteva malinconicamente l’epigramma del Sannazzaro:
Omnia vincebas;
sperabas omnia Caesar.
Omnia deficiunt: incipis esse nihil.
Nulla! E gli splendori passati?
«Hai veduto molte volte sulla scena, cred’io,» diceva Luciano «gli attori, che,
come vuole il dramma, diventano ora Creonti, ora Priami, ora Agamennoni; e, se
occorre, colui che poco innanzi rappresentava il grave personaggio di Cecrope o
di Eretteo, poco dipoi esce vestito da servo, perché così comanda il poeta.
Alla fine del dramma, ciascun di loro depone il vestone di broccato, la
maschera ed i coturni, e se ne va povero e tapino; non è più Agamennone di
Atreo o Creonte di Meneceo, ma si chiama col suo nome Polo di Caride da Sunio o
Satiro di Teogitone da Maratona. Così sono anche le cose umane».2
Nulla! Ma non poteva rassegnarcisi, finché non fosse polvere o cenere. Gli
uomini di quella fatta, se falliscono ne’ loro disegni, ricomincian poi come
Sisifo a rotolar di nuovo il macigno su per l’erta; e dicono, come quel
personaggio del Berni
…se non son
bastante a un fatto tanto
Sarò bastante almeno a far le pruove.
Un’opera, anco frustranea, sembra
lor meglio dell’inerzia: meglio combattere con tutte le probabilità contro, che
rimaner neghittosi. In que’ tepidi viridari, in que’ chiostri assolati, il Duca
si sentiva affievolire, venir meno, struggere, svaporare, come un monticello di
neve al sole. I libri non san più di nulla; la scienza, le lettere annoiano,
tediano, rincrescono, infastidiscono, dopo tanta operosità pratica. Se non
riacquistare il perduto e raggiunger lo scopo, o non poteva almeno vincer
battaglie, espugnar città, esercitare comandi, procurarsi signorie: fare,
operare, agire... Sì! come? Quel presuntuosaccio d’Archimede, che poteva pesare
forse, a un dipresso, all’incirca, suppergiù, poco più poco meno un’ottantina
di chilogrammi, si riprometteva di spostar col suo peso il mondo, ma gli
occorreva un ipomoclio. Dove avrebbe trovato il punto d’appoggio sicuro il
povero Borgia, in odio a’ Re di Francia e di Spagna, allo Imperadore ed al
Pontefice, costretto a nascondersi, perché neppure i luoghi d’asilo erano
ricovero sicuro per chi incorreva nell’odio del papa? Il ricadere nelle unghie
di Ferdinando sarebbe stato un gran guaio: non si riesce in due evasioni
consecutive. Non tutti i castellani son dabbenuomini, come
l’Orteguilla-y-Zumarraga, né tutte le castellane hanno una particolar devozione
pe’ gerarcogeniti, come la governatrice della Motta di Medina-del-Campo.
Prigionia per prigionia, quella nella badia di Guadalupe (vasta quasi quanto il
palazzo incantato della Fata Morgana, il quale «avea dodicimila camere,
quattromila sale e novecento cortili, senza gli altri buchi, bugigattoli,
sottoscale, camerette, ripostigli e stanzini») era più tollerabile che in
qualche rocca selvagia. E poi, i nemici del Borgia sapevano anch’essi assoldar
sicari e stipendiare avvelenatori. S’egli fosse uscito da quello asilo, per
mettersi nuovamente in evidenza, gli sarebbe di certo «intervenuto come alle
mosche,» per dirla col Firenzuola «le quali potendo vivere sicuramente colla
dolcezza de’ fiori e de’ frutti delle campagne, come prosuntuose e temerarie
ch’elle sono, si metton negli occhi degli uomini, donde sono bene spesso
cacciate con perdita della vita». Pensiero questo, imitato da Vincenzo
Iacobelli, che ne’ suoi Miracoli d’Amore, stampati a Roma nel MDCI,
dice:
E far non
voglio come fa la mosca,
Ch’a la
campagna può viver sicura
E va a
posarsi ne l’adorna tavola
De’
cittadini, ove da un servo poi
Ammaccate le sono le cervella.
Pure, oh come invidiava i
briganti che spesso, dopo aver fatta ricca preda, venivano al santuario ad
offerirne la miglior parte, il fior fiore, alla Madonna, acciò intercedesse per
loro! Come invidiava quanti convenivan colà d’ogni paese, per pregar pochi
attimi e tornarsene poi alle loro città, alle navi, agli eserciti e
riattuffarsi nelle onde sempre agitate della vita! Il soldato, il nocchiero, il
contadino, il bracciante, il mendico, tutti invidiava quelli che potevano
almeno spaziare liberamente pel mondo. Il monastero sterminato e gli sterminati
giardini gli parevan più esigui d’un carcere, gli parevano angusti come una
tomba; ed erano un avello, poiché lo appartavano, il escludevano dalla vita,
dal mondo. Il Duca Valentino v’era sepolto.
Certo quella
stanza era bella e dilettosa. Ma ora comprendeva per bene la lezione fattagli
da un monaco della Certosa di Napoli, che, come si sa, è luogo il più dilettoso
di quanti forse ne sono in Europa. Visitandola, fu menato in una loggia che
chiamano il Belvedere, onde scorgi tutta la città e le deliziose colline
circostanti ed il nostro ameno cratere. Egli non si saziava di lodarla, dicendo
quel luogo esser copia o modello del Paradiso terrestre ed i buoni monaci non
avere in quel romitorio che più desiderare in terra. Il valentuomo del priore
lo condusse ad osservare altre curiosità e poi daccapo sulla loggia stessa; ed
il Borgia, intiepidito nelle prime lodi, disse: «Il luogo è bello; vediamo
qualch’altra cosa». Andarono in sacristia, di dove osservato quanto può dar
l’arte nelle argenterie, ne’ ricami, nelle dipinture, nelle scolture, fu
ridotto la terza volta per altra via sulla loggia. Ma non volle entrarvi
neppure, dicendo: «Padre, l’abbiamo veduta due volte: basta!». Allora il priore
sorridendo: «Se così presto è fastidita Vostra Signoria, consideri noi, i quali
non abbiamo altra veduta che questa, che ci pone sempre sottocchi la città
medesima, le colline identiche, lo stesso mare».
In quel tempo,
Cristoforo Colombo era appunto tornato dal quarto ed ultimo viaggio di
scoperta, in cui riconobbe le coste di Darien e Panama. Parecchi de’ suoi
compagni pellegrinarono a Nostra Donna di Guadalupe, per sospendere ex-voti
alla immagine della avvocata de’ peccatori, come avevan promesso in momenti di
pericolo o di paura. Recavano saggi e campioni di prodotti di quel nuovo mondo
e miracoloso, che sorprendevano per la stranezza insolita gli abitatori del
vecchio: piante, uccelli, istrumenti di guerra barbarici, oggetti d’oro lavorati
rozzamente, perle e conchiglie e finalmente indiani, ossia indigeni americani,
giovani fatti schiavi, che andavano coperti al modo del lor paese, cioè vestiti
ignudi, 3 solo con alcune […] come carpette. Quando alcuno de’
reduci giungeva al santuario, il Duca, come tutti, più d’ogni altro, si
dilettava nel porgere orecchio a que’ racconti, di esaminar quelle merci
transatlantiche. Ricominciava a vagheggiar l’idea d’imbarcarsi ancor egli per
lo emisfero occidentale, per iscoprirvi e conquistarvi provincie, per
acquistarvi le ricchezze che poi gli permetterebbero di trionfare in Europa ed
in Italia, e, se non altro, per vivervi liberamente, operando, andando,
venendo, facendo, navigando, cavalcando, combattendo, dominando, spogliando e
spodestando. Ancorché solo a capo di pochi avventurieri, signoreggiando solo
tribù barbariche, e’ si sarebbe sentito colaggiù indipendente ed autonomo, come
quando conduceva eserciti poderosi per la Italia centrale, spalleggiato dallo
infallibil padre comune de’ cristiani tutti. I reduci dall’America... Ma allora
non si addimandava per anco America, come pare la chiamassero in seguito da
Amerigo Vespucci. Io non avea mai compreso in qual modo da Amerigo, piano,
potesse venire America, sdrucciolo; e perché poi il nuovo continente si
battezzasse dal prenome di quel gentiluomo, anziché dal cognome: ma poi ho
letto nell’Humboldt la dimostrazione che quel nome venne usato dapprima in
Germania, e non mi ha più sorpresa né la stortaggine filologica né
l’ingiustizia storica della denominazione... I reduci dall’America, dico, con
buona fede forse, narravano mirabilia fantastiche del paese lontano; le quali
venivano accolte per vangelo dalle menti e meno scettiche allora, e predisposte
a creder qualunque portento, dopo aver visto un tanto miracolo. Come diceva
quel Giovanni da Cermenate, notaio milanese, de’ tempi di Arrigo VII?
Si referam quae
multa mihi iam visa notavi
Nulla fides dictis dicitur esse meis.
Q uis mihi,
si narrem per summa cacumina Lambrum
Esse
reversurum, dicat babenda fides?
Omnia nunc
credo, quia plus mirabile vidi;
Sic, lector, scriptis tu quoque crede
meis.
Le narrazioni strane d’un vecchio
pilota, il quale infermatosi gravemente, si curava nella infermeria del
convento ed avea seco due schiavi indiani, curiosamente vestiti di piumaggio
dagli svariatissimi colori e fulgidi, confermarono il Duca Valentino nell’idea
di navigare, d’imbarcarsi per un viaggio transoceanico di scoperta e di
conquista. Quel vegliardo travagliato dalle febbri, temendo che la morte il
sopraggiungesse, volle sgravarsi d’un suo gran secreto, confidandolo al
meditabondo monaco italiano il quale attentamente ascoltava e liberalmente ne
rimeritava i racconti. Anche agli occhi d’un rozzo marinaio ed inesperto, il
Borgia, tra la greggia, l’armento, la mandra, il proquoio di que’ girolamini,
facce ch’esprimevan la pecoraggine, la buaggine, l’asinaggine, la maialaggine,
subito apparve diverso e di natura e d’ingegno migliore e maggiore. Le cose che
il pilota gli manifestò sub rosa, superavano in singolarità quanto egli
aveva ancora udito delle Indie.
Quel vecchio,
timoniere d’una delle tre navi, con le quali nel terzo viaggio il Colombo
scoprì la terra ferma del continente meridionale, sparve col suo legno in una
tempesta ed il ritennero perduto. Ma raggiunse poi improvvisamente l’Almirante
naufrago nella Giamaica nel quarto viaggio, montando con due indiani una canòa
(maniera di naviglio barbarico, fabbricato d’un solo arbore). Onde proprio
venisse, non si seppe: narrò a’ compagni d aver dimorato in una isola di
cannibali e prudentemente occultò loro alcune preziosità che avea seco. In
Guadalupe veniva ad offerire alla statua della Madonna una collana d’oro ed uno
smeraldo. Il monile era di così squisito lavoro che don Sallustio di Sandoval, orefice
madrilegno settuagenario (capitato al santuario per ringraziarvi la Vergine con
una lampada di argento, di avergli concesso un figliuolo dopo cinque anni di
matrimonio infecondo), ebbe a stupirne. E crocesignandosi giurava di non esser
capace neppur lui d’un lavoro simile, e bestemmiando spagnuolescamente, che
nessun altro in Europa potrebbe condurre una cannaca, un vezzo cosiffatto. Lo
smeraldo poi, di grandezza più che insolita, era intagliato in guisa da
rappresentare una rosa. Al Borgia il vecchio mostrò tre altri smeraldi enormi;
uno in figura di corno; l’altro di pesce con gli occhi d’oro; il terzo in forma
di campanella, con una perla fina per battacchio; ed altri molti oggetti
d’inestimabil pregio e di bellezza infinita. Poi narrò come e dove li avesse
conquistati e d’un paese incognito nel quale avea sbarcato primo d’ogni altro
europeo.
La procella
gli avea sconquassato, sdrucito, scompaginato e rotto il legno, dopo averlo
aggirato più giorni e tratto lontanissimo. Solo superstite della ciurma intera,
venne raccolto sulla spiaggia dagli indiani, che il custodirono amichevolmente,
e dopo alcun dì, fece un lungo viaggio sulle spalle di bastagi che mutavano
ogni tante miglia, non dando il paese altre bestie da soma punto. Aveva
attraversato un paese mirabile; e selve e monti e città popolose e strani
popoli vestiti di piumaggi: fino ad una valle incantevole, dov’è un gran lago,
poco discosto dal quale sorge una vasta metropoli chiamata Tescuco. Là un
cortese Re barbarico lo aveva accolto ed ospitato come un messo d’un loro dio,
onde aspettavano con ansia il ritorno dall’Oriente perché condurrebbe il secol
d’oro nelle terre temistitanensi. Era dimorato alcun tempo in quel reame, tra
quelle genti imparandone il sermone, addottrinandosi ne’ costumi, assistendole
nelle guerre e facendo stupire gl’indigeni con le industrie europee. Dopo lungo
tempo e molte preghiere gli concessero di partirsi in una canòa equipaggiata da
pochi remigi e carica di doni; ma dopo aver promesso di ritornare con un numero
maggiore di figliuoli di Quezzalcoatte (così avea nome il nume onde il
reputavan progenie).
La ciurma
inesperta avea sofferto privazioni senza fine nello sterminato viaggio e tutti
gl’indiani eran morti, salvo i due che il buon pilota conduceva ancorseco; ed egli
temeva già di crepare naufrago o per fame o di venir mangiato dagli antropofagi
caraibi, allorché approdando alla Giamaica vi s’imbatté per fortuna somma nello
Ammiraglio sbalzato anch’egli dalla tempesta in quell’isola malsana. Non avea
stimato però di rivelargli le sue scoperte fortuite: temendo perdere quanto
onore e vantaggio se ne riprometteva. Non rifiniva dal celebrare le ricchezze e
la civiltà de’ tescucani, e le quantità di metalli preziosi accumulate nelle
città visitate da lui, in una delle quali assicurava e giurava lo interno delle
case essere rivestito, intonacato, impiallacciato di argento. Il quadro aveva
una sola macchia oscura: l’uso cioè de’ sacrifici umani ad un idolo deforme
chiamato Guizzilopòccili, i cui templi sorgevano come piramidi altissime, sulla
cima delle quali i prigionieri di guerra, dopo essere stati costretti a ballare
con tormenti feroci, venivan poi distesi sopra una lastra di sasso: ed i
sacerdoti aprendone i petti con sassi aguzzi ne strappavano i cuori palpitanti
che si offerivano al dio, mentre il cadavere veniva poi ripartito tra’
principali astanti, cucinato dottamente e mangiato come vivanda prelibata in
isplendidi conviti. Il vecchio rabbrividiva ancora nel ricordar tali
abominazioni.
Ma narrava
cose più strane, le quali se vere, avevan faccia di menzogna. Il Re di Tescuco,
per nome Nezagualpiglio, aveva una figliuola detta Ciaciunena, che possedeva la
facoltà del capo meduseo, di lapidificare cioè ogni essere vivente i cui occhi
s’incon trassero co’ suoi. Le fate, che albergavano pe’ monti circostanti alla
valle, vennero tutte convitate alla nascita della principessa, perché, secondo
l’uso, la fatassero: usanza antichissima, della quale il comparatico moderno è
una reminiscenza: ma scomparse le fate dal mondo, e non potendo i compari e le
commari nostre conferire a’ figliocci ed alle figliocce le qualità fisiche e
morali di cui per lo più difettano anch’essi ed esse, hanno ormai solo
l’obbligo di offrir loro qualche regaluccio; ed il chiedere da un amico che ci
tenga il figliuolo sul fonte battesimale equivale al tirargli una stoccata. La
sola fata del Popocatepetlo venne trasandata dal monarca di Tescuco; o per
trascuraggine mera, come suol accader talvolta, o perché albergando ella in un
vulcano venisse stimata malvagia, o perché nessuno si fidasse di portarle lo
invito arrampicandosi su per quei greppi inaccessibili. Comunque sia, venne
ommessa. Le fate convitate stavan tutte raccolte intorno alla culla della
neonata, ed il Re Nezagualpiglio, dalla camera contigua, le ascoltava con
giubilo conferir doti alla pargoletta. Chi le augurava bellezza, che andasse
crescendo di giorno in giorno; chi le concedeva ingegno acuto, chi bontà
d’animo, chi eloquenza suasiva, chi ricchezze; chi un pregio e chi un altro. Oh
se la millesima parte degli auguri si fosse verificata, la Ciaciunena non
avrebbe avuta la pari al mondo! Don Nezagualpiglio gongolava. Quand’ecco, ad un
tratto, rimuoversi il coltrone che otturava il vano d’ingresso (che i tescucani
non usavan usci) e comparire la fata popocatepetlesca con un sogghigno
infernale, indemoniato, diabolico, satanico, mefistofelico, sulle labbra
increspate: «Ed io» rantolò sibilando «ed io ti dò d’impietrire con gli occhi,
quanti ne incontreranno lo sguardo». E si guardò intorno poi sghignazzando e
cachinnando, fregandosi le mani e stropicciandole, come chi si pregi d’aver
fatta una bella cosa e ne aspetti plauso e congratulazioni dagli astanti.
Altro che
plauso, battimani e picchiar palma a palma! Quel poveretto di Nezagualpiglio
entrò, buttandosele a’ piedi, pregandola, implorandola, supplicandola,
scongiurandola, di ritrattar l’empio voto. Queste umiliazioni del Re prima la
consolarono, poi la intenerirono persino: ma il voto espresso da una fata è
irrevocabile; non può mutarsi, disfarsi, distruggersi né da lei, né da altri,
secondo il dottissimo Blödsinning nell’aureo suo volume: Della costituzione
politica e civile della Fateria (Lipsia MDCCCLXII, in-ottavo), quantunque
l’acuto Tropfio nella sua dissertazioncella: De Imperio Demogorgonense
(Gottinga, MDCCCLXXIV) cerchi provare che Demogorgone abbia facoltà di
modificarlo. (Veggasi del resto l’articolo del professore e dottor Träumer
nella puntata di gennaio MDCCCLXXV della Rivista per gli studi di geografia
e statistica utopistica di Tubinga, nonché la pregevol monografia inserita
dallo Jrrlehrer ne’ rendiconti dell’Accademia reale delle scienze di Berlino;
monografia che gli ha procacciato dal governo italiano la nomina a Commendatore
della Corona). Dunque la fata del Popocatepetlo convenne d’aver trasmodato un
po’, promise d’esser più riflessiva un’altra volta, ed assicurò Nezagualpiglio
che gli si mostrerebbe quind’innanzi benevolentissima e che il favorirebbe e
proteggerebbe in ogni modo. Ma il riconoscere un torto non lo ammenda, e non ne
distrugge le conseguenze. La fata dello Istacciguatto, altissima montagna
nevosa che sorge rimpetto al Popocatepetlo, non avendo ancor augurato nulla,
cercò di riparare alla malizia della consorella e di mitigare in parte il
cordoglio di Nezagualpiglio, statuendo che la virtù sassificativa della
Ciaciunena dovesse aver termine dopo tanti anni e non potesse frattanto
ridondar mai a discapito, a danno, ad isvantaggio, a detrimento del Regno di
Tescuco o della gran patria anaguachese. Poi le signore fate si recarono a
complir la puerpera; gradiron quindi qualche rinfresco e finalmente partirono
per le loro stanze su certe dimonia che facevan di bastagi i servigi, come
l’Astarotte del Pulci. Le fate europee avevan carri tratti da draghi volanti;
ma gli astechi, i temistitanensi non avendo idea di carretteria e di bestie da
tiro e da soma, le fate messicane dovevansi contentare di viaggiare in lettiga
od in qualche sedia, sulle spalle di farfarelli, spiritelli, demonietti,
folletti, appunto come i signori del paese sulle terga de’ loro tamani.
La bimba venne
consegnata alla balia che le desse da succhiare e questa le porse il capezzolo
e le canticchiava una ninna-nanna: ma dopo qualche minuto ammutolisce e la
bimba comincia a vagire e frignare bizzosamente. La madre sentendo il
piagnisteo, garriva dal letto la nutrice. Ma questa zitta: non rispondeva, non
buzzicava. «Dormi forse, tangheraccia?» strillava la Regina. Non dormiva ché
avrebbe tentennato il capo, capozziato, come dicono energica mente i
napolitani. Accorsero le dame di corte sgridandola, increpandola,
riprendendola, strapazzandola; fiato perduto, non dava segno di vita, sebbene
non desse neppur segno di morte, perché il corpo rimaneva ritto e saldo. La
scossero... e la trovarono impietrita, mutata repentinamente in una agata dura
rigida e frigida, nell’atteggio, nella mossa in cui stava al momento della
subitanea transustanziazione conservando ancora e per sempre i colori naturali.
Spavento e raccapriccio da non potersi descrivere! Diamine se piangeva la
bimba! una lattante che sente tutt’a un tratto mutarsi in onice o sardonica la
poccia che avea tra le labbra e cessare il dolce moto delle braccia che la
cullavano e la cantilena soave della ninna-nanna!
Ma son quasi impetrito ancor io
rileggendo questo brano ed accorgendomi di aver adoperato il verbo vagire che
non è di Crusca, mentr’io, come ognun vede, mi adopero, mi studio, m’ingegno,
mi sforzo a non adoperar vocabolo che non sia autorizzato da don Buratto. E’ mi
par di sentirlo dire a me come allo Alfieri:
Ed io le dico
che il verbo vagire
Non è di
Crusca. Usò il Salvia vagito,
Ma allo in tutto vagir non si può
dire.
Basta, mi consolerò del mio
lapsus-calami, pensando che quel vocabolo è stato usato dall’Alfieri appunto e
dal Marino, che disse:
…Tremaro i poli
e la stellata corte
A quel
fiero vagir tutta si mosse...
…Pigolando
vagisce e corre tosto
Su l’urna manca ad appoggiar la
bocca.
Non sarà voce toscana, ma è di
certo italiana, se due de’ nostri migliori scrittori l’hanno adoperata. Ma
torniamo alla corte di Tescuco.
Una
gentildonna strappò la pargoletta piagnucolosa dallo amplesso tenace della
statua e per quetarla un po’, l’alzava in aria e la faceva ballonzolare. In
questa la creaturina sorrise e guardò colei che la divertiva e che immediatamente
restò lapidificata ancor essa sostenendo in alto con le braccia indiasprite la
Infanta. Il nuovo impietrimento, al quale succedettero parecchi altri, sbigottì
per modo la corte, che nessuno osava più avvicinarsi alla tremenda pargoletta:
non si trovava chi l’allattasse, chi l’accudisse, la fasciasse, la sfasciasse,
la lavasse. Gli stessi geni tori, spaventati dalla pietrificazione di tante
cameriste, rimanevan perplessi e dubbiosi e chiedevano a sé stessi se non fosse
per loro un sacro dovere, ancorché doloroso, il condannare a morte quel mostro.
Laio e
Giocasta, due galantuomini del tempo antico, fecero esporre sul Citerone il
neonato Edipo, per sola paura di un male futuro; nessun greco ne li ha
biasimati; e, strano a dirsi, fra tanti moderni che han rifritto quel tema, non
uno ha trovato quattro parole di compassione o simpatia per quel bambinello
innocente, di riprovazione per lo infanticidio consigliato a’ genitori dalla
credulità nelle frottole dell’oracolo. Ma Nezagualpiglio, ancorché barbaro, ripugnando
dallo spargere il proprio sangue, fece sonar campana di consiglio. I savii,
dopo lungo discutere, dopo proposte, controproposte, emendamenti, pareri vari,
e non so quante votazioni, deliberarono che la fanciulla non fosse da
uccidersi, anzi da educarsi diligentemente, però sempre col capo coverto e con
gli occhi bendati; ed usando gli educatori precauzioni senza fine, secondo
apposito regolamento il quale si dieder la briga di compilare.
Grazie alle
benedizioni delle fate benevoli, la mozza crebbe e venne su, adorna d’ogni
pregio: bella, virtudiosa, avvenente... ma infelice pure oltre ogni dire.
Disamata da tutti, fuori d’ogni speranza d’esser mai amata da chicchessia. Era
in condizioni più misere assai d’una cieca, e si faceva cieca volontariamente:
ma quantunque sempre bendata, quantunque si conoscesse la bontà dell’animo di
lei, que’ che la circondavano vivevan sempre pieni di sospetto e diffidenza.
Veniva servita con rispetto, ma da servitori, domestici, familiari, sergenti,
fanti, schiavi, dalle facce pallide, dalle ginocchia tremanti, dalle mani
madide di sudor freddo, sempre pronti a buttar lì ogni cosa e fuggirsene al
primo moto dubbio di lei. Rifuggiva dal mostrarsi in pubblico, e perché il
popolo superstiziosamente la cansava e perché ella temeva di nuocere anche
senza volere. Non l’era lecito come a tanti infelici solitari di trovar
sollazzo o conforto educando, affezionandosi qualche bestiuola, perché gli
animali anch’essi lapidefacevansi sotto ai suoi sguardi. Oh, perché la non
divenisse trista e malvagia, perché non le venisse la tentazione di
terribilmente adoperare e crudelmente la forza del suo sguardo e di cercare un
sollievo alla propria miseria facendo soffrirgli altri; ci volevano proprio le
buone fatagioni avute! Figliuola miserrima, infelicissima, arcisventurata, non
osava neppur godere de’ baci materni, fuorché nelle tenebre perfette; e per
conoscer le fattezze della genitrice, doveva contentarsi del ritratto e di
quella cognizione imperfetta delle fisionomie che si acquista col tatto. Le
venne concesso il contemplar la madre sol quando fu divenuta cadavere. Allora,
solo allora, quando gli ululati delle cameriere e delle prefiche le
annunziarono che la Regina di Tescuco aveva esalato l’ultimo respiro, solo
allora alzò gli occhi nel volto di colei che l’avea partorita a tanti dolori ed
insolitamente strani. Voleva renderle gli estremi uffici, essa, voleva
chiuderle gli occhi, dopo averli finalmente mirati. Ma toccò un sasso. La sua
facoltà pietrificatoria si estendeva a’ corpi esanimi eziandio, non a’ soli
viventi. Aveva reso eterna la misera spoglia della madre.
La scoperta di
questa nuova proprietà della Ciaciunena, o, per dir meglio, di tutta
l’estensione della sua fatal qualità, le giovò moltissimo e le rese tollerabile
la esistenza. Da quel momento, potendo essere utile, venne apprezzata; e non fu
più schivata, ed aborrita tanto. Diventò la pietrificatrice universale di tutte
le salme tescucane. Alla umana vanità piace l’idea di una pietrificazione
postuma, che serbi intatte le forme e le fattezze. Divenir sasso o quarzo,
mentre s’è vivi ancora, fa raccapriccio; divenir tali dopo morte, indurire in
guisa da sfidar lime e seghe (ed i tescucani non avevano strumenti di ferro e
d’acciaio) sì, volentieri; perché è una vittoria sulla morte nella morte
stessa. In Tescuco si smisero e roghi e cemeteri. I cadaveri venivan
quotidianamente recati in un atrio della reggia, e la Ciaciunena, passando di
là e guardandoli fiso negli occhi spenti, li tramutava in tante statue, assai
più meravigliose e come materia e come lavoro di quanti simulacri sono stati
scolpiti dagli artefici più famosi d’ogni epoca e d’ogni luogo. Altrove sarebbe
stata adoperata anche come arnese di guerra, per impietrar gli eserciti nemici:
ma le guerre de’ tescucani (come quelle degli altri popoli messicani) avevano
per iscopo principale di procacciar prigioni da ingabbiare, ingrassare,
sacrificare, cucinare e mangiare; la principessa col rendere immasticabili ed
indigeribili i nemici, avrebbe tolto e scopo e premio alle battaglie.
Il vecchio del
pilota toccava proprio la vera eloquenza narrando le meraviglie, i portenti, le
mostruosità da lui viste, poiché persuadeva e della sincerità sua e della
verità dei racconti. Egli descriveva minutamente di quanto vantaggio fosse ai
Tescucani la mirabil virtù degli occhi della Ciaciunena. «Natura,» diceva egli,
alzando involontariamente la voce, «Natura ne avea creati fragilissimi delle
membra e nel declinare di poche ore oltre la esalata anima, le avea destinate a
pasto di osceni vermi. Un mucchio di squallida polvere, una macerie di cariato
ossame, segnava appena il supremo riposo dell’uomo, caro per affetti privati,
caro per pubblica benevoglienza. La gramezza, l’orror de’ sepolcri molto
atteneva al pensiero di non conchiuder essi che logori avanzi della
distruzione, e la semplice idea ne lo addoglia e spaventa. La sola religione vi
stendeva una certa solennità, che temperava il ribrezzo del funerale
spettacolo. Or nella mente agito una retrograda fantasia. Non più mi aggiro fra
’l lezzo e putridame di sotterranee fosse, tentando invano di scernere reliquie
di padre, figlio, sposa, od amico, che confuse fra mille stranie m’ingannano il
pio desiderio. Nei miei stessi lari, entro quelle mura che hanno gestito alla
soavità di loro parola, che sono state tocche da essi, in quel medesimo aere
cui insieme commettemmo il riso ed il sospiro, ritrovo amico, sposo, figlio,
parente. Leggo l’antico amore nello immutato sembiante; quelle sapute forme a
vita atteggiate, quelle braccia sporte all’amplesso, mi versano nella illusa
anima una deliziosa obblianza della perdita loro. E se la mano disiosa si
stenda alla chiedente mano, il gelido tocco mi scuote dall’estasi beata, ma il
molesto ritorno alla vigilia ed alla realtà è accarezzato da un contemporaneo
senso rinfrancatore, che non mai tempo ingordo m’invidierà quella effigie,
perocché lungo e faticoso è suo morso contro marmi e metalli. Nella casta e
matronal fronte dell’abava già splendida in vita per famigliari virtù, imparerà
saviezza la vispa verginetta cui la rubella natura e il guasto secolo
fieramente stringe e combatte. Nella corrugata e severa guancia del saggio
antenato il degenere nepote leggerà il rimproccio di sue fallanze e dispetterà
la impresa vita rotta a licenza e libidine. Quando il torvo feneratore mulinerà
lo sperpero di un’angariata famigliuola, in avvisare la faccia esilarata e
tranquilla di quel suo ascendente che apriva le arche ai benedicenti poverelli,
forse gli scorrerà una misericordia di pentimento che lo ritrarrà dallo abisso.
Cadranno di mano le inique fila al traditore mosse ad irretire la sua vittima,
affisandosi nella fisionomia del congiunto che gli favella affetto, lealtà,
ingenuità, candidezza. Sì, veramente: quei muti testimoni eserciteranno un
benauguroso imperio sulle familiari associazioni e le renderanno migliori e per
ciò più felici. Oh chi mi rende il mio Virgilio, il mio san Francesco d’Assisi,
il mio Bruto! Perché natura insiem con esso loro non creò una Ciaciunena? Qual
mai anima vi avrebbe sì bruta che non volasse oltre i confini del mondo, a
pascersi e bearsi in quelle venerande sembianze! Chi non si sentirebbe spirato
da un potente consimile spiro, acceso da una celeste emulatrice fiamma, in
veder quelle fronti ove si concepirono tanto sublimi e magnanimi pensieri: quei
labri donde tanta poetica vena, tanti fiumi di eloquenza e dottrina sboccarono:
quelle destre che sì stupende bellezze colorirono, sì grandi verità vergarono!
Ah che la sola idea di siffatta delizia trascende ogni umana beatitudine!».
Quanto è vero
che la stessa causa produce sempre gli stessi effetti, che la situazione
medesima suggerisce gli stessi pensieri e persino le stesse parole! Queste, che
io ho trascritte, vennero profferite nel MDV da un vecchio pilota nella
infermeria del convento di Guadalupe: è un fatto, veh! Eppure si leggono tali e
quali nello in-ottavo intitolato: Della / Artificiale Riduzione / a solidità
lapidea / e inalterabilità degli animali / scoperta / da Girolamo Segato; /
Relazione / dell’avvocato / Giuseppe Pellegrini, / socio di varie illustri
Accademie / con note ed aggiunte di prose e poesie. / Terza edizione. E tu
ascolta, ché le mie parole / Di gran sentenza ti faran presente. / Dante,
Parad. 7. Firenze / Per V. Battelli e figli / 1835. Libretto che non può leggersi
senza provare un doppio rincrescimento; primo, che la scoperta dello illustre
vedanese siasi perduta, secondo, che s’abbia a dir Segàto, piano, non Ségato,
sdrucciolo:
Se in vece di
Segàto
E’ si
dicesse: Ségato;
Ecco bell’e
trovato
Un’altra rima a fégato.
Ma torniamo a bomba. Tutto il
discorso del vecchio pilota si legge tal e quale nell’opuscolo del Pellegrini,
proprio tal e quale, come se il Pellegrini fosse stato trecentotrent’anni prima
nella infermeria della Guadalupe a stenografarlo. Ed il Duca Valentino rispose
allo entusiasta presso a poco nei termini stessi d’un’annotazioncella apposta
dal professor Quirico Viviani allo squarcio del Pellegrini: «T’accompagno
volontieri nelle illusioni, quando sono destate dai virtuosi affetti
dell’animo. Solo convien guardarsi dalla prestigiosa idea di troppo
generalizzare la cosa, perché non avvenga che il pio desiderio non ci conduca
ad un fine del tutto contrario al principio. Il salvare incorrotte le spoglie
d’un personaggio storico può essere d’un grande effetto politico; il salvar
quelle d’una sposa, d’un padre, d’un tenero congiunto, ovver d’un amico può
essere d’inesprimibile conforto al cuore. Ma il riempiere le case e i cimiteri
di morti, secondo la tua fantasia retrograda, osterebbe alla perpetuità della
conservazione, che è la cosa domandata dal cuore: perché giorno verrebbe, in
cui i posteri sarebbero necessitati a ridurre in polvere a colpi di martello i
loro cari antenati, per dar luogo ad altri, che a vicenda anderebbero soggetti
al medesimo destino. Onde sarebbe ancora più fortemente sentita la verità di
quel detto: O uomo, ricordati che sei polvere e in polvere sarai disfatto».
Così è: dopo cinquant’anni di lapidificazione di tutti i morti, saremmo
costretti a far brecciame de’ nostri maggiori sassificati e le ruote delle
nostre carrozze li stritolerebbero; ripeteremmo continuamente l’empietà della
Tarquinia.
I tescucani
però, impreveggenti di queste conseguenze remote, desideravano che la
Ciaciunena prendesse marito, sperando i figliuoli eredi della sua virtù
lapidificativa. Il guaio era che fra tutti i Re, i Principi ed i Gentiluomini
d’Anaguaco, non fu possibile trovarne uno tanto ardito da chieder la mano della
terribile, capace d’inquarzarlo nello scoccargli un bacio, nello stringerselo
al seno, sempre che le piacesse ed anche involontariamente. Il recare in dote
la corona di Tescuco non era compenso adeguato al pericolo. Se la Ciaciunena
avesse commessa, perpetrata ogni abominazione immaginabile, se fosse stata il
compendio d’ogni vitupero, i porci (volli dir proci) non sarebber mancati. «Ha
raggi luminosi l’oro, che non solo illustra l’oscurezza del nascimento, ma
abbagliando i lumi di chicchessia, cela tra’ suoi chiarori ogni macchia
d’obbrobrioso difetto. Anche a’ filosofi regnanti son tollerabili le infamie
delle Faustine che hanno per dote un impero». Ma qui non si sarebbe trattato di
porre a repentaglio l’onor domestico e la certezza della prole, inezie,
bazzecole, miserie, parvità di materia sulle quali si può passar sopra, anzi
d’arrischiar la vita, la cara vita: ed i proci brillavano per l’assenza
(frase da giornalista e da Tacito, gazzettiere bugiardo della opposizione nella
Roma imperiale). La principessa parea quindi predestinata a morirsene
fanciulla, zitella, vergine, guagliona, anche vivendo mille anni, con rammarico
sommo, non so se suo, perché tra l’altre virtù le fate benevole l’avevan dotata
anche di vero pudore e di casto pensiero, ma certo del popolo, che vedeva in
lei una mummificatrice economica, anzi gratuita, con vantaggio delle borse
private e della igiene pubblica.
Sulle prime il
Borgia avea sorriso di narrazioni siffatte, e quasi le considerava per le
solite menzogne de’ viaggiatori. E pensava: «tu t’inganni, o tu ingannar mi
vuoi». Ed anche: «Per venire scontata sulla piazza, una cambiale vuol esser
accettata od avvallata da firme di credito: così pure un’affermazione. Chi ti
guarentisce?». Ma quel vecchio nocchiero non sembrava, non poteva essere un
impostore; la sincerità delle sue parole pareva evidente: mostrava in appoggio
piante geografiche da lui rozzamente delineate; mostrava que’ gioielli e quelle
gemme tanto diversi e come valore e come lavoro da’ miseri gingilli delle isole
scoperte dal Colombo; mostrava finalmente una serpe ed alcuni uccellini
petrefatti dalla Ciaciunena, che il Duca curiosamente disaminò. Que’ suoi
schiavi, che cominciavano a balbettare un po’ di spagnuolo, corrotti con
piccoli doni e leccornie, confermavano pienamente le asserzioni del padrone.
Benché Cesare non sapesse spiegarsi di tali portenti, pure le testimonianze
d’ogni maniera allegate dal vecchiardo eran tante, che finalmente si con vinse
della verità del fatto: e sì che non era credulo per natura.
Ma in que’
tempi c’era più fede nelle meraviglie, si dava maggior peso all’autorità. Nessuno
allora avrebbe osato profferire quella proposizione che ci sembra tanto
naturale in questo secolo sulle labbra d’un sottile ravignan patrizio: «Se mi
direte che dai denti di un teschio umano seminati in un campo, come quelli del
serpente di Cadmo, è nata una bella schiera di fanciulli, io vi dirò che questa
è cosa impossibile, quand’anche tutti i professori di una dotta città mi
gridassero: Noi abbiamo veduto il portento cogli occhi nostri; noi siamo
uomini incapaci di mentire, e in te non è potenza d’intelletto sufficiente a
conoscere fin dove arrivano le forze della natura». Dal Nuovo Mondo poi non
facevano strabiliare le narrazioni che più contraddicevano all’ordine di natura
stabilito nel vecchio. Il Vespucci narrava di aver trovate in una isola «sette
femmine e di tanto grande statura, che non aveva nessuna che non fusse più alta
che io, una spanna e mezzo... E noi... accordammo di rubar due di loro... di
quindici anni.., per far presente a questo Re... E vennono trentasei uomini...
ed erano di tant’alta statura, che ciascuno di loro era più alto stando
ginocchioni, ch’io ritto. In conclu sione erano di statura di giganti, secondo
la grandezza e statura del corpo che rispondeva con la grandezza; che ciascuna
delle donne pareva una Pantasilea e gli uomini Antei». Ed allora non fu creduto
che il Vespucci dicesse una bugia; e questa, certo, fu delle più piccole
ch’egli scrivesse. L’immaginazione riscaldata de’ primi navigatori faceva sì
che i loro sensi travedessero, traudissero, trasentissero per sino
traodorassero e tragustassero. Fra le carte del Machiavello c’è un epitome di
alcune lettere scritte nel MCCCCXCIII e nel MCCCCXCIV di Vaglia dolid da Simon
Verde del Borgo di San Lorenzo a Mugello, intorno al secondo viaggio del
Colombo. Vi noto il brano seguente: «Domandando al Capitano delle qualità
dell’acque, mi disse che nella prima isola de’ Camballi,» cioè de’ Cannibali,
e, come dice lo Stigliani: cannibale, in Indico, val prode, «che, nella
prima isola de’ Camballi, essendo isceso in terra, e avendo sete, trovò uno
fiumicello d’acqua chiara e bella, della quale e’ bevve; e trovolla di sapore
come le ispezierie vi fussino istate istemperate dentro, e che era fresca, e
molto caldo gli accese nello stomaco». Era tradizione tra’ nativi di
Portoricco, che in una delle Lucaie fosse un fonte il quale avea virtù di
ringiovanire chi vi si attuffasse e vi diguazzasse o vi si facesse sciaguattar
drento. E Giovanni Ponze de León armò tre bastimenti a sue spese per andarne in
cerca; e così scoperse la domenica delle Palme del MDXII la terra di Florida.
La fontana di gioventù non doveva parer più possibile alla mente d’allora d’una
mozza impietratrice. Volete di più? Il Colombo credette una volta d’esser
giunto nei dintorni del paradiso terrestre e ne assegnava sue buone ragioni:
ché di ragioni in sostegno di qualunque pazza opinione o storta, non è mai
stato difetto. Epperò addimandiamo l’uomo animale ragionevole.
Ed anche a’
nostri giorni forse sarebber credute queste istorie, malgrado tanto
scetticismo. Certo hanno trovato non pochi credenzoni e le tavole giranti e lo
spiritismo; certo la Revalenta arabica e simili panacee, arricchiscono i
manipolatori. La credulità umana non è esausta. L’uman genere, sebbene si
compiaccia e diletti di ostentare dello scetticismo a tutto pasto, non n’è
ancora a pensare come quel personag gio dell’Orlando Innamorato:
Tanto ho
creduto già, ch’io me ne pento.
L’augel,
ch’esce dal laccio ha poi paura
D’ogni
fraschetta che si muove al vento.
Io sono
stato ingannato sì spesso,
Che non che altrui, ma non credo a me
stesso.
Il Re di Prussia Federigo
Guglielmo, fratello e predecessore di questo Guglielmo di ora, credeva agli
unicorni; e commetteva specialmente a certi fratelli Schlagintweit, a’ quali
somministrava quattrini per viaggiar nel Tibet e nella valle di Casimira, di
procacciargliene uno. Que’ galantuomini portarono una berbice, le cui corna,
molto ravvicinate alle basi, finivano per unirsi e confondersi alla punta. Si
trattava d’ottener quattrini da quel Re pusillanime, per nuove spedizioni:
«Mostrategli per ora la sola punta delle corna,» disse loro Alessandro
d’Humboldt «poi, intascata la moneta, potrete anche lasciar vedere che in
origine le son due». Tra il credere all’unicorno od a’ giganti, alle pillole di
Holloway od al fonte di gioventù, agli spiriti od alla guagliona
pietrificatrice, non è gran divario.
Pure il Duca
ripugnava a tanto sforzo di fede. Ne conferì con lo abate Didaco, il quale,
sebben preferisse ad ogni altra cosa il pecchiare ed il pacchiare, era uomo
colto ed arguto. Don Diego non iscorse alcuna impossibilità intrinseca nella
narrazion del pilota. Una muciaccia che impietri con gli occhi, non gli parea
cosa lontana e aliena dalla ragion naturale. Citava gli antichi e la favola
della fatal Gorgone, e come Perseo
…passimque per
agros
Per que
vias vidisset hominum simulacra ferarumque
In silicem ex ipsis visa con versa
Medusae.
Ed osservava le favole antiche
esser tutte allegorie, amplificazioni poetiche di fenomeni naturali. Citava
l’esempio del basilisco, che nasce da un uovo di gallo e dal cui sguardo, anco
alquanto da lungi, si spiccano alcuni spiriti nocivi e mortali; e che dal
basilisco si spicchino questi spiriti, dottamente l’esprime Cecco d’Ascoli nel
capitolo della natura del basilisco in que’ versi:
Signor è il
Basilisco de’ serpenti,
E ognuno il
fugge sol per non morire
Dal mortal
viso e dagli occhi lucenti.
Non è
animale, il qual fugga la morte,
Che subito
di vita egli non spire:
Tanto è il velen di quello acuto e
forte.
Annoveransi parecchi portenti analoghi.
Il poter del demonio esser grandissimo, e tutte le popolazioni pagane vivere in
arbitrio del fistolo, che si scapricciava tra di loro con oracoli, mostri,
prodigi, prestigi, e meraviglie d’ogni genere, per sempre maggiormente
irretirli, vincolarli, abbindolarli, aggirarli e sottometterseli. Così esser
pure avvenuto degli antichi gentili. Il Fontenelle non aveva ancora scritto il
suo libro sugli oracoli.
Il vecchiardo,
come ho detto, ispirava fiducia; ed avea mostre al Borgia parecchie carte
geografiche rozzamente disegnate, e discreti calcoli astronomici, che dovevano
agevolar di molto il ritrovar la terra lontana di Anaguaco. Pur sempre Cesare
nudriva alcuna diffidenza contra di lui, alcun dubbio della sua sincerità.
Tanto, che sendo il pilota peggiorato ed avendo chiesto di confessarsi, il Duca
Valentino, quantunque spretato da un pezzo, non rifuggì dallo ingannar
sacrilegamente lo infermo, presentandosi invece del confessore richiesto, tutto
scontraffatto ed immascherato per non farsi riconoscere. Di notte, alla scarsa
luce di un lucernino fumoso, il nocchiero non si accorse della sostituzione e
smammò, sverzò quanto aveva sulla coscienza. Il Borgia lo interrogò, lo
scrutinò, lo scandagliò per ogni verso, avvalendosi dell’autorità usurpata; e
quando fu ben convinto che il malato era sincero e quando l’ebbe ben disposto
a’ suoi intenti, gl’impartì un’assoluzione, che non avea qualità di concedere.
Ma forse avendo mirato a rendere ereditaria la potestà pontificia, vaneggiava
di poterne esercitare una parte. Fortunatamente lo infermo risanò;
fortunatamente per l’anima sua, che gravata di molte peccata, non era stata
riconciliata col Creatore da un sacerdote competente; ed anche per san Pietro,
che non avrebbe saputo come regolarsi e se ritener valida l’assoluzione del
Borgia, considerando la perfetta buona fede e la contrizione del povero pilota;
oppure inefficace perché nulla, sendo stata data da chi non poteva darla. A
Cesare che importava uno stratagemma, uno inganno, un sacrilegio aggiunto a’
tanti? Aveva raggiunta la certezza ambita e maturava un piano da par suo.
Meditava di
navigare verso il paese di Anaguaco, di andarne a Tescuco, d’indurre o con le
buone o con la violenza la Ciaciunena a seguirlo in Europa: sposarla, rapirla,
poco importa: secondo le circostanze avrebbe adoperato da volpe o da leone.
Quella donna fatale, gli sarebbe poi stato mezzo per riacquistare il perduto e
concretare gli antichi disegni ed audaci. Disponendo di tal forza miracolosa,
non dubitava di conquidere ogni altra. Avrebbe rinnovate e superate le gesta
de’ cavalieri erranti, presentandosi anche solo innanzi agli eserciti nemici.
Come il
Ruggero dell’Ariosto, scoprendo lo scudo incantato, abbarbagliava, abbacinava,
accecava temporaneamente gli avversari; lui, mostrando la bella donna nella
quale tutti convertirebbero gli sguardi, avrebbe impietrito ogni malevolo. Si
sarebbe presentato innanzi a Giulio II ed a’ cardinali che lo avean tradito,
per convertirli in duri scogli su’ loro seggi. Percorrendo l’Italia e l’Europa,
si lascerebbe dietro una traccia più terribile che di sangue: il sangue vien
lavato e dimenticato; ma le orrorose statue ch’e’ produrrebbe dovunque,
ricorderebbero a’ debellati la sua possanza soprannaturale. Il cedere innanzi a
chi tanto è privilegiato sugli altri non ripugnerebbe a’ popoli, che
correrebber proni sotto il suo scettro. Quella Bologna, quella Fiorenza, che
non avea potuto ingoiare per lo passato; quella Vinegia formidabile, i Re di
Francia e d’Aragona, lo Imperador senza denari, tutti vincerebbe. Ad una
occhiata della Ciaciunena non resisterebbero né le schiere del gran Capitano,
né le falangi svizzere, né le bande de’ migliori condottieri… sbaglio,
diventerebbono anche troppo resistenti; e la troppa resistenza impedirebbe loro
di resistere. Gli artiglieri rimarrebber di sasso con la miccia in pugno
accanto alle artiglierie inutili, che i cavalli impietrati non trasporterebber
più né avanti né indietro. L’impeto della cavalleria francese servirebbe solo a
far produrre dalla Principessa di Tescuco delle statue equestri in quelle mosse
che nessuno scultore, ancorché valentissimo, stimò possibile il riprodurre mai.
Potrebbe stabilire quell’ordinamento ideale, che avea vagheggiato per la
Italia, ed il quale, se anche avesse potuto impiantarsi convincendo i volghi
della sua bontà, da mantenersi e difendere era solo con la prepotenza. Difatti
come nota san Nicolò Machiavelli: «Tutti li profeti armati vinsero e li
disarmati rovinarono: la natura de’ popoli è varia ed è facile a persuadere
loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione. E però conviene
essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far loro credere
per forza». Prenderebbe allora la rivincita, si ricatterebbe del sofferto: e
quand’anche dovesse regnare sopra una contrada popolata più da statue
silenziose che da uomini, che importa? I simulacri almeno non si ribellan mai.
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