VI
Cesare Borgia palesò i suoi
divisamenti al cugino Diego e gli chiese di aiutarlo e di assisterlo. Io non
particolareggerò tutti gl’imbrogli loro
…le minuzie fastidiose passo.
Il pilota fu indotto ad offrire
all’ordine de’ Gerolomini il possesso delle regioni lontane da lui scoperte. I
frati di Nostra Signora di Guadalupe, raccolti in capitolo, vennero affascinati
da vaghe descrizioni e da disegni ambiziosi, in guisa da concedere che si
manomettesse il tesoro di parecchi conti d’oro, gelosamente custodito nella lor
bella torre e forte. La cupidigia vinse l’avarizia. Lo abate si rivolse al
vescovo Fonseca ed al cardinal Ximenes, che reggevano tutte le faccende delle
Indie Occidentali, e chiese licenza di armar due o tre legni per iscoprir nuove
terre e conquistarle, purché queste venissero poi date in feudo all’ordine de’
Girolami. Mance generose fecero sì che il Fonseca non s’opponesse a questa,
come ad ogni altra bella impresa e non attraversasse i disegni del Valentino,
come aveva attraversati quelli del Colombo, come attraversar dovea quelli del
Cortese. Lo abate ebbe la licenza: scelse alcuni frati più fidati e devoti a
lui per prender parte nella impresa, della quale nominò capo il cugino,
somministrandogli quanto denaro occorreva per comperar le navi opportune e per
arrolar gli uomini e provvedere a tutti i bisogni d’una navigazione lunghissima
e delle imprese di guerra probabili. All’acquisto de’ legni ed al viaggio
doveva soprantendere il vecchio pilota.
Cesare partì
con esso, con padre Ildefonso ed alcun altro religioso per Siviglia, fermandosi
a pernottare a Rincón, luogo de’ frati di Guadalupe, al Campanario, al Campiglio,
a Valverde, a Cazalla ed a Cantillana: misero sei giorni a far la strada,
attraversando la Sierra Morena, Mariani Montes. Alloggiarono fuori della
terra, nel Monastero di San Girolamo, de’ frati Girolamini, «il quale è
bellissimo e di fabbriche e di giardini pieni di aranci e cedri e mirti
infiniti... Buon grado hanno i frati che vivono lì a montar di lì al paradiso».
Ma il luogo dove fu innalzata la bandiera di arrolamento fu una casetta del
Duca di Medina-Sidonia, sulle Grade, rimpetto a quella Giralda che giustifica
il motto:
Chi non ha
visto Siviglia,
Non ha visto meraviglia.
Il Duca di Medina-Sidonia, co’
suoi meglio che sessantamila ducati d’entrata, era un da meno ed un menno: «È
uomo che non val molto e che non è buono da cosa alcuna. Bisogna insegnarli
tutto quel che ha da dire, quando parla con alcuno. Onde accadde quella
piacevolezza, quando visitandolo un vescovo, gli dimandò come stava la mogliera
ed i figliuoli, eccetera. Ha per moglie una... bellissima donna, la quale
governa il tutto, insieme con un fratello di detto Duca, del qua! si dice che è
più moglie che del marito, e che i figliuoli che ha, son di costui. Perché
questo meno si abbia da dubitare, certo è, che hanno cercato, provato.., come
’l Duca è mezzo insensato ed inabile a governar lo Stato, che il Papa dispensi
che la moglie sia del fratello, e lo Stato insieme: tenendo però il Duca,
finché vive, come una insegna». La dispensa era stata accordata da Rodrigo
Borgia, alias Alessandro VI; e la Duchessa, e ’1 cognato, riconoscenti e
memori, cercarono di disobbligarsi in questa occorrenza verso il figliuol di
lui, del cui disegno di emigrare in America erano informati. Il paggio della
Duchessa, che era «un garzon nero, pezzato di bianco cosa rara e di
maraviglia», andava e veniva di continuo dalla Duchessa al convento, recando
imbasciate e doni.
Nella Scelta
degli uomini, mise il Borgia gran cura. Veramente, a’ termini delle leggi
vigenti, potevano imbarcarsi pel Nuovo Mondo i soli sudditi della Corona di
Castiglia: n’erano esclusi persino i sudditi del Re di Aragona; epperò sulla
tomba di Cristoforo venne scritto:
A Castilla y a
León
Nuevo Mundo halló Colón.
Ma una ciurma ed una soldatesca
spagnuola non convenivano al disegno di Cesare, che invece cercò di popolar le sue
tre navi con italiani, adescandoli con larghe promesse e laute caparre da’
legni senza numero che di Genova, di Venezia, di Napoli, approdavano ne’ porti
della costa e risalivano il Guadalquivir sino a Siviglia. Trattandosi di
faccenda commessa a frati ed all’ordine potente de’ Girolamini, gli ufficiali
regi non la guardavan tanto pel sottile; le mance copiose toglievan loro ogni
voglia di far difficoltà; e poi, già, non ci eran fedi di nascita in quel tempo
ed i registri eran tutti in ordine. I Passalacqua, i Crisafulli, i Gallifuoco,
i Giustiniani si portavano come Alvarado, Escobar, Sandoval, Olid e chi volete
che si pigliasse l’incomodo di andare a verificar l’esattezza degli statini?
Chi doveva sospettarli falsati? Il Fonseca era noto protegger l’impresa.
Inoltre era uno di que’ momenti di accasciamento e disinganno, ne’ quali si
riteneva che imbarcarsi per nuove scoperte fosse atto di pazza demenza, di
sconsigliatezza. Troppi disinganni avevan colpito gli avventurieri spagnuoli:
non credevan più alle ricche promesse degli arrolatori; ed in questo caso,
presentandosi un castigliano, gli s’imponevan condizioni tali, che egli presto
deponeva la idea di partecipare alla impresa.
Finalmente giunse il momento di salpare. La Duchessa di Medina-Sidonia
volle donare al Borgia, co me ricordo ed augurio, la spada del conte Fernando
Gonzales, che in illo tempore aveva aiutato Garzia Perez de Valgas a
conquistar Siviglia. Onde chiaramente risulta la spada, che attualmente si
mostra ancora a Siviglia, come del Gonzales, con la iscrizione:
Son la ottava
meraviglia:
Non saprei
dir quanti gozzi
Da me fur
passati e mozzi,
Ma so ch’io presi Siviglia,
essere apocrifa: c’è stata
sostituzione di lame. E di quanti arnesi di grandi uomini che religiosamente si
custodiscono in molti musei ed in celebri bicocche o stamberghe, l’autenticità
è del pari dubbia! Ma guardatevi bene dal manifestar questi dubbi sul luogo!
Dininguardi. Anzi giurate che la tale spada è proprio quella di Dante da
Castiglione e la tal penna quella con cui l’Ariosto scrisse l’ottava che
incomincia:
Forse era ver,
ma non però credibile
A chi del senso suo fosse signore.
La sferravecchia autentica del
Gonzales sta forse a’ nostri giorni ossidata e rugginosa in qualche casupola di
semiselvaggi indiani. Al Borgia non doveva servire a nulla, perché troppo
grande e greve. Basta, il buon cuore fa il pregio del dono.
Trascinati
dalla corrente del fiume, le navi giunser presto a San Lucar de Barramedo, alla
foce del Beti; e quindi si dilungarono con prospero vento dalla costiera
spagnuola. Il Duca Valentino provò soddisfa zione grandissima, trovandosi
finalmente sul mare, piano come una lastra di verde antico, sotto il cielo
sereno, lontano da quel suolo malfido delle Spagne, dove, ad ogni istante gli
pareva di dover esser di nuovo imprigionato. La Regia ospitalità Castigliana ed
Aragonese gli garbava poco. Ormai era imbarcato in un’alta impresa, e non gli
sarebbe rincresciuto il morir tentandola, affogato ne’ gurgiti del mare o
sforacchiato da saette barbariche, quanto il languire fino ad una tarda
vecchiezza in una rocca, prigioniero, dolendosi e rodendosi di continuo.
Avrei adesso
una magnifica occasione per introdur qui la descrizione di una tempesta; anzi
debbo convenire di aver cominciato parecchie volte ad abbozzarla. Veramente, de
visu, conosco poco il mare in burrasca, ché non mi è mai capitato di
navigare mentre l’amico imperversava, infuriava, nabissava. Dalla riva l’ho
visto talvolta fare il diavolo a quattro; anzi rammento di aver da bimbo, in
quella Nizza che ridiventerà italiana, palpitato un giorno per molte ore,
guardando un legno, che pericolava. Ma cosa mai sono le commozioni de’ nostri
buoni mari d’Italia, a petto alle convulsioni dell’oceano Atlantico? Avrei
lavorato di fantasia come fan parecchi, compilando una descrizione dalle
descrizioni che tante abbiamo di tempesta nella nostra letteratura. Anzi, per
dirla, avea già cominciato a fare un ricaccio di simili racconti.
Per esempio,
nelle Avventurose disavventure del napolitano Giambattista Basile c’è una
burrasca narrata da Dorillo.
Ma lasso!
invidioso del mio bene,
Intesi
sospirar ne l’aere il vento,
Infelice
presagio di miei danni.
E in un
momento udissi
Latrar fuor
de l’usato l’empia Scilla,
E farsi
l’onde infuriate e bianche.
E negli
alpestri scogli
Rompendo
l’acque rapide e sonanti
Faceano
rimbombar d’intorno il lido.
Ed a guisa
di monte
Ascendean
l’onde in alto; che poi rotte
Ne
l’incavati scogli,
Con orribil
muggito
Si
risolveano in schiume; onde ’l nocchiero
Nel volto
impallidito
Segni mostrò de la speranza morta.
Ecco un’altra descrizione
patetica, che desumo da un romanzo del veneziano Gianfrancesco Loredano: «La
tempesta incalzava di maniera, che non ci dava l’animo di poter mirar il
pericolo. Era tutto ripieno di tenebre, che pareva che gli dei avessero per
assorbirci levato i raggi a tutti i luminari celesti. Si poteva credere, che il
cielo volesse affogare il mare, o che ’l mare tentasse di muover guerra alle
stelle. I venti concorrendo con l’onde, ci apprestavano altezze e precipizi. I
tuoni e i folgori abbagliando la vista e l’udito, levavano il comando e
l’ubbidienza. Le grida dei marinari e de’ piloti, per contenere i remiganti in
ufficio, non arrivavano che imperfette, e invece di rimediare al pericolo
partorivano confusione ed accrescevano timore. I remi non potendo contrastare
con la violenza dell’acque, si rompevano in mille pezzi, come lo facevano le
sartie e i canapi. La diligenza del Trace, che con una generosa intrepidezza,
ora esortava, ora prometteva, ora minacciava; facendo in un medesimo tempo
l’ufficio e di marinaro e di Re, prolungava il naufragio, che di momento in
momento ci soprastava».
Avrei potuto
fare un cibreo di queste e tant’altre descrizioni di temporali, burrasche,
tempeste, uragani, groppi, grugni, fortune di mare, remolini, tropee, tifoni,
trombe, e simili galanterie ed affezioni dell’oceano. Avrei potuto attribuire
al Duca Valentino qualche motto sublime, come quello profferito dal
giureconsulto egregio milanese, Giason Maino, uomo di turpi costumi. Il quale
accompagnando la Bianca Sforza che andava a marito a Massimiliano Imperadore
squattrinato, avvenne che sul Lario ebbero una fortuna grandissima, e stettero
lì lì per annegarsi. L’Imperadrice con le dame; i signori ed i cavalieri; i
barcaruoli stessi lagrimavano, piangevano, singhiozzavano, frignavano,
gemevano, ululavano per paura della morte. Solamente messer Giasone era quello
che di tutto si rideva, e né più né meno se ne stava come se il lago fosse
stato tranquillissimo. Riuscì di sbarcare a Bellano e la Imperial donna chiese
al vizioso giureconsulto, onde tanta fortezza di animo. «Serenissima,» rispose
egli sorridendo «io so che il cuoco di Cristo non è ubbriacone da lessar la
carne, che si deve arrostire». Ed è forse più eroico dell’intrepidezza nel
temporale, il confessar così con impudenza quel vizio che poteva condurlo al
vivicomburio.
Io però sono
istorico coscienzioso: narro i fatti quali mi risultano esser avvenuti, non a
capo mio. Ora mi è forza convenire che la navigazione del Borgia fu prospera; i
venti propizi; il mare tranquillo. Non gli accadde, non gli occorse né di
ostentare intrepidezza, né di profferir parole memorande. Vestito d’una tonaca
di lana bianca sulla quale pendeva fino a’ piedi lo scapolare nero con un
angusto cappuccio e rotondo, quasi cappa o manto che aperto sul davanti
scendesse dagli omeri a terra (insomma nell’abito degli Eremiti di San
Girolamo), attese a farsi amare e ben volere da tutti gl’imbarcati. Noto è
ch’egli affascinava co’ modi, col buon garbo, quanti lo approssimavano,
Come dissi, se
ben vi ricordate,
Però più replicar non me lo fate.
Colto, arguto, scherzevole,
affabile, cortese, prodigo, lusinghiero sapeva il modo di conquistar gli
affetti delle persone onde abbisognava. Ammaliare, innamorare, sedurre,
addomesticare, mansuefare, cicurire, accattivarsi gli animi più ritrosi e
difficili, gli era agevol cosa, sol ch’e’ vi attendesse: sicché, strano a
dirsi, malgrado le perfidie innumerevoli attribuitegli, trovò sempre chi
fidasse in lui, chi per lui tutto arrisicasse. Tanto si adoperò, s’ingegnò,
s’industriò, si arrabattò, assistendo, donando, accarezzando, promettendo, che
insomma, prima di raggiunger le Antille, divenne l’arbitro di tutti i cuori, e
governava quel gentame, quella geldra, quel canagliume, quella marmaglia più
con l’affetto suscitato nelle rozze menti, che con l’autorità conferitagli dal
cugino abate.
In guisa che,
quando, attraversato felicemente lo Atlantico, nella prima isola in cui
rilasciarono (ignoro se fosse la Martinica o la Guadalupa o la Maria Galanta od
altra) radunò ciurma ed avventurieri sul lido d’una insenatura; e comparve
innanzi a’ suoi trecento, non più da frate, anzi da guerriero; non più nella
goffa acconciatura bicolore ut supra, anzi corazzato da un giaco di
acciaio, con la barbuta adorna d’un pennacchio bianco, con la mano rivestita
dalla manopola ed appoggiata sull’elsa del pistolese (ch’era una specie di
pugnale, e non una pistola, come sembra creder taluno a’ dì nostri, e come ha
immaginato un pittor francese, figurando lo Aretino nello studio del
Tintoretto; mi basti in prova questa citazione del Bandello: «Stava il Deodati
come trasognato, quando il traditore Turchi, preso un pugnale pistolese che
colà avea messo, eccetera»). Ma lasciatemi riprender fiato: questo periodo
è già troppo lungo e sto per imbrogliarmici! Quando apparve dunque...
dimenticavo d’aggiungere ch’egli aveva anche una specie di pistola a
rivoltella, perché questa non è d’invenzione recente, anzi lo Straparola ne
descrive una posseduta dal Duca Francesco Sforza, figliuolo di Ludovico il
Moro, nella favola III della IX delle sue Tredici piacevoli notti:
«Appresso questo il signore trasse fuori un piccolo scoppio che a lato teneva
ed aveva cinque bocche, le quali unitamente e ciascheduna da per sé poteasi
scaricare». Se non è zuppa, è, com’ognun vede, pan bagnato: e pistola a cinque
canne se non revolvero. Quando apparve così trasformato, ed ebbe manifestato
agli ascoltatori attoniti chi egli si fosse; e come, stanco del vecchio mondo,
intendesse conquistare a sé ed a loro un regno nelle Indie, del quale sarebber
compadroni; ed ebbe dipinta agevole la cosa, perché, come dice il Montluc:
«bisogna possibilmente occultare a’ soldati la conoscenza del pericolo
presente, ove si voglia condurli di buon animo al combattimento»; ed ebbe
invitato chiunque non volea seguirne la fortuna a dichiararlo e segregarsi,
promettendo anche a’ disertori lo stipendio d’un anno ed uno de’ legni per
recarsi alla Spagnuola; quando gli altri frati Gerolami ebbero rinnovato al Duca
guerriero l’espressione dell’ossequio che dianzi professavano al loro
confratello e superiore; quando alcuni vecchi soldatacci, che avevan militato
in Italia sotto i gonfaloni di lui, l’ebbero acclamato: tutti gli avventurieri
ed i marinai gli giurarono unanimemente fedeltà, lo inchinarono come guida e
capitano, impegnandosi a seguirlo dovunque gli piacesse guidarli. Non uno fra
tanti che dissentisse, che facesse diffalta: gioivano, esultavano de’ mutati
destini: la rapina, la pirateria, la conquista, dicevan lor meglio che il
colonizzare un paese incolto ed esser vassalli di frati. I più avevano un basso
ideale della milizia, e ne apprezzavano solo la licenza, pensando con Ludovico
Zermignassi-Malombra:
Forse non è
milizia
Un concesso
omicidio, un latrocinio
Con
trascorso di legge
Senza incorso di pena?
Il petto del Valentino si gonfiò
per lo giubilo. Non aveva osato presagire o sperare la unanimità. Ma la sua
eloquenza trascinava tutti; e gli giovò in quella, e gli era giovato in tante
altre occasioni di non appartenere alla milizia ignorante, come l’ha
chiamata un nostro contemporaneo. Egli credeva, con molti altri, ciò che
osserva un poeta, narrando in qual modo il Colombo raumiliasse gli indiani col
pronosticare un ecclisse solare:
Crediate, o
sommi Re, ch’ogni pendice
Dominate
mondana ed ogni piaggia,
Quel sol
de’ vostri eserciti è felice
Ch’un dotto
capitan sopra si aggia,
Perché,
come in un corpo errar non lice
Le mani e i
piè, quando la testa è saggia,
Così in
campo i guerrier perir non ponno
Quando
guidati son da un saggio donno.
Or quai
duci del secolo presente
Avrebbono
in virtù d’un solo detto
Saputo aita
all’affamata gente
Procacciar
dell’esercito soggetto?
Pochi
certo; i quai par, ch’oggi contente
Il puro
saper leggere ed ischietto,
E con penna
segnar sol tante note
Con quante
il nome lor formar si puote.
Non son la
spada e il libro arti sì avverse
Che
congiunte una l’altra ombri e rintuzzi,
Come suol
da color credenza averse
Che i raggi
del giudicio han poco aguzzi.
Anzi una
illustra l’altra e si fan terse
Quasi
coltello che a un coltel s’aguzzi:
Quindi
l’antica età Palla fingea
Degli
studii e dell’armi esser la dea.
Sì fatti
furo i più nomati eroi,
Così Cesare
e il figlio in pregio salse,
E più d’uno
altro ancor, prima e dappoi,
Che con la
mano e con l’ingegno valse.
Le cui
chiare vestigia e non de’ suoi
Vili tempi
al Colombo imitar calse.
Perciò
quando bisogno aver gli avvenne
Fin de’
nemici istessi i vitti ottenne.
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