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Vittorio Imbriani
L'impietatrice

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  • VII
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VII

Da quell’Antilla, qualch’ella si fosse, dopo un riposo di alcun giorno, rinnovata l’acqua, Cesare Borgia riprese il viaggio navigando a golfo lanciato fino all’isola di Cozumel, che fu poi nota agli europei, sol dopo che il Grixalva v’ebbe approdato nel MDXVIII. Indi rasentando, piaggiando, costeggiando lo Yucatán, raggiunse le sponde messicane ed il luogo ond’era partito il vecchio pilota. Toccavano la meta del lungo corso marittimo. Le tre navi del Valentino solcavan le onde a meno di un tiro di fucile dalle rive sulle quali i navigatori scorgevano gl’indigeni stupefatti, attoniti, meravigliati, a bocca aperta, con le ciglia in arco, contemplar quel nuovo spettacolo, quelle case alate che si movevan sul mare, senz’opera di remo. I navigatori andavan costa costa; ed i barbari correvano marina marina. Finalmente i nostri ammainaron le vele e gittaron le àncore in un picciol seno, che parea ben protetto da’ venti e quasi un porto naturale sicurissimo.

Se attendessi a descriver minutamente come s’iniziarono le relazioni tra la gente del luogo ed i seguaci del Valentino, andrei troppo per le lunghe, ripetendo quel che si legge ne’ racconti degli antichi viaggiatori e scopritori di terre; suppergiù furon gli stessi episodi che avvennero al Colombo, al Ponze de León, al Grixalva, al Núñez di Balboa, al Cortez, a tutti quanti. Se non che i nostri ebber facilità maggiore di comunicare con que’ barbari, conoscendone il vecchio del pilota la lingua ed avendone insegnato in buon dato al Borgia. Vennero dunque a bordo infiniti messicani, parte a nuoto, parte nelle canòe, recando in dono e fiori e frutta e piumaggi molto ricchi ed infiniti pappagalli di vari colori e vettovaglie d’ogni genere; e vendendo anche di queste cose e gioielli ed oreficerie per oggettucoli di vetro e d’acciaio, paternostri, sonagliuzzi, bubboli, specchietti ed altre frasche, inezie, minchionerie. Si affollaron per modo sulle caravelle, inermi tutti e quasi tutti ignudi, meravigliandosi della loro grandezza e degli apparecchi e degli artifici, da impacciare. Ed accadde cosa da ridere. Il Duca fe’ sparare alcune artiglierie: una salva innocua. Ma quando salì il tuono, la maggior parte degli indigeni per paura si gettò a nuoto, non altrimenti che si fanno li ranocchi che stanno alle prode, che vedendo cosa paurosa si gettano nel pantano: tal fece quella gente; ed i rimasti sulle navi stavansi esterrefatti e ci volle il bello ed il buono per rassicurarli; e stimarono che fossero numi o semidei gli stranieri che padroneggiavano la folgore.

Il pilota dichiarò loro che la flottiglia portava un principe mosso dallo estremo Oriente, dal paese della luce, dove il sole nasce, attraverso lo immenso oceano per brama di vedere Re Nezagualpiglio e la figliuola Ciaciunena, la cui fama aveva passato il pelago. Gli indigeni subito immaginarono che gli europei fossero i discendenti del loro Iddio Quezzalcoatte, de’ quali e portenti naturali (comete, aurore boreali, tremuoti, meteore, pioggia di stelle cadenti), e celebri vaticini presagivano prossima, imminente la venuta. Alcuni di essi s’avviarono alla capitale della provincia per ragguagliare d’ogni cosa il governatore (che la teneva per l’Imperatore di Tescuco, il quale l’avea conquistata di recente ed era un gran barone): ma non ne riferirò il nome, perché barbaro troppo, perch’era un polisillabo troppo irto ed ingombro di consonantacce eteroclite, che una bocca italiana mal saprebbe pronunziare. Frattanto gli avventurieri sbarcarono e s’accamparono, si attendarono, afforzandosi e spiegando magnifici padiglioni ed ergendo frascati e trabacche su d’un promontorio che formava penisola. I mansueti indigeni concorrevano in folla, largheggiando di fiori e frutta e cacciagione e cucinando a ufo pei forestieri una quantità di piatti nazionali e soprattutto dolciumi. Si sa ch’è dritto degli esseri superiori di approfittare del lavoro degli inferiori: i semidei discendenti di Quezzalcoatte trovavano i messicani pronti a servirli e volonterosi. Ed il Borgia non abusò delle buone disposizioni. E’ non veniva, come pochi anni dopo lo scortesissimo capo-brigante Cortese, a schiavificar gli abitanti dell’Anaguaco, a furarne le ricchezze, a sovvertirne la religione, offendendone ogni sentimento, ledendone ogni interesse. Non meditava bottino, non ripartimienti d’indiani, non la distruzione de’ sacrifici umani, degli idoli di Guizzilopòccili, de’ superbi teocalli. Altro era il suo scopo: volle mostrarsi davvero potente e benefico come un Dio, ch’egli era tenuto; e seppe riuscir nello intento. Non suscitò quindi avversione e collere. Ma non lasciò neppure orma salda nel nuovo continente, che invece que’ ladroni spagnuoli conquistarono: pochi anni dopo, la sua memoria era cancellata da’ ricordi di que’ popoli, perché i popoli rammentano tenacemente solo i flagellatori ed i carnefici, solo chi li percuote e travaglia; e non tien più conto negli annali de’ buoni principi e degli uomini benefici, che de’ buoni pranzi divorati nelle città e de’ buoni bicchieri di vino cioncati nelle bettole.

La dimane, il governatore, lo intendente, il prefetto della provincia, via, venne con gran seguito a complire il Borgia e presentarlo riccamente in nome di Re Nezagualpiglio: oro in polvere ed oreficerie, smeraldi, tessuti finissimi di bambagia, piumaggi. Il Valentino il ricevette a cavallo, catafratto, con un elmo dorato in capo che risplendeva e sfolgorava percosso dal sole, riflettendone i raggi. Allo apparir del prefetto, moschettieri ed artiglieri spararon tutte le armi loro con frastuono inaudito: ed il Duca apparve tra il lampo de’ colpi ed i nugoli di fumo, veramente come un Iddio a’ creduli messicani, che tutti, prefetto, sottoprefetto, consiglieri di prefettura, esattori, precettori, soldati, eccetera, eccetera, caddero ginocchioni per adorarlo, esterrefatti ed esultanti nel tempo istesso, unanimi nel riconoscere in lui Quezzalcoatte in persona. Il figliuolo d’un vicedio europeo, era promosso Dio effettivo in America. Quezzalcoatte (nome cacofonico che significa serpente pennuto od angue gemello) era un’antica divinità che que’ popoli immaginavano barbuta, dalla bianca carnagione, dal capel nero e lungo: era lo Iddio dell’aria, una specie di sommo Giove, umanato secoli prima per ammaestrare, istruire, addottrinare, scaltrire gli anaguachesi nella metallurgia, nell’agricoltura, nella politica, essendo metallurgo e statista nel contempo, appunto come Quintino Sella. Aveva dimostrato la natura divina sua beneficando, caso insolito per gli Dei di qualsivoglia mitologia, ché gli uomini ergon più volentieri altari ed are, templi, delubri, fani, chiese, sinagoghe, moschee, pagode, cappelle, a chi li tormenta o spaventa. A’ suoi tempi la terra somministrava fiori e frutti senza lavoro, e le spighe di granone eran di tal mole che un facchino a stento ne portava una sulle spalle. La bambagia veniva naturalmente colorita e meglio, con più saldi colori e vivaci, che non siano i nostri artificiali. L’aria redoliva sempre di fragranze elette e risonava di soavissimi canti, gorgheggi, gemiti, mormorii, pigolii, cinguettii, garriti d’uccelli variopinti senza fine. (Cose tutte che non avvengono a’ tempi del Sella). Ma Quezzalcoatte, incorso nello sdegno d’un Dio maggiore ed esiliato, s’imbarcò sul golfo messicano,

Indi a l’instabil del flutto infido

Sé stesso crede e si commette al vento;

e partì verso l’Oriente, promettendo agli anaguachesi di tornare dopo qualche secolo o di mandare a visitarli. Un dottor Siguenza, spagnuolo, credé provare che Quezzalcoatte fosse san Tommaso apostolo; e più recentemente un certo Mac-Culloch, degli Stati Uniti, lo ha identificato col patriarca Noè: due opinioni egualmente probabili. Gli indiani di allora immaginarono di risalutarlo nel Borgia; il quale (curiosa coincidenza!) mentre nel vecchio mondo veniva detestato, esecrato, abominato come l’anticristo, come un demonio incarnato, nel nuovo poi era inchinato, ossequiato, venerato, adorato come Iddio.

Io non descriverò minutamente la marcia trionfale de’ nostri dal luogo dello sbarco sino a Tescuco, metropoli del reame di Nezagualpiglio. Le popolazioni capitanate da’ cacichi, uscivan loro incontro in massa, uomini e donne, femmine e maschi, tutta gente assai poco vestita: il che, per l’abitudine, non cagionava scandali (né sembrano gli antichi messicani essere stati più scostumati, discoli, libertini, di tanti popoli che andarono e vanno vestitissimi, abbigliatissimi, copertissimi, ammantatissimi, velatissimi, eppoi, non c’è che dire, faceva un bel vedere.., quando le persone eran belle. Checché asseriscano tutti i sarti, calzolai, cappellai, drappieri, guantai, eccetera, eccetera, il corpo umano ignudo o seminudo sarà sempre più vago e degno spettacolo de’ cenci e de’ fronzoli onde essi il van ricoprendo. Ma le donne ora son ridotte all’ufficio delle piavole, de’ sospendabiti, de’ piuoli, degli uomini di legno nelle bacheche e ne’ negozi delle crestaie. Per le vie, ne’ salotti, ne’ teatri, dovunque, si guardan le robe che son gittate loro addosso e poco si abbada a quello onde poco si vede, cioè la persona che le sostiene. Ma torniamo a bomba. Gli anaguachesi eran genti di mezza taglia, molto ben proporzionate. Le carni di colore che pendeva al rosso, come il mantello del leone; non avevan pel corpo pelo alcuno, né si lasciavan pur crescere le ciglia e le sopracciglia, ché tenevano i peli per brutta cosa, salvo i capelli, che portavan lunghi e neri, ed i quali abbellivan le donne. Gli uomini andavano colà più ornati del minor sesso, come naturalmente dovrebbe esser dappertutto, ma la generosità degli europei non lascia esser tra di noi. Il maschio, in tutte le specie degli animali, è stato sempre creato dalla Natura più vago della femmina, adornato di fregi e pregi maggiori: il pavone ha quella coda e fa la ruota e la pavonessa no; il leone ha la giubba e la leonessa no; il cervo ha quelle corna a palchi e la cerva no; noi altri uomini stessi abbiamo queste belle barbe (salvo la mia ch’è brutta, crespa e multicolore) e le donne no. Presso tutti i popoli poco raffinati, le stoffe preziose, i gioielli, le fogge vistose, son per gli uomini, pei quali viene stimato conveniente il cercar di richiamar l’attenzione, quanto per le donne il fuggirla e sfuggirla. Ma noialtri europei abbiam voluto correggere la natura, ci siamo vestiti di nero come tanti merlotti, ed abbiamo ceduto alle signore europee i becolori e le gemme e gli ori e le stoffe di pregio. Con quanto senno per la felicità nostra domestica, nescio. Basta, per ritornare nuovamente a bomba, dirò che gli anaguachesi portavano orecchini non solo, anzi pur buccole da naso e foglie d’oro incastrate nel labbro superiore. I maggiorenti poi sfoggiavano in isfarzose vestimenta di piumaggi, intessuti mirabilmente sul cuoio o sulla tela bambagina, ingemmati, tempestati d’oro. Gli abiti appunto che recati anni dopo in Ispagna fecero scrivere a Pietro Martire: Plumas illas et concinnant inter cunicolorum vilios interque gossampii stamina ordiuntur, et intexunt operose adeo, ut quo pacto id faciant non bene intellexerimus.

Attraversava il Borgia co’ suoi, trionfalmente scortato daglindigeni, un paese di vaghezza miracolosa, foreste incantate dove albero non v’era, non uccello che portasse forme lor cognite, che gorgheggiasse con voce prima udita. Tale s’immagina il paradiso terrestre. Ma di tempo in tempo lo incontro di qualche teocalli con gli avanzi de’ cadaveri delle vittime sagrificate agli dei paesani e soprattutto a Guizzilopòccili, l’orrendo Marte messicano, li spaventava anche un pocolino, se pensavano di essere in sì picciol numero in mezzo ad uno impero potente e sconosciuto, a delle miglia più di millanta, che tutta notte canta, dalle patrie loro. Il paradiso terrestre, col sospetto di venir cucinati un giorno o l’altro, non parea lor desiderabile. Però gl’indiani non ricettavano intenzione alcuna di papparsi gli ospiti che reputavan semidei: e se li pascevano a meraviglia, non era mica per ingrassarli. Già l’aspetto di soldati provetti e di vecchi marinai, può prometter forza, virtù, valore, senno, prudenza, ma non mi pare dover sembrare appetitoso e saporoso, neanche agli antropofagi. Dicevo che i messicani pascevan bene que’ forestieri: ma con nuovi piatti della loro cucina casareccia; anzi allora fu che per la prima volta palati europei gustarono il cioccolatte. Né senza ripugnanza i nostri appressarono in sul principio quella bevanda bruna alle labbra, appunto come la Fille metastasiana:

Fille, giungi opportuna

Dalla campagna, or, sul mattin. T’assidi

E prendi questa di liquor spumante

Ricolma tazza e bevi. E che? Ritrosa

Sdegni l’invito e la ricusi? Intendo:

Altro umor non conosci

Che quel del rivo e quello

Dall’uve espresso. Ah semplice che sei!

Questo è ben altro che gustar del fonte

O di bionda vendemmia. Odimi, io voglio

Svelarti i pregi e la sostanza; e poi,

Se non ti aggrada, allor fa ciò che vuoi.

Ma appunto, come la Fille metastasiana, quegli avventurieri, gustato ch’ebber la pozione, ne divennero ghiottissimi.

…Ah Fille,

Ti piacque? Lo sorbisti? E non sei quella

Che finor lo sdegnò? Del molle sesso

Questo sempre è il costume. A’ nostri voti

Pria si mostra crudel; fugge: ma brama

D’esser raggiunto. Alf in tutto cortese

Scusa il rigor, s’affanna, e langue poi

Che stil si cangia e siam le ninfe noi.

Non eran già de’ goffi come il Carpano ne Gl’inganni lodevoli del Fagiuoli, che racconta così a Fi denzio come prima provasse la bevanda indiana (per dirla col Martelli Satirico). «I’ credetti d’aver affogare in bere certa robba, ch’io non credea che la si bevissi a quel modo a ciantelli e a spelluzzico e a miccino. Mi recònno un ailberello bianco e turchino, con certa matiera drento di color di noce. Io mi metto a cioncalla. Canchigna! ell’era bollente, ch’ella pelava. La mi scottò la lingua e la mi storticò tutto lo ’mpalato, fin al fondo dil cocuzzolo della gola. Tirai via quel maladetto ailberello, che mi dissan, che ghi era fatto di quell’erba che sta terra terra. — FIDENZIO Di porcellana? — CARPANO Sie, di coresta. Che diaschin di beiture alla moda! La si chiama, la si chiama... il lastricato. — FIDENZIO Come il lastricato? — CARPANO L’acciottolato, voleo dire; ah ora m’è sovvienuto. — FIDENZIO Il cioccolato ossia il cioccolatte, detto comunemente la cioccolata, bevanda usata da’ popoli americani della Novella-Iberia. — CARPANO Sibbene, la scioccolata. E se la gente che vodite voi, se la beje per soconsumo, bigna che egghi abbin le budella diacciaee». Io avevo pensato d’introdur qui una curiosa digressione intorno all’uso di questa squisita bibita calda, e mi avevo procacciati all’uopo parecchi libri ed opuscoli: ma ne ho smesso il pensiero per non aver potuto azzeccar finora ned I monumenti storici intorno all’uso del cioccolatte del rigorista Daniele Concina, né la Lode della cioccolatta stampata da G. Avanzini nel MDCCXXVIII. I lettori ringrazino le cattive condizioni delle nostre biblioteche e del commercio muricciolesco o bancherozzereccio in Italia, per cui spesso un libro un po’ antico si cerca invano per lunghi anni e s’è costretti a farne di meno, a spesarsene al miglior uopo.

 




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