VIII
Il viaggio era lento non
possedendo i messicani né cavalli, né muli, né (con reverenza) asini, né sorta
alcuna di bestie da soma: i cannoni dovevan trascinarsi a braccio da’ bastagi
indigeni. Poi si sa, le marcie trionfali sono lentissime, ad ogni villaggetto,
ad ogni casale, ad ogni bicocca, complimenti, cerimonie, doni, arringhe,
simposi. Indigeni ed indigene correvano incontro a’ pretesi Quezzalcoàttidi,
inghirlandandoli ed inghirlandandone i cavalli con serti e catene di fiori, che
de’ fiori infinitamente si dilettava quel popolo e con sommo studio li
coltivava: gusto favorito dalla natura nel Messico. In tal guisa, per valli,
per monti, per selve impervie, guadando fiumi, rasentando spaventose quebràde,
i nostri attraversarono le tre zone celebri del paese, la tierra-caliente
e quindi la tierra-templada e finalmente la tierra-fria, non mica
però più fredda di Napoli o Roma; e per la gola formata da due cacumi inaccessibili
dello ignivomo Popocatepetlo e del nevoso Istacciguatto sboccarono nell’ampia
valle e lacustre di Temistano, e fecero lo ingresso solenne nella superba
Tescuco, superba per ricchezze, per popolazione, per edifizi e soprattutto pe’
teocalli o templi piramidali. Un teocallo è
Scoperto loco,
eguale a un alto trono,
Che tutto è
scala intorno in quadro aspetto
Largo alla
base e verso il sommo stretto.
Su questa
cima, ov’è non grande un piano,
Salgono
gl’indiani ad uno e a dui,
La mane a
salutar lo dio sovrano
E la sera
la dea sposa di lui:
Pregando
mutamente e d’occhi e mano
Variati
facendo atti da cui
Traspar sì
chiaro il reverente core
Come fa pesce da tranquillo umore.
Re Nezagualpiglio, contr’ogni regola
d’etichetta, mosse incontro agli stranieri; e scese dalla lettiga per inchinare
il Borgia. Che volete? Agli occhi di lui e del popol suo quegli stranieri erano
enti soprannaturali, semidei per lo manco. Signoreggiavan la folgore: o che
altro eran cannoni e schioppi? Risanavan gl’infermi, i moribondi, risuscitavano
i trapassati: e come non sarebbe sembrata miracolosa agli ingenui indiani
qualche operazion chirurgica o cura medica? Cavalcavano de’ mostri criniti che
terribilmente nitrivano correndo come il vento. Indossavano usberghi
impenetrabili. Il sillogismo era ovvio: «Noi anaguachesi siamo il popolo più
colto e potente che sia o che possa essere; ma questi venuti d’oltre mare son
dappiù di noi sotto ogni aspetto; superiori agli uomini sono i numi, ergo,
questi oltremarini sono numi». Noi incespicheremmo alla prima proposizione: ma
per li messicani era articolo di fede. Il Re quindi offerse teste e signorie a
tutti quegl’intrusi, a tutta quella feccia di mascalzoni europei, ed al Duca
Valentino volea rinunziargli il trono ad ogni patto. Ah perché mai questa idea
felice, che spuntava naturalmente sotto al cranio d’un barbaro nel riconoscere
il merito superiore di Cesare, perché non era venuta in tempo utile a qualche
principe italiano, non meno da meno del Borgia che il Nezagualpiglio? Oh se gli
Aragonesi imbecilli avessero avuta la stessa bella ispirazione! oh se avessero
abdicato in favore del figliuolo di Alessandro VI, deponendo lo scettro fra
mani, la corona sopra fronte che non se li sarebbero lasciati strappare né da
grandi capitani né da piccoli: cedendo quel trono che ingloriosamente
acculattavano a chi, assisovi, non se ne sarebbe fatto spodestare né dal Re di
Spagna né da quel di Francia!... Non avremmo avute le secolari miserie
viceregnali, non saremmo scesi al fondo del l’obbrobrio, e da due secoli
saremmo una nazione ed uno stato! Ma sì! se qualcuno avesse arrischiato quel
suggerimento arcisavio ad un qualunque degli Aragonesi avrebbe finito o come
pazzo allo spedale, o come traditore, in carcere.
Ebbene quel
divorator di città ch’era il Borgia, quell’uomo che aveva accumulato prodezze,
astuzie, e nequizie per formarsi un trono in Italia, ora, potendo agevolmente
impossessarsi d’un regno transatlantico più vasto e più ricco di cinque Italie,
non volle. Gli è che si è ambiziosi, come innamorati. Non si brama una corona
qualunque, anzi la tal corona, non una donna purchessia, anzi la tal donna: si
vuole essere deputato, ministro, dittatore, ma nel tale stato, non in altro
qualunque. Offrite al Cavour di diventar ministro di Napoleone III: rifiuterà.
Offrite a chiunque di noi, oscurissimi, qualunque ufficio in Inghilterra: il
sacco-di-lana od il vicereame delle Indie: preferirà l’esser consiglier
comunale nel più misero comunello d’Italia. Offrite al Lamarmora il comando di
tutti gli eserciti prussiani, vi ringrazierà tanto. La differenza fra l’amante
ed il libertino, fra l’ambizioso e lo avventuriere, sta appunto in questa
determinatezza del desiderio o dell’ambizione. L’avventuriere ed il libertino
subordinano la cosa agognata alla propria soddisfazione: l’ambizioso e lo
amante subordinano sé stessi alla idea loro. L’intera vita militano sotto una
bandiera, servono uno stato: non mutan patria: non mutano affetti. Cesare
Borgia avea desiderata la corona d’Italia: e quella imperiale stessa, in
cambio, non lo avrebbe appagato; non quella di Francia; non quelle di Aragona e
Castiglia congiunte.
Rifiutò dunque quella di Tescuco.
Chiese di
venir presentato alla Ciaciunena. Il padre della Principessa tentò distoglierlo
dal proposito, dissuadernelo, rappresentandogli la gravità del pericolo:
malgrado reputasse enti soprannaturali que’ pretesi Quezzalcoàttidi, temeva di
vederli impietrire, lapidificare, statuificare dagli occhi di basilisco della
figliuola, e di attirarsi così sul capo qualche grande sciagura e terribile,
oltre al violare le leggi della ospitalità. La venuta del Borgia gli pareva un
favor del cielo e paventava di demeritarlo. Ma gli fu forza cedere alla
espressa volontà dell’ospite e condurlo alla figliuola, che per la maledizione
della fata del Popocatepetlo era costretta a dare udienza al buio, o di dietro
ad una cortina, innanzi alla quale di solito i visitatori stavan con gli occhi
bassi e tremanti e mezzi morti dalla paura e sempre lì lì per iscapparsene. Ma
il Duca Valentino alzò la cortina, e volle stringere e baciar la mano alla
Principessa, anzi abbracciarla salutandola alla franzese. Era solo con lei, ché
nessun indigeno osò seguirlo ed imitarne lo ardimento; neppure la Maestà di Nezagualpiglio
in persona, che non aveva mai stretto la figliuola al seno.
Fernando de
Alva Ichtlilcocitlo, discendente anche lui dalla regia prosapia di Tescuco,
autore di una Storia Cicimeca e di parecchie relazioni manoscritte, in
ispagnuolo, i cui elementi son tratti dagli antichi rotoli e ventagli di
geroglifici aztechi, ch’e’ sapeva deciferare, è il mio principale autore in
questa narrazione. Lo credo schietto: ed ha questo vantaggio su molti altri
storici, che la mancanza e deficienza di documenti c’impedisce quasi sempre di
mostrare che egli ha mentito, anche dove ne sorge in noi il sospetto. Ma non ha
il vezzo di metter parlate, arringhe, sermoni, orazioni di testa sua in bocca
ai personaggi; e nulla ci dice di quel colloquio a quattr’occhi (no, sbaglio,
di quel colloquio ad occhi bendati e senza testimoni) fra il Borgia e la
Ciaciunena. Bisogna supporre che il primo ci si fosse preparato da un pezzo e
ne aveva avuto tempo ed agio nel Convento di Guadalupa, a Siviglia, navigando
il mare, cavalcando per la tierra-caliente, la tierra-templada e
la tierra-fria. Come Androgino, nell’Alteria del Cieco d’Adria,
doveva aver ragumate e discusse seco medesimo tutte le formole di saluto che
possono adoperarsi.
Or con che
esordio
Comincierò
a parlarle? qual principio
Sarà il
mio? che saluto al primo giungere?
Io le dirò:
«buon giorno, bella giovane».
No: quel
«buon giorno», ha troppo del meccanico.
È meglio
dir: «Signora mia dolcissima,
Dio vi
contenti, come state?». Cancaro!
No, no:
parrebbe a lei ch’io fossi medico.
Io le dirò:
«Bella fanciulla baciovi
La mano» e
avrà del tosco. Ma no, diavolo!
Questo
«bacio la mano», i toschi l’usano
Nel
partirsi d’alcun, nel tor licenzia.
S’io le
dicessi: «Dio vi salvi e siate la
Ben
trovata, madonna; io son qui in anima
E in corpo
pronto per farvi servizii?».
Questo non
mi dispiace: solo quel «ben vi
Venga», è
da contadin; fora più orrevole:
«Il ciel vi
aiuti, diva». Eh no! che diavolo
Le direi
poi se sternutasse?... «Il ciel vi
Aiuti» è
proprio di quei che sternutano.
Che le dirò?
Io le dirò... Orsù il tempo mi
Governerà e
Amore che ’n sua grazia
Mi ha
posto, mi darà tanta eloquenzia
E prontezza
di dir, che senza dubbio
Le sarà
questo giorno oggi gratissimo
E la mia andata gioconda.
Per la prima volta in vita sua la
Ciaciunena si vide ricevuta e corteggiata e strinse una mano amica ed ascoltò
parole, non pavide e smozzicate, anzi carezzevoli e lusinghiere. Fino allora
aveva avuto d’intorno solo timidi mercenari, cansata del resto da coloro stessi
che la invocavano per pietrificare i cadaveri della parentela. Se Cesare era
parso un Iddio a que’ popoli, parve alla Principessa più che Iddio; e qual
meraviglia? se per tale passa ogni mascalzone appo la giovinetta di cui primo
fa battere il cuore, come non doveva sembrar tale alla Ciaciunena quel
miracoloso straniero, che senza paura e senza sospetto, veniva a mitigar la sua
miseria ed a rivelarle il mondo degli affetti?
Vedi effetti
dello amore. Il Duca era uomo di mondo e provetto, sapeva con quali arti
ricercare il cuore d’una fanciulla; e poi con la Ciaciunena non ci voleva
grande arte. La più ingenua novizia del più severo convento, sarebbe stata una
scaltrita, appetto a lei. Bastò una parola del Borgia perché ella fosse vinta,
perché gli desse tutto il cuor suo. L’assetato gradisce qualunque bevanda.
…Quand l’âme a soif, il faut qu’elle se désaltère
Fût-ce avec du poison...
La Principessa era nel fior della
gioventù, consumata dal bisogno di amare, infelicissima per la solitudine cui
si vedea condannata e dalla quale non avea speranza di mai redimersi. Il
sapersi aborrita e schivata, il dovere schivar gli altri per non nuocere; la
sua condizione miserrima e singolare, le costava grandi lacrime. Come non
ammirare l’uomo che annunziava la fine di tanta miseria, che prometteva gioie le
quali compenserebbero lo squallore passato? Chi non avrebbe stimato messo del
cielo, anzi Messia, il misterioso transatlantico che aveva traversato lo
immenso oceano, com’egli diceva, sol per amore della Ciaciunena?
Ed il Borgia
fece alla donna, in quel primo incontro, un regalo, onde mai non venne fatto il
più prezioso ad alcuna donna del mondo: una mezza maschera di velluto, nella
quale i buchi per gli occhi eran coperti da vetri colorati. Il Borgia aveva un
magnifico cane, carissimo a lui, che gli era stato donato a Toledo e che gli
avea tenuto compagnia nella cella a Guadalupe e poi nel viaggio. Ma con la sua
nessuna misericordia, quando si trattava di raggiungere uno scopo, volle che la
Ciaciunena, curiosa di conoscere quella bestia europea, facesse la prova sul
povero Toledo dell’efficacia de’ vetri colorati nel togliere il veleno
sassificativo a’ suoi occhi. Toledo venne alla chiamata del padrone, mise le
zampe nel grembo della Ciaciunena, che lo sforzò a guardarla fiso, tenendogli
il capo con ambo le mani. Ma gli occhiali rendevano innocuo lo sguardo; e
Toledo dopo aver baciate, lambite, leccate le mani della Principessa ed esserne
stato ricolmo di carezze, se n’andò incolume. Allora il Duca, presa sotto al
braccio la Nezagualpiglide, sollevò la cortina e la mostrò a’ suoi seguaci ed
al popolo messicano, che dapprima non seppe frenare un lungo grido d’orrore e
terrore; ma poi proruppe in nuovi applausi, vedendo che il
pseudo-quezzalcoàttide aveva pur saputo riparare ai mal’occhio della
Ciaciunena. Egli la condusse fra le braccia dei padre, che mal si assicurava in
sulle prime di accarezzarla. E così, con quella maschera, le assicurò il
godimento delle gioie domestiche e de’ piaceri che le offriva il suo grado, non
mai prima assaporati. Poté uscire, veder gente, accogliere omaggi, assistere
agli spettacoli, intervenire a’ conviti. Ebbe ciò di cui la mala fata l’aveva
defraudata dall’infanzia. Come avrebbe potuto non adorare il suo benefattore?
Qual donna ebbe mai tanto obligo di gratitudine verso un uomo? Neppure la
Cenerentola verso il figliuolo di Re che la impalmò, ned il paralitico verso
Cristo che ’l guarì.
La repubblica
di Tlascala avea dichiarato guerra al Re di Tescuco: cosa volete? le stie eran
vuote e c’era bisogno di far prigionieri per riempirie ed ingrassarli e
sacrificarli quindi a Guizzilopòccili, e flagellar co’ loro cuori fumanti le
guance dell’idolo, e mangiarne le carni dottamente, apicianamente cucinate. Il
Borgia accompagnò Nezagualpiglio fino alla vallèa di Otumba, a’ confini della repubblica,
dove si venne a giornata. Gli europei decisero le sorti della battaglia.
L’artiglieria e la cavalleria incussero tale spavento nelle forze de’
repubblicani, ch’e’ se la diedero a gambe alla prima scarica delle bocche da
fuoco ed alla prima carica del piccolo squadrone. Non c’era mai stata tanta
concordia ne’ consigli de’ tlasclani, quanta ce ne fu nella condotta sul
terreno: e mostrarono in questo mente politica, non essendovi il peggio de’
dissensi nelle operazioni di guerra: l’union fait la force. Come i topi
de’ Paralipomeni alla Batracomiomachia:
Fuggirian,
credo ancor, se i fuggitivi
Tanto tempo il fuggir serbasse vivi.
Non ci fu uno che discrepasse,
uno che disapprovasse la fuga o vi si opponesse! Generali, ufficiali, gregari,
nobili, plebei, senatori e privati, tutti correvano, correvano, correvano; né
ristettero finché non fur giunti a Tiascala e ben chiusi e tappati. Bandiere,
armi, piumaggi, munizioni, vettovaglie (tacendo dell’onor militare e della
potenza della loro democrazia), tutto lasciarono ed abbandonarono nella valle
d’Otumba, e tra le vettovaglie debbo comprendere un buon numero di essi
repubblicani, che fatti prigionieri, venivan destinati a placare i numi e
saziare i vincitori. I quali, deridendoli per quel timor panico e danzando loro
selvaggiamente intorno, cantavano inni di scherno, come per esempio:
Qui v’uccidremo
anzi che notte vegna
E pasco vi
farem de’ nostri denti.
Ancorché
tanto onor si disconvegna
Alla vil
carne di sì infami genti.
Che d’esser
trangugiata è solo degna
Dalle fere
marine e dai serpenti,
O lasciata
marcir sopra la sabbia
Perché poscia i suoi vermi a pascer
abbia.
La unanimità continuò la dimane
ne’ tlascalesi; ed anche in questo mostraron que’ repubblicani acume politico,
non dovendo mai un popolo rimaner discorde nelle sconfitte. Onde alla unanimità
venne deliberato di mandare un’ambasciata al Borgia ed al Re di Tescuco e
d’implorar pace e misericordia e di accettarla ad ogni patto, offrendo
vassallaggio, tributi, ed anche una greggia de’ più grassi tlascalesi per le
feste annue di Guizzilopòccili.
Né
l’impressione di superstizioso terrore fu scarsa in Nezagualpiglio istesso.
Rinnovò con pertinacia la offerta del suo trono al Duca. E persistendo il
Borgia nel gran rifiuto, dichiarò di ritener da lui la corona, di considerarlo
come il vero signore del paese, che amministrerebbe in nome e per conto di lui.
Comandasse, spadroneggiasse a suo talento, disponesse di tutto, pigliasse quel
che gli aggradiva. Cesare lo colse in parola e gli domandò la figliuola.
«Mia figlia?
La Ciaciunena? Ma pensa...
«Ho pensato».
«Ma il
pericolo...».
«Nol temo».
«Ma che vita
di sospetti e sconsolata!...».
«Cui deve
premere più che a me il bene mio?».
«Ci ho proprio
scrupolo...».
«Insomma, vuoi
darmela, sì o no?».
«La vuoi? e tu
pigliatela e sciroppatela!» sclamò finalmente Re Nezagualpiglio, il quale al
postutto non era scontento, come ogni babbo, di levarsi quel cocomero di casa
(direbbe il padre Cesari) sebbene accampasse difficoltà per isdebito di
coscienza. Abbrevio: gli sponsali vennero celebrati splendidissimi, figurandovi
la Ciaciunena con una maschera di velluto ed occhiali verdi. E non fu il primo
sposalizio che non si sarebbe potuto conchiudere se la fanciulla non larvasse
il volto. Anche il più i seguaci del Borgia impalmarono giovani ereditiere e
belle del paese, diventando signoroni e feudatari, mercè quella poca effusion
di sangue... tlasclano. E s’acconciarono ad ogni costume del paese, salvo che
all’antropofagia, bestial scostume, efferità, che a noi sembra
inconcepibile con la civiltà non poca, e con le gentili usanze e miti di quel
popolo in tutto il resto. E si meravigliavano vedendo la ripugnanza de’ nostri
e sentendo da loro che non pappavano i nemici né crudi, né cotti, né allessi,
ned arrosti, ned alla genovese, ned in modo alcuno insomma: ed assicuravan loro
quella carne muovere appetito ed essere di meraviglioso sapore; e la lodavano
come cibo soave e delicato. Stupivano al vederli aborrir più dal cannibalismo
che dagli omicidi, né si persuadevano della giustezza di quel motto di
sant’Agostino: Multo peiores sunt ac detestandi qui in corpora mortuorum
inseviunt, tamquam in viventium, nam defunctorum cadavera veluti sacrosanta
censentur. Se avessero avute le cognizioni del Birton, volteriano, avrebber
probabilmente aggiunto come lui, «che l’usanza di mettere il prossimo nella
pentola od allo spiedo era antichissima e naturalissima, sendosi trovata
stabilita in ambo gli emisferi; che per conseguenza rimaneva dimostro
l’antropofagia essere una idea innata; che s’era andato a caccia d’uomini prima
che a caccia d’animali, perché l’uccider un uomo torna più facile dell’uccidere
un lupo; che se i giudei, nei loro libri lunga pezza ignoti, immaginarono che
il nominato Caino ammazzò un certo Abele, potette essere solo per papparselo,
che i giudei stessi convengono rotondamente d’essersi alimentati parecchie
volte di carne umana, e che, secondo i migliori scrittori, il popolo di Dio
divorarono le membra cruente de’ romani che assassinarono in Egitto, in Cipro,
in Asia, insorgendo contro gl’Imperadori Traiano ed Adriano». Ma i tescucani
non potevano isfoggiar tanta erudizione. Che volete? Eran barbari! E non ci fu
tra tutti i seguaci del Borgia chi non istimasse di aver fatti migliori affari
del capitano, considerando che non correva rischio di rimaner petrefatto nel
bel mezzo d’un amplesso coniugale. Con una moglie che ha quella virtù
petrificativa, un povero marito, ’gna che ari dritto e non può permettersi una
licenza, uno scappuccio. Sennò: «Bada, ch’io mi smaschero! Se prosegui, mi
disocchialo!». Ed uno che sospetti della consorte, che le faccia de’
rimproveri, non può neppure guardarla in faccia, o dirle: «Alza gli occhi!» per
argomentare dal rossor di quella e dalla espressione di questi alcunché.
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