XI
Erano gli anni della fruttifera
incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di mille cinquecento e
dieci. Giuliano Della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, già da otto
era stato esaltato pontefice; il quale «ancorché di bassissima gente fosse
disceso, e non si vergognasse spesse fiate dire che egli da Arbizuola, villa
del Savonese, avesse con una barchetta più volte, quando era garzone, menato
delle cipolle a vendere a Genova; fu nondimeno uomo di grandissimo ingegno e di
molto elevato spirito, come infinite azioni sue fanno fede» (giudice il
Bandello). Egli ne avea fatte delle belle o, per dir meglio, delle brutte: e la
sua attività collerica e disordinata avea funestato la Italia, senza però che
dal mal presente si potesse sperare di veder sorgere un gran bene avvenire,
come a’ tempi del Borgia. Merita certo lode per gli sforzi pertinaci nello
ingrandire lo stato papalino; ma la parte avuta nella Lega di Cambrai gli sarà
di vergogna perpetua. Basta, s’era accorto del marrone, dello sproposito; e
stava per gridare anch’egli fuori i barbari. Il ventiquattro febbraio
aveva impartita l’assoluzione alla serenissima repubblica di Venezia, che aveva
passati giorni molto poco sereni. Stava cercando di commuover tutta Europa
contro i franzesi. Assoldava quindicimila svizzeri che li aggredissero a tergo
nel Milanese. Trattava con la repubblichetta di Genova acciò si ribellasse al
Re Ludovico. Anzi avea già scacciato irosamente gli oratori del Cristianissimo
e que’ del Duca Alfonso di Ferrara, intimando a que st’ultimo che si ritraesse
dall’alleanza franciosa e togliesse la sua potente artiglieria dallo assedio di
Legnano. Disubbidendo Alfonso, avea minacciato di scomunicarlo entro un dato
termine, che scadeva appunto in quei giorni, il nove agosto.
Giunsero
allora i messi della Ciaciunena. Annunziavano l’arrivo d’una potente
principessa dal continente transatlantico che si andava scoprendo allora e del
quale correva per l’Europa fama incerta e meravigliosa; d’una principessa che
«sospirava ansiosa l’occasione di purgar con l’acque del santo battesimo la
macchia di quella colpa, che dagli antichi traviati parenti ereditò
l’infelicità dell’umano legnaggio»; d’una principessa che veniva con molti
seguaci ed immenso tesoro, per depor questo a’ piedi del Sommo Gerarca, per
offerirgli il dominio diretto di uno impero sterminato, popolosissimo,
aurifero. Ed i primi doni ch’ella mandava per que’ messi, enormi piatti d’oro e
d’argento, rallegraron l’animo del papa, bisognosissimo di denari per incarnare
i suoi schemi politici e per rifornire ammodo la sua cantina. Figuratevi che
giubilo nel Vaticano, che tumulto ed aspettazione in città! Papa Giulio era
avidissimo di bezzi, comunque procacciati, ancorché con la simonia e la
baratteria. «Si dice» scriveva Domenico Trevisani, oratore veneziano «si dice
che ha in contanti almeno settecentomila ducati, tutti in Castel Sant’Angelo...
Ed ha modo di avere quanti danari vuole; perché, vacando un benefizio, non lo
dà se non a chi ha un uffizio, e quell’uffizio dà a un altro; sicché tocca per
questo assai danari: e sul vender gli uffici ci sono sensali più del solito in
Roma». Il Pontefice accolse benignamente i messi, degnò accettare con
gradimento que’ presenti che valevan milioni, li contraccambiò con quattro
rosari e reliquie, e fissò il nove agosto per ricever solennemente la
viaggiatrice: né senza un perché. Le mandò incontro alcuni cardinali, per
complirla ed invitarla a venire subito alla città. Da’ tempi della contessa
Matilde in poi, i successori del pescatore di Galilea non avevan mai presa
nelle loro reti una più grossa e ricca preda d’un colpo. Milioni! Provincie!
Miniere aurifere ed argentifere! cave di smeraldi e diamanti! Oh che bella
cosa! che bella cosa! Senza bezzi a che servono i be’ concetti politici? A
rendersi ridicoli, oggetti di scherno, zimbello e strumento de’ principi più
denarosi, come accadeva allo Imperador Massimiliano. Chi, non ha la fortuna
d’aver per alleati Orazio e que’ d’Argenta, non può sostener guerre che non
sien da vincersi di primo impeto. I principi ambiziosi son costretti a declinar
continuamente, come quel personaggio messo in iscena da Giordano Bruno.
Nominativo:
La signora Argenteria m’affligge; la signora Orelia mi accora.
Genitivo:
Della signora Argenteria ho cura; della signora Orelia tengo pensiero.
Dativo:
Alla signora Argenteria porto amore; alla signora Orelia sospiro. Alla signora
Argenteria et Orelia comunemente mi
raccomando.
Vocativo: O signora Argenteria, perché mi lasci; o signora
Orelia, perché mi fuggi?
I cardinali vennero modestamente
accolti dalla Ciaciunena, coperta la faccia di veli spessi e china il capo e
bassa gli occhi. Non le parea tempo di rivelare ses petits talents;
altra selvaggina le occorreva. Regalò loro gemme, perle, piumaggi; e fece
apparecchiare un sontuoso banchetto. Non essendo la Campagna molto sicura, la
caravella risalì pel fiume a forza di remi ed ancorò felicemente a Ripa grande,
là dove sogliono fermarsi anche oggi que’ pochi legni, vergognosamente pochi,
che vengono a Roma. E fu il primo legno che vi approdasse venendo
dall’Americhe, e forse sarà stato il solo.
Grandi furono
i preparativi e fastosi pel ricevimento della Principessa, in cui certo nessuno
sospettava la vedova e l’ultrice del Duca Valentino, la nuora
dell’antipenultimo papa. Giulio II voleva procacciarsi un trionfo in quella
recezione; epperò l’aveva fissata il nove, e volea che seguisse immediatamente
alla cerimonia della scomunica del Duca di Ferrara. Dopo aver solennemente
fulminato contro del malfido Gonfalonier di Santa Chiesa tutte le maggiori
censure e maledizioni, dichiarandolo decaduto e privato del dominio di Ferrara
e di quanto egli riconoscea dalla sede pontificia; il papa avrebbe
benignamente, umanamente, paternamente, misericordiosamente e lietamente
accolta questa Semiramide del Nuovo Mondo, che spontanea veniva a’ suoi piedi,
pellegrinava alle tombe degli Apostoli. Bel contrasto! I poeti già preparavano
componimenti, canzoni, sonetti, madrigali, ballate, capitoli, stanze,
strambotti, egloghe; ed in tutti suppergiù trovavi la stessa cosa: un paragone
tra questi trionfi incruenti della Roma cristiana, co’ sudati e sanguinosi
della pagana: e c’era chi non dubitava di preporre le pretese glorie moderne
alle antiche, suppergiù come Alessandro Guidi:
Quel, ch’io
v’addito, è di Quirino il colle,
Ove sedean
pensosi i Duci alteri:
E dentro ai
lor pensieri
Fabricavano
i freni
Ed i servili
affanni
Ai duri
Daci, ai tumidi Britanni.
Ora il bel
colle ad altre voglie è in mano,
Ed è pieno
di pace e d’auree leggi,
E soggiorno
vi fan cure celesti.
In mezzo ai
dì funesti
Spera solo
da lui nove venture
Afflitta
Europa e stanca
D’avere il
petto e ’l tergo
Entro il
ferrato usbergo,
In cui Marte la serra e tienla il Fato.
La impietratrice ignorava
siffatti paragoni: non so quanto le sarebbe piaciuto il sentirsi ragguagliare
alle Regine vinte dell’antichità, alle Cleopatre ed alle Sofonisbe, che si
sottraevano con la morte al vitupero. Ma le piaceva che si facesse di tutto per
eccitare la curiosità pubblica premendole che fosse immenso il concorso intorno
al suo seguito. Pensava al momento in cui, introdotta alla presenza del
pontefice, girerebbe ad un tratto gli occhi su tanti sguardi fissamente
conversi in lei, e subitaneamente irrigidirebbe, sassificherebbe,
lapidificherebbe, impietrirebbe ed immacignirebbe papa, cardinali, patriarchi,
arcivescovi, vescovi, abati, prelati, preti, frati d’ogni generazione,
gentiluomini, gentildonne, soldati, tutti nella sala d’udienza! e poi,
precipitandone fuori sul verone, muterebbe in una folla di mute statue, di
gelidi simulacri, d’immobili effigie, d’immagini insenzienti la folla raccolta,
raggruppata, stivata, agglomerata, attruppata per le piazze, per le strade,
alle finestre. Quella folla che odiava, perché avea odiato il Valentino. Lo
avrebbero lo spettacolo! ed assai più inatteso, singolare, strano,
meraviglioso, sorprendente, che non fantasticassero.
Giunse il
giorno, giunse l’ora. Le strade che il corteo dovea seguire eran coperte da una
fiorita, ch’io ne disgrado quelle di Genzano. Una turba innumerevole faceva
ala; veroni, balconi, finestrelle, terrazzi, logge, eran gremite di popolo. Che
processione! Soldati con fanfare e bande; preti, frati, canonici, salmeggiando,
con gonfaloni solenni; precedevano la bella donna che stava in un cocchio
risplendente di oro. Manibus o date lilia plenis! Piove van fiori
dall’alto su di lei, che se ne stava umile in tanta gloria, ristretta in sé, a
capo chino, con gli occhi chiusi, velata, pallida morte futura; ma non
per cura della propria morte, anzi pel pensiero di quella che infliggerebbe a
tanti e tanti. Inorridiva del suo proposito, ma senza smetterlo. Eccola giunta
al Vaticano. Scarrozza, è complita sulla soglia, è introdotta nell’aula vasta,
piena zeppa di personaggi, in fondo alla quale Papa Giulio col triregno in capo
sedeva in trono, circondato da’ cardinali; Papa Giulio che nel vederla entrare
sclamò: Nunc dimitte servum tuum, domine, e quand’ella gli fu caduta
ginocchioni a’ piedi e si prosternava per baciar la croce sulla pantofola, si
chinò per rialzarla cortesemente.
La Ciaciunena
balzò in piedi sorretta dalla destra senile del pontefice, strappò il velo, gli
alzò e piantò gli occhi in fronte, e poi li girò lenti lenti sull’adunanza. Ma,
o fosse terminato il tempo prefisso alla fatagione dalla stregaccia del
Popocatepetlo (perché tutte le maledizioni delle fate sono a tempo, come si
raccoglie dagli scrittori); o l’apostolica benedizione rompesse la fattura
diabolica; o che nell’atmosfera pura d’Italia mal si rinnovino i miracoli
forestieri (come anche a’ dì nostri si vede per lo spiritismo ed altri
portenti); o qual che se ne fosse la cagione, fatto sta che Giulio II non
impietrò né punto né poco, né totalmente né parzialmente, allo esterno. Quanto
al cuore dell’augusto vegliardo, già da prima e da un pezzo era di sasso, di
macigno, di scoglio.
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