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Vittorio Imbriani
L'impietatrice

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  • II
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II

Dicono che Gonsalvo di Cordova annoverasse fra’ suoi tre rimorsi il tradimento usato al Duca Valentino; e gli altri due erano un tradimento simile verso il Duca di Calabria o l’ommesso tradimento contro il Re d’Aragona, avendo avuto podestà ma non cuore d’insignorirsi per conto proprio della corona di Napoli. «Mandò a chiedere il Borgia» dice Pietro di Bourdeilles, abate e signore di Branthôme, ne’ suoi zibaldoni, «mandò a chiedere al gran capitano un passaporto e salvacondotto, per recarsi a visitarlo in Napoli... L’altro glielo spedì liberissimamente, valido ed ampio. Stando in quella città discutevano grandi schemi per impadronirsi di tutta Toscana: un giorno avendo Cesare augurata la felice notte a Gonsalvo nelle stanze di lui e ritirandosi ed avendolo Gonsalvo affettuosamente abbracciato per mostra; fu nell’uscire dalla stanza costituito e sostenuto prigione in castello; e si mandò allora per allora al suo alloggio, per torgli e prendere il salvacondotto antecedentemente datogli (cerimonia superflua davvero!)... Si guardi bene prima di dare o ricevere uno di questi benedetti salva condotti. È degna cosa il mantener comunque la fede. Grande è la tentazione di romperla per regnare (come diceva lo antico Cesare); ma il romperla per tor la vita ad un misero prostrato dalla fortuna o per chiuderlo in prigione perpetua, come voleva fare il Re d’Aragona, è imperdonabile; e Gonsalvo si disonorò e s’infamò eseguendone gli ordini». Il Borgia, non valendo ned a resistere, ned a fuggire, desiderò almeno di venir tradotto a Medina-del-Campo, dove soggiornavano Ferdinando ed Isabella, sperando molto da un abboccamento con le Altezze loro (questo era il titolo assunto per lo più dai Monarchi in quel tempo, prima che Carlo V pretendesse della Maestà a tutto pasto). Confidava che i buoni uffizi del cognato, Re di Navarra; che la memoria de’ servigi e dell’arrendevolezza del padre; che il ricordar le promesse fattegli; che le qualità sue personali, onde chiunque lo avvicinava solea rimaner affascinato, avrebbero indotto i sovrani spagnuoli a restituirgli la libertà. Doloroso certo, per chi era giunto all’apice delle grandezze, il rotolar giù, e ricominciare daccapo ad arrampicarsi come Sisifo senza troppa fiducia di raggiungere la meta; però, sempre meglio questa fatica frustranea, che l’inerzia. Viaggiando viaggiando, Cesare architettava nuovi schemi ed arditi. Forse il tempo, ch’è galantuomo, dicono, gli serbava nuovi allori ed un miglior destino. Forse capitanando l’esercito del cognato Re di Navarra o gli uomini d’arme e le artiglierie dell’altro suo cognato, del marito della sorella sua carissima, forse avrebbe potuto riconquistarsi qualche principato. Alla peggio, i reali coniugi (che pochi anni prima avevan fidato tre legni ad un avventuriere genovese per iscoprire quel mondo nuovo spartito quindi da suo padre tra spagnuoli e portoghesi) non negherebbero anche a lui qualche bastimento per andare a scoprire ed assoggettare reami sconosciuti, là nelle Indie. E già, prevenendo l’evento con l’agile speme, pensava di rimunerarli da par suo, col rendersene poi independente: i Borgia non si preparano per la vecchiaia de’ rimorsi di ommesso tradimento, come asseriscono averne avuti Gonsalvo di Cordova. Ed immaginava anzi che Ferdinando ed Isabella venissero a visitar gli acquisti da lui fatti; e giurava a sé stesso che non sarebber mai tornati indietro da quel viaggio. Un Cesare Borgia non ha ritegni, che il trattengano da quanto può assicurargli lo impero e non si espone a tardi rimpianti come quel Gabrino Fondulo, signor di Cremona, che Filippo Visconte catturò con astuzia e fe’ giustiziare nella sua ducal Milano. Il quale rispose a’ frati assistenti: «Non ch’io mi penta di quel che ho fatto per ragion di guerra, ma duolmi ch’io non precipitassi dal Torrazzo Papa Giovanni XXIII e Gismondo Imperatore, quando me ne venne il pensiero e mi vergognai di far tanta ingiuria a chi s’era fidato di me come amico. Se non avessi avuto quel rispetto, ora non sarei assassinato».

Siffatte speranze, lusinghe, ipotesi, immaginazioni e fantasticherie rianimavano il Duca Valentino e gli rendevan tollerabile lo stato suo. Non c’è uomo infelice che non si consoli fabbricandosi un castell’in aria, e riparandovi, ricoverandovisi da’ dolori della vita. Lì spende le migliori ore della giornata; lì passa notti voluttuose. Vi si riduce per ogni strada, sognando, fantasticando: ogni pensiero, ogni avvenimento, ogn’incontro gli è pretesto per batterne la strada. Questo castell’in aria è diverso in ogni uomo, più o men bello, più o men nobile: per taluni è amore, per altri è gloria, per altri, altro: ma chiunque ha una siffatta villeggiatura ideale ed ottiene e gode con la fantasia, ciò che forse non asseguirà mai nel mondo delle cose. Il povero Leopardi ha un bello assicurarci che «la speranza è una passione turbolentissima, perché porta con sé necessariamente un grandissimo timore che la cosa non succeda; e se noi ci abbandoniamo a sperare e per conseguenza a temere, con tutte le nostre forze, troviamo che la disperazione e il dolore sono più sopportabili della speranza». Esagerazioni ipocondriche! come ben disse Antonio Muscettola, egregio secentista, dimenticato e trasandato a torto:

…Il tristo core

Vive tra mille morti e mai non more.

Ché vitale alimento

Gli ministra la speme ogni momento.

E pur, senza speranza,

Più tormentoso assai

De l’inferno sarebbe il nostro mondo.

Per lei del mare insano

Sprezza l’ondosa rabbia,

E cerca in fragil legno,

Sé medesmo fidando al vento in lido,

Nocchiero avaro inaccessibil lido.

Per lei tra ceppi avvinto

Prigioniero infelice

D’armonioso metro

Fa risonar cantando il carcer tetro

Da lei, più che dall’arte

De l’Epidaurio nume,

Spesse volte riceve

Egro languente medicina al male.

Se arma cuor disperato

A’ propri danni suoi destra feroce,

Tosto la speme incontro al ferro crudo

Fa di sé stessa adamantino scudo.

In tale disposizione d’animo il Borgia giunse a Medina-del-Campo. «Medina» scriveva un quattro lustri dopo il Naugerio «è buona terra e piena di buone case, abbondante assai, se non che le tante fiere che vi fanno ogni anno, ed il concorso grande che vi è di tutta Spagna, fanno pur che il tutto si paga più di quel che si faria. Ha pur qualche gentiluomo. Ha assai buone strade... Ha un castello assai buono in un alto, nel quale stette il Duca Valentino prigione. La fiera è abbondante certo di molte cose, ma sopra tutto di spezierie assai, che vengono di Portogallo; ma le maggiori faccende che vi si facciano sono cambi».

Ma, giuntovi, Cesare non poté vedere né Ferdinando d’Aragona, ned Isabella di Castiglia, e per buonissime ragioni: il primo n’era partito e la seconda aveva commessa la corbelleria solenne di morirvi pochi giorni prima, il ventisei novembre di quell’anno MDIV. Il cadavere di lei viaggiava anch’esso, per Granada, dov’è tuttora sepolto, se pure qualche insurrezione internazionalista, cantonalista, intransigentista o che so io, non ha pensato bene di spargerne le ceneri al vento: ché le plebi son sempre disposte ed a prostrarsi ai piedi del despota vivo ed a profanar le tombe dei tiranni morti. Il Duca Valentino venne chiuso nella rocca di Medina-del-Campo e s’ingiunse di strettamente custodirlo al castellano, vecchio militare bilioso e podagroso, chiamato Andrea-Jacopo-maggiore-Matteo-Pietro-Mattia - Simone-Filippo-Tommaso-Giovanni - Bartolomeo-Jacopo-minore-Taddeo Orteguilla-y-Zumarraga. Il cui padre, povero Idalgo, non potendo usare al figliuolo altra liberalità che di nomi, gli avea dati per patroni tutti e dodici gli apostoli; e per non peccar d’irriverenza verso alcuno, fece pigliar dodici mozziconi di candela d’una stessa egualità e peso e scrisse su ciascun d’essi il nome d’un apostolo e secondo l’ordine in cui si consumarono impose i nomi al fanciullo. Al quale tanti protettori celesti assicuravano per certo lo ingresso ed un buon posto in paradiso; ma la mancanza di patrocinio in questo basso mondo e l’amor de’ dadi, avea impedito di far peculio, non che fortuna, quantunque, come ogni buono spagnuolo de’ suoi tempi, avesse più scrupoli religiosi che scrupoli morali. Invecchiava oscuramente da governatore di un castello che non veniva più considerato come piazza di guerra, anzi serviva da prigion di stato. Per occupare gli ozi del servigio e le tregue della podagra, gli era saltato il grillo e venuto il ticchio di scrivere una cronaca, il celebre Teatro Universale delle Istorie de’ suoi tempi, che nella prima edizione occupa sei volumi in-folio ed occuperebbe, se si ristampasse, una cinquantina de’ nostri in-sedicesimo almeno. Raccoglieva quindi indefessamente notizie ed informazioni da’ personaggi che, o capitavano con la corte in città, o venivano affidati alla sua custodia in castello. Chi potrebbe descriverne il giubilo quando seppe dell’arrivo del Borgia? Che fortuna per un cronachista, di poter interrogare a quattr’occhi e con tutto comodo uno de’ principali attori dell’epoca! di poterne chiedere la testimonianza ed il giudicio ad ogni istante, sopra ogni avvenimento! Figuratevi, lo infastidiva del continuo, chiedendogli la verità vera or di questa or di quella cosa. « E che fece, che disse, che pensò, che ordinò allora Vostra Mercè? E perché Vostra Mercè si regolò così e così? E perché antepose il tale al tale altro consiglio la Mercè Vostra? Ed a qual partito il signor Duca si sarebbe appigliato se le cose fossero andate altrimenti? Ed è vero quel che si racconta di Vossignoria Illustrissima?». Non giurerei che fra le tante domande indiscrete, non ce ne fosse anche qualcuna sulle accuse di fratricidio e d’incesto mosse al Borgia! Il quale, benché la mania dell’Orteguilla-y-Zumarraga dovesse irritare, stuzzicare, inciprignire le piaghe del cuor suo, pur seppe cavarne un mezzo di spasso dandogli ad intender le bubbole più solenni, le menzogne più badiali, le fiabe più fantastiche, le bugie più maiuscole, le frottole più colossali, le fanfaluche più goffe, gli spropositi più imperdonabili e le minchionerie più ridicole, che immaginar si possano. Don coso, credeva ed inghiottiva tutto; e tutto registrava accuratamente ne’ suoi quaderni, taccuini, stracciafogli, zibaldoni e volumacci; e notando, ben inteso, d’attingere il tal chiarimento, il tal altro particolare da don Cesare Borgia, Duca Valentino. Così, rimpinzata di svarioni e di capestrerie, di scempiaggini e di assurdità, la sua cronaca c’è pervenuta intrinsecamente falsa ed apparentemente autorevolissi ma. Tutti i compilatori moderni la citano con venerazione, come una delle fonti più sicure per que’ tempi:

Et voilà justement comme on écrit l’histoire.1

 




1 Verso del Voltaire divenuto proverbiale e che di continuo si cita anche da chi non ha mai letto l’opericciattola in cui si trova. Mi faccia il culto lettore questo favore e mi dica se sa, su due piedi, indicar qual è.






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