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Vittorio Imbriani
L'impietatrice

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  • V
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V

L’abate Didaco, o Diego che dir si voglia alla spagnuola, accolse a braccia aperte il cugino; ma non istimò savio partito il manifestare alla intera comunità chi fosse l’ospite. Alcuni de’ maggiori ufficiali del convento eran suoi nemici: e poi, fidarsi è bene e non fidarsi è meglio; nessuno fu mai tristo per le troppe cautele e per la troppa diffidenza. Certo il quondam cardinale Duca Valentino, conduttor di eserciti, non avea modi ed aspetto fratesco: ma in que’ tempi non era cosa da insospettire, e perché il frate viveva molto nel mondo e perché molti sgannati e disillusi si ricoveravano in tarda età ne’ chiostri e perché molte vocazioni sendo sincere, non s’era ancor generalizzato quel tipo monacale tra l’apata e l’ipocrita. L’abate il presentò come un amico conosciuto a Roma presso il zio papa, dove gli era stato largo di cortesie, che ora, scomparso il comun protettore, fuggiva la corte e si rincantucciava in fondo all’Estremadura per camparvi ignoto ed oscuro. Né que’ monaci, triplamente taciturni e per la regola e perché spagnuoli, e perché d’altro non si curavano che di mangiare e digerir bene, molestarono il nuovo compagno con inchieste pettegole.

Ignoto ed oscuro! Pur troppo! Può immaginarsi condanna o stato più acerbo, per un uomo della tempra di Cesare Borgia, con quel passato, nel vigor dell’età, con tali forze intellettuali? Ignoto ed oscuro chi avea dichiarato di voler esser Cesare o Nulla! Era nulla ora. Ripeteva malinconicamente l’epigramma del Sannazzaro:

Omnia vincebas; sperabas omnia Caesar.

Omnia deficiunt: incipis esse nihil.

Nulla! E gli splendori passati? «Hai veduto molte volte sulla scena, cred’io,» diceva Luciano «gli attori, che, come vuole il dramma, diventano ora Creonti, ora Priami, ora Agamennoni; e, se occorre, colui che poco innanzi rappresentava il grave personaggio di Cecrope o di Eretteo, poco dipoi esce vestito da servo, perché così comanda il poeta. Alla fine del dramma, ciascun di loro depone il vestone di broccato, la maschera ed i coturni, e se ne va povero e tapino; non è più Agamennone di Atreo o Creonte di Meneceo, ma si chiama col suo nome Polo di Caride da Sunio o Satiro di Teogitone da Maratona. Così sono anche le cose umane».2 Nulla! Ma non poteva rassegnarcisi, finché non fosse polvere o cenere. Gli uomini di quella fatta, se falliscono ne’ loro disegni, ricomincian poi come Sisifo a rotolar di nuovo il macigno su per l’erta; e dicono, come quel personaggio del Berni

…se non son bastante a un fatto tanto

Sarò bastante almeno a far le pruove.

Un’opera, anco frustranea, sembra lor meglio dell’inerzia: meglio combattere con tutte le probabilità contro, che rimaner neghittosi. In que’ tepidi viridari, in que’ chiostri assolati, il Duca si sentiva affievolire, venir meno, struggere, svaporare, come un monticello di neve al sole. I libri non san più di nulla; la scienza, le lettere annoiano, tediano, rincrescono, infastidiscono, dopo tanta operosità pratica. Se non riacquistare il perduto e raggiunger lo scopo, o non poteva almeno vincer battaglie, espugnar città, esercitare comandi, procurarsi signorie: fare, operare, agire... Sì! come? Quel presuntuosaccio d’Archimede, che poteva pesare forse, a un dipresso, all’incirca, suppergiù, poco più poco meno un’ottantina di chilogrammi, si riprometteva di spostar col suo peso il mondo, ma gli occorreva un ipomoclio. Dove avrebbe trovato il punto d’appoggio sicuro il povero Borgia, in odio a’ Re di Francia e di Spagna, allo Imperadore ed al Pontefice, costretto a nascondersi, perché neppure i luoghi d’asilo erano ricovero sicuro per chi incorreva nell’odio del papa? Il ricadere nelle unghie di Ferdinando sarebbe stato un gran guaio: non si riesce in due evasioni consecutive. Non tutti i castellani son dabbenuomini, come l’Orteguilla-y-Zumarraga, né tutte le castellane hanno una particolar devozione pe’ gerarcogeniti, come la governatrice della Motta di Medina-del-Campo. Prigionia per prigionia, quella nella badia di Guadalupe (vasta quasi quanto il palazzo incantato della Fata Morgana, il quale «avea dodicimila camere, quattromila sale e novecento cortili, senza gli altri buchi, bugigattoli, sottoscale, camerette, ripostigli e stanzini») era più tollerabile che in qualche rocca selvagia. E poi, i nemici del Borgia sapevano anch’essi assoldar sicari e stipendiare avvelenatori. S’egli fosse uscito da quello asilo, per mettersi nuovamente in evidenza, gli sarebbe di certo «intervenuto come alle mosche,» per dirla col Firenzuola «le quali potendo vivere sicuramente colla dolcezza de’ fiori e de’ frutti delle campagne, come prosuntuose e temerarie ch’elle sono, si metton negli occhi degli uomini, donde sono bene spesso cacciate con perdita della vita». Pensiero questo, imitato da Vincenzo Iacobelli, che ne’ suoi Miracoli d’Amore, stampati a Roma nel MDCI, dice:

E far non voglio come fa la mosca,

Ch’a la campagna può viver sicura

E va a posarsi ne l’adorna tavola

De’ cittadini, ove da un servo poi

Ammaccate le sono le cervella.

Pure, oh come invidiava i briganti che spesso, dopo aver fatta ricca preda, venivano al santuario ad offerirne la miglior parte, il fior fiore, alla Madonna, acciò intercedesse per loro! Come invidiava quanti convenivan colà d’ogni paese, per pregar pochi attimi e tornarsene poi alle loro città, alle navi, agli eserciti e riattuffarsi nelle onde sempre agitate della vita! Il soldato, il nocchiero, il contadino, il bracciante, il mendico, tutti invidiava quelli che potevano almeno spaziare liberamente pel mondo. Il monastero sterminato e gli sterminati giardini gli parevan più esigui d’un carcere, gli parevano angusti come una tomba; ed erano un avello, poiché lo appartavano, il escludevano dalla vita, dal mondo. Il Duca Valentino v’era sepolto.

Certo quella stanza era bella e dilettosa. Ma ora comprendeva per bene la lezione fattagli da un monaco della Certosa di Napoli, che, come si sa, è luogo il più dilettoso di quanti forse ne sono in Europa. Visitandola, fu menato in una loggia che chiamano il Belvedere, onde scorgi tutta la città e le deliziose colline circostanti ed il nostro ameno cratere. Egli non si saziava di lodarla, dicendo quel luogo esser copia o modello del Paradiso terrestre ed i buoni monaci non avere in quel romitorio che più desiderare in terra. Il valentuomo del priore lo condusse ad osservare altre curiosità e poi daccapo sulla loggia stessa; ed il Borgia, intiepidito nelle prime lodi, disse: «Il luogo è bello; vediamo qualch’altra cosa». Andarono in sacristia, di dove osservato quanto può dar l’arte nelle argenterie, ne’ ricami, nelle dipinture, nelle scolture, fu ridotto la terza volta per altra via sulla loggia. Ma non volle entrarvi neppure, dicendo: «Padre, l’abbiamo veduta due volte: basta!». Allora il priore sorridendo: «Se così presto è fastidita Vostra Signoria, consideri noi, i quali non abbiamo altra veduta che questa, che ci pone sempre sottocchi la città medesima, le colline identiche, lo stesso mare».

In quel tempo, Cristoforo Colombo era appunto tornato dal quarto ed ultimo viaggio di scoperta, in cui riconobbe le coste di Darien e Panama. Parecchi de’ suoi compagni pellegrinarono a Nostra Donna di Guadalupe, per sospendere ex-voti alla immagine della avvocata de’ peccatori, come avevan promesso in momenti di pericolo o di paura. Recavano saggi e campioni di prodotti di quel nuovo mondo e miracoloso, che sorprendevano per la stranezza insolita gli abitatori del vecchio: piante, uccelli, istrumenti di guerra barbarici, oggetti d’oro lavorati rozzamente, perle e conchiglie e finalmente indiani, ossia indigeni americani, giovani fatti schiavi, che andavano coperti al modo del lor paese, cioè vestiti ignudi, 3 solo con alcune […] come carpette. Quando alcuno de’ reduci giungeva al santuario, il Duca, come tutti, più d’ogni altro, si dilettava nel porgere orecchio a que’ racconti, di esaminar quelle merci transatlantiche. Ricominciava a vagheggiar l’idea d’imbarcarsi ancor egli per lo emisfero occidentale, per iscoprirvi e conquistarvi provincie, per acquistarvi le ricchezze che poi gli permetterebbero di trionfare in Europa ed in Italia, e, se non altro, per vivervi liberamente, operando, andando, venendo, facendo, navigando, cavalcando, combattendo, dominando, spogliando e spodestando. Ancorché solo a capo di pochi avventurieri, signoreggiando solo tribù barbariche, e’ si sarebbe sentito colaggiù indipendente ed autonomo, come quando conduceva eserciti poderosi per la Italia centrale, spalleggiato dallo infallibil padre comune de’ cristiani tutti. I reduci dall’America... Ma allora non si addimandava per anco America, come pare la chiamassero in seguito da Amerigo Vespucci. Io non avea mai compreso in qual modo da Amerigo, piano, potesse venire America, sdrucciolo; e perché poi il nuovo continente si battezzasse dal prenome di quel gentiluomo, anziché dal cognome: ma poi ho letto nell’Humboldt la dimostrazione che quel nome venne usato dapprima in Germania, e non mi ha più sorpresa né la stortaggine filologica né l’ingiustizia storica della denominazione... I reduci dall’America, dico, con buona fede forse, narravano mirabilia fantastiche del paese lontano; le quali venivano accolte per vangelo dalle menti e meno scettiche allora, e predisposte a creder qualunque portento, dopo aver visto un tanto miracolo. Come diceva quel Giovanni da Cermenate, notaio milanese, de’ tempi di Arrigo VII?

Si referam quae multa mihi iam visa notavi

Nulla fides dictis dicitur esse meis.

Q uis mihi, si narrem per summa cacumina Lambrum

Esse reversurum, dicat babenda fides?

Omnia nunc credo, quia plus mirabile vidi;

Sic, lector, scriptis tu quoque crede meis.

Le narrazioni strane d’un vecchio pilota, il quale infermatosi gravemente, si curava nella infermeria del convento ed avea seco due schiavi indiani, curiosamente vestiti di piumaggio dagli svariatissimi colori e fulgidi, confermarono il Duca Valentino nell’idea di navigare, d’imbarcarsi per un viaggio transoceanico di scoperta e di conquista. Quel vegliardo travagliato dalle febbri, temendo che la morte il sopraggiungesse, volle sgravarsi d’un suo gran secreto, confidandolo al meditabondo monaco italiano il quale attentamente ascoltava e liberalmente ne rimeritava i racconti. Anche agli occhi d’un rozzo marinaio ed inesperto, il Borgia, tra la greggia, l’armento, la mandra, il proquoio di que’ girolamini, facce ch’esprimevan la pecoraggine, la buaggine, l’asinaggine, la maialaggine, subito apparve diverso e di natura e d’ingegno migliore e maggiore. Le cose che il pilota gli manifestò sub rosa, superavano in singolarità quanto egli aveva ancora udito delle Indie.

Quel vecchio, timoniere d’una delle tre navi, con le quali nel terzo viaggio il Colombo scoprì la terra ferma del continente meridionale, sparve col suo legno in una tempesta ed il ritennero perduto. Ma raggiunse poi improvvisamente l’Almirante naufrago nella Giamaica nel quarto viaggio, montando con due indiani una canòa (maniera di naviglio barbarico, fabbricato d’un solo arbore). Onde proprio venisse, non si seppe: narrò a’ compagni d aver dimorato in una isola di cannibali e prudentemente occultò loro alcune preziosità che avea seco. In Guadalupe veniva ad offerire alla statua della Madonna una collana d’oro ed uno smeraldo. Il monile era di così squisito lavoro che don Sallustio di Sandoval, orefice madrilegno settuagenario (capitato al santuario per ringraziarvi la Vergine con una lampada di argento, di avergli concesso un figliuolo dopo cinque anni di matrimonio infecondo), ebbe a stupirne. E crocesignandosi giurava di non esser capace neppur lui d’un lavoro simile, e bestemmiando spagnuolescamente, che nessun altro in Europa potrebbe condurre una cannaca, un vezzo cosiffatto. Lo smeraldo poi, di grandezza più che insolita, era intagliato in guisa da rappresentare una rosa. Al Borgia il vecchio mostrò tre altri smeraldi enormi; uno in figura di corno; l’altro di pesce con gli occhi d’oro; il terzo in forma di campanella, con una perla fina per battacchio; ed altri molti oggetti d’inestimabil pregio e di bellezza infinita. Poi narrò come e dove li avesse conquistati e d’un paese incognito nel quale avea sbarcato primo d’ogni altro europeo.

La procella gli avea sconquassato, sdrucito, scompaginato e rotto il legno, dopo averlo aggirato più giorni e tratto lontanissimo. Solo superstite della ciurma intera, venne raccolto sulla spiaggia dagli indiani, che il custodirono amichevolmente, e dopo alcun dì, fece un lungo viaggio sulle spalle di bastagi che mutavano ogni tante miglia, non dando il paese altre bestie da soma punto. Aveva attraversato un paese mirabile; e selve e monti e città popolose e strani popoli vestiti di piumaggi: fino ad una valle incantevole, dov’è un gran lago, poco discosto dal quale sorge una vasta metropoli chiamata Tescuco. Là un cortese Re barbarico lo aveva accolto ed ospitato come un messo d’un loro dio, onde aspettavano con ansia il ritorno dall’Oriente perché condurrebbe il secol d’oro nelle terre temistitanensi. Era dimorato alcun tempo in quel reame, tra quelle genti imparandone il sermone, addottrinandosi ne’ costumi, assistendole nelle guerre e facendo stupire gl’indigeni con le industrie europee. Dopo lungo tempo e molte preghiere gli concessero di partirsi in una canòa equipaggiata da pochi remigi e carica di doni; ma dopo aver promesso di ritornare con un numero maggiore di figliuoli di Quezzalcoatte (così avea nome il nume onde il reputavan progenie).

La ciurma inesperta avea sofferto privazioni senza fine nello sterminato viaggio e tutti gl’indiani eran morti, salvo i due che il buon pilota conduceva ancorseco; ed egli temeva già di crepare naufrago o per fame o di venir mangiato dagli antropofagi caraibi, allorché approdando alla Giamaica vi s’imbatté per fortuna somma nello Ammiraglio sbalzato anch’egli dalla tempesta in quell’isola malsana. Non avea stimato però di rivelargli le sue scoperte fortuite: temendo perdere quanto onore e vantaggio se ne riprometteva. Non rifiniva dal celebrare le ricchezze e la civiltà de’ tescucani, e le quantità di metalli preziosi accumulate nelle città visitate da lui, in una delle quali assicurava e giurava lo interno delle case essere rivestito, intonacato, impiallacciato di argento. Il quadro aveva una sola macchia oscura: l’uso cioè de’ sacrifici umani ad un idolo deforme chiamato Guizzilopòccili, i cui templi sorgevano come piramidi altissime, sulla cima delle quali i prigionieri di guerra, dopo essere stati costretti a ballare con tormenti feroci, venivan poi distesi sopra una lastra di sasso: ed i sacerdoti aprendone i petti con sassi aguzzi ne strappavano i cuori palpitanti che si offerivano al dio, mentre il cadavere veniva poi ripartito tra’ principali astanti, cucinato dottamente e mangiato come vivanda prelibata in isplendidi conviti. Il vecchio rabbrividiva ancora nel ricordar tali abominazioni.

Ma narrava cose più strane, le quali se vere, avevan faccia di menzogna. Il Re di Tescuco, per nome Nezagualpiglio, aveva una figliuola detta Ciaciunena, che possedeva la facoltà del capo meduseo, di lapidificare cioè ogni essere vivente i cui occhi s’incon trassero co’ suoi. Le fate, che albergavano pe’ monti circostanti alla valle, vennero tutte convitate alla nascita della principessa, perché, secondo l’uso, la fatassero: usanza antichissima, della quale il comparatico moderno è una reminiscenza: ma scomparse le fate dal mondo, e non potendo i compari e le commari nostre conferire a’ figliocci ed alle figliocce le qualità fisiche e morali di cui per lo più difettano anch’essi ed esse, hanno ormai solo l’obbligo di offrir loro qualche regaluccio; ed il chiedere da un amico che ci tenga il figliuolo sul fonte battesimale equivale al tirargli una stoccata. La sola fata del Popocatepetlo venne trasandata dal monarca di Tescuco; o per trascuraggine mera, come suol accader talvolta, o perché albergando ella in un vulcano venisse stimata malvagia, o perché nessuno si fidasse di portarle lo invito arrampicandosi su per quei greppi inaccessibili. Comunque sia, venne ommessa. Le fate convitate stavan tutte raccolte intorno alla culla della neonata, ed il Re Nezagualpiglio, dalla camera contigua, le ascoltava con giubilo conferir doti alla pargoletta. Chi le augurava bellezza, che andasse crescendo di giorno in giorno; chi le concedeva ingegno acuto, chi bontà d’animo, chi eloquenza suasiva, chi ricchezze; chi un pregio e chi un altro. Oh se la millesima parte degli auguri si fosse verificata, la Ciaciunena non avrebbe avuta la pari al mondo! Don Nezagualpiglio gongolava. Quand’ecco, ad un tratto, rimuoversi il coltrone che otturava il vano d’ingresso (che i tescucani non usavan usci) e comparire la fata popocatepetlesca con un sogghigno infernale, indemoniato, diabolico, satanico, mefistofelico, sulle labbra increspate: «Ed io» rantolò sibilando «ed io ti dò d’impietrire con gli occhi, quanti ne incontreranno lo sguardo». E si guardò intorno poi sghignazzando e cachinnando, fregandosi le mani e stropicciandole, come chi si pregi d’aver fatta una bella cosa e ne aspetti plauso e congratulazioni dagli astanti.

Altro che plauso, battimani e picchiar palma a palma! Quel poveretto di Nezagualpiglio entrò, buttandosele a’ piedi, pregandola, implorandola, supplicandola, scongiurandola, di ritrattar l’empio voto. Queste umiliazioni del Re prima la consolarono, poi la intenerirono persino: ma il voto espresso da una fata è irrevocabile; non può mutarsi, disfarsi, distruggersi né da lei, né da altri, secondo il dottissimo Blödsinning nell’aureo suo volume: Della costituzione politica e civile della Fateria (Lipsia MDCCCLXII, in-ottavo), quantunque l’acuto Tropfio nella sua dissertazioncella: De Imperio Demogorgonense (Gottinga, MDCCCLXXIV) cerchi provare che Demogorgone abbia facoltà di modificarlo. (Veggasi del resto l’articolo del professore e dottor Träumer nella puntata di gennaio MDCCCLXXV della Rivista per gli studi di geografia e statistica utopistica di Tubinga, nonché la pregevol monografia inserita dallo Jrrlehrer ne’ rendiconti dell’Accademia reale delle scienze di Berlino; monografia che gli ha procacciato dal governo italiano la nomina a Commendatore della Corona). Dunque la fata del Popocatepetlo convenne d’aver trasmodato un po’, promise d’esser più riflessiva un’altra volta, ed assicurò Nezagualpiglio che gli si mostrerebbe quind’innanzi benevolentissima e che il favorirebbe e proteggerebbe in ogni modo. Ma il riconoscere un torto non lo ammenda, e non ne distrugge le conseguenze. La fata dello Istacciguatto, altissima montagna nevosa che sorge rimpetto al Popocatepetlo, non avendo ancor augurato nulla, cercò di riparare alla malizia della consorella e di mitigare in parte il cordoglio di Nezagualpiglio, statuendo che la virtù sassificativa della Ciaciunena dovesse aver termine dopo tanti anni e non potesse frattanto ridondar mai a discapito, a danno, ad isvantaggio, a detrimento del Regno di Tescuco o della gran patria anaguachese. Poi le signore fate si recarono a complir la puerpera; gradiron quindi qualche rinfresco e finalmente partirono per le loro stanze su certe dimonia che facevan di bastagi i servigi, come l’Astarotte del Pulci. Le fate europee avevan carri tratti da draghi volanti; ma gli astechi, i temistitanensi non avendo idea di carretteria e di bestie da tiro e da soma, le fate messicane dovevansi contentare di viaggiare in lettiga od in qualche sedia, sulle spalle di farfarelli, spiritelli, demonietti, folletti, appunto come i signori del paese sulle terga de’ loro tamani.

La bimba venne consegnata alla balia che le desse da succhiare e questa le porse il capezzolo e le canticchiava una ninna-nanna: ma dopo qualche minuto ammutolisce e la bimba comincia a vagire e frignare bizzosamente. La madre sentendo il piagnisteo, garriva dal letto la nutrice. Ma questa zitta: non rispondeva, non buzzicava. «Dormi forse, tangheraccia?» strillava la Regina. Non dormiva ché avrebbe tentennato il capo, capozziato, come dicono energica mente i napolitani. Accorsero le dame di corte sgridandola, increpandola, riprendendola, strapazzandola; fiato perduto, non dava segno di vita, sebbene non desse neppur segno di morte, perché il corpo rimaneva ritto e saldo. La scossero... e la trovarono impietrita, mutata repentinamente in una agata dura rigida e frigida, nell’atteggio, nella mossa in cui stava al momento della subitanea transustanziazione conservando ancora e per sempre i colori naturali. Spavento e raccapriccio da non potersi descrivere! Diamine se piangeva la bimba! una lattante che sente tutt’a un tratto mutarsi in onice o sardonica la poccia che avea tra le labbra e cessare il dolce moto delle braccia che la cullavano e la cantilena soave della ninna-nanna!

Ma son quasi impetrito ancor io rileggendo questo brano ed accorgendomi di aver adoperato il verbo vagire che non è di Crusca, mentr’io, come ognun vede, mi adopero, mi studio, m’ingegno, mi sforzo a non adoperar vocabolo che non sia autorizzato da don Buratto. E’ mi par di sentirlo dire a me come allo Alfieri:

Ed io le dico che il verbo vagire

Non è di Crusca. Usò il Salvia vagito,

Ma allo in tutto vagir non si può dire.

Basta, mi consolerò del mio lapsus-calami, pensando che quel vocabolo è stato usato dall’Alfieri appunto e dal Marino, che disse:

…Tremaro i poli e la stellata corte

A quel fiero vagir tutta si mosse...

…Pigolando vagisce e corre tosto

Su l’urna manca ad appoggiar la bocca.

Non sarà voce toscana, ma è di certo italiana, se due de’ nostri migliori scrittori l’hanno adoperata. Ma torniamo alla corte di Tescuco.

Una gentildonna strappò la pargoletta piagnucolosa dallo amplesso tenace della statua e per quetarla un po’, l’alzava in aria e la faceva ballonzolare. In questa la creaturina sorrise e guardò colei che la divertiva e che immediatamente restò lapidificata ancor essa sostenendo in alto con le braccia indiasprite la Infanta. Il nuovo impietrimento, al quale succedettero parecchi altri, sbigottì per modo la corte, che nessuno osava più avvicinarsi alla tremenda pargoletta: non si trovava chi l’allattasse, chi l’accudisse, la fasciasse, la sfasciasse, la lavasse. Gli stessi geni tori, spaventati dalla pietrificazione di tante cameriste, rimanevan perplessi e dubbiosi e chiedevano a sé stessi se non fosse per loro un sacro dovere, ancorché doloroso, il condannare a morte quel mostro.

Laio e Giocasta, due galantuomini del tempo antico, fecero esporre sul Citerone il neonato Edipo, per sola paura di un male futuro; nessun greco ne li ha biasimati; e, strano a dirsi, fra tanti moderni che han rifritto quel tema, non uno ha trovato quattro parole di compassione o simpatia per quel bambinello innocente, di riprovazione per lo infanticidio consigliato a’ genitori dalla credulità nelle frottole dell’oracolo. Ma Nezagualpiglio, ancorché barbaro, ripugnando dallo spargere il proprio sangue, fece sonar campana di consiglio. I savii, dopo lungo discutere, dopo proposte, controproposte, emendamenti, pareri vari, e non so quante votazioni, deliberarono che la fanciulla non fosse da uccidersi, anzi da educarsi diligentemente, però sempre col capo coverto e con gli occhi bendati; ed usando gli educatori precauzioni senza fine, secondo apposito regolamento il quale si dieder la briga di compilare.

Grazie alle benedizioni delle fate benevoli, la mozza crebbe e venne su, adorna d’ogni pregio: bella, virtudiosa, avvenente... ma infelice pure oltre ogni dire. Disamata da tutti, fuori d’ogni speranza d’esser mai amata da chicchessia. Era in condizioni più misere assai d’una cieca, e si faceva cieca volontariamente: ma quantunque sempre bendata, quantunque si conoscesse la bontà dell’animo di lei, que’ che la circondavano vivevan sempre pieni di sospetto e diffidenza. Veniva servita con rispetto, ma da servitori, domestici, familiari, sergenti, fanti, schiavi, dalle facce pallide, dalle ginocchia tremanti, dalle mani madide di sudor freddo, sempre pronti a buttar lì ogni cosa e fuggirsene al primo moto dubbio di lei. Rifuggiva dal mostrarsi in pubblico, e perché il popolo superstiziosamente la cansava e perché ella temeva di nuocere anche senza volere. Non l’era lecito come a tanti infelici solitari di trovar sollazzo o conforto educando, affezionandosi qualche bestiuola, perché gli animali anch’essi lapidefacevansi sotto ai suoi sguardi. Oh, perché la non divenisse trista e malvagia, perché non le venisse la tentazione di terribilmente adoperare e crudelmente la forza del suo sguardo e di cercare un sollievo alla propria miseria facendo soffrirgli altri; ci volevano proprio le buone fatagioni avute! Figliuola miserrima, infelicissima, arcisventurata, non osava neppur godere de’ baci materni, fuorché nelle tenebre perfette; e per conoscer le fattezze della genitrice, doveva contentarsi del ritratto e di quella cognizione imperfetta delle fisionomie che si acquista col tatto. Le venne concesso il contemplar la madre sol quando fu divenuta cadavere. Allora, solo allora, quando gli ululati delle cameriere e delle prefiche le annunziarono che la Regina di Tescuco aveva esalato l’ultimo respiro, solo allora alzò gli occhi nel volto di colei che l’avea partorita a tanti dolori ed insolitamente strani. Voleva renderle gli estremi uffici, essa, voleva chiuderle gli occhi, dopo averli finalmente mirati. Ma toccò un sasso. La sua facoltà pietrificatoria si estendeva a’ corpi esanimi eziandio, non a’ soli viventi. Aveva reso eterna la misera spoglia della madre.

La scoperta di questa nuova proprietà della Ciaciunena, o, per dir meglio, di tutta l’estensione della sua fatal qualità, le giovò moltissimo e le rese tollerabile la esistenza. Da quel momento, potendo essere utile, venne apprezzata; e non fu più schivata, ed aborrita tanto. Diventò la pietrificatrice universale di tutte le salme tescucane. Alla umana vanità piace l’idea di una pietrificazione postuma, che serbi intatte le forme e le fattezze. Divenir sasso o quarzo, mentre s’è vivi ancora, fa raccapriccio; divenir tali dopo morte, indurire in guisa da sfidar lime e seghe (ed i tescucani non avevano strumenti di ferro e d’acciaio) sì, volentieri; perché è una vittoria sulla morte nella morte stessa. In Tescuco si smisero e roghi e cemeteri. I cadaveri venivan quotidianamente recati in un atrio della reggia, e la Ciaciunena, passando di là e guardandoli fiso negli occhi spenti, li tramutava in tante statue, assai più meravigliose e come materia e come lavoro di quanti simulacri sono stati scolpiti dagli artefici più famosi d’ogni epoca e d’ogni luogo. Altrove sarebbe stata adoperata anche come arnese di guerra, per impietrar gli eserciti nemici: ma le guerre de’ tescucani (come quelle degli altri popoli messicani) avevano per iscopo principale di procacciar prigioni da ingabbiare, ingrassare, sacrificare, cucinare e mangiare; la principessa col rendere immasticabili ed indigeribili i nemici, avrebbe tolto e scopo e premio alle battaglie.

Il vecchio del pilota toccava proprio la vera eloquenza narrando le meraviglie, i portenti, le mostruosità da lui viste, poiché persuadeva e della sincerità sua e della verità dei racconti. Egli descriveva minutamente di quanto vantaggio fosse ai Tescucani la mirabil virtù degli occhi della Ciaciunena. «Natura,» diceva egli, alzando involontariamente la voce, «Natura ne avea creati fragilissimi delle membra e nel declinare di poche ore oltre la esalata anima, le avea destinate a pasto di osceni vermi. Un mucchio di squallida polvere, una macerie di cariato ossame, segnava appena il supremo riposo dell’uomo, caro per affetti privati, caro per pubblica benevoglienza. La gramezza, l’orror de’ sepolcri molto atteneva al pensiero di non conchiuder essi che logori avanzi della distruzione, e la semplice idea ne lo addoglia e spaventa. La sola religione vi stendeva una certa solennità, che temperava il ribrezzo del funerale spettacolo. Or nella mente agito una retrograda fantasia. Non più mi aggiro fra ’l lezzo e putridame di sotterranee fosse, tentando invano di scernere reliquie di padre, figlio, sposa, od amico, che confuse fra mille stranie m’ingannano il pio desiderio. Nei miei stessi lari, entro quelle mura che hanno gestito alla soavità di loro parola, che sono state tocche da essi, in quel medesimo aere cui insieme commettemmo il riso ed il sospiro, ritrovo amico, sposo, figlio, parente. Leggo l’antico amore nello immutato sembiante; quelle sapute forme a vita atteggiate, quelle braccia sporte all’amplesso, mi versano nella illusa anima una deliziosa obblianza della perdita loro. E se la mano disiosa si stenda alla chiedente mano, il gelido tocco mi scuote dall’estasi beata, ma il molesto ritorno alla vigilia ed alla realtà è accarezzato da un contemporaneo senso rinfrancatore, che non mai tempo ingordo m’invidierà quella effigie, perocché lungo e faticoso è suo morso contro marmi e metalli. Nella casta e matronal fronte dell’abava già splendida in vita per famigliari virtù, imparerà saviezza la vispa verginetta cui la rubella natura e il guasto secolo fieramente stringe e combatte. Nella corrugata e severa guancia del saggio antenato il degenere nepote leggerà il rimproccio di sue fallanze e dispetterà la impresa vita rotta a licenza e libidine. Quando il torvo feneratore mulinerà lo sperpero di un’angariata famigliuola, in avvisare la faccia esilarata e tranquilla di quel suo ascendente che apriva le arche ai benedicenti poverelli, forse gli scorrerà una misericordia di pentimento che lo ritrarrà dallo abisso. Cadranno di mano le inique fila al traditore mosse ad irretire la sua vittima, affisandosi nella fisionomia del congiunto che gli favella affetto, lealtà, ingenuità, candidezza. Sì, veramente: quei muti testimoni eserciteranno un benauguroso imperio sulle familiari associazioni e le renderanno migliori e per ciò più felici. Oh chi mi rende il mio Virgilio, il mio san Francesco d’Assisi, il mio Bruto! Perché natura insiem con esso loro non creò una Ciaciunena? Qual mai anima vi avrebbe sì bruta che non volasse oltre i confini del mondo, a pascersi e bearsi in quelle venerande sembianze! Chi non si sentirebbe spirato da un potente consimile spiro, acceso da una celeste emulatrice fiamma, in veder quelle fronti ove si concepirono tanto sublimi e magnanimi pensieri: quei labri donde tanta poetica vena, tanti fiumi di eloquenza e dottrina sboccarono: quelle destre che sì stupende bellezze colorirono, sì grandi verità vergarono! Ah che la sola idea di siffatta delizia trascende ogni umana beatitudine!».

Quanto è vero che la stessa causa produce sempre gli stessi effetti, che la situazione medesima suggerisce gli stessi pensieri e persino le stesse parole! Queste, che io ho trascritte, vennero profferite nel MDV da un vecchio pilota nella infermeria del convento di Guadalupe: è un fatto, veh! Eppure si leggono tali e quali nello in-ottavo intitolato: Della / Artificiale Riduzione / a solidità lapidea / e inalterabilità degli animali / scoperta / da Girolamo Segato; / Relazione / dell’avvocato / Giuseppe Pellegrini, / socio di varie illustri Accademie / con note ed aggiunte di prose e poesie. / Terza edizione. E tu ascolta, ché le mie parole / Di gran sentenza ti faran presente. / Dante, Parad. 7. Firenze / Per V. Battelli e figli / 1835. Libretto che non può leggersi senza provare un doppio rincrescimento; primo, che la scoperta dello illustre vedanese siasi perduta, secondo, che s’abbia a dir Segàto, piano, non Ségato, sdrucciolo:

Se in vece di Segàto

E’ si dicesse: Ségato;

Ecco bell’e trovato

Un’altra rima a fégato.

Ma torniamo a bomba. Tutto il discorso del vecchio pilota si legge tal e quale nell’opuscolo del Pellegrini, proprio tal e quale, come se il Pellegrini fosse stato trecentotrent’anni prima nella infermeria della Guadalupe a stenografarlo. Ed il Duca Valentino rispose allo entusiasta presso a poco nei termini stessi d’un’annotazioncella apposta dal professor Quirico Viviani allo squarcio del Pellegrini: «T’accompagno volontieri nelle illusioni, quando sono destate dai virtuosi affetti dell’animo. Solo convien guardarsi dalla prestigiosa idea di troppo generalizzare la cosa, perché non avvenga che il pio desiderio non ci conduca ad un fine del tutto contrario al principio. Il salvare incorrotte le spoglie d’un personaggio storico può essere d’un grande effetto politico; il salvar quelle d’una sposa, d’un padre, d’un tenero congiunto, ovver d’un amico può essere d’inesprimibile conforto al cuore. Ma il riempiere le case e i cimiteri di morti, secondo la tua fantasia retrograda, osterebbe alla perpetuità della conservazione, che è la cosa domandata dal cuore: perché giorno verrebbe, in cui i posteri sarebbero necessitati a ridurre in polvere a colpi di martello i loro cari antenati, per dar luogo ad altri, che a vicenda anderebbero soggetti al medesimo destino. Onde sarebbe ancora più fortemente sentita la verità di quel detto: O uomo, ricordati che sei polvere e in polvere sarai disfatto». Così è: dopo cinquant’anni di lapidificazione di tutti i morti, saremmo costretti a far brecciame de’ nostri maggiori sassificati e le ruote delle nostre carrozze li stritolerebbero; ripeteremmo continuamente l’empietà della Tarquinia.

I tescucani però, impreveggenti di queste conseguenze remote, desideravano che la Ciaciunena prendesse marito, sperando i figliuoli eredi della sua virtù lapidificativa. Il guaio era che fra tutti i Re, i Principi ed i Gentiluomini d’Anaguaco, non fu possibile trovarne uno tanto ardito da chieder la mano della terribile, capace d’inquarzarlo nello scoccargli un bacio, nello stringerselo al seno, sempre che le piacesse ed anche involontariamente. Il recare in dote la corona di Tescuco non era compenso adeguato al pericolo. Se la Ciaciunena avesse commessa, perpetrata ogni abominazione immaginabile, se fosse stata il compendio d’ogni vitupero, i porci (volli dir proci) non sarebber mancati. «Ha raggi luminosi l’oro, che non solo illustra l’oscurezza del nascimento, ma abbagliando i lumi di chicchessia, cela tra’ suoi chiarori ogni macchia d’obbrobrioso difetto. Anche a’ filosofi regnanti son tollerabili le infamie delle Faustine che hanno per dote un impero». Ma qui non si sarebbe trattato di porre a repentaglio l’onor domestico e la certezza della prole, inezie, bazzecole, miserie, parvità di materia sulle quali si può passar sopra, anzi d’arrischiar la vita, la cara vita: ed i proci brillavano per l’assenza (frase da giornalista e da Tacito, gazzettiere bugiardo della opposizione nella Roma imperiale). La principessa parea quindi predestinata a morirsene fanciulla, zitella, vergine, guagliona, anche vivendo mille anni, con rammarico sommo, non so se suo, perché tra l’altre virtù le fate benevole l’avevan dotata anche di vero pudore e di casto pensiero, ma certo del popolo, che vedeva in lei una mummificatrice economica, anzi gratuita, con vantaggio delle borse private e della igiene pubblica.

Sulle prime il Borgia avea sorriso di narrazioni siffatte, e quasi le considerava per le solite menzogne de’ viaggiatori. E pensava: «tu t’inganni, o tu ingannar mi vuoi». Ed anche: «Per venire scontata sulla piazza, una cambiale vuol esser accettata od avvallata da firme di credito: così pure un’affermazione. Chi ti guarentisce?». Ma quel vecchio nocchiero non sembrava, non poteva essere un impostore; la sincerità delle sue parole pareva evidente: mostrava in appoggio piante geografiche da lui rozzamente delineate; mostrava que’ gioielli e quelle gemme tanto diversi e come valore e come lavoro da’ miseri gingilli delle isole scoperte dal Colombo; mostrava finalmente una serpe ed alcuni uccellini petrefatti dalla Ciaciunena, che il Duca curiosamente disaminò. Que’ suoi schiavi, che cominciavano a balbettare un po’ di spagnuolo, corrotti con piccoli doni e leccornie, confermavano pienamente le asserzioni del padrone. Benché Cesare non sapesse spiegarsi di tali portenti, pure le testimonianze d’ogni maniera allegate dal vecchiardo eran tante, che finalmente si con vinse della verità del fatto: e sì che non era credulo per natura.

Ma in que’ tempi c’era più fede nelle meraviglie, si dava maggior peso all’autorità. Nessuno allora avrebbe osato profferire quella proposizione che ci sembra tanto naturale in questo secolo sulle labbra d’un sottile ravignan patrizio: «Se mi direte che dai denti di un teschio umano seminati in un campo, come quelli del serpente di Cadmo, è nata una bella schiera di fanciulli, io vi dirò che questa è cosa impossibile, quand’anche tutti i professori di una dotta città mi gridassero: Noi abbiamo veduto il portento cogli occhi nostri; noi siamo uomini incapaci di mentire, e in te non è potenza d’intelletto sufficiente a conoscere fin dove arrivano le forze della natura». Dal Nuovo Mondo poi non facevano strabiliare le narrazioni che più contraddicevano all’ordine di natura stabilito nel vecchio. Il Vespucci narrava di aver trovate in una isola «sette femmine e di tanto grande statura, che non aveva nessuna che non fusse più alta che io, una spanna e mezzo... E noi... accordammo di rubar due di loro... di quindici anni.., per far presente a questo Re... E vennono trentasei uomini... ed erano di tant’alta statura, che ciascuno di loro era più alto stando ginocchioni, ch’io ritto. In conclu sione erano di statura di giganti, secondo la grandezza e statura del corpo che rispondeva con la grandezza; che ciascuna delle donne pareva una Pantasilea e gli uomini Antei». Ed allora non fu creduto che il Vespucci dicesse una bugia; e questa, certo, fu delle più piccole ch’egli scrivesse. L’immaginazione riscaldata de’ primi navigatori faceva sì che i loro sensi travedessero, traudissero, trasentissero per sino traodorassero e tragustassero. Fra le carte del Machiavello c’è un epitome di alcune lettere scritte nel MCCCCXCIII e nel MCCCCXCIV di Vaglia dolid da Simon Verde del Borgo di San Lorenzo a Mugello, intorno al secondo viaggio del Colombo. Vi noto il brano seguente: «Domandando al Capitano delle qualità dell’acque, mi disse che nella prima isola de’ Camballi,» cioè de’ Cannibali, e, come dice lo Stigliani: cannibale, in Indico, val prode, «che, nella prima isola de’ Camballi, essendo isceso in terra, e avendo sete, trovò uno fiumicello d’acqua chiara e bella, della quale e’ bevve; e trovolla di sapore come le ispezierie vi fussino istate istemperate dentro, e che era fresca, e molto caldo gli accese nello stomaco». Era tradizione tra’ nativi di Portoricco, che in una delle Lucaie fosse un fonte il quale avea virtù di ringiovanire chi vi si attuffasse e vi diguazzasse o vi si facesse sciaguattar drento. E Giovanni Ponze de León armò tre bastimenti a sue spese per andarne in cerca; e così scoperse la domenica delle Palme del MDXII la terra di Florida. La fontana di gioventù non doveva parer più possibile alla mente d’allora d’una mozza impietratrice. Volete di più? Il Colombo credette una volta d’esser giunto nei dintorni del paradiso terrestre e ne assegnava sue buone ragioni: ché di ragioni in sostegno di qualunque pazza opinione o storta, non è mai stato difetto. Epperò addimandiamo l’uomo animale ragionevole.

Ed anche a’ nostri giorni forse sarebber credute queste istorie, malgrado tanto scetticismo. Certo hanno trovato non pochi credenzoni e le tavole giranti e lo spiritismo; certo la Revalenta arabica e simili panacee, arricchiscono i manipolatori. La credulità umana non è esausta. L’uman genere, sebbene si compiaccia e diletti di ostentare dello scetticismo a tutto pasto, non n’è ancora a pensare come quel personag gio dell’Orlando Innamorato:

Tanto ho creduto già, ch’io me ne pento.

L’augel, ch’esce dal laccio ha poi paura

D’ogni fraschetta che si muove al vento.

Io sono stato ingannato sì spesso,

Che non che altrui, ma non credo a me stesso.

Il Re di Prussia Federigo Guglielmo, fratello e predecessore di questo Guglielmo di ora, credeva agli unicorni; e commetteva specialmente a certi fratelli Schlagintweit, a’ quali somministrava quattrini per viaggiar nel Tibet e nella valle di Casimira, di procacciargliene uno. Que’ galantuomini portarono una berbice, le cui corna, molto ravvicinate alle basi, finivano per unirsi e confondersi alla punta. Si trattava d’ottener quattrini da quel Re pusillanime, per nuove spedizioni: «Mostrategli per ora la sola punta delle corna,» disse loro Alessandro d’Humboldt «poi, intascata la moneta, potrete anche lasciar vedere che in origine le son due». Tra il credere all’unicorno od a’ giganti, alle pillole di Holloway od al fonte di gioventù, agli spiriti od alla guagliona pietrificatrice, non è gran divario.

Pure il Duca ripugnava a tanto sforzo di fede. Ne conferì con lo abate Didaco, il quale, sebben preferisse ad ogni altra cosa il pecchiare ed il pacchiare, era uomo colto ed arguto. Don Diego non iscorse alcuna impossibilità intrinseca nella narrazion del pilota. Una muciaccia che impietri con gli occhi, non gli parea cosa lontana e aliena dalla ragion naturale. Citava gli antichi e la favola della fatal Gorgone, e come Perseo

…passimque per agros

Per que vias vidisset hominum simulacra ferarumque

In silicem ex ipsis visa con versa Medusae.

Ed osservava le favole antiche esser tutte allegorie, amplificazioni poetiche di fenomeni naturali. Citava l’esempio del basilisco, che nasce da un uovo di gallo e dal cui sguardo, anco alquanto da lungi, si spiccano alcuni spiriti nocivi e mortali; e che dal basilisco si spicchino questi spiriti, dottamente l’esprime Cecco d’Ascoli nel capitolo della natura del basilisco in que’ versi:

Signor è il Basilisco de’ serpenti,

E ognuno il fugge sol per non morire

Dal mortal viso e dagli occhi lucenti.

Non è animale, il qual fugga la morte,

Che subito di vita egli non spire:

Tanto è il velen di quello acuto e forte.

Annoveransi parecchi portenti analoghi. Il poter del demonio esser grandissimo, e tutte le popolazioni pagane vivere in arbitrio del fistolo, che si scapricciava tra di loro con oracoli, mostri, prodigi, prestigi, e meraviglie d’ogni genere, per sempre maggiormente irretirli, vincolarli, abbindolarli, aggirarli e sottometterseli. Così esser pure avvenuto degli antichi gentili. Il Fontenelle non aveva ancora scritto il suo libro sugli oracoli.

Il vecchiardo, come ho detto, ispirava fiducia; ed avea mostre al Borgia parecchie carte geografiche rozzamente disegnate, e discreti calcoli astronomici, che dovevano agevolar di molto il ritrovar la terra lontana di Anaguaco. Pur sempre Cesare nudriva alcuna diffidenza contra di lui, alcun dubbio della sua sincerità. Tanto, che sendo il pilota peggiorato ed avendo chiesto di confessarsi, il Duca Valentino, quantunque spretato da un pezzo, non rifuggì dallo ingannar sacrilegamente lo infermo, presentandosi invece del confessore richiesto, tutto scontraffatto ed immascherato per non farsi riconoscere. Di notte, alla scarsa luce di un lucernino fumoso, il nocchiero non si accorse della sostituzione e smammò, sverzò quanto aveva sulla coscienza. Il Borgia lo interrogò, lo scrutinò, lo scandagliò per ogni verso, avvalendosi dell’autorità usurpata; e quando fu ben convinto che il malato era sincero e quando l’ebbe ben disposto a’ suoi intenti, gl’impartì un’assoluzione, che non avea qualità di concedere. Ma forse avendo mirato a rendere ereditaria la potestà pontificia, vaneggiava di poterne esercitare una parte. Fortunatamente lo infermo risanò; fortunatamente per l’anima sua, che gravata di molte peccata, non era stata riconciliata col Creatore da un sacerdote competente; ed anche per san Pietro, che non avrebbe saputo come regolarsi e se ritener valida l’assoluzione del Borgia, considerando la perfetta buona fede e la contrizione del povero pilota; oppure inefficace perché nulla, sendo stata data da chi non poteva darla. A Cesare che importava uno stratagemma, uno inganno, un sacrilegio aggiunto a’ tanti? Aveva raggiunta la certezza ambita e maturava un piano da par suo.

Meditava di navigare verso il paese di Anaguaco, di andarne a Tescuco, d’indurre o con le buone o con la violenza la Ciaciunena a seguirlo in Europa: sposarla, rapirla, poco importa: secondo le circostanze avrebbe adoperato da volpe o da leone. Quella donna fatale, gli sarebbe poi stato mezzo per riacquistare il perduto e concretare gli antichi disegni ed audaci. Disponendo di tal forza miracolosa, non dubitava di conquidere ogni altra. Avrebbe rinnovate e superate le gesta de’ cavalieri erranti, presentandosi anche solo innanzi agli eserciti nemici.

Come il Ruggero dell’Ariosto, scoprendo lo scudo incantato, abbarbagliava, abbacinava, accecava temporaneamente gli avversari; lui, mostrando la bella donna nella quale tutti convertirebbero gli sguardi, avrebbe impietrito ogni malevolo. Si sarebbe presentato innanzi a Giulio II ed a’ cardinali che lo avean tradito, per convertirli in duri scogli su’ loro seggi. Percorrendo l’Italia e l’Europa, si lascerebbe dietro una traccia più terribile che di sangue: il sangue vien lavato e dimenticato; ma le orrorose statue ch’e’ produrrebbe dovunque, ricorderebbero a’ debellati la sua possanza soprannaturale. Il cedere innanzi a chi tanto è privilegiato sugli altri non ripugnerebbe a’ popoli, che correrebber proni sotto il suo scettro. Quella Bologna, quella Fiorenza, che non avea potuto ingoiare per lo passato; quella Vinegia formidabile, i Re di Francia e d’Aragona, lo Imperador senza denari, tutti vincerebbe. Ad una occhiata della Ciaciunena non resisterebbero né le schiere del gran Capitano, né le falangi svizzere, né le bande de’ migliori condottieri… sbaglio, diventerebbono anche troppo resistenti; e la troppa resistenza impedirebbe loro di resistere. Gli artiglieri rimarrebber di sasso con la miccia in pugno accanto alle artiglierie inutili, che i cavalli impietrati non trasporterebber più né avanti né indietro. L’impeto della cavalleria francese servirebbe solo a far produrre dalla Principessa di Tescuco delle statue equestri in quelle mosse che nessuno scultore, ancorché valentissimo, stimò possibile il riprodurre mai. Potrebbe stabilire quell’ordinamento ideale, che avea vagheggiato per la Italia, ed il quale, se anche avesse potuto impiantarsi convincendo i volghi della sua bontà, da mantenersi e difendere era solo con la prepotenza. Difatti come nota san Nicolò Machiavelli: «Tutti li profeti armati vinsero e li disarmati rovinarono: la natura de’ popoli è varia ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far loro credere per forza». Prenderebbe allora la rivincita, si ricatterebbe del sofferto: e quand’anche dovesse regnare sopra una contrada popolata più da statue silenziose che da uomini, che importa? I simulacri almeno non si ribellan mai.

 




2 Nel Menippo. Cito dalla esatta versione ed elegante delle Opere di Luciano, fatta da Luigi Settembrini nello Ergastolo di Santo Stefano e stampata in tre volumi a Firenze dal Le Monnier.



3 Frase elegante di un consigliere di appello e deputato al Parlamento nazionale, che siede a sinistra.






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