INTRODUZIONE
Le mie
gentili lettrici, ed i miei gentili lettori ¾ dato che
vi sieno lettori pel mio libriccino, e che sieno gentili, ¾ debbono
usarmi la cortesia di tornare colla mente alla presentazione che l'illustre
commediografo Paolo Ferrari fece loro di me, Marchesa Colombi, in una serata
che dedicò a Parini ed alla satira.
Si ricordano
l'epoca di quella presentazione?
Fu poco dopo
la pubblicazione del Mattino di Parini, fatta, come ognuno sa, nel 1763.
Io era
giovane, giovanissima allora, sposa da poco tempo. Non avevo che diciasette
anni; non uno di più. Ma, se ai diciasette che avevo allora, aggiungo i
centoventisei che sono trascorsi, non posso a meno di riconoscere che la mia
fede di nascita deve attribuirmi la venerabile età di 143.
Questo
calcolo deve averlo fatto ¾ poco
galantemente bisogna convenire ¾ il primo
editore di questo libro quando mi disse:
"Lei,
Marchesa, che vive da tanti e tanti anni nella società elegante, che ha potuto
osservarne i costumi durante tre o quattro generazioni, dovrebbe scrivermi un
libro, che trattasse appunto dei doveri e delle convenienze sociali. Una
specie di Galateo moderno, che, preso a studiare anche da una
persona che abbia vissuto sempre in campagna, le servisse di guida, e le
insegnasse a condursi ed a figurar bene in tutte le circostanze della
vita."
Una cosa che
mi ha sempre inspirato uno spavento indicibile, e mi ha preservata dal peccato
capitale ‑ non compreso fra i sette condannati dalla Santa Chiesa ‑
di far gemere i torchi, è la critica.
L'idea di
quei giudici ignoti, che sezionano un lavoro, lo tagliano, lo spolpano, lo
analizzano, lo lambiccano sotto gli occhi dell'autore, senza commoversi
menomamente allo strazio del suo cuore paterno, mi mette nello stato di
sgomento d'un povero scolaretto, il quale deve esporre la sua pagina, il
giorno degli esami, ad una Commissione esaminatrice, che non si compone dei
suoi maestri, che gli è affatto ignota, che lui considera come un tribunale
venerabile e pauroso.
Ora, il
genere di libro che mi disponevo a scrivere doveva avere per critici naturali
le signore. E però, dato anche che il tribunale supremo delle appendici di
giornali avesse voluto scendere ad occuparsi di simile inezia, avrebbe sempre
dovuto consultare su molti punti un giurì di signore, prima di pronunciare il
suo terribile verdetto.
Ed io aveva
tanta fede nell'indulgenza delle signore, che ne presi coraggio, ed accettai
l'incarico.
Ai tempi
remoti della mia giovinezza, non esisteva ancora il bel Galateo di Melchiorre
Gioia pubblicato sul finire del secolo passato. ‑ E fra tutti gli altri
libri dello stesso genere, pubblicati prima e dopo di quello, l'unico usato
generalmente, era quello di Monsignor Della Casa, un vero gioiello di spirito,
reso anche più ameno dallo stile candidamente ricercato e solenne, del
cinquecento.
Ma l'illustre
prelato scriveva il suo libro dedicandolo ad un giovinetto, conciossiacosachè
questi cominciasse appena il viaggio della vita, che lui, il Monsignore,
stava per compiere. E però sentiva il dovere di ammonirlo di non fare in
compagnia cose laide o fetide, o schife o stomachevoli; di non spruzzare
nel viso i circostanti, nel tossire e nello starnutare; di non urlare o
ragghiar come un asino sbadigliando; e, soffiando il naso, di non aprire
il moccichino e guatarvi dentro come se perle e rubini dovessero esser discesi
dal celabro, ecc., ecc.
Tutti questi
ammaestramenti negativi, sono pregevolissimi senza dubbio. Tanto pregevoli che
riuscirono, con lungo andare, a sradicare completamente tra la gente per bene quelle
straordinarie abitudini. Ma, per ciò appunto, è affatto inutile ch'io mi occupi
di particolari tanto rudimentali, conciossiacosachè i miei lettori
¾ se Dio
vuole ¾ non ne
hanno bisogno, ed i Bosiemanni e le Pelli Rosse, a cui potrebbero ancora
giovare, dubito molto che mi vogliano far l'onore di leggermi.
Il Galateo di
Monsignor Della Casa è completo, ragionato, tanto da elevarsi quasi
all'altezza d'un trattato di morale. Io sono certa, e rassegnata a priori, di
non poter fare un lavoro, non dirò migliore, ¾ sarebbe
una pretesa ridicola, ¾ ma
neppure che s'avvicini al merito di quello. E tuttavia lo faccio. ¾ Perchè?
Perchè vi
sono certe cose speciali ai nostri tempi, ai nostri costumi, che io posso dire,
perchè in questi costumi ed in questi tempi ci vivo, e che in nessun galateo
antico si trovano, oppure vi si trovano differenti da quelle che pratichiamo
tra noi.
Cadono le
città, cadono i regni, e cadono le costumanze adottate fra la gente civile.
¾ Ai tempi
di Monsignor Della Casa erano considerate inciviltà parecchie cose che ora sono
ammesse. Invece non si troverà nulla nei galatei antichi sullo scambio delle
carte di visita, sulle partecipazioni di matrimoni, nascite, morti, guarigioni;
sulle strette di mano; sul contegno da tenere in viaggio, e tante altre cose
che appartengono alle nostre usanze moderne.
È per questo
soltanto ¾ non per
fare meglio di nessuno, ma per fare tutt'altro ¾ che imprendo a scrivere il mio
galateo moderno. Ed in esso intendo parlare a persone ammodo che, se possono
ignorare, tutte od in parte, le convenienze sociali, non hanno bisogno ch'io
insegni loro l'a b c della creanza.
Non farò del
mio libro un trattato di morale; sarebbe superfluo il pretendere d'instillare
in tutti gli animi i veri sentimenti a cui debbono ispirarsi le leggi della
cortesia; sentimenti che, del resto, si riassumono tutti nella massima: «Non
fate ad altri quello che non vorreste fosse fatto a voi.»
Purtroppo i
sentimenti umani hanno un limite, e sono pochi i filantropi che possono largire
una parte del loro affetto a ciascuno dei loro simili. Non serve negarlo. Tutti
possiamo avere rapporti con persone che ci sono uggiose, antipatiche,
indifferenti. Tutti gli argomenti morali ch'io potrei scrivere non muterebbero
questi sentimenti impulsivi. Mi limiterò dunque ad indicare quello scambio di
cortesie che si praticano fra persone educate, e che l'uso generale ha fatto
passare in costume: se saranno soltanto cortesie di forma, pazienza! Sarà
sempre meglio che seguire l'impulso, e fare uno sgarbo ad una persona che non
piace.
Dai dieci
comandamenti del Decalogo derivarono tutti i trattati di morale che si
scrissero poi, con tutti i loro raffinamenti e perfezionamenti. E dalle prime
regole di civiltà insegnate da Monsignor Della Casa, emerse la cortesia
cavalleresca dei nostri babbi, quella un po' più... disinvolta che usiamo noi;
ed emergerà pure la civiltà più gentile, lo spero, e raffinata, che
beatificherà l'esistenza dei nostri nepoti fino alla più remota discendenza.
È là, in
quella parte di libriccino boccaccevole, che ho imparato per la prima volta a
condurmi coi miei simili, e però, tutto quanto so delle convenienze sociali, il
mio galateo, ed i galatei di tutti i tempi che verranno, non sono altro che
l'eredità di Monsignor Della Casa.
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