CAPITOLO
II.
I
fanciulli.
Coi
parenti ¾ Festa in
famiglia ¾ Colle
sorelline ¾ Colle
persone di servizio ¾ A pranzo
¾ Visite ¾ Inviti ¾ Essendo
ospiti in casa altrui ¾ In
iscuola ¾ In
serata ¾ In
chiesa.
Così è,
signorini miei. Loro hanno sei, sette, otto anni; vestono la gonnellina come la
mamma, o il farsettino come il babbo. Si chiamano Mario o Maria, Carlo o
Carolina, a seconda del loro sesso. L'abito neutro, il nomignolo neutro sono
abdicati. S'immischiano di ragionare o di sragionare, il che viene a dire lo
stesso: hanno preso il loro posto in società.
Hanno dunque,
oltre l'obbligo della civiltà elementare che hanno imparata dalla mamma, e
direi quasi succhiata col latte, anche quello dei piccoli doveri di società.
La prima
società è la famiglia; la più cara; e, come tale, quella che si deve meglio
curare per non turbarne l'armonia.
¾ Buon
giorno, mamma, buon giorno, babbo, buon giorno, buon giorno...
Questa è la
prima parola che i ragazzini educati debbono avere sul labbro svegliandosi; e, possono
crederlo senza vanità, pronunciata da loro riesce veramente di buon augurio pel
cuore dei loro parenti. Così pure avanti di andare a tavola debbono augurare a
tutta la famiglia il buon appetito; avanti di coricarsi la buona notte.
Queste cose
sono già abbastanza elementari, nevvero? Eppure io so di signorini, fino ad un
certo punto educati, che non commetterebbero mai nessuna delle sconcezze
accennate ne' primi consigli di Melchiorre Gioia, che si dànno l'aria di
personcine importanti, che salutano que' di fuori e fanno de' complimenti per
sentirsi dire: Che ragazzi gentili! e poi in casa si svegliano
domandando ad alta voce la colazione, o magari facendo il broncio e
piagnucolando: siedono a tavola prima de' loro genitori; la sera si fanno dire
dalla mamma di dare la buona notte al babbo; e, quando escono a passeggio, hanno
bisogno che la bambinaia, la quale, poveretta, non ha avuta educazione, li
avverta di salutare le persone della famiglia che rimangono in casa.
Così, dunque,
mi hanno intesa, signorini? Tutti i complimenti che si fanno cogli estranei, li
debbono prima di tutto praticare nella loro casa, colla loro famiglia.
Questo per la
vita di tutti i giorni; ma vi sono giorni diversi degli altri; giorni solenni.
Il Natale, il Capo d'anno, gli onomastici, i natalizi di famiglia. È allora che
i ragazzi educati debbono dar prova di vera gentilezza.
Quando si tratta di festeggiare il babbo, è la mamma che consiglia i
bambini, e loro non hanno che a lasciarsi dirigere. Ma se sapessero come soffre
la mamma, e che malagrazia hanno loro stessi, quando reagiscono contro la
lettera da scrivere, contro il complimento da recitare, contro il lavoro da
eseguire; e brontolano che non sanno cosa scrivere; e che il complimento è
difficile da imparare a memoria; ed a dirlo poi... non osano... E, al momento
di dirlo, quelle esitazioni, que' contorcimenti, quel ridere scemo, quasi che
il fare una manifestazione d'affetto ai genitori fosse cosa buffa, quegli
straordinari abbassamenti di voce e tutto il corredo di smorfie, con cui i
fanciulli sogliono guastare le più care scene di famiglia, lo sanno loro,
signorini miei, come si traducono in lingua parlata?
¾ Che
ragazzi egoisti! Come sono freddi pei loro genitori! Tutto quello che fanno è una
formalità compiuta per forza, e non hanno neppur abbastanza delicatezza per non
farsi scorgere. Triste solennità per que' genitori!
E triste idea, soggiungo io, che danno quei fanciulli della loro
educazione!
Vi sono poi
fanciulli soprammodo disgraziati, che non hanno più mamma o non hanno più
babbo. Ed altri la cui sventura è più grande ancora: li hanno perduti entrambi.
È un parente, un'istitutrice, che tiene il luogo di que' poveri cari.
Allora, a quel parente, a quell'istitutrice, debbono gli stessi
riguardi che avrebbero dovuto a' genitori. Se è una sola persona che veglia su
di loro, debbono ingegnarsi a farle da sè stessi qualche improvvisata che le
rallegri i giorni solenni; poichè, naturalmente, non debbono farsi consigliare
da lei. Allora non vi sarebbe più improvvisata possibile.
In tal caso, un lavoretto semplice che sappiano eseguir bene,
qualche fiore, poche parole scritte, venute schiettamente dal loro cuoricino,
anche con qualche errore, non importa, ecco quello a cui debbono attenersi. Pregare
un maestro oppure un conoscente che scriva per loro una lettera, sarebbe quanto
dire alla persona a cui fanno omaggio, la quale conosce troppo la loro capacità
per essere ingannata:
¾
"Badi, non ci avevo proprio nulla nel cuore. Non ho trovato una parola per
lei, ho dovuto farmela prestare da altri."
Dolorosa
novella questa, e tutt'altro che fatta per allietare un giorno solenne.
Alle volte
però si possono recitare de' versi ed è certo un pensiero grazioso, sebbene
difficilmente i versi possano essere scritti dal bambino che li dice. Ma
bisogna che siano scritti appositamente per quella circostanza; o, quanto meno,
che il fanciullo, leggendoli in qualche buona raccolta, li abbia compresi
perfettamente, e vi abbia trovato l'espressione dei propri sentimenti per la
persona alla quale vuol dirli.
Ma è assai
difficile trovare in un libro i versi che si adattino precisamente a'
sentimenti, a' rapporti sociali, alle qualità, alle circostanze d'una persona.
Una allusione fuor di proposito basta a metter in ridicolo chi li dice, ed
anche la persona a cui sono rivolti.
Io conobbi,
anni sono, una bambina, che non aveva più mamma, povera gioia! Il suo babbo
occupava una alta situazione, ed era sempre assorto in gravi lavori. L'educazione
della piccina era affidata ad una vecchia signora nubile, buona senza dubbio,
come lo sono tutti quelli che prendono cura de' bambini, ma d'aspetto
tutt'altro che avvenente, di modi rigida, rigorosa, punto espansiva, austera
nel suo vestire che era sempre nero o color tabacco.
Una mattina,
giocando con un calendario che stava sul camino, la piccola Gemma vide che quel
giorno era San Gaudenzio. L'onomastico della sua governante, che si chiamava
Gaudenzina. Cosa fare? Non lo aveva saputo prima, ed omai il babbo era andato
allo studio, e non c'era speranza che rientrasse fin all'ora del pranzo.
Tuttavia la bimba era compresa del suo dovere, e si sarebbe fatto uno scrupolo
di non fare un complimento alla governante.
Nel suo
imbarazzo pensò di andare in cucina a consultare la cuoca.
¾ Se tu
volessi andar a prender de' fiori, Margherita... insinuò la Gemma colla voce
supplichevole.
¾ Sie! De'
fiori ai ventidue di gennaio; dove li prendo?
¾ Allora,
aiutami a pensare cosa debbo fare per la signorina; (la signorina era
l'appellativo con cui si soleva nominare la severa governante, che non era mai
discesa alla famigliarità di lasciarsi chiamare col suo nome).
Fu un'ardua
questione. La cuoca cominciò col proporre alla bimba di fare un sonetto.
La Gemma non
sapeva cosa fosse un sonetto.
¾ Un
sonetto, come quello lungo lungo, che ha recitato lo scorso Natale al babbo,
spiegò la cuoca.
¾ Quella
era una poesia.
¾ Ebbene,
una poesia è un sonetto. Ne faccia uno e lo reciti questa sera alla signorina.
¾ Ma io
non so farlo.
¾ Se
scrive sempre!...
¾ Sì, ma
non so come si fa a far le poesie. So soltanto copiare.
¾ Ne copii
una da un libro. Ne ha tanti!
Era un'idea.
La bimba la trovò subblime, e la proposta fu approvata alla piccola unanimità
da quell'ingenua assemblea.
La Gemma si
mise a sfogliare con gran sussiego il suo libro di lettura, ed a leggerne tutte
le poesie. Non ne capiva gran cosa. Ce n'erano di quelle che parlavano della
patria: comprese vagamente che non facevano al caso suo. Poi c'erano delle
favole: La cicala e la formica; La rana ed il bue; Il cane e la fonte.
¾ Ti pare
che una di queste possa andare? domandò alla cuoca.
La cuoca
trovò che quelle storie di bestie erano fatte per raccontarsi dalle governanti
a' bambini, e non dai bambini alle governanti.
¾ E
proprio per la signorina non dicono niente, soggiunse.
La Gemma
continuò a cercare. Finalmente trovò una poesia che le parve messa là per lei.
Non la capiva
tanto bene, poverina: aveva appena sette anni, e non capiva molto chiaramente
neppure la prosa; figurarsi poi i versi! Ma quelli erano dedicati ad una
signora, e le pareva ben chiaro che le facessero de' complimenti.
La Gemma
cominciò a copiarla colla sua più bella scrittura. Vi sciupò un quinterno di
carta, con cui la cuoca fece un rogo per nascondere la cosa anche al padrone.
Giacchè la grande impresa era riuscita senza il suo concorso, bisognava serbare
l'improvvisata anche a lui.
La sera
giunsero parecchi conoscenti che andavano a fare la partita alle carte col
babbo della Gemma e la governante, e quando quella signora fu seduta fra loro,
cogli occhiali d'argento e con un bel vestito color tabacco, nuovo per la
solennità della circostanza, la Gemma si fece innanzi tutta trionfante colla
poesia scritta in mano, mentre la cuoca dalla porta faceva capolino, per godere
anche lei di quel trionfo dovuto in gran parte alla sua pensata.
Una salva di
elogi accolse la bimba.
¾ Come! La
Gemmolina era riescita da sè sola a combinare quella gentilezza? Era una
meraviglia. E dove l'aveva copiata? Nel libro di lettura? Ma che idea luminosa!
¾ Via,
leggila tu stessa la tua poesia, disse la signorina. Sarà più accetta a me, e
la sentiranno tutti.
Incoraggiata
così, la Gemma aperse la carta, fece un bell'inchino, e cominciò a leggere:
Bella, sul fior degli anni,
Cinta d'allegri panni,
Sopra un sentier di rose,
Tu vai movendo il piè:
Tutte le belle cose
Hanno una vita, un palpito
Un'armonia per te.
La signorina
color tabacco aveva varcata la cinquantina, e non era per nulla superiore a
questa disgrazia.
Lascio
pensare come accogliesse il complimento della bimba, ed in che imbarazzo mettesse
il babbo di lei, col suo risentimento.
La povera
Gemmolina non capiva nulla di quel cambiamento di contegno a suo riguardo. Lei
non aveva mai pensato se la signorina fosse bella o brutta, giovane o vecchia.
Una idea simile viene di rado ai bambini circa i loro superiori. Io aveva una
mamma bellissima, e non lo seppi che tardi, dopo la sua morte, sentendolo dire,
ripensandoci, ed osservando i suoi ritratti. Si dice: «La mamma è bella» si
reagisce contro quelli che fanno il cattivo scherzo di dire: «La tua mamma è
brutta.» Ma non si pensa mai a renderci ragione d'una cosa nè dell'altra.
Mi ricordo di
un servitore che s'aveva in casa, il quale era d'una bruttezza proverbiale. Si
diceva: Brutto come Tommaso, per dire l'ultima espressione del
brutto. Ma era tanto buono e carezzevole coi bimbi! Io lo adorava; lo
colmavo di carezze e di baci; e quando udivo dire che Tommaso era brutto mi
mettevo a piangere, e protestavo che era bello, con una convinzione, ed una
fede che avrebbe smosso i monti.
Mi ricordo
pure di una maestra che ebbi più tardi, la quale, poveretta, era gobba, ed
aveva il naso schiacciato.
Mi pareva un
prodigio di bellezza: era la mia ammirazione. Mi sforzavo di tenere alta una
spalla, e mi schiacciavo il naso contro i cristalli delle finestre, nella
speranza di rassomigliarle.
La Gemmolina
era nella stessa ignoranza su quell'argomento; a lei per complimento tutti
dicevano che era bella, e le era sembrato giusto di dirlo anche lei alla
persona a cui voleva fare un complimento. E, ad un tratto, il babbo aveva
interrotta la sua lettura; la signora s'era ritirata nella sua camera in
collera: un silenzio glaciale era succeduto a tutte le gentilezze che l'avevano
accolta un momento prima, ed il babbo aveva finito col mandarla a coricarsi col
cuoricino serrato.
¾ Ma
perchè? domandava alla cuoca.
¾ Perchè
il sonetto diceva che la signorina è bella. E la signorina è rimasta male
perchè è brutta.
¾ È
brutta? ne sei sicura, Margherita?
Fu un triste
episodio per la povera Gemmolina. Ora è una piccola mammina di vent'anni; e
leggendo questi ricordi della sua infanzia, si ricorderà d'insegnare alla sua
creaturina, quando sarà in grado di capir qualche cosa, a non recitar mai
complimenti, quando non comprenda bene cosa voglion dire.
Anche tra
fratellini e sorelline si debbono scambiare saluti, auguri nelle circostanze
speciali, e dimostrazioni d'affetto.
*
* *
Loro poi,
miei piccoli lettori, dovranno cercare d'essere i primi a far atto di cortesia
verso le loro sorelline. Un uomo, anche in erba, deve essere sempre gentile e
deferente verso una signora, anche se è una sorella, e se porta la gonnellina
corta.
Ed alle
amiche delle loro sorelline debbono volgere il saluto loro pei primi; debbono
cedere i posti migliori, e, quando cominceranno a farsi grandicelli, a dieci,
dodici anni, non le tratteranno più col tu, come si usa tra bimbi.
Andando fuori
di casa in compagnia, senza darsi l'aria buffa di piccoli galanti, nè offrirsi
di portare gli scialletti, i panieri, gli ombrellini delle ragazze, cercheranno
di compiacerle se loro li pregano con discrezione di portarli. E, se volessero
caricarli in modo, da render loro faticosa la strada ed impossibile di
divertirsi e correre, dovrebbero scusarsi con buon garbo, offrendosi però di
consegnare quegli oggetti al servitore o alla bambinaia.
*
* *
E, poichè ho
accennato alle persone di servizio, debbono ricordarsi, miei piccoli lettori, ¾ le
piccole lettrici sono comprese, ¾ che i
primi giudici della educazione dei padroni sono i servitori. Li stiano a
sentire quando discorrono in anticamera colla cameriera dei loro piccoli amici:
¾ E così
come va, Teresita? Si trova bene in questa casa?
¾ Così,
così, veda (cameriera e servitori si danno, sempre del lei). Per la signora, è
come servire la Madonna, il signore, lui, non dice mai nulla. Ma i bambini, che
tempesta!
¾ Non sono
buoni?
¾ Punto. E
che mala grazia! «Teresita questo; Teresita quello; Va; vieni; fa.» Comandano
come sultani; e mai una buona parola.…
¾ Ah! da
noi poi è differente. Tutto quel che domandano è per favore, e per ogni
servizio: «Grazie, Giannotto.»
¾ Quelli
sono bambini per bene!
Glì altri no;
hanno capito, miei piccoli lettori? Dappertutto c'è da ìmparare.
Ma badino; si
parla ancora. Vogliamo ascoltare dell'altro? Chissà che ci sia ancora qualche
cosuccia di buono. È la Teresita che riprende:
¾ I
padroncini della Caterina sono buoni.
¾ Oh!
quelli poi sono troppo buoni. Li ha visti mai, Teresita, a passeggio? Si figuri
che vanno a braccetto della Caterina come fosse la loro mamma.
¾ Ah! È
per questo poi che la Caterina non li rispetta, e gli dà del tu.
¾ Ma che
le pare, rispettarli? Sono sempre in cucina, frugano nei piatti, le fanno dei
dispettacci, e se ci arrivano, siedono alla tavola della servitù.
¾ Allora
si capisce che la Caterina li tratti da pari a pari. È l'opposto de' miei che
sono d'un'arroganza.… Io ho il mal vezzo di risponder brusca qualche volta, ed
allora, sentirli come saltano! «E che i padroni sono loro, e che io sono una
serva, e che mi si paga perchè debba obbedire....»
¾ Oh! qui
da noi di queste parole non se ne sentono. Anch'io, veda, ho un po' il vizio di
risponder male. Ed allora bisogna sentire con che pace e con che serietà mi
dicono: «Siate un po' più cortese, Giannotto. La mamma ne avrebbe dispiacere se
sapesse che ci fate uno sgarbo.» La gli vada a voler male a bambini educati a
quella maniera!
La lezione è
completa, signorini miei. Cerchino di imitare i padroncini di Giannotto:
evitino gli errori di quelli della Caterina e della Teresita, e si
comporteranno benissimo colla gente di servizio.
*
* *
In tutte le
case dove c'è o c'è stato un bimbo, si vede una sediola d'un'altezza
straordinaria, stretta stretta, con due bracciolini, e qualche volta anche una
sbarra a saliscendi dinanzi per assicurare dalle cadute la personcina minuscola
che ci si deve sedere.
Quel
mobiluccio, che i Toscani chiamano seggiolotto, è il trono del bimbo.
Finchè si mette
a tavola inalberato su quel piccolo trono, il bimbo regna sul mondo; ma, appena
ne discende, appena adotta una sedia comune, fosse pure per starvi in
ginocchio, perchè seduto non arriverebbe col nasino sopra la tavola, allora è
il mondo che regna su lui.
Allora non è
più permesso pigliare il cucchiaino in mano dalla parte che si mette in bocca;
nè cacciar le manine sul piatto; nè accarezzare in viso i convitati, nè buttare
le posate ed il pane per terra; nè canticchiare o parlare tra sè: nè esprimere ad
alta voce la propria opinione sopra un argomento qualunque, mentre i commensali
parlano di tutt'altra cosa.
È
assolutamente proibito di far qualsiasi commento sulla figura o sul vestire o
sul contegno delle persone; un errore in cui i bambini cadono ispessissimo.
Una volta
c'era in casa di mia sorella, a pranzo, una buona e rispettabilissima signora
la quale era affetta da un grosso neo sulla punta del naso. Una mia nipotina,
che non aveva ancora due anni e parlava appena, impressionata da quella sporgenza
insolita, allungò il ditino traverso la tavola, ed accennando quel naso
disgraziato, disse:
¾ Ci‑gno‑a
ha bibì.
La supponeva
una malattia, ed aveva la buona intenzione di compiangerla. Ma che
mortificazione avrebbe risparmiata a noi tutti, se non avesse manifestato così
apertamente la sua opinione!
Un'altra
manìa dei bambini è di sindacare la distribuzione che fa la mamma nel piatto
pei loro fratellini, e di annunciare tutti i piatti appena entrano in sala da
pranzo, come fossero personaggi importanti.
¾ La
minestra! Mamma, mi permetti ch'io non mangi minestra?
¾ Oh! Gigi
non mangia minestra? Neppur io.
¾ Neppur
io allora!
E la mamma
deve interrompere ogni discorso, trascurare gli ospiti e le persone della
famiglia, per metter fine a quel battibecco.
Alle frutta
poi:
¾ La
crema! Mamma, a me darai i geroglifici di cioccolatte!
¾ Anche a
me.
¾ No, l'ho
detto prima io.
Nel loro
profondo egoismo, sono persuasi che il pranzo è fatto unicamente per loro. La
questione è soltanto di sapere chi reclamerà primo i bocconi migliori. A tutti
gli altri commensali debbono bastare gli avanzi.
E questo
spettacolo disgustoso di egoismo e di avidità, che merita così poco gli onori
del bis, è ripetuto quasi ad ogni servizio.
Ma i miei
piccoli lettori, se pure, eccitati dall'olezzo inebbrianti di qualche piatto
favorito, sono caduti in tali sconvenienze, arrossiscono ora nel rileggere qui
a sangue freddo le loro parole. Vorrebbero, senza dubbio, alla prossima
occasione comportarsi in modo che i loro parenti non abbiano a rimanerne male.
Ebbene, si
persuadano che la loro parte non è nè difficile, nè sacrificata.
La mamma non
si mette a mangiare di nulla, se non ha servito prima i suoi figliuoli, questo
lo sanno. Ma debbono pur sapere e tenere per certo, che quello che lei mette
loro davanti è calcolato da lei nella giusta proporzione delle loro facoltà
digestive.
Debbono
persuadersi che per le loro liti, per le loro piccole opinioni personali sul
servizio, non mette conto d'interrompere un discorso, e neppure di occupare un
minuto l'attenzione della compagnia.
Quando non
sono in famiglia non prenderanno mai l'iniziativa per dare il buon appetito.
Basterà che lo diano piano ai loro genitori.
Se sono
interrogati parlino, senza alzar la voce tanto da sbalordire, e senza
abbassarla in modo assurdo. Non si restringano ai monosillabi sì e no.
Se una
persona li interroga, vuol dire che quel discorso è adatto alla loro
intelligenza e capacità, e vi possono prender parte liberamente.
Non reclamino
mai nulla: non prendano il bicchiere colle mani tanto unte da toglierne la trasparenza;
si ritirino quando la mamma lo dice, senza aver domandato di farlo prima, senza
esitazioni, nè malumori, nè lagnanze.
Evitino di
fare qualsiasi rumore colla bocca nel mangiare; non mettano il tovagliolo in
istato di fare schifo a vederglielo disteso dinanzi. Tengano la forchetta dalla
mano sinistra, il coltello dalla destra; prendano il pane ogni volta che devono
metterlo in bocca staccandone soltanto il pezzettino necessario; non posino
mai le posate sporche sulla tovaglia; se si cambiano ad ogni servizio le
lascino sul piatto; se sono in case di grandissima confidenza dove non
si cambiano, le posino sul reggi‑posate. Si rassegnino a lasciar le salse
nel piatto, malgrado le tentazioni della gola, che vorrebbe asciuttarlo col
pane come se l'avesse leccato il gatto.
A questo modo
pranzeranno bene, figureranno bene e non faranno indigestioni vergognose. Non
c'è cosa più umiliante che il dover scontare ogni pranzo con un citrato
di magnesia, come fanno, purtroppo, parecchi signorini di mia conoscenza, i
quali nutrono una tale tenerezza pel loro piccolo stomaco, da non sapergli
rifiutar nulla, anche quando i suoi desideri sono smodati.
*
* *
Altre volte
un ragazzo, levandosi da tavola si metteva a farne il giro domandando a ciascun
commensale se avesse pranzato bene.
Era
imbarazzante pei ragazzi il rivolgere pei primi la parola a persone che
conoscevano poco, o non conoscevano affatto.
Ed era
seccante per ogni individuo interpellato, che si trovava nella necessità
d'inventare un complimento nuovo ad ogni bambino che veniva, e differente da
tutti quelli detti dagli altri commensali.
Supposto sei
ragazzi che facessero a dodici convitati la stessa domanda invariabile: «ha
pranzato bene?» le dodici immaginazioni dei convitati dovevano fornire la
bellezza di 72 (dico settantadue) risposte variate sull'unico tema: ¾ Sì, ho
pranzato, benissimo. ¾ Perchè,
naturalmente, una persona educata non può pranzare in casa d'altri senza il superlativo
assoluto.
Se poi gli
invitati non erano gente molto immaginosa, si correva il rischio di udire
72 Ha pranzato bene?
+ 72
Benissimo, grazie; e tu?
+ 72 Anch'io,
grazie.
In tutto 216
frasi, da mandar a monte la digestione d'uno struzzo o d'un elefante.
E però, visti e considerati tutti gli inconvenienti
sovraesposti, quel viaggio d'esplorazione intorno alla tavola in cerca
dell'esatta misura d'appetito d'ogni convitato, fu abolito alla grande
unanimità.
*
* *
Alle volte
accade che un ragazzo si trovi in salotto quando le persone di servizio
introducono una visita, e la lasciano per andar ad avvertire la signora che
deve riceverla.
In tal caso è ben difficile che il visitatore, o la
visitatrice, lasci al bambino l'imbarazzo di prendere la parola. Gli parla, ed
il bambino non ha che rispondere. Dato però che il visitatore non facesse quel
primo passo, tocca al piccolo padrone di casa a farlo, sacrificando la sua
timidezza al dovere d'ospitalità. Si avanzerà, ad ogni modo, verso il nuovo
venuto, e se questi non dice nulla, gli darà il buon giorno, e lo pregherà
d'accomodarsi. Da parte d'un bambino è sempre meglio che si limiti a dare il
buon giorno o la buona sera; perchè questo obbliga soltanto ad una risposta
analoga. Vi sono persone che non amano discorrere coi bambini; questo non fa il
loro elogio, ma vi sono. Risponderanno: buon giorno; grazie: e sarà
finita. Mentre invece, se il bimbo domanda «Come sta?» si richiede la risposta
circa la propria salute, ed il ricambio della domanda, a cui il bimbo deve poi
rispondere alla sua volta. Senza contare che al bambino, il quale non è in
grado di comprendere nè di compatire la sofferenza di chicchessia, è affatto
assurdo di esporre il nostro stato di salute.
All'entrare della
persona che deve ricevere la visita, il bambino si ritirerà, limitandosi a
domandarne il permesso.
In tutte le
case però si ricevono visite, relativamente di confidenza, alle quali i bambini
possono assistere per qualche tempo. Allora, come in tutte le circostanze, non
debbono parlare colle persone adulte se non sono interrogati. Quando però una
prima interrogazione li ha invitati a discorrere, non debbono obbligare il
visitatore o la mamma a farli continuare il discorso a forza di domande, come
se recitassero il catechismo. Dovranno prender parte alla conversazione, senza
parlar troppo nè forte, ma senza soggezione ridicola, nè interruzioni nè
silenzi assurdi, finchè il discorso sia esaurito. E non entreranno in un
secondo argomento se non vi sono di nuovo invitati da una domanda diretta.
Se i
visitatori hanno con sè dei bambini, i piccoli padroni di casa si metteranno
accanto a loro dopo aver salutato i loro parenti, ed avvieranno il loro
discorso in modo da poterli invitare a giuocare; ma con naturalezza, e senza
che appaia o un'abitudine imparata, o un effetto della noia, che provano a
stare colle persone che sono nella sala.
Vi sono bimbi
che, chiamati in sala per una visita, vi accorrono tutti ansimanti, investono i
visitatori ad uno ad uno con un: «Come sta?» a bruciapelo come se dicessero:
«O la borsa o la vita!» e prima che l'ultimo interpellato abbia pagata la sua
imposta a quella curiosità simulata, si voltano ai bambini e dicono colla
stessa precipitazione:
¾ Andiamo
a giocare.
Bisogna
invitare il piccolo visitatore a giocare, ma senza fretta, e senza scortesia
verso la gente che è in sala. E quando il bimbo ha detto di sì, il padroncino
di casa deve rivolgersi a chi accompagna il suo giovine amico e domandare se permette
che il ragazzo vada con lui a giocare.
Una volta poi
ottenuto il permesso, bisognerà lasciare la scelta dei giochi agli ospiti; e
qualunque sia quello che scelgono, cedere a loro la parte più piacevole. È
superfluo il dire che un bambino educato non deve mai nè domandare un giocatolo
nè accettare un dono qualsiasi da un altro bambino, e neppure rispondere: «Se
la mia mamma e la tua lo permettono accetterò» come fanno taluni, per avere la
coscienza d'aver agito bene, senza tuttavia rinunciare affatto alla speranza
del dono.
Bisognerà
rispondere:
¾ Ti
ringrazio; ma sai pure che i bambini non possono nè fare nè ricevere doni.
¾ E se la
mia mamma lo permette? potrebbe insistere l'altro.
¾ La tua
mamma lo permetterebbe sicuro per non fare una scortesia alla mia mamma ed a
me; ma non bisogna metterla in questa necessità.
E per nessuna
insistenza non deve cedere e prestarsi a quella parte ridicola di giungere in
sala ad esporre le sconvenienti domande:
¾ Mamma,
sei contenta ch'io offra questo?
¾ Mamma,
mi permetti di accettar quello?
Se un bambino
va colla famiglia a far una visita, osserverà le regole che ho già accennate
riguardo al saluto, ed alla conversazione. Se nella casa dove va non vi sono
bambini, e gli tocca di assistere a tutta una serie di discorsi che non
comprende e non lo interessano, dovrà rimanere composto e non dare il menomo
segno di noia.
Convengo che
questo è difficile. Mi ricordo ancora certe discussioni interminabili a cui
dovevo assistere nella mia infanzia, tra la mia povera mamma ed una vecchia
baronessa inferma, che non aveva nessun bambino in casa, e teneva in sala tre
enormi cani barboni. Si parlava sempre di quitanze, ipoteche, usufrutto,
capitale ed interesse. Avevo imparate a memoria quelle parole, e qualche volta
mi sorprendevo a canticchiarle mentre giocavo colla bambola, ma mi erano oscure
come il Pape satan Aleppe, che mi ha tanto fatto pensare, ed impaurita
nei miei primi anni di scuola.
Un giorno
dopo aver assistito un'ora a quei discorsi inesplicabili, ed essermi fatto dire
parecchie volte, di non dimenare una gamba, di non strappar la frangia del mio
paltoncino, di non strofinare i nastri del cappello, di non agitarmi sulla
sedia, di non fare assolutamente nessuna cosa, ridotta all'immobilità d'una
piccola statua mal posata e punto artistica, sentii che la mia pazienza era
completamente esaurita; e tentai di porre fine a quel supplizio, ricorrendo
all'atto più incivile che possa fare una ragazzina per bene; dissi coll'accento
strisciante della noia:
¾ Mamma,
andiamo?
Vedo ancora,
dopo tanto, tanto tempo, la vampa di rossore che salì al volto della mia cara e
bella mammina.
Si rizzò
senza parlare. Era tanto educata, e sapeva che un rimprovero, fatto a me in
presenza alla vecchia signora, avrebbe fatto capire meglio l'idea inurbana, che
avevo implicitamente espressa:
«Mi annoio
mortalmente in sua compagnia.»
Ma la
baronessa non aveva bisogno che le si mettessero i punti sugli i. Si
alzò a stento, prese le mani della mia mamma nelle sue, e disse:
¾ Sì; va,
povera Nina. Anche tu devi annoiarti, così giovane e bella, a passare
tanto tempo con una vecchia; sono egoista quando ti prego di venire. Perdonami,
cara la mia figliola; sono inferma e sola. Ma non ho più molto da vivere; avrò
presto finito di annoiarti.
Ed il suo
povero volto, tanto rugoso, si raggrinzava, e le tremavano le labbra e la voce.
Piangeva!
La mia mamma
non rispose, aveva gli occhi gonfi. La baciò, le strinse la mano, ed uscì tutta
rossa e mortificata, come se quella villania l'avesse fatta lei.
Non mi disse
nulla. Non una parola di rimprovero. Capì che ero già castigata. Oh se lo ero!
Pochi giorni dopo
si disponeva ad uscire, senza avermi detto nulla.
¾ Non mi
vuoi con te, mamma? le domandai.
¾ No, vado
dalla baronessa.
Chinai il capo
avvilita. Era la mia punizione. Venivo espulsa dalla casa di quella venerabile
amica di mia madre. La baronessa morì pochi mesi dopo, senza che l'avessi più
riveduta.
Ma passarono
gli anni, mi feci donna, e non ho mai dimenticata quella scena dolorosa. Ed
anche ora, quando ci penso, sento al cuore la stretta di un rimorso. Non si
affligge impunemente una vecchia buona!
D'allora non
mi accadde mai piú di dimostrare la noia che provavo in compagnia. Tuttavia,
debbo confessare che la risentivo ancora e spesso. Ma per evitare alla mia
buona mamma un dispiacere, come quello che le avevo dato una volta, cercavo di
non farmi scorgere.
Quando mi
trovavo con parecchi altri ragazzi, si aveva l'abitudine di raccontar fole. Si
ripetevano quelle udite altrove, o se ne inventava, se ci pareva di poterci
mettere un po' di costrutto. Per lo più era un'illusione dell'amor proprio; ma
infine....
Mi venne
l'idea di scacciar la noia de' lunghi silenzi miei, e dei lunghi discorsi degli
altri che non comprendevo durante le visite, preparandomi in mente le fole che
dovevo dire. La prima volta che mi provai, fui stupita quando la mamma si alzò
per uscire. Mi pareva d'esser rimasta pochissimo in quella casa, e la fola era
tutt'altro che finita.
Consiglio
questo rimedio contro la noia, ai miei piccoli lettori. Oltre il vantaggio di
non offendere nessuno, s'impara a fantasticare ed a far castelli in aria, e
questa è una ginnastica che sviluppa l'immaginazione, ed avvezza alla
solitudine, ed al silenzio.
Mi ricordo
d'aver fatto da bambina dei castelli in aria, che, interrotti e ripresi, hanno
durato parecchi giorni; e ne serbo ancora memoria come di cari avvenimenti. Li
creavo a modo mio. Il mio spirito non poteva esserne contrariato, e vi si
manteneva sereno. E la serenità di spirito dà la pace al cuore e rende buoni.
Ed il mio volto esprimeva la soddisfazione interna; e quelle persone, se fossi
stata ad ascoltarle, coi loro discorsi m'avrebbero dato noia, credevano d'aver
parte alla mia soddisfazione, e ne erano contente, ed io più di loro. Sovente
da tutte quelle contentezze risultava l'offerta di qualche chicca, la quale
certo non poteva che aumentarle.
*
* *
Quando vien
fatto ad un ragazzo un invito perchè rimanga a pranzo, o a cena, o a passare
qualche giorno in campagna presso una famiglia che non è la sua, non deve mai
scusarsi con quei complimenti comuni e convenzionali:
¾ Non
vorrei dar disturbo;
¾ Grazie!
non posso accettare;
¾ Sarebbe
indiscrezione se accettassi, ecc.
Il bambino
non è padrone di sè. Non può disporre da sè, se accetterà o no l'invito; e
però, è inutile che si dia l'aria di rifiutarlo. Dovrà limitarsi a mostrarsi
molto lusingato dell'invito, rimettendosi al genitori, o a chi per loro, perchè
decidano in proposito.
Sia che
accetti o rifiuti, non deve mai, nè colle persone che lo hanno invitato, nè coi
ragazzi della famiglia ripetere le discussioni avvenute in casa, circa
l'invito; nè le osservazioni, nè i commenti uditi. Può darsi che la mamma dica:
¾ No. In
quella casa non si avvezzano abbastanza bene i ragazzi. Non voglio che i miei
si vizino al cattivo esempio.
Questo lo
dirà nell'intimità, col proprio marito, e, di comune accordo, troveranno una
scusa plausibile per non accettare l'invito senza offendere le persone, cortesi
ed ospitali, che l'hanno fatto. Ma guai se un ragazzo indiscreto avesse il
cattivo pensiero di ripetere a' suoi piccoli anici quell'osservazione!
Basterebbe a far nascere un diavolìo, a mettere la discordia fra due famiglie,
a screditare sè stesso e l'educazione che ha ricevuta.
Quand'anche
dal ripetere una parola udita, non dovessero risultare altri danni che quello
di fare un po' ridicolo il piccolo relatore, sarebbe sempre abbastanza per
consigliarle a non ripetere mai, se non i discorsi sui quali ha potuto
acquistare la certezza che le stesse persone, da cui li udì, non esiterebbero a
farli dove lui li ripete.
Anche a
questo proposito l'infanzia della piccola Gemma mi offre un esempio. Usciva
coll'istitutrice per andar in una famiglia dove spessissimo la trattenevano a
pranzo.
¾ Se
invitano la Gemma a pranzo, posso lasciarla? domandò l'istitutrice prima di
uscire, al babbo della bambina. Il babbo che s'annoiava di non averla a tavola,
rispose:
¾ Se le
fanno molte istanze, la lasci, altrimenti veda di ricondurla.
Infatti la
signora che andavano a visitare, disse alla bimba:
¾ Mi fai
il regalo di rimanere a pranzo, Gemmolina?
¾ Il babbo
ha detto che se mi fanno molte istanze posso restare, ripetè quella
pettegolina, senza saper neppure cosa volesse dire fare delle istanze.
Le istanze reclamate a quel modo le furono fatte; sfido io! Ma
l'istitutrice rimase male, ed il babbo pure quando lo seppe, al vedere rivelato
così, che in famiglia s'era quasi contato su quell'invito, e si erano prese
anticipatamente delle disposizioni in proposito. Sono cose che tutti fanno, ma
non si dicono mai.
Rimanendo
ospite in casa d'altri, un bambino educato dovrà mettersi in ischiera coi
bambini della famiglia, obbedire come loro, alzarsi, coricarsi, mangiare,
studiare, giocare, passeggiare, alle ore fissate pe' suoi piccoli compagni.
Soltanto, se
quelli si permettono qualche indisciplinatezza o qualche capriccio, allora si
guarderà bene dall'imitarli.
Andando in
giardino, si ricorderà sempre che i frutti ed i fiori non sono proprietà della
sua famiglia, e però non gli è permesso toccarli.
Trovando
qualche mammola, qualche ciclamino, o fragole selvatiche, o altre cose che,
siccome vengono naturalmente dalla terra, non si considerano proprietà
esclusiva di nessuno, le potrà cogliere ed offrire alla mamma, alla sorella, alla
zia, all'istitutrice de' suoi ospiti.
Ma deve
ricordarsi pure che le persone educate e gentili, accolgono con apparente
soddisfazione e con ringraziamenti anche una cosa di cui non sanno che farne,
per puro riguardo a chi l'offre. Per cui si guarderà bene dall'insistere sulla
stessa offerta, com'è pur troppo una noiosa abitudine dei bambini, che, se
vedono una signora gradire un fiore, seguitano a portargliene piene le mani,
pieno il grembiulino, obbligandola a caricarsi d'un fascio di fieno.
A tavola poi
dovranno osservare le stesse regole che ho indicate pel pranzo in casa propria;
ed anche con maggior scrupolo, perchè una sconvenienza commessa in casa
d'altri, acquista maggior gravità.
Fuori dalla
loro famiglia, se appena non sono più piccolissimi, non saranno serviti nel
piatto dalla mamma nè da altri. Passerà il piatto di mezzo davanti a loro come
davanti agli altri commensali, e dovranno servirsi da sè.
Prendano un
po' di tutto, accettando il pezzo che vien più comodo, e non istiano a fare una
scelta accurata da piccoli ghiotti, facendo aspettare il vicino. E si servano
sempre con misura, in modo da non lasciare avanzi sul piatto.
Dimentichino
addirittura le parole: "Non mi piace" come se non esistessero,
perchè, con quelle, sembra che vogliano fare un rimprovero ai padroni di casa
d'aver fatto servire una cosa che non ha la fortuna d'incontrare il loro gusto.
Se vi sono
bambini di casa, i piccoli invitati si ritireranno da tavola quando si ritirano
loro, altrimenti aspetteranno di riceverne un ordine diretto.
Uscendo da
una casa dove sono stati a pranzo, i bambini, come tutti gli invitati, sono
tenuti ad un ringraziamento ai padroni di casa. Ma sono caldamente pregati di
non cercare di fornir complimenti imitati da qualche signore o signora, per far
il ragazzo di spirito ed attirar l'attenzione. Riescirebbero soltanto ad
apparir pedanti, pretenziosi e ridicoli. Si limitano a dire: Tante grazie e
buona sera, o qualche cosa di simile; ma molto simile, perchè i bambini, nuovi
al mondo, non si rendono ben conto del valore delle parole, non sanno quello
che va detto, e quello che non va, e facilmente sbagliano.
Conosco un
ragazzino di sette anni e mezzo che, uscendo da una casa dove era stato a
pranzo, disse al padrone di casa, coll'aria di un giudice supremo che decreta
un'assolutoria:
¾ Votre
dîner a été bon. Je vous remercie. SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Aveva la cattiva abitudine di parlar francese anche in
compagnia.
Tutti risero
di quello strano complimento, e lui si credette il bambino più spiritoso dei
due mondi, mentre l'ilarità generale era nata dalla grottesca figura che faceva
erigendosi lui, così piccino, a giudice culinario; e dichiarando
implicitamente, che non avrebbe ringraziato se il pranzo non gli fosse sembrato
buono.
*
* *
Alla scuola,
in collegio, gli stessi doveri che si praticano in casa verso i genitori si
debbono praticare verso i maestri; agli stessi obblighi di civiltà a cui si è
tenuti in società verso i conoscenti, si è tenuti verso i compagni.
Nulla è più
scortese che quel saluto gettato là dall'uscio della classe, con una cadenza da
lezione obbligatoria, che è purtroppo il saluto generale degli scolari ai
maestri:
¾
Riverita, signora maestra!
E si va in fretta
a far quel saluto, e si grida tutte in coro, qualche volta tra piccoli scoppii
di risa soffocate, e poi, via correndo, come se si dicesse
¾ Là!
anche questa è fatta.
"J'étais
enfant; j'étais petit; j'étais cruel;"
Tout homme
sur la terre, où l'âme erre asservie,
Peut
commencer ainsi le récit de sa vie.
Così dice
quel grande de' grandi che è Victor Hugo. E dice il vero. Se sapessero i
ragazzi quanto sono crudeli verso quel maestro dal quale fuggono così, senza
una parola affettuosa!
Quel maestro
vive per loro. Oh! se si voltassero indietro a vedere com'è triste,
quell'essere solo in una scuola deserta!
Il saluto al
maestro deve essere fatto con calma, accostandosi alla cattedra. Non si deve
però sporgere la mano, nè domandare un bacio. Una scuola si compone di trenta o
quaranta scolari, spesso di più; sarebbe indiscrezione e da stupido imporre ad
una persona quaranta strette di mano o quaranta baci.
Nulla è più
villano che il mettere in caricatura i propri maestri, anche quando non se ne
possono avvedere.
Io aveva
questa pessima abitudine. Quando mi riusciva d'impadronirmi della cuffia e
della tabacchiera d'una vecchia maestra di disciplina, e d'imitarne il
portamento ed i modi, le mie compagne si divertivano straordinariamente. E che
applausi! Che ammirazioni! Io credeva di fare qualche cosa di molto spiritoso,
ed una volta non seppi resistere al desiderio di mettere a parte la mia
famiglia di quel mio talento peregrino, e dei miei trionfi.
¾ Ebbene,
di che cosa ridete? domandò la mamma.
¾ Ma della
signora maestra.
¾ E che
cosa ha di ridicolo la maestra?
¾ È
vecchia.
¾ E poi?
¾ E
poi.... non altro.
¾ E allora
cosa c'è da ridere?
Infatti cosa
c'era da ridere? Ero stata cattiva, incivile, e stupida per giunta.
*
* *
Un ragazzo
che entra per la prima volta in una scuola, o in un collegio, è dolente per la
famiglia lasciata; è timido in quell'ambiente nuovo, ed ha bisogno d'essere
consolato, incoraggiato.
Invece per lo
più, appena esce alla ricreazione, si vede venir incontro due o tre monelli (o monelline),
i più impertinenti nella scuola, che gli fanno subire un interrogatorio goffo,
indiscreto, brutale.
¾ Come ti
chiami? I tuoi parenti sono ricchi? Cosa fa il tuo babbo? L'abito di uniforme
lo hai già fatto? È fine? Il mio è dei più belli del collegio. E questo era il
tuo abito da passeggio? Di seta ne avevi? E di velluto?
E via di
questo passo un piccolo inventario della guardaroba sua e della sua mamma, poi
delle abitudini di famiglia; se si va in campagna, e se la campagna è bella, ed
un mondo di calcoli insulsi e volgari, a cui i bambini non dovrebbero nemmanco
pensare.
E, quel che è
peggio, l'accoglienza che gli si fa è misurata sul grado dell'agiatezza della
famiglia, che si desume dalle risposte del ragazzo.
Per poco che
un ragazzo sia perspicace, sente l'intenzione dei piccoli inquisitori, e, se il
suo animo non è più che leale e candido, s'induce a mentire per evitare delle
umiliazioni.
Ho conosciuta
una bambina, figlia di un mercante di mobili, che si fece passare, durante i
tre anni di collegio, per figlia di un possidente. Otto anni dopo la rividi;
eravamo due giovinette. Sua madre pregò il mio babbo di lasciarmi andare a
passar alcuni giorni a Vercelli con sua figlia. La poveretta si fece di brace e
non appoggiò l'invito. Mio padre non accettò. Pochi giorni dopo mi scrisse
confessandomi d'aver mentito la sua condizione in collegio, perchè s'era
accorta che esser figlia di gente che aveva bottega era la cosa più vergognosa
che si potesse immaginare nella nostra stupida aristocrazia da collegiali. Dopo
otto anni duravano ancora le funeste conseguenze di una volgare abitudine da
scolarette.
Un altro
fatto anche più disgraziato.
Il mio nonno
molte volte, mentre era fuori con me, mi aveva fatta entrare in un botteghino,
dove si provvedeva di carta, inchiostro e tutto quanto gli occorreva per lo
studio.
In quel
botteghino, oltre la donnetta che serviva al banco, vedevo spesso una ragazza
lunga, allampanata, timida, che non osava guardarmi, e si faceva di brace se la
guardavo io.
Quando fui in
collegio, un bel giorno vidi entrare in classe un'esterna, che riconobbi subito
per la figliola del botteghino, sebbene lei, tutta vergognosa, fingesse di non
conoscermi.
Allora,
sempre dietro quella falsa idea che i bottegai fossero bassa gente, e
l'avere bottega fosse cosa umiliante, da vergognarsene, mi venne l'ispirazione
generosa di avvertire tutte le esterne che la mamma di quella ragazza aveva un
botteghino da cartolaio nella contrada del collegio; e che si guardassero bene
dall'andare là a provvedere i quaderni, ed i fogli da compiti, e le penne.
Avrebbero potuto incontrarvi la ragazza, che ne sarebbe stata mortificata...
Era tanto timida... bisognava risparmiarle un'umiliazione.
Le mie compagne, grulle quanto me, seguirono il
generoso consiglio. Ed io era soddisfatta di me, ed un po' gloriosa dell'opera
mia. Nel segreto del mio cuore mi aspettavo se non un ringraziamento, da quella
ragazza, troppo timida per essere espansiva, uno sguardo di riconoscenza, una
stretta di mano, un cenno qualunque che mi provasse che non era ingrata.
Invece mi
parve che diventasse ancora più selvatica, e che, quando per caso incontravo i
suoi occhi, mi guardassero con un'espressione di malevolenza.
Ne concepii
una triste idea del suo carattere, che non sentiva gratitudine per la squisita
delicatezza del mio tratto, e tra me e le compagne se ne parlava con
indignazione.
Ve ne furono
alcune che dissero:
¾
«Meriterebbe che s'andasse tutte quante a comperare quaderni e ogni cosa nel
suo botteghino, per mortificarla!»
Ma io,
clemente, le pregai di non farle subire un castigo così severo.
Una mattina
quella selvaggia entrò in iscuola più rossa e timida del solito, e passò alla
cattedra a consegnare una lettera alla maestra; poi, nel rasentare i nostri
banchi da convittrici per andare al suo fra le esterne, che era più indietro,
mi volse un'occhiata addirittura di sfida. Io pensava che a questo mondo «si è
più sovente puniti di una buona azione che d'una cattiva»; pensavo che a «far
bene si trova male» ed altre riflessioni sull'ingratitudine umana, quando la
maestra, dopo aver letta la lettera, domandò alle esterne se era vero che
avevano tutte cessato di provvedersi di quaderni alla bottega Tale dei tali.
Si udirono vari sì male articolati, timidi, soffocati, poi una, la più
ardita, si alzò e rispose francamente.
¾
Sissignora.
¾ Perchè?
¾ Ma...
perchè ora che viene a scuola con noi la figlia della... cartolaia, non
volevamo mortificare una nostra compagna andando a comperare... non si sarebbe
potuto fingere di ignorare che la sua mamma ha una bottega....
Io trovai
quell'esterna indelicata d'aver detto tutto questo alla presenza della
poveretta, ma arrossii di modesto orgoglio al pensiero che quella gentilezza
l'avevo immaginata io, e m'aspettavo un po' confusa che la maestra cercasse
l'origine della cosa, e mi lodasse pubblicamente....
Invece ella
diede sulla voce all'esterna.
¾ Ma che
bisogno c'è di ignorare che la sua mamma ha una bottega? Perchè volete che se
ne debba mortificare? Ne avete più di grullerie da mettervi in testa? Quella
buona signora ha cercato apposta un negozio nella contrada, per aver la pratica
della scuola, e mi scrive lagnandosi di averla perduta, e domandandone il
perchè. Sapete che la vostra stramberia la mette in tali imbarazzi da farle
quasi chiudere il negozio? È una crudeltà quella che avete fatto, oltre ad
essere una sciocchezza. Il commercio, sia grande che piccolo, non ha mai fatto
torto a nessuno....
E faccio
grazie del resto della predica, che è facile immaginarsi.
*
* *
Ai balli da
bambini, i piccoli padroni di casa debbono sacrificarsi un pochino, ballando a preferenza
con quelli che, o per essere troppo piccini o troppo timidi, rimangono
trascurati. Alle volte vi sono bimbi che non sanno ancora ballare, ma al vedere
quel movimento insolito, all'udire la musica, sono invasi da una grande smania
di prender parte all'agitazione generale. I parenti li trattengono perchè non
vadano ad impacciare le figure danzanti; e loro, se sono docili, obbediscono a
malincuore; se sono indisciplinati fanno dei capricci; ad ogni modo, invece di
divertirsi si trovano contrariati ed infelici.
Un po' di
abnegazione da parte dei piccoli padroni di casa, che tratto tratto li vadano a
prendere, e, tenendoli per le manine li facciano saltare in giro, dando loro
l'illusione di ballare come gli altri, basterebbe ad evitare ogni guaio. E la
gioia di vedere quelle piccole creaturine col visetto infiammato, la bocchina
aperta in un riso tripudiante, e gli occhietti scintillanti di piacere, darà a
quei buoni figlioli un largo compenso pel piccolo sacrificio che fanno. È così
bello il sentire che abbiamo in noi la facoltà di rendere qualcheduno felice!
Ed è così triste veder piangere quei cari piccolini che non sanno ancora nulla
della vita!
Quest'inverno
andai più volte ad un ballo settimanale pei bambini, dove c'era sempre una
povera fanciulletta inferma. Aveva sette anni e stava ancora in braccio alla
bambinaia; non poteva nè camminare nè moversi, e parlava con fatica.
Ed era una
cosa commovente e cara vedere alcune giovinette che appena avevano cessato di
ballare, non dimenticavano mai d'andare un momento a farla discorrere, a
portarle un confetto, un fiore.
Al buffet era
una nobile gara a chi prenderebbe prima il gelato da offrire alla piccola
inferma; e bisognava vedere con che buon garbo glielo facevano pigliare, ¾ perchè
non poteva fare da sè ¾ e come
le parlavano di cose serene senza mai alludere alla sua disgrazia.
Debbono avere
un bel cuore ed una buona mamma le bambine che sanno, nella foga d'un
divertimento, comportarsi a questo modo.
Udii una
bellissima e giovane mamma, che esortava la sua bambina ad imitarle.
¾ Se ci
vai, le diceva, se ti fai forza per vincere la tua timidezza ¾ perchè
non ti farei il torto di credere che sia ripugnanza o mala voglia, ¾ più
tardi ti troverai contenta di pensare che quella povera bimba malata si
ricorderà di te, e ti vorrà bene, perchè sarai stata cortese con lei e l'avrai
aiutata con qualche buona parola a dimenticare che non può muoversi e
divertirsi come le altre.
La bambina
esitava sempre; crollava le spalline, faceva delle smorfiette un pochino
sprezzanti, un pochino altere. Ah! lei non sapeva, poverina, cosa fossero
malattia, privazioni, sofferenza. Chissà forse che nel suo piccolo cervello
inconsapevole sentisse una certa vanità del proprio benessere, della propria
bellezza, e credesse di umiliarsi accostandosi a quella bimba disgraziata e
sdegnasse di farlo.
Allora la
bella e buona mammina fece il viso serio e disse:
¾ Io t'ho
dato un consiglio, t'ho detto quello che sarebbe tuo dovere. Pensaci e fa come
il cuore ti dice. Non voglio farti far nulla per forza.
Ma mentre
parlava era triste, e poco dopo, non trovandola più accanto a me, guardai in
giro e la vidi inginocchiata presso la bimba malata che la faceva discorrere e
la divertiva.
Le mamme
buone fanno come Gesù Cristo; predicano colla parola e coll'esempio, ed i
bambini, fortunati loro! non hanno che imitarle.
*
* *
Una delle
cose che incontra più resistenza presso i fanciulli è l'adempimento dei doveri
religiosi.
Non è il caso
di discorrere qui del grado di devozione che possono avere, e tanto meno di
discutere sulla maggiore o minore utilità delle pratiche religiose in rapporto
alla loro età, ecc.
Le modeste
frivole convenienze sociali, che formano il tema di questo modesto e frivolo
libriccino, s'insuperbirebbero troppo di vedersi un momento innalzare al grado
d'una questione religiosa; e le famiglie mi direbbero, con ragione, che sono
uscita dalla linea di demarcazione che mi ha tracciata il titolo del mio
lavoro.
Del resto,
parlo ora ai fanciulli; e, per loro, il sistema adottato dalla loro famiglia
per educarli è sempre il migliore. Se la mamma, il babbo, o chi per loro, crede
bene di condurli in chiesa, qualunque sia la disposizione del loro spirito,
debbono starci con un contegno rispettoso e tranquillo. Non borbottino
all'orecchio di chi li accompagna, non urtino col gomito i fratellini o gli
amici, non sussurrino fra loro, non ridano, non si voltino a guardare qua e là:
e quando si cantano salmi o litanie non strillino come matti per il piacere di
cantare, se sanno d'aver la voce stonata, come è frequente nei bambini, che
metterebbe la confusione nel coro.
E qui debbo
far punto. Sento dire che il mio lavoro non è destinato specialmente ai
bambini. Tutt'alpiù, è permesso loro di occupare le poche pagine che ho scritte
fin, qui nel libro scritto per le loro sorelle, le loro mamme, ed anche un poco
pei loro babbi.
Che farei,
miei piccoli amici? Per ora dobbiamo lasciarci. Ma lo faccio con
rincrescimento. È vero, le loro mamme li guideranno assai meglio di me. Ma ciò
non toglie che avrei voluto farlo un po' più lungamente anch'io.
Non ne ho
forse il diritto, io la bisnonna centenaria di parecchie generazioni?
Forse un
giorno riprenderò questo lavoro, lo amplierò, lo completerò, e ne farò un
volume a parte, dedicato unicamente all'infanzia, ai volti rosei, alle testine
bionde, che Dio le benedica!
Intanto, quando,
parlando alle mamme, avrò ancora, per inciso a parlar di loro, saranno le ore
meno faticose, le più care di questo lavoro, arduo per me, e forse seccante per
chi lo legga.
Purchè non
riesca inutile affatto, sarà già qualche cosa.
|