CAPITOLO
II.
La
sposa.
Annuncio
delle promesse ¾ Visite ¾ Corredo ¾ Doni
nuziali ¾ La sera
del contratto ¾
Circolari ed inviti ¾ Al
municipio ¾ Colazione
¾ In
chiesa ¾ Viaggio
di nozze.
Ecco; il
tempo ha già mutate le circostanze. Omai i babbi hanno finito di parlamentare a
lungo in segreto col notaio. Sono perfettamente d'accordo su tutti i punti. Il
contratto è tutto steso come si dovrà leggere a suo tempo; ed il matrimonio è
fissato a due mesi di data.
Non si va
ancora a teatri nè a feste. Ma la vita è tutta una festa.
Ormai il
matrimonio non è più un segreto per nessuno. Si mandano agli amici ed ai
conoscenti dei bei cartoncini levigati sui quali è litografato in caratteri
inglesi:
Elisa
Elisei SYMBOL
190 \f "Symbol" \s 12¾ Bernardo Bernardi
Promessi
sposi.
Un poema!
E lo sposo ha
già offerto alla sua futura compagna un ricordo; di poco valore ma tanto caro!
E dietro l'invio di quegli annunci è venuta in casa una pioggia di carte da
visita colle iniziali P. C. scritte a mano che vuol dire per
congratulazioni. ¾
Profondamente sentite come profondamente espresse. ¾ Ma cosa importa? La sposa ha tanta
esuberanza di gioia, e d'affetto nel cuore, che può metterne dove mancano.
E tutti
quelli che incontra, tutti i visitatori si rallegrano con lei, e le fanno
augurii, e si mostrano così contenti, che finisce col persuadersi che il suo
matrimonio forma la felicità di mezzo un paese.
E scrive la
grande nuova alle amiche lontane; e tra lettera e lettera vi sono i mazzi di
fiori, e le scatole di dolci che porta lo sposo, e che lei può accettare,
ormai, liberamente. E la mamma tratto tratto ha una piccola faccenduola, che la
chiama nella stanza vicina; è lì, coll'uscio aperto, senza dubbio; ma è tanto
presto fatto dirsi una parola:
¾ Non è
pentita della sua promessa?
¾ Pensi!
¾ Mi dia
la mano. Dica, mi vuole un po' di bene?
¾ Stia
zitto. Viene la mamma.
¾ Soltanto
una parola, dica?
¾ Lo sa
pure.
Tutte le
dichiarazioni da commedia, non riesciranno mai a ritrarre la poesia di quelle
paroline esitanti e misteriose.
E tutto
questo una sposa lo può fare, senza la menoma sconvenienza.
Intanto la
sarta le prepara un bell'abito nuovo, da signorina, ma più elegante di quelli
che ha portati fin allora; e la sposa, tutta ornata di quella nuova
abbigliatura e della nuova gioia, va colla mamma a presentare lo sposo ai
parenti ed agli amici più intimi.
E si fanno
gli itinerari pel viaggio; si può parlarne liberamente.
¾ Andremo
qua, e là, e poi là. Staremo fuori tanto tempo; vedremo questo e quell'altro.
Ed il
corredo? La sposa ne ha stesa la lista, ha assistito colla mamma a tutte le
compere. Ha scelti lei tutti i modelli, le tele, le guarnizioni. E, man mano
che ne giunge una parte, è lei che la riceve dalle mani delle operaie, ed
esamina accuratamente oggetto per oggetto, prima di accettarli. Sarebbe
trascurata una sposa che non facesse tutto questo.
È una dolce
occupazione, continuamente interrotta da dolci improvvisate. Tutti i parenti le
mandano, o le portano un dono. Lei non ha che da accettare, ringraziare, esser
contenta, e, ad ogni visita dello sposo, rendergli conto di tutte quelle
novità, ed esser contenti in due.
Ma la gioia
delle gioie l'aspetta la mattina del giorno fissato pel contratto. Lo sposo le manda
una scatola, un cofanetto, un tavolino da lavoro, un oggetto a sua scelta, che,
qualunque ne sia la forma, è sempre una cornucopia della fortuna dal quale
escono ogni sorta di meraviglie. Sono i doni nuziali, ¾ quello che i Francesi ed i
Piemontesi chiamano il Panier galant, e che, per regola generale, deve
rappresentare un valore tra il cinque ed il dieci per cento della dote della
sposa. Ma una sposa per bene non fa questi calcoli: o se ha il cattivo pensiero
di farli, deve avere il buon gusto di non esprimerli, neppure colla propria
famiglia.
In quel
cofanetto trova l'abito bianco sacramentale pel giorno delle nozze, alcuni
altri abiti; uno o più scialli turchi, e di Casimira. Se lo sposo possiede
trine di famiglia, la loro tinta giallognola apparirà tra i freschi colori
delle stoffe moderne. Altrimenti saranno due guarnizioni di trine moderne e di
valore che faranno le veci; per lo più una di Bruxelles ed una di Chantilly.
E finalmente una schiera di buste di velluto, colle iniziali del
nuovo nome che la sposa sta per assumere, cioè del suo nome e del cognome dello
sposo. Sono: i brillanti, ereditari o nuovi, che lo sposo può offrirle; un
finimento completo d'oro e pietre; parecchi anelli; insomma i gioielli più o
meno sfarzosi, a seconda della ricchezza e generosità dello sposo, fra i quali
primeggerà la famosa catena coll'orologio, che la sposa porterà quella sera
stessa al contratto.
Qualche volta
lo sposo presenta in persona i doni, ma è sconveniente. Obbliga la sposa e la
sua famiglia a fare meraviglie e ringraziamenti ripetuti, per ogni oggetto, a
misura che li osservano; e mette sè stesso nella situazione imbarazzante di
stare ad aspettare, ad una ad una, quelle esplosioni di riconoscenza, e di
rispondere a ciascuna con un complimento, che, per l'identica uniformità del
caso, può avere ben poche varianti.
Uno sposo
ammodo manda i doni il mattino, e ne riceve i ringraziamenti, tutti in una
volta, più tardi, quando va a fare la solita visita.
I doni
vengono esposti col corredo nella camera della sposa, dopo la lettura del
contratto, tutti gli invitati sono condotti ad ammirarli.
È un'usanza
brutale, perchè, sebbene in molti casi lusinghi l'amor proprio del donatore,
stabilisce sempre dei confronti indelicati. Infatti, dopo quelle esposizioni, è
raro che non si sentano dei commenti di questo genere:
¾ Che
spilorceria il dono della tale signora!
¾ E quello
della tal'altra, che cattivo gusto!
Ed in causa
dell'esposizione i doni nuziali si fanno, più che per islancio di cuore, per
quello che dirà la gente; le famiglie poco agiate s'impongono dei sacrifici per
far buona figura all'esposizione dei doni, e difficilmente combattono un vago
risentimento contro la sposa, che fu la causa involontaria di uno squilibrio
nel loro bilancio.
Ed il corredo
poi.... via, proprio non so approvare che venga messo in mostra a quel modo.
È un fatto
indiscutibile che si usa.
La signorina
Rotschild, che maritandosi ebbe un corredo di dugento cinquantamila lire in
biancheria, aveva consacrate parecchie camere all'esposizione delle camicie,
delle gonnelle, dei calzoni. I giornali ne fecero minute descrizioni.
Ma, dopo aver
adempito al mio debito accennando quest'uso, sento il bisogno di aggiungere, a
titolo di consiglio, che sarebbe meglio non seguirlo. Mi sembra che quelle
biancherie, tanto intimamente personali, debbono avere il loro pudore, o
piuttosto, che facciano parte del nostro. Una giovinetta non può a meno di
arrossire, mostrando ad un uomo le sue camicie.
Io conosco
una bella sposina, maritata da parecchi anni; la vigilia delle sue nozze, un
giovinotto, che frequentava la casa, mi descrisse il corredo, poi soggiunse:
¾ Mi ha
fatto veder tutto. Fino le calze che metterà domani.
Non ho mai
potuto dimenticare quella circostanza. La confidenza, fatta ad un giovine,
delle proprie calze, mi ha spoetizzata. Ancora adesso, quando incontro per via
quella bella donnina, comunque sia vestita, traverso il velluto, il raso, la
seta, un'illusione ottica mi fa vedere le sue calze.
E sarei
pronta a scommettere che quel giovinotto prova la stessa illusione.
Cosa ne
penserebbe la bella signora se lo sapesse?
E,
sopratutto, cosa ne penserebbe suo marito?
Lo sposo
dovrà mandare un dono anche alle sorelle ed ai fratelli nubili della sposa; e
la famiglia di lui ne offrirà alla futura parente. Quella sera la sposa
distribuirà i suoi gioielli da signorina alle sue amiche più intime.
Nè la sposa,
nè la sua famiglia, debbono far doni allo sposo. Però vi sono paesi in cui la
futura moglie deve offrire al futuro marito uno spillo di brillanti, in segno
di unione. Pare che là non conoscano il proverbio:
"Dono che punge, l'amor disgiunge."
Ad ogni modo,
in questa, come in tutte le circostanze in cui vi sono formalità convenzionali
da compiere, la perfetta convenienza sta nell'uniformarsi agli usi del paese
dove si vive, e non a quelli del paese proprio, quando se ne vive lontano;
poichè nulla è più indelicato ed egoistico, che il respingere i costumi della
città dove siamo ospitati.
Il contratto
nuziale viene letto dal notaio, ad alta voce e per intero, alle persone
invitate, e, dopo la lettura, lo sposo deve essere il primo a sottoscriverlo.
Porge poi la penna alla sposa; in seguito firmano i parenti, ed ultimi
gl'invitati, cominciando dalle persone più ragguardevoli per età e grado
sociale.
Tutte le
persone che firmano il contratto, se non lo hanno fatto prima, sono in dovere
di mandare un ricordo alla sposa.
Debbo aggiungere,
e confesso che lo aggiungo con piacere, che, da qualche tempo, le persone
d'animo raffinato vanno smettendo quest'usanza indiscreta di leggere i fatti
loro dinanzi ad una numerosa società. Può darsi che la sposa abbia una dote
modestissima, che il babbo, un po' avaro, le abbia ristretta oltremodo la somma
destinata al corredo. Quegli indifferenti invitati, che sono là per divertirsi,
si divertiranno facendo commenti:
"Per
quella dote avrebbe l'obbligo d'essere un po' più bella.... la legge di compensazione.
"Duemila
lire di corredo! Ma se farà una malattia le verranno meno le lenzuola."
Oppure è lo
sposo che non ha un patrimonio corrispondente alla dote, e patisce
un'umiliazione, che la delicatezza della sposa deve sapergli risparmiare,
sopprimendo la formalità della lettura del contratto.
Anche quando
tutto è perfettamente equilibrato, c'è sempre, se non altro, il gergo notarile
che fa ridere.
Ultimamente
ho assistito ad un contratto; lo sposo aveva varcato il mezzo secolo, e la
sposa gli stava indietro di poco. E quel buon uomo di notaio non la finiva di
ripetere che erano maggiorenni.
Oh mio Dio!
Chi ne dubitava?
Udii un
cugino della sposa che diceva ad un altro cuginetto di diciott'anni:
"Come!
Rita è già maggiorenne? Ed io che ti avevo preso pel suo tutore!"
In quello
stesso contratto, descrivendo le proprietà dello sposo, il notaio leggeva d'una
casa "ed annesso giardino con cinta di muro, chiuso da doppio
cancello."
"Sfido!
dicevano gl'invitati, con una sposina appena maggiorenne le precauzioni non
sono mai troppe. Ai due cancelli bisogna mettere due catenacci."
*
* *
Otto giorni
prima del matrimonio, si mandano le circolari alle persone che si vogliono
invitare, indicando l'ora in cui si andrà al municipio, alla chiesa, ecc.
L'invito deve essere su cartoncino lucido, diviso per metà da una linea
verticale. Alla destra, sarà stampato l'invito a nome dei parenti della sposa,
a sinistra quello dei parenti dello sposo.
Le signorine
mature, che vivono sole, faranno l'invito a nome proprio; ed in tal caso lo
sposo, anche avendo i genitori, dovrà fare altrettanto.
Oppure la
sposa si fa fare, per la prima volta, delle carte da visita col suo nome da
signorina, (è l'unica circostanza in cui le sono permesse) e si mandano ai
conoscenti le carte da visita dei due sposi, unite da un anellino d'argento o
d'oro.
Però
quest'uso, nato pochi anni sono, è già quasi abbandonato. Ed infatti, perchè
voler fare da sè, e mettere da parte i genitori, che hanno sempre annunciato
loro i matrimonii dei loro figlioli? Sembra che gli sposi si vogliano
emancipare con quelle carte da visita personali. Si emancipano già col
matrimonio; perchè togliere a genitori quell'ultimo atto di tutela, che non
impone nessun vincolo, ed è un segno di rispetto? Io lascerei le carte da visita
alle vedove ed alle zitellone orfane. Ma finchè una sposa ha i genitori,
qualunque sia la sua età, sono loro che la maritano, è da loro che lei riceve
la mano dello sposo che ama…, o che non ama; e tocca a loro annunciarlo alla
società.
*
* *
Nell'epoca di
positivismo in cui viviamo, si usa fare prima il matrimonio civile, e dopo
l'ecclesiastico; prima il contratto, poi la cerimonia; prima la prosa, poi la
poesia.
Per recarsi
al municipio la sposa fa una toletta, elegante quanto vuole, ma sempre una toletta
da visita, col cappellino assortito. La sposa, che quel giorno è il personaggio
più importante, siede a destra nella prima carrozza, a sinistra sua madre, o
quella parente che ne fa le veci. Sulla panchina dinanzi siedono, in faccia
alla sposa, il suo babbo, in faccia alla madre, il testimonio della sposa.
Nella seconda
carrozza si mette lo sposo coi suoi genitori, o se non li ha, con quel parente
che li ha suppliti nella domanda di matrimonio, e la signora che l'ha assistito
nella compera de' doni, e nell'allestimento della casa; con loro deve entrare
il testimonio dello sposo.
Nelle altre
carrozze si collocano i parenti e gli invitati. Tutto il corteggio parte dalla
casa della sposa.
Per lo più, tornando
dal municipio, si offre agli invitati una colazione, che deve dare la famiglia
della sposa in casa sua. A tavola gli sposi siedono vicini; a destra dello
sposo la suocera, a destra della sposa il suocero.
Dopo la
colazione la sposa cambia d'abito. Si veste di bianco col velo ed i fiori
d'arancio; oppure toglie solamente il cappello e si mette il velo bianco. Ed
all'ora stabilita, coll'ordine di prima si parte pel matrimonio ecclesiastico.
La sposa entra in chiesa dando il braccio a suo padre, e ne esce dando il
braccio al padre dello sposo. Lo sposo entra accompagnando la suocera. Il
babbo, che rimane libero, dà il braccio alla mamma che rimane libera in tutti e
due i casi. E nel ritorno, la sposa entra in carrozza colla suocera, ma non
prende più la destra.
La cerimonia
è compiuta, passata. Ella cessa d'essere nella situazione eccezionale di sposa:
è una giovine signora, e deve alla suocera, ed alla vecchia signora, il
riguardo di cederle la destra in carrozza. Il suocero si colloca in faccia alla
sposa; lo sposo in faccia alla propria madre.
In molti casi
si differisce il matrimonio ecclesiastico fino alla sera o al mattino seguente,
ed allora invece d'una colazione, la famiglia della sposa offre un pranzo.
Le spose che
hanno passato i venticinque anni non si vestono di bianco. Ed ora
l'indifferenza scettica da cui siamo dominati va abolendo quel costume anche
nelle giovani, ed accade di vedere giovinette di sedici o diciott'anni che
vanno a marito senza l'abito bianco nuziale.
Non posso a
meno di dire che fanno male. Capisco le prime. La loro età richiede una serietà
maggiore. Ma una giovine sposa perchè toglierebbe una parte di solennità a
quella cerimonia che è la più importante della sua vita?
Ho conosciuto
una signorina, che per una serie di circostanze troppo lunghe a ripetersi,
dovette maritarsi sull'alto d'una montagna, dove possedeva un villino, e nel
cuore dell'inverno. Il suo villino non aveva cappella, e c'erano due miglia di
strada, impraticabile alle carrozze, per scendere ad una chiesuola del
villaggio. E tuttavia si vestì di bianco, e fece, in quel gelido costume, la
lunga strada sulla neve, per inginocchiarsi in abito nuziale accanto al suo
sposo, che anche lui era rigorosamente in abito nero. Confesso che, quando mi
narrò questo particolare delicato, ne fui profondamente commossa.
Le signorine
mature, per lo più, semplificano la cerimonia andando prima al municipio, e di
là direttamente alla chiesa in completo costume da viaggio. Vanno alla
colazione così, e partono senza cambiar toletta.
Le vedove che
si maritano devono fare lo stesso. Nel matrimonio d'una vedova, qualunque pompa
è della massima sconvenienza. In chiesa una vedova deve fare il matrimonio a
porte chiuse; non deve mandare prima delle nozze la partecipazione della
promessa; non fa inviti.
Dopo il
matrimonio, entro otto giorni, si mandano le circolari coll'annuncio che il
matrimonio ha avuto luogo.
Le
partecipazioni dopo le nozze sono di primissima necessità, e si deve essere
larghi nel distribuirle anche alle lontane conoscenze. È un riguardo che lo
sposo deve a sua moglie, per non esporla ad incontrarsi, essendo al suo
braccio, con qualche compagno di gioventù di lui, che la prenda in fallo, o con
qualche signora che esiti a salutarla. Tutte le conoscenze dello sposo debbono
essere informate del cambiamento, avvenuto nella sua situazione, ed aspettarsi
d'incontrarlo colla moglie, per essere pronte a salutarla come tale. Per questo
riguardo anche le vedove debbono mandare le partecipazioni del matrimonio
compiuto.
Tutte le spese
del matrimonio, comprese le carrozze, se le rimesse delle famiglie non le
forniscono, sono a carico dello sposo.
Una volta
era, se non un obbligo, un'abitudine per la sposa di sciogliersi in lacrime
nell'andare all'altare. Gli occhi umidi ed accesi, le labbra tumide, il naso
rosso come una ciriegia, facevano parte della tenuta di rigore per una sposina
ammodo. Lo sposo, se non altro per amore di simmetria, non doveva mostrarsi
lieto, in faccia a tanto dolore; si atteggiava al più profondo compianto, dinanzi
alla lacrimevole situazione della fanciulla. Il sacerdote, compreso della
necessità di mettersi all'unisono, recitava un predicozzo straziante ai due
sventurati giovani, e tutte le signore lacrimavano nelle pezzuole ricamate. Se
un indiano fosse entrato in una chiesa durante la cerimonia nuziale, al vedere
il pubblico, e specialmente la sposa in quello stato di desolazione, l'avrebbe
creduta una suttie, da ardere sul rogo del marito estinto.
La prima
sposa giovane che fu veduta maritarsi senza piangere, fu la principessa
Margherita. Tutti sanno che a Torino vi sono, o vi erano allora quattro
signorine di famiglie patrizie, le quali avevano il gentile diritto di
accompagnare all'altare le principesse della casa reale e di portare poi in
capo quando andavano a marito, gli stessi fiori portati dall'augusta sposa.
Ereditando i fiori della principessa Margherita, quelle signorine ne
ereditarono naturalmente il diritto di non piangere. Ed infatti la cronaca
assicura che quando si sposarono non si presentarono cogli occhi gonfi e col
naso rosso.
Fin d'allora
dunque le lacrime furono messe da banda, a grande soddisfazione degli sposi,
che s'accomodavano male di quelle scene in cui facevano la parte di necrofori,
seppellitori di Vestali.
Questo non
vuol dire che le signorine amino meno la loro famiglia, e ne sentano meno il
distacco. Si sono fatte più coraggiose e ragionevoli; hanno compreso che le
loro lacrime non farebbero che affliggere maggiormente i loro cari, e che
infine, per un matrimonio accettato da loro, e con pieno aggradimento,
quell'atteggiarsi da vittime sarebbe un'incoerenza.
Al momento
poi di dire addio al babbo, alla mamma, alla casa paterna, di entrare in
carrozza e di partire, se i singhiozzi fanno gruppo alla gola, se le lacrime
fanno violenza alle ciglia, lascino che il loro cuore si sfoghi: non è che un
istante. I cavalli scalpitano, i bauli sono già alla stazione; fra pochi minuti
il fischio della macchina a vapore dirà alla mamma commossa, che la portiera
del coupè s'è chiusa sui due viaggiatori, e che il primo bacio di sposa
ha cancellato quelle ultime lacrime di fanciulla.
*
* *
Nota
dell'autrice. ‑ Nel correggere
le bozze mi accorgo che il periodo seguente non ha nulla a che fare colle leggi
di convenienza. A scarico di coscienza ne prevengo lealmente le lettrici. Se,
come credo, non si curano punto delle mie opinioni personali sul viaggio di
nozze, possono saltare queste pagine senza offendere nè me, né il mio libro.
La Marchesa Colombi.
Ho udito
alcuni sentimentali vaporosi, esclamare che il viaggio di nozze è una
profanazione; che: "si vanno disseminando le più care memorie nelle camere
d'albergo! Vorrebbero la villetta isolata, e rinchiudervisi: "solo con
sola Dido Enea ridotto." E ripetersi giorno e notte: ¾ Amoris
tui solum et dives sum satis; e quando se ne vanno pei fatti loro, le più
care memorie, rinchiuderle tutte là sotto chiave.
Sono spiriti
unilaterali, e non comprendono che una felicità unilaterale. La felicità del
viaggio di nozze invece è un prisma.
In viaggio
gli sposi si studiano, si conoscono, si apprezzano sotto mille aspetti diversi.
Pensano:
¾ Come
saprà adattarsi agli inconvenienti del viaggio questa persona che ha vissuto
sempre fra le agiatezze? Saprà resistere alle fatiche delle lunghe corse, delle
abbigliature mattutine, delle visite assidue alle chiese, ai musei? Ed i suoi
gusti artistici? Cosa dirà di quel quadro? di quella statua? Che impressione le
farà quella musica, quel dramma? Come saprà discorrere nell'espansione della
vita intima? Capirà, gusterà le bellezze della natura? Avrà impeti
entusiastici, calore d'ammirazione e quella dolce bontà indulgente che porta a
vedere alla prima il lato bello e buono di ogni cosa? Ed avrà spirito
d'osservazione, intelligenza critica, e carattere pieghevole?
Oh, le
delizie del viaggio di nozze! Avere innanzi a sè una lunga serie di giorni,
completamente liberi da qualunque cura, all'infuori del proprio amore e delle
proprie gioie. Andar incontro all'ignoto che si annuncia con tinte color di
rosa, come il sole col crepuscolo! E sentirsi nell'anima la convinzione che
inebria e riposa, d'avere un essere sulla terra pel quale siamo il primo
pensiero, il primo affetto ed anche il primo dovere. E con quest'essere amante
e caro, prendersi allegramente a braccetto, ed affrettarsi per le strade,
unendo il passo e parlandosi con abbandono; e poter ripetere a se stessi:
Abbiamo diritto d'amarci!
Lo neghino
pure i romanzieri, ma il diritto di amarsi alla luce del sole, senza menzogne,
senza rossori, sarà sempre la poesia dell'amore.
Ed a poco a
poco si comprende che quelle ore di espansione e di delizia non sono più
misurate dalla durata d'una visita; che si ripetono senza interrompersi, e si
ripeteranno sempre, per un tempo lungo, infinito. L'ora del pranzo, l'ora del
riposo non li separa più. Oh la dolce prosa della vita materiale!
Sedere
insieme ad una mensa d'albergo interrogandosi a vicenda sui propri gusti,
confessando di aver appetito, mangiando allegramente ¾ à la guerre comme à la
guerre, ¾ dandosi
del tu presente una quantità di persone, pagando il conto colla borsa
comune! Tutto il resto può parere un sogno poetico da menti innamorate; ma il
primo pranzo all'albergo, è pretta realtà. Dopo il primo pranzo soltanto gli
sposi sentono che quella felicità è vera, positiva, che le loro esistenze si
sono congiunte per la vita vera, con tutto il suo corredo di spirito e di
materia, di poesia e di prosa.
E poi vi sono
le ore in cui non sono soli: al teatro, al caffè. E nella piena libertà del
viaggio da nozze rigustano il mistero d'una stretta al braccio, d'una mano
presa furtivamente, del lungo sguardo appassionato che narra un'illiade di
desideri, dello sguardo fuggevole e lampeggiante, che dà il fremito e
l'ebbrezza d'un bacio.
A traverso
quel turbine di godimenti, in quel sogno di delizie, vedono azzurreggiare, in
un prossimo avvenire la placida promessa d'una casetta tranquilla, dove saranno
padroni e soli, e dove si vedranno sotto un aspetto nuovo, nell'uniformità
della vita casalinga... È un'altra serie d'incanti, che promette loro quel
dolce riposo dopo tanto movimento. I sentimentalisti che, pel culto delle
memorie, hanno cominciato dalla fine e si sono isolati, hanno sacrificate tutte
le immense dolcezze del viaggio e non le ritroveranno più tardi, perchè il
viaggio di nozze è un frutto che fuori stagione non si gusta più.
È vero che
non hanno disperse le memorie care negli alberghi, e le hanno gelosamente
rinchiuse; ma son ben certi che, a lungo andare, non ci sia entrata la sazietà
o la noia, a metterle in fuga come una nidiata di passeri?
Per
quell'affetto che m'ispirano le mie lettrici le consiglio, qualunque sia la
loro età, il loro grado di agiatezza, non rinunzino al viaggio di nozze, anche
a costo di qualche sacrifizio d'interesse, di qualche privazione.
Tutte le
felicità che potrà dar loro l'avvenire, non le compenseranno mai di quella
immensa gioia perduta.
|