AL LETTORE
A me che pongo il mio nome sotto queste poche righe d’introduzione come ad
uno de’ più intimi amici dell’autore ed a lui congiunto per sangue; a me che
più di tutti fui a parte delle sue gioie e de’ suoi dolori, è toccato il triste
incarico di tesserne la biografia. Non abuserò certo della pazienza di chi
legge, tanto più che le vicende del mio povero amico non offrono nulla di così
straordinario da tentare il narratore od il lettore. La sua storia è tutta in
quattro parole: morì a trent’anni.
Lorenzo Stecchetti mio cugino (le nostre madri furono sorelle) nacque il 4
ottobre 1845 in Fiumana, piccolo comune del Forlivese, che giace in una di
quelle fertili valli cui sovrastano i primi contrafforti dell’Appennino e
precisamente nel villino chiamato Casella. Di famiglia non ricca ma
agiata, nel 1847 gli mancò il padre, nel 1850 la madre, e mio padre assunse la
tutela dell’orfano. Fu educato nel Collegio Municipale di Ravenna, quindi, dopo
il 1859, nel Nazionale di Torino Ne uscì nel 1863, e compì gli studi in quel
Liceo Cavour, allora del Carmine, per venire finalmente nel 1865
ad intraprendere il corso di Giurisprudenza in questa Università di Bologna. La
nostra conoscenza, che non aveva altro legame se non le poche e quasi dimenticate
memorie dell’infanzia, si riannodò qui a Bologna tanto da divenire vera ed
intima amicizia. Qui vivemmo dal 1865 al 1868 la vita lieta e spensierata dello
studente, meno nei pochi mesi del 1866 nei quali altri doveri ci chiamarono; e
qui egli dimenticava troppo spesso il codice per Byron, Heine e De Musset, che
egli chiamava la sua Trinità.
Dopo la laurea rimase a Bologna. In una notte d’inverno del 1870, che non
saprei precisare (era carnevale), nella sua cameretta in via Zamboni, egli mi
leggeva qualcuno dei canti che ora si trovano in questa raccolta, e, poichè io
lo confortavo a pubblicarli, mi rispose scherzando che il farlo sarebbe stata
mia cura quando egli fosse morto. Pur troppo lo scherzo divenne profezia. In
quello stesso inverno sputò sangue.
Lo sapemmo tardi perchè in principio egli nascose quasi con pudore la sua
malattia, ma pur lo sapemmo, e noi tutti che lo amavamo fummo ben dolorosamente
sorpresi. Egli no; e quando gliene parlai per la prima volta, sorrise
amaramente dicendo: - Tanto a che servivo io? Meglio così. - Era già
rassegnato.
Cosa strana per un tisico, egli non ebbe mai illusioni sul proprio stato.
Continuò tuttavia il suo solito metodo di vita ed agli estranei non parve
mutato nè al fisico nè al morale. Solo diventò meno gaio. Alle volte
interrompeva a mezzo il riso incominciato e diventava improvvisamente serio.
Molte cose che prima amava con tutto l’ardore della sua bella giovinezza, gli
divennero indifferenti. Anche l’anima si ammalava.
Viaggiò. Gli avevano prescritto il clima di Napoli, ultimo rimedio che si
consiglia ai disperati per tisi, a fine di prolungar loro l’agonia. E questa
agonia fu per lui orribile, straziante. Non si potranno mai dire le profonde
disperazioni di un’anima che a poco a poco si sente mancar tutto d’intorno. Ed
egli che non sperava, cercava d’illudersi, voleva far credere a sè stesso di
sperare ancora. Scriveva ad una donna:
Mi si spezza la testa. Io son
malato
E la febbre mi brucia entro le
vene.
Sono debole, giallo, dimagrato,
Ma quando penso a te mi sento
bene.
Ma quando penso a te cessa il
dolore
E la speranza mi ritorna in core.
Per non soffrir così vorrei
morire,
Ma quando penso a te voglio
guarire. *
Ma anche la speranza era fuggita.
Questa crudele agonia si prolungò per molto tempo con una lunga vicenda di
miglioramenti e di peggioramenti. Pareva che la morte, condannandolo a questo
lento martirio, gli dicesse come Vitellio alle sue vittime: voglio che tu senta
di morire.
In una sua breve dimora in Bologna prese parte ad una lotta personale che
ebbe luogo nei fogli pubblici. Assunse in quell’occasione il pseudonimo
shakespeariano di Mercutio e combattè colla penna audacemente, sì che
quel pseudonimo non è forse dimenticato in Bologna, ed abbiamo creduto bene di
trovargli posto sul frontispizio di questo canzoniere. Ci asteniamo però dal
riprodurre i versi amari che l’autore scrisse in quei giorni: prima perchè di
argomento troppo municipale, poi perchè la persona contro la quale erano
diretti ha pagato in ben altra guisa, i suoi debiti colla società.
Finite queste lotte, finì anche l’energia momentanea che lo aveva
sostenuto, peggiorò, e dovette cercare aure più miti. Finalmente, sul finire
del 1875, lo vedemmo improvvisamente ricomparire a Bologna, bianco, macilento,
curvo come un vecchio; gli occhi soli erano vivi. Non ascoltò gli amici che lo
pregavano di ritornare a Napoli od a Pisa, e volle inesorabilmente ritornare ai
suoi monti, dove l’inverno incrudeliva. Io ho sempre pensato che avesse deciso
di finirla una volta.
Il 2 febbraio 1876 mi giunse un telegramma che diceva - Vieni a vedermi
morire - Renzo. -
Il giorno dopo partii e lo trovai in letto alle prese colla morte. Il
freddo era acuto ed il suo triste paesello coperto di neve, velato di nebbia.
Quando entrai non disse altro che - grazie. - Mi aspettava e mi tese
la mano umida ed agghiacciata, dove non erano più che le ossa e la pelle.
La notte lo vegliai io, seduto al suo scrittoio, frugando fra le sue carte,
povere foglie cadute da una pianta moribonda prima di portare i suoi frutti.
Che cuore fu il mio, povero amico, leggendo i tuoi canti d’amore vicino al tuo
letto di morte!
Venne il giorno e la morte si avvicinava a gran passi. Il parroco faceva
uffici per salire ad esercitare il suo ministero. Ne parlai al moribondo: rispose,
no.
Verso il mezzodì la sua voce sfinita e fioca era ridotta ad un soffio,
tanto che per udire le sue rare parole dovevo chinarmi sopra di lui, quasi
coll’orecchio sulle labbra. Fece aprire la finestra per vedere il sole,
quest’ultimo desiderio dei moribondi: ma il sole non c’era.
Alle due pomeridiane mi prese per mano. A poco a poco le forze lo
abbandonarono. Intesi la parola fine, poi più nulla.
È sepolto nel cimitero del suo paese sotto al quinto cipresso a sinistra di
chi entra. La pietra funeraria non porta che i nomi e le date. I suoi averi li
lasciò tutti alla beneficenza.
*
* *
Non ci dissimuliamo che questi versi escono alla luce in un’epoca poco
propizia. L’individualismo ha fatto ormai una virtù dell’egoismo. Per questo
nessuno bada a ciò che pensa o soffre il suo vicino e la massima ognuno per
sè e Dio per tutti è diventata il canone della vita sociale. Le gioie e i
dolori del poeta non ci riguardano più, non ci commuovono, spesso anche ci
fanno ridere scetticamente. Questo pensiero ci ha spesso tormentato
nell’attendere alla pubblicazione dei canti del nostro povero amico; ma
tuttavia ci sorrise la speranza che il libro potesse pure incontrare qualche
anima aduggiata dall’egoismo; ci sorrise la speranza che un nome a noi caro
fosse pure imparato a conoscere da qualcheduno, che il nome dell’amico nostro
non passasse ignoto sulla terra. Ci siamo ingannati?
Sperando che no, abbandoniamo il libro alle tempeste della pubblicità.
Potremo aver errato credendo questi canti non indegni di essere conosciuti; ma
se l’affetto che portammo all’autore ci fece velo agli occhi, voglia il lettore
perdonarci, e quell’affetto stesso ci valga di scusa. Se errore c’è, è tutto
nostro, e per nostro lo accettiamo.
Bologna, 6 febbraio 1877.
Dott. OLINDO GUERRINI
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