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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto 4, allegoria

LA NOVELLETTA. La favola di Psiche rappresenta lo stato dell’uomo. La città dove nasce, dinota il mondo. Il re e la reina, che la generano, significano Iddio e la materia. Questi hanno tre figliuole, cioè la Carne, la Libertà dell’arbitrio e l’Anima; laqual non per altro si finge più giovane, se non perché vi s’infonde dentro dopo l’organizzamento del corpo. Descrivesi anche più bella, percioch’è più nobile della Carne e superiore alla Libertà. Per Venere, che le porta invidia, s’intende la Libidine. Costei le manda Cupidine, cioè la Cupidità, laquale ama essa Anima e si congiunge a lei, persuadendole a non voler mirar la sua faccia, cioè a non volere attenersi ai diletti della concupiscenzaconsentire agl’incitamenti delle sorelle Carne e Libertà. Ma ella a loro instigazione entra in curiosità di vederlo e discopre la lucerna nascosta, cioè a dire palesa la fiamma del disiderio celata nel petto. La lucerna, che sfavillando cuoce Amore, dimostra l’ardore della concupiscibile, che lascia sempre stampata nella carne la macchia del peccato. Psiche, agitata dalla Fortuna per diversi pericoli e dopo molte fatiche e persecuzioni copulata ad Amore, è tipo della istessa anima, che per mezzo di molti travagli arriva finalmente al godimento perfetto.

 

Canto 4, argomento

Giunto al’albergo de’ vezzosi inganni

il bell’Adon, dov’Amor s’annida,

gli conta Amor, che lo conduce e guida,

le fortune di Psiche e i propri affanni.

 

Canto 4

È di dura battaglia aspro conflitto                              1

questa che vita ha nome, umana morte,

dov’ognor l’uom con mille mali afflitto

vien combattuto da nemica sorte.

Ma fra l’ingiurie e fra i contrasti invitto

non però sbigottisce animo forte,

anzi contr’ogni assalto iniquo e crudo

s’arma e difende, e sua virtù gli è scudo.

Talor ne tocca la paterna verga,                                2

ma’l suo giusto rigor non è crudele,

anzi perché la polvere disperga

ne scote i panni e porta in cima il mele.

Non desperi mai sì che si sommerga

chi per quest’ocean spiega le vele,

ma de’ flutti e de’ venti al fiero orgoglio

faccia un’alta costanza ancora e scoglio.

Sembra il flagel, che correggendo avisa                                3

anima neghittosa, amaro in vista,

ma di salubre pur calice in guisa

la purga e giova altrui, mentre ch’attrista.

Vite dal podador tronca e recisa

fecondità dale sue piaghe acquista.

Statua dalo scarpel punta e ferita

ne diventa più bella e più polita.

Selce, ch’auree scintille in seno asconde,                              4

il lor chiuso splendor mostrar non pote,

se dal’interne sue vene profonde

non le tragge il focil che la percote.

Corda sonora a dotta man risponde

con arguta armonia di dolci note

e’l vantaggio che trae di tal offesa,

quanto battuta è più, vie più palesa.

Rotta la conca da mordace dente,                            5

la porpora real si manifesta.

Né del gran, né del vin si gusta o sente

l’eccellenza e’l valor, se non si pesta.

Stuzzicato carbon vien più cocente,

soffiata fiamma più s’accende e desta,

palla a terra sospinta al ciel s’inalza

e sferzato palco più forte sbalza.

La fatica e’l travaglio è paragone,                             6

dove provar si suol nostra finezza;

né senz’affanno e duol, premi e corone

può di gloria ottener vera fortezza.

Del’amica d’Amor, tel mostri Adone

la tribulata e misera bellezza,

orch’egli i tanti suoi strani accidenti

ti prende a raccontar con tali accenti:

– In real patria e di parenti regi                                 7

nacquer tre figlie, d’ogni grazia ornate.

Natura l’arricchì di quanti pregi

possa in un corpo accumular beltate.

Ma versò de’ suoi doni e de’ suoi fregi

copia maggior nela minore etate,

peroché la più giovane sorella

era del’altre due troppo più bella.

Le prime due, quantunque accolta in esse                             8

fusse d’alte bellezze immensa dote,

tai non eran però, che non potesse

umana lingua esprimerla con note.

Ma l’ultima di loro, a cui concesse

quanto di bello il ciel conceder pote,

tanto d’ogni beltà passava i modi,

ch’era intutto maggior del’altrui lodi.

Per alpestri sentier stampando l’orme                                   9

nazion peregrine e genti estrane

per veder s’era al grido il ver conforme

vi concorrean da region lontane

e, giunte a contemplarbelle forme,

dico quel fior dele bellezze umane,

si confessavan poi tutti costoro

obligati per sempre agli occhi loro.

Dal desir mossi e dala fama tratti                              10

or quinci or quindi artefici e pittori,

per fabricarne poi statue e ritratti,

veniano e con scarpelli e con colori

e, sospesi in mirarla e stupefatti,

immobili non men de’ lor lavori,

dal’attonita mano e questi e quelli

si lasciavan cader ferri e pennelli.

Quel divin raggio di celeste lume,                              11

ch’avrebbe il ghiaccio istesso arso e distrutto,

risplendea sì, che qual terrestre nume

adorata era omai dal popol tutto;

loqual dela gran dea, che dale spume

prodotta fu del rugiadoso flutto,

tutti gli onor, tutte le glorie antiche

publicamente attribuiva a Psiche.

Sì di Psiche la Fama intorno spase,                           12

tal era il nome suo, celebre il grido,

che questa opinion si persuase

di gente in gente in ogni estremo lido.

Pafo d’abitator vota rimase,

restò Citera abbandonata e Gnido;

nessun più vi recava ostia, né voto

orator fido o passaggier devoto.

Manca il concorso ai frequentati altari,                                  13

mancano i doni ala gran diva offerti;

non più di fiamme d’or lucenti e chiari,

ma son di fredde ceneri coverti.

Da simulacri venerati e cari

omai non pendon più corone o serti.

Lasciando d’onorar più Citerea,

sacrifica ciascuno a questa dea.

Crede ciascun, che stupido s’affisa                           14

di que’ begli occhi ai luminosi rai,

novo germe di stelle in nova guisa

veder, non più quaggiù veduto mai;

e dala terra e non dal mar s’avisa

esser più degna e più gentile assai

pullulata altra Venere novella,

casta però, modesta e verginella.

La vera dea d’amor, che dal ciel mira                                   15

cotanto insolentir donna mortale,

e vede pur, che’ndegnamente aspira

a divin culto una bellezza frale,

impaziente a sostener più l’ira,

dassi in preda ai furori in guisa tale,

che crollando la fronte e’l dito insieme,

questi accenti fra sé mormora e freme:

«Or ecco chi da’ confusi abissi                              16

l’universo costrusse e’l ciel compose,

per cui distinto in bella serie aprissi

l’antico seminario dele cose;

colei ch’accende i lumi erranti e i fissi

e ne fa sfavillar fiamme amorose;

di quanto è nato, e quanto pria non era

la madre prima e la nutrice vera.

Con la mia deità dunque concorre                            17

un corpo edificato d’elementi?

Soffrirò ch’ogni vanto a me di torre

creatura caduca ardisca e tenti?

che sovra l’are sue vittime a porre,

sprezzando i templi miei, vadan le genti?

che’l sacro nome mio con riti insani

in suggetto mortale or si profani?

Sì sì soffriam, che con oltraggio indegno                                18

nostra compagna pur costei si dica;

che commune abbia meco il nume e’l regno

la mia vicaria in terra, anzi nemica.

Ancor di più: dissimuliam lo sdegno,

che siam dette io lasciva, ella pudica;

ond’io ceda in tal pugna e far non basti,

che non mi vinca ancor, nonché contrasti.

Deh, che mi val, già figlia al gran tonante,                              19

posseder d’ogni onor le glorie prime?

e poter dela via bianca e stellante

a mio senno varcar l’eccelse cime?

qual prò, ch’ogni altro dio m’assorga avante

come a dea tra le dee la più sublime?

e che quantunque il sol vede e camina,

mi conosca e confessi alta reina?

Lassa, i’ son pur colei, ch’ottenni in Ida                                20

titolo di beltà sovra le belle,

e’l litigato d’or pomo omicida

trionfando portai meco ale stelle;

che fu principio a così lunghe strida

ed esca del’argoliche fiammelle,

onde sorser tant’armi e tanti sdegni,

per cui già d’Asia inceneriro i regni.

Ed or fia ver, che’n temeraria impresa                                  21

la palma una vil femina mi tolga?

Attenderò, che fin in cielo ascesa

l’orbe mio, la mia stella aggiri e volga?

Ah, di divina maestate offesa

giusto fia ben ch’omai si penta e dolga;

ché l’ingiuria, in colui che tempo aspetta,

cresce col differir dela vendetta.

Qualqual si sia, l’usurpatrice ardita                            22

del grado altier di sì sublime altezza,

non molto gioirà, non impunita

n’andrà lunga stagion di sua sciocchezza;

vo’ che s’accorga, alfin tardi pentita,

che dannosa le fu tanta bellezza.

Stolta del’alte dive emula audace,

io ti farò.» Qui tronca i detti e tace.

Il carro ascende e d’impiegar disegna                                   23

del figlio in quest’affar le forze e l’armi;

ma convien ch’i suoi cigni a fren ritegna,

ché dubbiosa non sa dove trovarmi.

Per le belle contrade, ov’ella regna,

di lido in lido invan prende a cercarmi,

poiché quivi e pertutto in terra e’n cielo,

come e quando mi piace, altrui mi celo.

Prendo qual forma voglio a mio talento                                 24

e con l’acque e con l’aure io mi confondo.

Talor grande così mi rappresento,

che visibil mi faccio a tutto il mondo.

Talvolta poi sì picciolo divento,

ch’entro il giro d’un occhio anco m’ascondo.

Infin son tal, che benché m’abbia in seno,

chi più mi sente, mi conosce meno.

Lascia la Grecia e prende altri sentieri,                                  25

vaga d’udir novelle, ov’io mi sia;

né più del’Asia entro i famosi imperi

dele vestigia mie la traccia spia,

ma stimulando i musici corsieri,

verso le piagge italiche s’invia,

ché sa ben quanto in que’ fioriti poggi,

vie più ch’altrove, io volentieri alloggi.

Giunge in Adria la bella e quivi intese                        26

che v’albergava il mio nemico Onore

e Beltà cruda ed Onestà cortese,

Nobiltà, Maestà, Senno e Valore.

Passò poscia a Liguria e vi comprese

apparenza d’amor vie più ch’amore,

ch’io ne’ begli occhi e ne’ leggiadri aspetti

sol vi soglio abitar, ma non ne’ petti.

Vide poi la Marecchia e’l Serchio e’l Varo                           27

la Brenta, il Brembo e la Livenza e’l Sile

e l’Adda e l’Oglio e’l Bacchiglione alparo,

superbo il Mincio, il picciol Reno umile,

il Tanaro, il Tesin, la Parma e’l Taro,

e la Dora, che d’or riveste aprile,

e Stura e Sesia e, di fresche ombre opaco,

da foce aurata scaturir Benaco.

Quindi al gran trono degli erculei regi                        28

su l’Po volando i bianchi augei rivolse,

dove ricca sedea d’illustri fregi

la città, che dal ferro il nome tolse.

Ma le fu detto, che Fortuna i pregi,

di cui fiorir solea, sparse e disciolse;

mille già v’ebbi un tempo e palme e prede,

poi tra Secchia e Panara io cangiai sede.

Non lunge dal maggior fiume toscano                                   29

vide l’Arbia con l’Ombro, indi il Metauro

e con l’Isapi, suo minor germano,

presso il Ronco e’l Monton correr l’Isauro

e’l Tremisen, dove il verde piano

vermiglio diverrà del sangue mauro,

e dal freddo Appennin discender Trebbia,

genitor di caligine e di nebbia.

Tra’ campi arrivò poi fertili e molli,                           30

dove del Tebro il mormorio risona

e de’ suoi sette trionfanti colli

il gran capo del Lazio s’incorona.

Ma seppe quivi furiosi e folli

più tosto soggiornar Marte e Bellona

e con Perfidia e Crudeltà tra loro

baccar sete di sangue e fame d’oro.

Posciaché quindi le lombarde arene                          31

ha tutte scorse e quanto irriga l’Arno

e quinci di Clitunno e d’Aniene

e d’altri frati lor le rive indarno,

a visitar dal Gariglian ne viene

Crati, Liri, Volturno, Aufido e Sarno

e vede irne tra lor pomposo e lieto

degli onori di Bacco il bel Sebeto.

Quivi tra ninfe amorosette e belle                              32

trovommi a conquistar spoglie e trofei.

E seben tempo fu ch’io fui di quelle

già prigionier con mille strazi rei,

alme però non ha sotto le stelle

che sien più degni oggetti a’ colpi miei,

so trovar altrove in terra loco,

dove più nobil esche abbia il mio foco.

Allor mi stringe entro le braccia e mille                                  33

groppi mi porge d’infocati baci,

poi per l’oro immortal, per le faville

dele quadrella mie, dele mie faci,

quanto può mi scongiura e vive stille

mesce di pianto a suppliche efficaci,

che senza vendicarla io non sopporti

più lungamente i suoi dispregi e i torti.

Dela bella rubella in voce amara                               34

l’orgoglio e’l fasto a raccontar mi prende

e come seco in baldanzosa gara

contumace beltà pugna e contende.

Distinto alfine il suo desir dichiara

e quanto brama ad esseguir m’accende.

Vuol che di stral villano il cor le punga,

e ch’a sposo infelice io la congiunga.

Uom, che povero d’or, colmo di mali                                   35

e da Natura e da Fortuna oppresso,

sia, cadavere vivo infra i mortali,

sich’abbia invidia ai morti, odio a sestesso

e senza essempio di miserie eguali

tutto voti Pandora il vaso in esso.

Ch’a tal consorte, in tal prigion la stringa

mi comanda, mi prega e mi lusinga.

Scorgemi intanto al loco, ove m’addita                                 36

la meraviglia dele cose belle,

che, circondata intorno e custodita

da vago stuol di leggiadrette ancelle,

par, tra le spine sue, rosa fiorita,

par la luna, anzi il sole infra le stelle.

«Mira colà, quella è la rea (mi dice)

dele bellezze mie competitrice

Dal carro, che con morso aureo l’affrena,                             37

scioglie, ciò detto, le canute guide

e d’un delfino insu l’arcuta schiena

solca le vie de’ pesci e’l mar divide.

Così di Cipro ala nativa arena

torna, che lieta al suo ritorno arride;

ed io rimango a contemplar soletto

quel sovruman, sovradivino oggetto.

Veggio doppio oriente e veggio dui                           38

cieli, che doppio sol volge e disserra,

dico que’ lumi perfidi, ch’altrui

uccidon prima e poi bandiscon guerra,

siché mirando un cor quel bello, a cui

paragon di beltà non ha la terra,

quando pensa al riparo il malaccorto

e vuol chieder mercé, si trova morto.

dele guance la vermiglia aurora                           39

al sol degli occhi di bellezza cede,

i cui candori un tal rossor colora,

qual in non colto ancor pomo si vede.

Ombra soave, ch’ogni cor ristora,

un rilievo vi fa, che non eccede,

e con divorzio d’intervallo breve

distingue in duo confin l’ostro e la neve.

Somiglia intatto fior d’acerba rosa,                            40

ch’apra le labra dele fresche foglie

l’odorifera bocca e preziosa,

ch’un tal giardino, un tal gemmaio accoglie,

che l’India non dirò ricca e famosa,

ma’l ciel nulla ha di bel, s’a lei nol toglie.

Se parla o tace, o se sospira o ride,

che farà poi baciando? i cori uccide.

In reticella d’or la chioma involta,                             41

più ch’ambra molle e più ch’elettro bionda,

o stretta in nodi, o in vaghe trecce accolta,

o su gli omeri sparsa ad onda ad onda,

tanto tenace più, quanto più sciolta,

tra procelle dorate i cori affonda.

L’aure imprigiona, se talor si spiega,

e con auree catene i venti lega.

Che dirò poi del candidetto seno,                             42

morbido letto del mio cor languente?

ch’a’ bei riposi suoi, qualor vien meno,

duo guanciali di gigli offre sovente?

Di neve in vista e di pruine è pieno,

ma nel’effetto è foco e fiamma ardente;

e l’incendio, che’n lor si nutre e cria,

le salamandre incenerir poria.

Quand’ebbi quel miracolo mirato,                             43

dissi fra me, da me quasi diviso:

«Sono in ciel? sono in terra? il ciel traslato

è forse in terra? o cielo è quel bel viso?

sì sì, son pur lassù, son pur beato

tuttavia, come soglio, in paradiso.

Veggio la gloria degli eterni dei;

la bella madre mia non è costei?

No che non è, vaneggio, il ver confesso,                               44

Venere da costei vinta è di molto.

Ahi! che’l pregio ala madre a un punto istesso

ed al figlio egualmente il core ha tolto.

Chi può senza morir mirar l’eccesso

di sì begli occhi, oimé! di sì bel volto,

vadane ancora poi, vada e s’arrischi

a mirar pur securo i basilischi.

O macelli de’ cori, occhi spietati,                              45

di chi morir non pote anco omicidi,

voi voi possenti a soggiogare i fati

siate le sfere mie, siate i miei nidi.

In voi l’arco ripongo e i dardi aurati;

che se poi contro me saranno infidi,

più cara, in tali stelle è la mia sorte,

del’immortalità mi fia la morte».

Veggiola, mentre parlo, in atti mesti                          46

starsi sola in disparte a trar sospiri;

ché, quantunque le sue più che celesti

forme, ben degne degli altrui desiri,

da mille lingue e da quegli occhi e questi

vagheggiate e lodate, il mondo ammiri,

alcun non v’ha però di genti tante,

che cheggia il letto suo, cupido amante.

Le suore, ancorché fussero appo lei                          47

vie più d’età che di beltà fornite,

a grandi eroi con nobili imenei

per giogo maritale erano unite.

Ma Psiche, unico sol degli occhi miei,

parea dal’olmo scompagnata vite

e ne menava in dolorosi affanni,

sterili e senza frutto i più verdanni.

Il miser genitor, mentr’ella geme                               48

l’inutil solitudine che passa,

perché l’ira del ciel paventa e teme,

che spesso ai maggior re l’orgoglio abbassa,

pensoso e tristo infra sospetto e speme

la cara patria e’l dolce albergo lassa

e va per esplorar questo secreto

dal’oracolo antico di Mileto.

dove giunto poi, porge umilmente                        49

incensi e preghi al chiaro dio crinito,

da cui supplice chiede e reverente,

al’infeconda sua, nozze e marito.

Ed ecco intorno rimbombar si sente

spaventoso fragor d’alto muggito

e col muggito alfin voce nascosta

dale cortine dar questa risposta:

«La fanciulla conduci in scoglio alpino                                   50

cinta d’abito bruno e funerale.

genero sperar dal tuo destino

generato d’origine mortale,

ma feroce, crudele e viperino,

ch’arde, uccide, distrugge e batte l’ale

e sprezza Giove ed ogni nume eterno,

temuto in terra, in cielo e nel’inferno».

Pensa tu qual rimase e qual divenne                          51

il sovr’ogni altro addolorato vecchio.

Pensa qual ebbe il cor, quando gli venne

la sentenza terribile al’orecchio.

Torna ne’ patrii tetti a far sollenne

di quelle pompe il tragico apparecchio,

accinto ad ubbidir, quantunque afflitto,

del decreto d’Apollo al sacro editto.

Del vaticinio infausto e del’aversa                             52

sorte nemica si lamenta e lagna

e con l’amare lagrime che versa,

dele rughe senili i solchi bagna;

e la stella accusando empia e perversa,

l’antica moglie i gemiti accompagna;

e pietoso non men piagne con loro

dele figlie dolenti il flebil coro.

Ma del maligno inevitabil fato                                   53

il tenor violento è già maturo.

Del’influsso crudel già minacciato

giunto è l’idol mio caro al passo duro.

Raccoglie già con querulo ululato

la bella Psiche un cadaletto oscuro,

laqual non sa fra i tanti orrendi oggetti

se’l talamo o se’l tumulo l’aspetti.

Di velo avolti tenebroso e tetro                                 54

e d’arnesi lugubri in vesta nera,

van padre e madre il nuzzial feretro

accompagnando e le sorelle in schiera.

Segue la bara il parentado e dietro

vien la città, vien la provincia intera;

e per tale sciagura odesi intanto

del popol tutto un publico compianto.

Ma più d’ogni altro il re meschin piangendo                          55

sfortunato s’appella ed infelice,

e gli estremi da lei baci cogliendo

la torna ad abbracciar, mentre gli lice.

«Così dunque da te congedo io prendo?

così figlia mi lasci? (egli le dice)

son questi i fregi?, oimé! la pompa è questa,

ch’al tuo partire il patrio regno appresta?

In essequie funebri inique stelle                                 56

cangian le nozze tue liete e festanti?

le chiare tede in torbide facelle

le tibie in squille e l’allegrezze in pianti?

sono i crotali tuoi roche tabelle?

ti son gl’inni e le preci applausi e canti?

e dove destin crudo ti mena

reggia il lido ti fia, letto l’arena?

O troppo a te contrario, a me nemico,                                  57

implacabil rigor d’avari cieli!

Te del tuo bel, me del mio ben mendico

perché denno lasciar fati crudeli?

Qual tua gran colpa o qual mio fallo antico

cagion, che tu t’affligga, io mi quereli,

te condanna a morire ed a me serba,

in sì matura età, dogliaacerba?

Ad esseguir quanto lassù si vole                                58

dura necessità, lasso! m’affretta

e, vie più ch’altro, mi tormenta e dole,

ch’a sì malvagio sposo io ti commetta.

Ch’io deggia in preda dar l’amata prole

a mostro tal che l’universo infetta,

questo so ben, che’l fil farà più corto,

che fu da Cloto ala mia vita attorto.

Ma poiché pur la maestà superna                             59

così di noi disporre or si compiace,

cancellar non si può sua legge eterna,

ma convien, figlia mia, darsene pace.

De’ consigli di lui, che ne governa,

è l’umano saver poco capace,

poiché i giudici suoi santi e divini

son ordinati a sconosciuti fini.

Bench’a sposar lo struggitor del mondo                                60

ti danni Apollo in suo parlar confuso,

chi sa s’altro di meglio in quel profondo

archivio impenetrabile sta chiuso?

Spesso effetto sortì lieto e giocondo

temuto male, ond’uom restò deluso.

Servi al ciel, soffri e taci.» E con tai note

verga di pianto le lanose gote.

La sconsolata e misera donzella                                61

vede ch’ei viva a sepelir la porta

e tal sollennità ben s’accorg’ella,

ch’a sposa , ma si conviene a morta;

magnanima però non men che bella,

l’altrui duol riconsola e riconforta,

e i dolci umori, onde il bel viso asperge,

col vel purpureo si rasciuga e terge.

«Che val pianger? (dicea) che più versate                             62

lagrime intempestive e senza frutto?

a che battete i petti ed oltraggiate

di livore e di sangue il viso brutto?

Ah non più ; di lacerar lasciate

la canicie del crin con tanto lutto,

offendendo con doglia inefficace

e la vostra vecchiezza e la mia pace.

Fu già, quando la gente a me porgea,                                   63

al ciel devuto, onor profano ed empio,

quando quasi d’amor più bella dea

ebbi, voi permettenti, altare e tempio,

allor fu da dolersi, allor devea

pianger ciascuno il mio mortale scempio.

Or è il pianto a voi tardo, a me molesto;

di mia vana bellezza il fine è questo.

L’invidia rea, che l’altrui ben pur come                                 64

suo proprio male aborre, allor mi vide.

I’ so pur ben, che l’usurpato nome

dela celeste Venere m’uccide.

Che bado? andianne pur; quest’auree chiome

con vil ferro troncate, ancelle fide;

quel sì temuto omai consorte mio

già di veder, già d’abbracciar desio

Qui tace e già d’una montagna alpestra                                 65

eccola intanto giunta ala radice,

ch’al sol volge le terga e piega a destra

sotto il gran giogo l’ispida cervice.

Quindi di sterpi e selci aspra e silvestra

pende sassosa e rigida pendice,

rigida sì ch’apena s’assecura

d’abitarvi l’Orror con la Paura.

Il mar sonante a fronte ha per confine,                                  66

da’ fianchi acute pietre e schegge rotte,

dirupati macigni e rocce alpine,

oscure tane e cavernose grotte,

precipizi profondi, alte ruine,

dove riluce il come la notte,

dove inospiti sempre e sempre foschi

dilatan l’ombre lor baratri e boschi.

Ecco l’infausto monte, ov’a fermarsi                         67

ne venne il funeral tragico e mesto.

Quivi ha, quant’ognun crede, a consumarsi

il maritaggio orribile e funesto.

Ond’ai fieri imenei da celebrarsi

scelto già per teatro essendo questo,

dopo lagrime molte al vento sparte

la mestissima turba alfin si parte.

Partissi alfin, poiché tesorcaro                              68

depositò nel destinato loco,

lasciando nel partir col pianto amaro

dele fiaccole sacre estinto il foco.

Ai regi alberghi i genitor tornaro

e, la luce vital curando poco,

dannaro gli occhi a lunga notte oscura

e si chiusero vivi in sepoltura.

Restò la giovinetta abbandonata                               69

su la deserta e solitaria riva

tremante, sì smorta e sì gelata,

ch’apena avea nel cor l’anima viva.

Veder quivi languir la sventurata

quasi di senso e movimento priva,

del’onde esposta al tempestoso orgoglio,

altro già non parea, che scoglio, in scoglio.

Le man torcendo e’n vermiglietti giri                         70

dolcemente incurvando i mesti lumi,

con che lagrime, o Dio! con che sospiri

si scioglie in acque e si distempra in fumi;

ma, raccogliendo il mar tra’ suoi zaffiri

dele stille cadenti i vivi fiumi,

ambizioso e cupido d’averle,

le serba in conche e le trasforma in perle.

Con le man su’l ginocchio, in terra assisa,                             71

filando argento da’ begli occhi fore,

china al petto la fronte e’n cotal guisa

tra sestessa consuma il suo dolore.

Poi, mentre ai salsi flutti il guardo affisa,

sfoga parlando l’angoscioso core

e perde, apostrofando al mar crudele,

tra gli strepiti suoi queste querele:

«Deh placa, o mare, i tuoi furori alquanto,                             72

pietoso ascoltator de’ miei cordogli,

e di quest’occhi il tributario pianto,

che’n larga vena a te sen corre, accogli.

Teco parlo, or tu m’odi, e fa che’ntanto

abbian quest’onde tregua e questi scogli;

sen portino intutto invidi i venti,

come fer le speranze, anco i lamenti.

Nacqui agli scettri e’nsu i reali scanni                        73

più di me fortunata altra non visse.

Bella fui detta, e’l fui, se senza inganni

lo mio specchio fedele il ver mi disse.

Or a quel fin su’l verdeggiar degli anni

corro, che’l fato al viver mio prescrisse,

abbandonando insu l’età fiorita

la bella luce e la serena vita.

Di ciò non mi dogl’io né mi lamento                          74

dela bugiarda adulatrice speme;

né del colpo fatal prendo spavento,

che mi portitosto al’ore estreme.

Chi sol vive al dolore ed al tormento

e suol vita aborrir, morte non teme;

a chi malvive il viver troppo è greve,

chi vive in odio al ciel viver non deve.

Lassa, di quelch’io soffro, aspro martire                               75

vie maggiore e più grave è il mal ch’attendo.

Ch’io deggia entro il mio seno, oimé! nutrire

un mostro abominevole ed orrendo,

questo innanzi al morir mi fa morire,

questo morte sprezzar mi fa morendo.

Deh! dammi pria ch’un tanto mal succeda,

padre Nettuno, ale tue fere in preda.

Se provocò del ciel l’ira severa                                 76

da me commesso alcun peccato immondo

e da te deve uscir l’orrida fera,

che me divori e che distrugga il mondo,

fia ventura miglior, ch’absorta io pera

da questo ingordo pelago profondo.

Più tosto il ventre suo tomba mi sia,

e lavin l’acque tue la macchia mia.

Ma s’egli è ver, che pur a torto e senza                                77

colpa incolpata e condannata io mora,

e se nume è lassù, che l’innocenza

curi e prego devoto oda talora,

da lui cheggio pietà, spero clemenza;

e quando il reo destin sia fermo ancora,

venga, e’l suo nero strale in me pur scocchi,

morte per sempre a suggellar quest’occhi

Più altro, ch’io ridirso né posso,                          78

parlava la dolente al sordo lito,

ch’avria qual cor più perfido commosso,

anzi il porfido istesso intenerito.

Il cavo scoglio mormorar percosso

per gran pietà fu d’ognintorno udito

e, rispondendo in roche voci e basse,

parea che de’ suoi casi il mar parlasse.

Per risguardar chi sia che si consuma                        79

in note pur sì dolorose e meste,

rompendo in spessi circoli la spuma

molte ninfe e tritoni alzar le teste,

ma, vinti da quel sol che l’acque alluma

e tocchi il freddo sen d’ardor celeste,

per fuggir frettolosi, i bei cristalli

seminaro di perle e di coralli.

Mentre dove il vertice s’estolle                              80

del’erta rupe, è posta in tale stato,

novo sente spirar di lungo il colle

di millaure sabee misto odorato,

indi d’un aere dilicato e molle

sibilar, sussurrar placido fiato,

che, dolcemente rincrespando l’onde,

fa tremar l’ombre e sfrascolar le fronde.

Era Zefiro questi. Io già, che’ntento                          81

altrove non avea l’occhio e’l pensiero,

volsi far quel benigno amico vento

dele mie gioie essecutor corriero.

Gonfia la mobil gonna e, piano e lento,

col suo tranquillo spirito leggiero,

dala scoscesa e ruinosa balza

senz’alcun danno ei la solleva ed alza,

e colà presso, ove di fior dipinta                               82

fa sponda al mar quella valletta erbosa

e di giovani allori intorno è cinta,

soavissimamente alfin la posa.

Qui da novo stupor confusa e vinta

su’l fiorito pratel siede pensosa,

che fresco insieme e morbido le serba

tetto di fronde e pavimento d’erba.

Poiché’l dolor, che de’ suoi sensi è donno,                           83

satollato ha di pianti e di lamenti,

stanca omai sì, che le palpebre ponno

apena sostener gli occhi cadenti,

viensene il sonno a torla in braccio, il sonno,

tranquillità dele turbate menti.

Dal sonno presa al fremito del’acque

su’l verde smalto addormentossi e giacque.

Negli epicicli lor duo soli ascosi                                84

i begli occhi parean dela mia Psiche,

dove chiusi traean dolci riposi

dal’amorose lor lunghe fatiche.

Duo padiglioni lievemente ombrosi

le velavan le luci alme e pudiche.

Le belle luci, onde languisco e moro,

legate eran dal sonno ed io da loro.

Vedesti ala stagion, quando le spine                          85

fioriscon tutte di novella prole,

sparso di fresche perle e mattutine,

piantato in riva al mar, nascosto al sole,

spiegar il molle e giovinetto crine

giardinetto di gigli e di viole?

Dirai ben tal sembianza assai conforme

ala leggiadra vergine che dorme.

Così posava; e vidi a un tempo istesso                                  86

lievAura, Aura vezzosa, Aura gentile

scherzarle intorno e ventilarle spesso

il crespo dela chioma oro sottile.

Per baciarla talor si facea presso

a quella bocca ov’è perpetuo aprile,

ma, timidetta poi quanto lasciva,

da’ respiri respinta, ella fuggiva.

I’ non so già se Zefiro cortese                                  87

fu, che spettacol dolce allor m’offerse,

che la tremula vesta alto sospese

e dele glorie mie parte m’aperse.

So ben, che con sua neve il cor m’accese,

quando il confin del bianco piè scoverse.

Scoverse il piede e del’ignuda carne

quanto a casta beltà lice mostrarne.

Poich’assai travagliato e poco queto                         88

in più pezzi ha carpito un sonno corto,

destasi e da quel loco ameno e lieto

piover si sente al cor novo conforto.

Sorge dal’odorifero roseto

e qua ne vien, dove’l mio albergo ha scorto.

Questo istesso palagio, ovora sei,

come raccoglie te, raccolse lei.

Nel limitar dela gemmata soglia                                 89

mette le piante e va mirando intorno;

mira il bel muro e di pomposa spoglia,

di fulgidoro il travamento adorno,

sì che può far, quantunque il sol non voglia,

col proprio lume a sé medesmo il giorno.

Mira gli archi, le statue e l’altre cose,

che senza prezzo alcun son preziose.

Senza punto inchinar le luci al basso                          90

del tetto ammira le mirabil opre,

ma pur del tetto il rilucente sasso

la superbia del suol chiara le scopre;

stupisce il guardo e si trattiene il passo

al bel lavor, che’l pavimento copre,

perché tante ricchezze in terra vede,

che di calcarle si vergogna il piede.

Ella rapita da sì ricchi oggetti                         91

entra e d’alto stupor più si confonde,

poich’ala maestà di tai ricetti

ben la gran supellettile risponde.

Ecco, dove al cantar degli augelletti

fermossi; ivi spiegò le trecce bionde;

qui, poiché intorno a spaziar si mise,

respirò dolcemente e qui s’assise.

Quelche più l’empie il cor di meraviglia,                                92

è che negletto è qui quanto si gode.

Casasignoril non ha famiglia,

abitante non vede, ostier non ode,

castaldo alcun di lei cura non piglia

né di tanto tesor trova custode.

Vaga con gli occhi e’l vago piè raggira,

tutto insomma possiede e nessun mira.

Voce incorporea intanto ode, che dice:                                 93

«Di che stupisci? o qual timor t’ingombra?

sappi cauta esser sì, come felice,

omai dal petto ogni sospetto sgombra;

non bramar di veder quelche non lice,

spirito astratto ed impalpabil ombra.

Gli altri beni e piacer tutti son tuoi,

ciò che qui vedi o che veder non puoi».

Da non veduta man sentesi in questa                         94

d’acque stillate in tepida lavanda

condur pian piano, indi spogliar la vesta

e i bei membri mollir per ogni banda.

Dopo i bagni e gli odor, mensa s’appresta

coverta di finissima vivanda;

e sempre ad operar pronte e veloci

son sue serve e ministre, ignude voci.

Dato al lungo digiun breve ristoro                             95

con cibi, che del ciel foran ben degni,

entra pur ala vista occulto coro,

sceso quaggiù da’ miei beati regni,

concordando lo stil dolce e canoro

ala facondia degli arguti legni.

Benché né di cantor né di stromenti

scorga imagine alcuna, ode gli accenti.

Già l’Oblio taciturno esce di Lete,                            96

già la notte si chiude e’l vien manco,

e le stelle cadenti e l’ombre chete

persuadono il sonno al mondo stanco,

onde disposta alfin di dar quiete

al troppo dianzi affaticato fianco,

ricovra a letto in più secreto chiostro,

piumato d’oro, incortinato d’ostro.

Allor mi movo al dolce assalto e tosto                                  97

ch’entro la stanza ogni lumiera è spenta,

invisibile amante, a lei m’accosto,

che dubbia ancor, ciò che non sa paventa.

Ma se l’aspetto mio tengo nascosto,

le scopro almen l’ardor che mi tormenta

e, da lagrime rotti e da sospiri,

le narro i miei dolcissimi martiri.

Ciò ch’al buio tra noi fusse poi fatto,                         98

più bel da far che da contar, mi taccio.

Lei consolata alfin, me sodisfatto,

basta dir ch’amboduo ne strinse un laccio.

Dela vista il difetto adempie il tatto,

quelche cerca con l’occhio, accoglie in braccio;

s’appaga di toccar quelche non vede,

quanto al’un senso nega, al’altro crede.

Ma su’l bel carro apena in oriente                             99

venne del’ombre a trionfar l’Aurora

e i suoi destrier con l’alito lucente

fugate non avean le stelle ancora,

quando al bell’idol mio tacitamente

uscii di braccio e sorsi innanzi l’ora;

innanzi che del sol l’aurato lume

spandesse i raggi suoi, lasciai le piume.

Tornan da capo ala medesma guisa                          100

l’ascose ancelle ed aprono i balconi

e dela sua virginitate uccisa

motteggian seco; ed ecco i canti e i suoni.

Si leva e lava ed ode, a mensa assisa,

epitalami in vece di canzoni

e le son pur non conosciute genti

camerieri, coppier, scalchi e sergenti.

Così dal’uso assecurata e fatta                                 101

più coraggiosa omai dala fidanza,

già già meco e co’ miei conversa e tratta

con minor pena e con maggior baldanza.

E leggiadra e gentil, seben s’appiatta,

imaginando pur la mia sembianza,

dal suono incerto dela voce udita

prende trastullo ala solinga vita.

Ma quant’ella però contenta vive,                             102

tanto menano i suoi vita scontenta,

e di tal compagnia vedove e prive

più d’ogni altro le suore il duol tormenta.

Vigilando, il pensier lor la descrive,

dormendo, il sogno lor la rappresenta;

ond’alfin per saver ciò che ne sia,

dove la lasciar, prendon la via.

Io, come soglio, insu la notte ombrosa                                  103

seco in tal guisa il ragionar ripiglio:

«Psiche caro mio cor, dolce mia sposa,

fortuna ti minaccia alto periglio,

dove uopo ti fia d’arte ingegnosa,

di cautela sottile e di consiglio.

Ignoranti del ver, le tue sorelle

di te piangendo ancor cercan novelle.

Su que’ sassi colà ruvidi ed erti,                                104

onde campata sei, son già tornate.

Io farò, se tu vuoi, per compiacerti

che sieno a te da Zefiro portate.

Ma ben t’essorto, a quant’io dico averti,

fuggi le lor parole avelenate.

Nel resto io ti concedo interamente,

che le lasci da te partir contente.

Vo’ che de’ petti lor l’avare fami                              105

satolli a piena man d’argento e d’oro.

Non ti lasciar però, se punto m’ami,

persuader dale lusinghe loro.

Non l’ascoltar; se d’ascoltarle brami,

pensa ascoltar dele sirene il coro,

dal cui dolce cantar tenace e forte,

mascherata di vita, esce la morte.

E se pur troppo credula vorrai                                  106

prestar fede ala coppia iniqua e ria,

in ciò ti prego almen non l’udir mai,

in cercar di saver qual io mi sia.

Con un tardo pentir, se ciò non fai,

ti soverrà del’avertenza mia.

A me sarai cagion di grave affanno,

ed a te porterai l’ultimo danno

Taccio ed ella ascoltando i miei ricordi,                                107

promette d’osservar quanto desio.

«Di mestessa (dicea) fia che mi scordi

pria che gli ordini tuoi ponga in oblio.

A’ tuoi fian sempre i miei desir concordi,

tu se’, qualunque sei, lo spirto mio.

Abbine di mia fe’ pegno securo,

per me, per te, per Giove stesso il giuro

Già dando volta al bel timon dorato                          108

e de’ monti indorando omai le cime,

il carro di Lucifero rosato

dale nubi vermiglie il giorno esprime,

quando a quel dir svanitole da lato,

volo per l’aure e fo portar sublime

l’indegna coppia innanzi ala mia vita

dal bel signor dela stagion fiorita.

Le’ncontra e bacia e’n dolci atti amorosi                              109

fa lor liete accoglienze, ossequi cari.

Le’ntroduce ala reggia, ov’entro ascosi

servon senza scoprirsi i famigliari.

Tra ricchi arnesi e tra tesor pomposi

trovan cibi e lavacri eletti e rari,

sichelle a tanto cumulo di bene

già nutriscon l’invidia entro le vene.

Le dimandan chi sia di cose tante                              110

signor, di che fattezze il suo diletto.

Ella, fin a quel punto ancor costante,

non obliando il marital precetto,

s’infinge e dice: «il mio gradito amante

più ch’altro leggiadro un giovinetto;

ma l’avete a scusar, ch’agli occhi vostri,

occupato ale cacce, or non si mostri».

Ciò detto le ribacia e le rimanda                               111

colme di gemme e di monili il seno.

Ai cari genitor si raccomanda,

poi le consegna al venticel sereno,

che, presto ad esseguir quanto comanda,

rapido più che strale o che baleno,

con vettura innocente in braccio accolte

le riporta alo scoglio, onde l’ha tolte.

Elle di quel velen tutte bollenti,                                  112

che sorbito pur dianzi avea ciascuna,

borbottavan tornando e’n tali accenti

con l’altra il suo furor sfogava l’una.

«Or guata cieca, ingiusta e dale genti

forsennata a ragion detta Fortuna.

Tal de’ meriti umani ha cura e zelo?

e tu tel vedi e tu tel soffri o cielo?

Figlie d’un ventre istesso al mondo nate                                113

perché denno sortir sorti diverse?

Noi le prime e maggior, malfortunate

tra le sciagure e le miserie immerse;

ed or costei, che’nsu l’estrema etate

già stanco in luce il sen materno aperse,

se fu del nostro ben trista pur dianzi,

lieta del nostro mal fia per l’innanzi.

Un marito divin chi né godere                                   114

conoscer sel sa, gode a sue voglie.

Vedesti tu per quelle stanze altere

quante gemme, quant’oro e quali spoglie?

S’egli e pur ver che con egual piacere

giovane così fresco in braccio accoglie

e di tanta beltà, quant’ella dice,

più non vive di lei donna felice.

Altri certo non può che dio celeste                            115

esser l’autor di meraviglie tali;

e s’ei pur l’ama, com’appar da queste,

la porrà tra le dee non più mortali.

Non vedi tu, ch’ad ubbidirla preste

insensibili forme e spiritali,

quasi vili scudier, move a suo senno?

comanda ai venti ed e servita a cenno?

Misera me, cui sempre il letto e’l fianco                                116

ingombra inutilmente un freddo gelo,

impotente fanciullo e vecchio bianco,

uom che vetro ha la lena e neve il pelo.

sposo alcun, sicome infermo e stanco,

più spiacente e geloso è sotto il cielo,

che custode importun la casa tiene

sempre di ferri cinta e di catene

«Ed io (l’altra soggiunge) un ne sostegno                              117

impedito dal morbo e quasi attratto

e calvo e curvo e men che sasso o legno

ai congressi amorosi abile ed atto;

cui più serva che moglie esser convegno,

con le cui ritrosie sempre combatto;

conviemmi ognor curarlo e’n tali affanni,

vedova e maritata, io piango gli anni.

Ma tu sorella, con ardir ti parlo,                                118

con cor troppo servil soffri i tuoi torti.

Io non posso per me dissimularlo,

né più oltre sarà che mel sopporti.

Mi rode il petto un sì mordace tarlo,

che non trovo pensier, che mi conforti.

Animo, generoso aborre e sdegna

tal ventura caduta in donna indegna.

Non ti sovien con qual superbia e quanto                              119

fasto, quantunque a non curarla avezze,

poiché n’accolse, ambizioso vanto

si diè di tante sue glorie e grandezze?

E pur a noi, benché n’abondi tanto,

poca parte donò di sue ricchezze

e poiché fastidita ne rimase,

subito ne scacciò dale sue case.

Quando a farla pentir di tanto orgoglio                                  120

vogli tu, come credo, unirti meco,

esser detta mai più donna non voglio,

s’a mortal precipizio io non la reco.

Per or, tornando al solitario scoglio,

nulla diciam d’aver parlato seco;

non facciam motto del suo lieto stato,

per non farlo col dir vie più beato.

Assai noistesse pur visto n’abbiamo                          121

e di troppo aver visto anco ne spiace.

A que’ poveri alberghi omai torniamo,

dove mai non si gode ora di pace.

consiglio miglior vo’ che prendiamo

a punir di costei l’insania audace,

onde s’accorga alfin d’aver sorelle

suo malgrado più degne e non ancelle

Tal accordo conchiuso, a quella parte                                   122

le scelerate femine sen vanno

e con guance graffiate e chiome sparte

pur l’usato lamento aprova fanno.

I ricchi doni lor celano ad arte,

tra sé ridendo del’ordito inganno.

Così con finti pianti e finti modi

van machinando le spietate frodi.

Tosto che la stagion serena e fosca                           123

l’aere abbraccia dintorno, io l’ali spiego

e qual velen quelle due furie attosca

racconto ala mia Psiche e la riprego

a voler, benchapien non mi conosca,

contentarsi del più, se’l men le nego.

Le scopro il cor, coprendole il sembiante,

e può veder l’amor, se non l’amante.

Le mostro che soverchio è voler poi                         124

investigar la mia vietata faccia,

poiché però non crescerà tra noi

quel grand’amor, che l’un e l’altro allaccia.

L’essorto che non guasti i piacer suoi

per un lieve desio, ma goda e taccia:

quanto può giusto sdegno io le rammento

e la fede promessa e’l giuramento.

Le fo saver che nel bel sen fecondo                          125

un fortunato infante ha già concetto,

che fia divino ed immortale al mondo,

se s’asterrà dal mio conteso aspetto.

Ma se vorrà mirar quelche l’ascondo,

a morte lo farà nascer soggetto.

L’ammonisco a schivar tanta ruina

al fanciul sovrastante, a lei vicina.

Ella giura e scongiura e’nsomma vole                                    126

pur riveder quella sorella e questa;

e fa con lagrimette e con parole

un bacio intercessor dela richiesta;

ed io col proprio crin, mentre si dole,

rasciugando le vo’ la guancia mesta;

lasso, che non potrà, se in me può tanto

l’amorosa eloquenza del bel pianto?

Nulla alfin so negarle e tosto quando                         127

s’apre il ciel mattutino ai primi albori,

risorgo e lieve insu lo scoglio mando

il padre fecondissimo de’ fiori.

Già l’empie, che stan pur quivi aspettando,

delo spirto gentil senton gli odori;

ed ei pur quasi a forza insu le spalle

le ritragitta ala fiorita valle.

Trovan la bella e sotto liete fronti                              128

coprono il fiel che’l cor fellone asconde.

Ella con atti pur cortesi e pronti

ala mentita affezzion risponde.

Caldi vapori d’odorati fonti

in conche d’oro ai lassi membri infonde

e’n ricchi seggi infra delizie immense

degne le fa dele beate mense.

Comanda poscia agli organi sonanti,                         129

chiama al concerto le canore voci

e i ministri invisibili volanti

al primo cenno suo vengon veloci.

Ma quella melodia di suoni e canti,

che placherebbe gli aspidi feroci,

dele serpi infernali, ancorché dolce,

la perfidia crudel punto non molce,

anzi, con lo stupor, tanto più fiera                             130

cresce l’invidia che le morde e lima,

onde la pregan pur che chiara e vera

del vago suo la qualitate esprima.

La semplicetta garrula e leggiera,

cui non sovien ciò che lor disse in prima,

perch’accusar del fatto il ver non vole,

aviluppa e compon novelle fole;

dice che ricco d’or per varie strade                          131

con varie merci a traficar intende

e che la neve dela fredda etade

già già le tempie ad imbiancar gli scende.

Poi, perché ratto ale natie contrade

le riconduca, a Zefiro le rende

che, come suole, ale paterne spiagge

di novi doni onuste indi le tragge.

«Deh! che ti par dele menzogne insane,                                132

 (l’una al’altra dicea) di questa sciocca?

cacciator dianzi, dale prime lane

quel suo non avea pur la guancia tocca;

or mercando sen va per rive estrane

e la bruma senil su’l crin gli fiocca;

o che finge, o che mente, o ch’ella stessa

non sa di ciò la veritate espressa.

Tempo è, comunque sia, da far cadere                                 133

tutte le gioie sue disperse e rotte

Con sì fatto pensier vanno a giacere

e’n vigilia crudel passan la notte.

Col favor di favonio indi leggiere

a Psiche insu’l mattin son ricondotte,

che gode pur d’accarezzar le due,

sorelle non dirò, vipere sue.

Giunte, esprimendo a forza in larghe vene                             134

lagrime fuor degli umidetti rai,

che sempre, e dir non so dove le tiene,

quel sesso a voglia sua n’ha pur assai

«Dolce (presero a dirle) amata spene,

tu secura qui siedi e lieta stai

e, malcauta al periglio e trascurata,

l’ignoranza del mal ti fa beata.

Ma noi, noi che sollecite ala cura                              135

dela salute tua siam sempre intente,

convien ch’a parte d’ogni tua sciagura

abbiam del commun danno il cor dolente.

Sappi che quel, che’nsu la notte oscura

giacer teco si suole, è un fier serpente;

un serpente crudele esser per certo

quelche teco si giace, abbiam scoverto.

Videl più d’un pastor non senza rischio                                 136

quando a sera talor torna dal pasto,

guadar il fiume e, variato a mischio,

trarsi dietro gran spazio il corpo vasto.

Intorno a sé dal formidabil fischio

lasciando il ciel contaminato e guasto,

con lunghe spire per l’immonde arene,

se vederlo sapessi, a te ne viene.

Viensene in più volubili volumi                                  137

divincolando il flessuoso seno.

Da minacciosi e spaventosi lumi

esce strano fulgor, ch’arde il terreno

e di nebbia mortal torbidi fumi

infetti di pestifero veleno

sbuffando intorno, a lato a te si caccia

e fa la cova sua fra le tue braccia.

Par ch’oltre a sé si sporga e’n sé rientre                               138

e ne’ lubrici tratti onda somiglia,

e fuggendo e seguendo il proprio ventre,

lascia sestesso e sestesso ripiglia.

Poi chiude i giri in un sol groppo e mentre

in mille obliqui globi s’attortiglia,

di ben profondo solco, ove s’accampa,

quasi vomere acuto, il prato stampa.

Quando del cupo suo nativo bosco                           139

dala fame ad uscir per forza è spinto,

d’un verde bruno e d’un ceruleo fosco

mostra l’ali fregiate e’l dorso tinto.

Squallido d’oro e turgido di tosco,

di macchie il collo a più ragion dipinto,

scopre di quanti al sol vari colori

l’arco suo rugiadoso iride infiori.

Ahi! che figura abominanda e sozza,                         140

se talor per lo pian stende le strisce,

e poiché vomitata ha dala strozza

carne di gente uccisa, ei la lambisce,

o, se del sangue che maisempre ingozza

avien che’l tergo e’l petto al sol si lisce,

il tergo e’l petto armato a piastre e maglie,

di doppie conche e di minute scaglie:

livido foco che le selve appuzza                                141

spira la gola ed aliti nocenti.

Vibra tre lingue e nele fauci aguzza

un tripartito pettine di denti.

Sanguigne schiume dala bocca spruzza

ed ammorba cofiati gli elementi;

l’aure corrompe, mentre l’aria lecca,

strugge i fior, l’erbe uccide e i campi secca.

Guarditi, o suora, il ciel dala sua stizza,                                 142

scampiti Giove pur da quella peste,

qualor per ira si contorce e guizza

e sbarra le voragini funeste,

la superba cervice in alto drizza,

erge del capo le spietate creste,

e ribattendo le sonore squamme,

Mongibello animato, aventa fiamme.

Perché con tanta industria e secretezza                                 143

credi la propria effigie ei tenga ascosa,

senon perché sua natural bruttezza

agli occhi tuoi manifestar non osa?

Ma seben or t’adula e t’accarezza

sotto quel dolce titolo di sposa,

pensi però che la sua cruda rabbia

lungo tempo digiuna a tener abbia?

Aspetta pur che del tuo ventre cresca,                                  144

come già va crescendo, il peso intutto.

Lascia che venga con più stabil esca

di tua pregnanza a maturarsi il frutto.

Allor vedrai, sii certa, ove riesca

il sozzo amor d’un animalbrutto.

Allor fia, chi nol sa? che fuor d’inganni,

preda a suo modo opima, ei ti tracanni.

S’a noi non credi, ed oh, queste parole                                 145

sparse sien pur al vento e non al vero!

credi a quel che mentir né può né suole,

del’oracol febeo presagio fiero.

Il presagio in oblio por non si vuole,

ch’imaginandol pur trema il pensiero,

ch’esser ti convenia moglie d’un angue,

morte e strage del mondo e foco e sangue.

Che farai dunque? o col tuo scampo a noi                            146

consentirai, d’ogni sospetto sciolta,

o tanto attenderai che tu sia poi

nele ferine viscere sepolta?

Se’n tal guisa nutrir più tosto vuoi,

non so s’io dica o pertinace o stolta,

l’empia ingordigia del’osceno mostro,

adempito abbiam noi l’ufficio nostro.

Ma se non vuoi dele voraci brame                            147

cibo venir di sì vil bocca indegno,

pria ch’alfin sazia la lascivia infame

teco trangugi l’innocente pegno,

dela fera crudel tronchi lo stame

senz’altro indugio un generoso sdegno,

e prendi a un colpo d’estirpar consiglio

il proprio essizio e’l publico periglio».

Sentesi Psiche a quel parlar, d’orrore                                   148

tremare i polsi ed arricciare i crini;

sudan l’estremità, palpita il core,

spariscon dal bel volto ostri e rubini,

gelan le fibre e di gelato umore

lucidi canaletti e cristallini

stilla essangue la fronte, a punto quali

suole aurora d’april rugiade australi.

Contrarie passion, tra cui s’aggira,                            149

in quel semplice cor fan guerra interna.

D’amore e d’odio e di spavento e d’ira

gran tempesta la volge e la governa.

Nave rassembra a cui mentr’ostro spira

or garbino or libecchio i soffi alterna.

Pur dopo molti alfin pensier diversi

nel fondo d’ogni mal lascia cadersi.

Dimenticata già d’ogni promessa,                             150

tutto il secreto a buona rivela.

Del furtivo marito il ver confessa

e che fugge la luce e che si cela.

Rapita dal timor, dal duolo oppressa,

geme, freme, s’afflige e si querela,

e, mancandole in ciò saldo discorso,

di pietà le riprega e di soccorso.

Contro il tenero core allor si scaglia                          151

dele donne malvage il furor crudo

e, con aperta e libera battaglia,

stringon già dela fraude il ferro ignudo.

«Fuorché’l partito estremo, altro che vaglia

non hanno i casi estremi o schermo o scudo.

Al’intrepide genti e risolute

la desperazion spesso è salute.

Ti puoi dela salute il calle aprire,                               152

se la speme non mente, assai spedito.

scemar deve in te punto l’ardire

biasmo di fellonia con tal marito.

Chi t’inganna ingannar non è tradire,

giusto è che sia lo schernitor schernito,

ché, quando ad opra rea vien che consenta,

la fede sceleragine diventa.

Sotto il letto vogliam che tu nasconda                                   153

un ferro acuto ed una luce accesa,

e come pria la creatura immonda

nel’usato covil si sia distesa

e nel colmo del’ombra alta e profonda

sarà dal maggior sonno avinta e presa,

sorgi pian piano e tuo ministro e duce

sprigiona il ferro e libera la luce.

La luce il modo allor fia che ti scopra                                    154

ben oportuna e consigliera e guida.

Non temer no, che d’ambe noi nel’opra

avrai, s’uopo ti fia, l’aita fida.

Senz’alcuna pietà, giuntagli sopra,

fa che del fier dragone il capo incida,

perché con bestiaferoce e strana

qualunque umanità fora inumana

E, così detto, l’una e l’altra prende                           155

commiato e parte; ella riman soletta,

senon sol quanto agitatrici orrende

seco le Furie in compagnia ricetta.

Ma, seben risoluta al’opra intende

e la machina appresta e’l tempo aspetta,

pur con affetti vari in tanta impresa

litigando tra sé pende sospesa.

Ancor dubbia e pensosa ed ama e teme,                              156

or confida, or diffida, or vile, or forte.

Quinci e quindi in un punto il cor le preme

ardimento d’amor, terror di morte.

In un corpo medesmo insieme insieme

aborrisce il serpente, ama il consorte;

e stan pugnando in un istesso loco

tra rispetto e sospetto il ghiaccio e’l foco.

Già nel’occaso i suoi corsier chiudea,                                   157

giunto a corcarsi, il gran pianeta errante,

e già vicin, mentre nel mar scendea,

sentiva il carro d’or stridere Atlante,

quand’io, che cieco in tenebre vivea

dal mio terrestre sol lontano amante,

per far giorno al mio cor, dal’alto polo

men venni ingiù precipitando il volo.

Psiche mia con lusinghe mi riceve,                             158

l’apparecchio crudel dissimulando.

Ma poich’alato a lei mi vengo in breve,

stanco da’ primi assalti, addormentando,

mentre piacevolmente il sonno greve

sto con leggieri aneliti soffiando,

sorge e sospinta da pensier maligni

del sacrilegio suo prende gli ordigni.

Dele pria care e poscia odiate piume                        159

viensi accostando inver la sponda manca.

Nela destra ha il coltel, nel’altra il lume,

d’orrore agghiaccia e di paura imbianca.

Ma per farle esseguir quanto presume

sdegno il suo debil animo rinfranca

e la forza del fato al’atto fiero

arma d’audacia il feminil pensiero.

Fa l’ascolta pertutto e’nsu la porta                            160

dela stanza si ferma e guata pria.

Sporge innanzi la mano e la fa scorta

al piè che lento al talamo s’invia.

Tende l’orecchie e sovraviso accorta

ogni strepito e moto osserva e spia.

Sospende alto le piante e poi leggiere

le posa in terra e non l’appoggia intere.

Quando dov’io poso è giunta appresso                             161

voce non forma, accento non esprime,

di tirar non s’arrischia il fiato istesso

e, se spunta un sospir, tosto il reprime.

Caldo desio rinvigorisce il sesso,

freddo timor le calde voglie opprime;

brama e s’arretra, ardisce e si ritiene,

bollon gli spirti e gelano le vene.

Ma non sì tosto il curioso raggio                               162

del lume esplorator venne a mostrarse,

dal cui chiaro splendor del cortinaggio

ogni latebra illuminata apparse,

che, sbigottita del’ingiusto oltraggio,

stupì repente e di vergogna n’arse.

Non sa s’è sogno o ver, ché, quando crede

veder un drago, un garzonetto vede.

Gran villania le parve aver commessa                                   163

e di tanta follia forte le’ncrebbe.

Spegner la luce perfida e con essa

l’arrotato coltel celar vorrebbe.

Fu per celarlo in sen quasi a sestessa

e senza dubbio alcun fatto l’avrebbe

se dala man tremante il ferro acuto

non le fusse in quel punto al suol caduto.

Mentr’ella in atto tal si strugge e langue,                                164

di toccar l’armi mie desio la spinge

e con man palpitante e core essangue

le prende e tratta e le tasteggia e stringe.

Tenta uno strale e di rosato sangue

l’estremità del pollice si tinge;

mirasi punto incautamente il dito

e si sente in un punto il cor ferito.

Così si stava e romper non ardiva                             165

la mia quiete placida e tranquilla.

Ed ecco allor la liquefatta oliva

del’aureo lucernier scoppia e sfavilla,

e, vomitando dala fiamma viva

di fervido licor pungente stilla,

al’improviso con tormento atroce

su l’ala destra l’omero mi coce.

Desto in un tratto io mi risento e salto                                   166

fuor dela cuccia, ed ella a me s’apprende,

m’abbraccia i fianchi e con vezzoso assalto

per vietarmi il partir pugna e contende.

M’afferra il piè fugace, io meco in alto

la traggo a volo ed ella meco ascende.

Così pendente per l’aeree strade

mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.

Da me spiccata, amaramente al suolo                                   167

ululando e piangendo ella si stese.

Io mi volsi a que’ pianti e del suo duolo

in mezzo al’ira la pietà mi prese,

onde l’ali arrestai, fermando il volo,

a sì tristo spettacolo sospese,

e mi posi a mirarla intento e fiso

d’un cipresso vicin tra i rami assiso.

«Ingrata (a dirle indi proruppi) ingrata,                                  168

tosto in Lete un tanto ardore è spento?

Così dala memoria smemorata

l’aviso mio ti cadde in un momento?

Quest’è l’amor? quest’è la giurata?

Dunque tu paglia al foco, io foco al vento?

tu dunque onda alo scoglio, io scoglio al’onda?

io stabil tronco e tu volubil fronda?

Io, dela madre mia posto in non cale                         169

l’ordin, cui convenia pur ch’ubbidissi,

quando d’ogni sventura e d’ogni male

sepelir ti volea sotto gli abissi,

il cor per tua cagion col proprio strale

inavedutamente mi trafissi;

per te trafitto e per tuo bene ascoso

volsi ad onta del ciel farmiti sposo.

E tu sleal, pur come fusse poco                                170

d’invisibil ferita il cor piagarmi,

volesti me, ch’era tua gioia e gioco,

quasi serpe crudel, ferir con l’armi;

e non contenta d’amoroso foco

co’ tuoi begli occhi l’anima infiammarmi,

hai voluto con arte empia e malvagia

ardermi ancora il corpo in viva bragia.

Già più volte predetto il ver ti fue,                             171

frenar ben sapesti un van desire.

Ma quelle egregie consigliere tue

la pena pagheran del lor fallire.

Giusto flagel riserbo ad ambedue,

te sol con la mia fuga io vopunire.

Rimanti, a Dio; da te cercato invano

e col corpo e col cor già m’allontano

Tanto le dissi; ed ella, a cui più dolse                        172

che la caduta sua la mia salita,

poiché gran tratto d’aria alfin le tolse

l’amata imago in apparir sparita,

per lung’ora di sorger non volse,

dove attonita giacque e tramortita;

poi la fronte levando afflitta e bassa

tra sospiro e sospir ruppe un  «ahi lassa».

«Lassa (dicea) tu m’abbandoni e vai                         173

da me lontano e fuggitivo, Amore.

Fuggisti, Amor. Che più mi resta omai,

senon sol di mestessa odio ed orrore?

Ben dala vista mia fuggir potrai,

ma non già dal pensier, non già dal core.

Se’l ciel dagli occhi miei pur ti dilegua,

fia che col core e col pensier ti segua.

Sì per poco ti sdegni? e tocco apena                        174

da picciola scintilla t’addolori?

Quest’alma or che farà d’incendio piena?

Che farà questo cor fra tanti ardori

Così doleasi, e copiosa vena

versando intanto d’angosciosi umori,

sommersi dale lagrime cadenti

in bocca le morir gli ultimi accenti.

Dopo molto lagnarsi in piè risorge,                            175

ratto poi drizza al vicin prato il passo,

ché con corso pacifico vi scorge

torcersi un fiumicel tra sasso e sasso.

Va su l’estremo margine, che sporge

l’orlo curvo e pendente al fondo basso,

e desperata e dal dolor trafitta

precipitosamente ingiù si gitta.

Ma quel cortese e mansueto rio,                               176

o ch’a me compiacer forse volesse,

ricordevole pur che son quell’io

che so fiamme destar tra l’acque istesse,

o che con gli occhi, ovarde il foco mio,

rasciutte un sì bel sol l’onde gli avesse,

del’altra riva insu le spiagge erbose

con innocente vomito l’espose.

Vede, uscita dal rischio, al’ombra assiso                               177

d’Arcadia il rozzo dio ch’ivi soggiorna.

Tutto d’ebuli e mori ha tinto il viso

e di pelle tigrina il fianco adorna;

fa d’edra fresca un ramoscel reciso

ombroso impaccio al’onorate corna,

e tien, con l’edra incatenando il faggio,

impedito di fronde il crin selvaggio.

Mentre le capre sue vaghe e lascive                          178

pendon dal’erta con gli amici agnelli

e del fiume vicin lungo le rive

tondono i verdi e teneri capelli,

egli ale canne, che fur ossa vive

di lei che gli arse il cor con gli occhi belli,

inspira dalo spirto innamorato

voce col suono ed anima col fiato.

Sette forate e stridule cicute                          179

con molle cera di sua man composte

bella varietà di voci argute

formano in disegual serie disposte,

onde il silenzio dele selve mute

impara ad alternar dolci risposte

ed ale note querule e canore

fa la ninfa degli antri aspro tenore.

Questi veduta allor la meschinella                              180

languida starsi e sconsolata e sola,

pietosissimamente a sé l’appella

e con dolci ragion poi la consola:

 “Rustico mi son io, giovane bella,

ma dotto assai nel’amorosa scola,

e di quel mai che’n te conosco aperto

per lunga età, per lunga prova esperto.

Il piè tremante, il pallidetto volto,                              181

quegli umidocchi e que’ sospiri accesi

mi dan pur chiaro a diveder che molto

hai dal foco d’amor gli spirti offesi.

Odimi dunque, e l’impetostolto

frena de’ tuoi desiri a morte intesi,

né più voler, del’opre lor più belle

omicida crudel, tentar le stelle.

Il mal che ben si porta è lieve male                            182

e vince ogni dolor saggio consiglio

e nelo stato misero mortale

è maggior gloria ov’è maggior periglio.

Mi son noti i tuoi casi e so ben quale

sia dela bella dea l’alato figlio.

Non ti doler, che seben or ti fugge,

so che non men di te per te si strugge.

L’ire degli amator fidi e veraci                                  183

non son senon d’amor mantici e venti

che de’ freddi desii destan le faci

e le fiamme del cor fan più cocenti,

onde le risse alfin tornano in paci

e’n gioie a terminar vanno i tormenti.

Giova poi la memoria, ed è soave

a rimembrar quelch’a soffrir fu grave.

Or del cor tempestoso acqueta i moti                                   184

e cessa il pianto ch’i begli occhi oscura,

né voler con guastar le proprie doti

far torto al cielo ed oltraggiar natura.

Umil più tosto con preghiere e voti

quel sì possente dio placar procura,

loqual, credimi pur, fia ch’a’ tuoi preghi

ogni sdegno deposto alfin si pieghi

Ringrazia Psiche il satiro pietoso                               185

che sì ben la conforta e la lusinga,

poi s’accommiata e senz’alcun riposo

per traverse remote erra solinga.

Alfin dove domina lo sposo

dela suora maggior giunge raminga.

Giunta, l’altra l’abbraccia e la saluta

e chiede la cagion di sua venuta.

La già schernita, a vendicarsi accinta,                                   186

seco d’amor le dimostranze alterna,

e d’allegrezza astutamente infinta

vestendo il volto e l’apparenza esterna,

«Dal tuo consiglio stimulata e spinta

presi il ferro (le dice) e la lucerna

per uccider colui che di marito

usurpato s’avea nome mentito.

Tacitamente a mezzanotte io sorsi                             187

ed avendo a ferir stretto il coltello,

lassa, ch’un mostro, è vero, un mostro scorsi,

ma mostro di beltà pur troppo bello.

Quel lume spettator ch’innanzi io sporsi

a quanto narro in testimonio appello,

che quando un tal oggetto a mirar ebbe

raddoppiando splendore ardore accrebbe.

Ahi non senza sospir mene rimembra,                                   188

ché, contemplando quel leggiadro velo,

dico il corpo divin che certo sembra

meraviglia del mondo, opra del cielo,

al’armi, al’ali, ale purpuree membra,

ond’uscia foco da stemprare il gelo,

m’accorsi alfin che quelch’ivi giacea

era il vero figliuol di Citerea.

Ma quel perfido lume e maledetto,                            189

accusator dele bellezze amate,

non so s’invido pur del mio diletto

o vago di baciar tanta beltate,

al sonnacchioso arcier, ch’ignudo in letto

le palpebre tenea forte serrate,

con acuta favilla il tergo cosse,

sich’al’aspra puntura ei si riscosse,

e, veggendomi armata in sì fier atto,                          190

scacciommi e non fe’ più meco dimora.

 ‘Vanne (disse) crudel, vattene ratto

e dal mio letto e dal mio petto fora.

Io tutti i miei pensier per tal misfatto

volgo in tua vece ala maggior tua suora;

ella (e t’espresse a nome), io vo’ che sia

e di me donna e dela reggia mia’.

Disse e fuor del suo albergo al’altra riva                               191

soffiar mi fe’ dal portator volante.

Va dunque, occupa il loco ond’io son priva,

godi quelch’io perdei, celeste amante.

A me, che più non spero infin ch’io viva

romper la stella mia dura e costante,

chieder convien tributo a tutte l’ore

di pianto agli occhi e di sospiri al core».

Apena ella ha di dir fornito questo                            192

che quell’invida arpia le piante affretta

e giunta insu’l fatal monte funesto,

dov’andar suole il vento, il vento aspetta,

«Vienne Zefiro, vien veloce e presto,

angel di primavera, amica auretta,

vienne (dicea) tu condottier, tu scorta,

preda ben degna al mio signor mi porta

Sente allora spirar di su la cima                                 193

del’alta costa un ventolin sottile,

onde fuor d’ogni dubbio attende e stima

ch’a lei ne vegna il precursor d’aprile.

Scagliasi a piombo e gravemente al’ima

parte del poggio il corpo immondo e vile

ruinoso trabocca e tra que’ sassi

misera, in cento pezzi a franger vassi.

Con l’arte istessa ancor poco dapoi                          194

ingannò l’altra giovane meschina,

che pur, fede prestando a’ detti suoi,

salse anelante insu la rupe alpina

e similmente imaginar ben puoi

se dal monte balzando ala marina

lasciò, condegno premio ale sue colpe,

lacerate le viscere e le polpe.

Tra le pietre medesme, ahi semplicetta,                                 195

lasciò le membra dissipate e sciolte.

Così fur con egual giusta vendetta

le due pesti maligne al mondo tolte.

E così chi di fraude si diletta

ne’ propri lacci suoi cade ale volte.

Volse farle ambedue fato consorte

come complici al mal, compagne in morte.

Ma Psiche or quinci or quindi errante e vaga                         196

ricercando di me, le vie scorrea,

di me che per dolor di doppia piaga

su le piume materne egro giacea;

e, benché di sue ingiurie alquanto paga,

pur tra duri martir l’ore traea,

spendendo i giorni in gemiti dirotti

e consumando in lacrime le notti.

Stavasi intanto la mia bella madre                             197

nel profondo oceano, ove già nacque,

quelle membra a lavar bianche e leggiadre,

ond’ella agli occhi tuoi cotanto piacque.

Ed ecco a lei dale volanti squadre

un marittimo augel ch’abita l’acque,

sotto l’onde attuffando allor le penne,

tutto il successo a rivelar le venne.

Le prende a raccontar l’iniquo mergo                                   198

e le mie nozze e’l già concetto pegno;

scopre ch’io porto nel’adusto tergo

di grave cicatrice impresso segno;

narra ch’ascoso entro l’usato albergo

languisco in amor sozzo, in ozio indegno;

conchiude alfine il relator loquace

eh’l mondo tutto a biasmo suo non tace.

O qual nel cor di Venere s’aduna                             199

fiamma di sdegno allor fervida e viva;

dimanda al messo in vista oscura e bruna

chi sia l’amica mia, chi sia la diva;

se sia del popol dele ninfe alcuna

o dele dee nel numero s’ascriva;

se tolta io l’abbia e qual scelta di loro

o dele Muse o dele Grazie al coro.

Risponde non saver di questa cosa                           200

l’alato ambasciador quando né come,

senon che strugge Amor fiamma amorosa

e ch’egli ama una tal che Psiche ha nome.

Sembra la dea non dea, furia rabbiosa

a quell’annunzio e con discinte chiome

esce del mar correndo e’nsu le soglie

giunta dela mia stanza il grido scioglie.

«Così dunque ubbidisci a’ detti miei,                         201

quant’io t’impongo ad esseguire accinto?

ito in tal guisa a vendicarmi sei?

ed hai di Psiche il tant’orgoglio estinto?

O degne palme, o nobili trofei,

ecco il forte campion che’l mondo ha vinto,

l’arciero egregio, il feritore invitto

or da donna mortal langue trafitto.

Ecco quel grande e generoso duce                           202

per cui soffre ogni cor tormento e pena,

e con infamia tanta or si riduce

a lasciarsi legar con sua catena,

e’n vil trionfo prigionier l’adduce

bellezza corrottibile e terrena;

quel buon figlio leal, ch’un van diletto

suole anteporre al maternal precetto.

E forse ch’io ministra anco non fui                            203

di questa sceleragine e mezzana,

quando diedi primier notizia a lui

dela malvagia femina profana?

Ch’io deggia sopportar crede costui

una nuora vulgar di stirpe umana

e che venga anco in cielo a farmi guerra

l’emula mia, la mia nemica in terra?

Pensi tu che’l mio ventre insterilito                            204

concepir più non possa un altro Amore?

Vedrai s’io saprò ben prender partito

e figlio generar di te migliore.

Anzi, per farti più restar schernito,

voglio un servo degnar di questo onore;

un de’ valletti miei voglio adottarmi,

dargli tutti i tuoi fregi e tutte l’armi.

Lui vestirò de’ colorati vanni,                                    205

egli avrà l’arco d’or che tu possiedi,

gli strali ond’escon sol ruine e danni

e la fiaccola ardente e gli altri arredi,

i quali a te, fellon, mastro d’inganni,

a quest’uso malvagio io già non diedi,

né gli hai già tu d’eredità paterna,

ma beni son dela mia dote eterna.

Fin da’ prim’anni tuoi veracemente                           206

fosti licenzioso e mal avezzo.

Sei contro i tuoi maggiori irreverente,

val teco adoprar minaccia o vezzo.

Anzi qual vedovetta orba sovente

la propria madre tua togli in disprezzo,

dico mestessa, ond’alimento prendi,

spesso oltraggiasti ed ogni giorno offendi.

Né pur del forte tuo terribil dio                                 207

temi l’armi guerriere e vincitrici,

anzi talor per maggior scorno mio

concubine gli trovi e meretrici.

Ma di si fatti scherzi i’ so ben io

come far l’ire mie vendicatrici.

Vo’ che tante follie ti costin care

e queste nozze tue ti sieno amare.

Deh, che far deggio? o come al’insolenza                             208

di questo sfrenatel stringere il morso?

Mi convien pur malgrado al’Astinenza,

mia nemica mortal, chieder soccorso.

Per dargli al fallo egual la penitenza,

forza è pur ch’a costei rivolga il corso;

costei, benché da me sempre aborrita,

fia che mi porga ala vendetta aita.

Ella di quest’altier che sì presume                             209

domi le forze e suoi pensier perversi.

Io fin che quel crin d’or, che per costume

più d’una volta innanellando tersi,

per me tronco non veggia, e quelle piume,

che’n questo sen di nettare gli aspersi,

di mia man non gli svella, unqua non fia

che sodisfaccia al’alta ingiuria mia.»

Con questo dir, da’ suoi furor rapita,                        210

va per far al mio core oltraggio e danno,

e Cerere e Giunon trova al’uscita,

che le van contro e compagnia le fanno

e, veggendola afflitta e scolorita,

dimandan la cagion di tanto affanno.

Ella di quel dolor la somma spiega

e sue ragioni ad aiutar le prega.

«Se mi siete (dicea) fidate amiche,                            211

s’è l’amor vostro al’amor mio conforme,

datemi in man la fuggitiva Psiche,

usate ogni arte a ricercarne l’orme».

L’accorte dee, già mie seguaci antiche,

in cui sopito il foco mio non dorme,

del’arrabbiato cor l’ire feroci

s’ingegnan mitigar con queste voci:

«E qual gran fallo o qual peccato grave                                 212

il tuo figlio commise, o dea cortese,

se lo sguardo piacevole e soave

d’una vaga fanciulla il cor gli accese?

Amorosa e divina alma non have

onde sdegnarsi per sì lievi offese.

Fora certo più tosto il tuo devere

amar ciò ch’ama e ciò che vuol volere.

Sai ben ch’ei non è più tenero in erba,                                  213

forz’è ch’al foco pur s’accenda l’esca.

Se tu rimiri ala sembianza acerba

o vuoi forse aspettar ch’egli più cresca,

tal nela guancia sua vaghezza serba,

sempre ignuda di pelo e sempre fresca,

tien con la statura il tempo occulto

che ti parrà bambin, quantunque adulto.

Or tu, che de’ piacer sei dispensiera,                        214

tu, che pur madre sei, che sei prudente,

vorrai ritrosa ognor dunque e severa

spiar gli affari suoi sì sottilmente?

Chi fia che non t’appelli ingiusta e fiera,

se tu, che seminando infra la gente

a tutte l’ore vai fiamme ne’ cori,

vuoi dala casa tua scacciar gli amori

Così parlando a mio favor le due                              215

scusan la colpa e prendon l’ira a gioco,

temendo lor non sia, come già fue,

ferito il petto di pungente foco.

Ella, sdegnando che l’ingiurie sue

passino in riso e sien curate poco,

le lascia ed a sfogar la rabbia altrove

velocissimamente i passi move.

Intanto Psiche mia per varie strade                           216

inquieta d’errar giamai non cessa

e discorsi or di sdegno, or di pietade

volge incerta e dubbiosa infra sestessa.

Or dal grave timor battuta cade,

or le sorge nel cor la speme oppressa.

Teme, spera, ama, brama e si consuma

come a fervido sol gelida bruma.

Di me novelle investigando invano,                            217

quasi smarrita e saettata cerva

fugge per boschi a più poter lontano

del’orgogliosa dea l’ira proterva.

Vorria, punita sol dala mia mano,

titol, se non di sposa, almen di serva

e l’amaro addolcir ch’io chiudo in seno

se non con vezzi con ossequi almeno.

Tempio che d’arte ogni edificio avanza                                 218

sovra la sommità d’un monte mira

e vaga di saver se v’abbia stanza

l’occulta deità per cui sospira,

tosto lo stanco piè, dala speranza

rinvigorito, a quella parte gira

e’nsu la cima dopo l’erta strada

trova fasci di gran, mucchi di biada.

In quella guisa che dopo la messe                             219

ventilate e battute alcun l’ha viste

giacer su l’aia, accumulate e spesse

stavan sossovra le mature ariste,

e falci e rastri e vomeri con esse

e vanghe e marre inun confuse e miste

e pale e zappe e cribri e quanti arnesi

usa il cultor ne’ più cocenti mesi.

Devota allor con umiltà profonda                              220

sceglie, compon, dispon le sparse spiche,

quando si mostra a lei la dea feconda

«Che fai (dicendo) o poverella Psiche?

Tu qui spargi oziosa e vagabonda

in vane cure inutili fatiche,

e Citerea, che morte ti minaccia,

va con cupida inchiesta ala tua traccia

Innanzi al divin piede allor si stende                           221

e con larghe fontane il lava tutto

e col bel crin che fin a terra scende,

scopando a un punto il suolo, il rende asciutto.

«Deh, per le cerimonie (a dir le prende)

e i lieti riti del tuo biondo frutto,

per gli occulti secreti e venerandi

del’auree ceste, onde i tuoi semi spandi,

per le rote volanti e per le faci,                                  222

per gli dragoni che’l tuo carro imbriglia,

per le glebe fruttifere e feraci

onde Sicilia ancor si meraviglia,

per la rapina de’ destrier fugaci,

per gli oscuri imenei dela tua figlia

e per quant’altre cose umile ancora

ne suoi sacri silenzi Eleusi onora,

sovien prodiga dea, pregoti, a questa                                    223

perseguitata e misera, sovieni.

Sotto le spiche dela folta testa

sol tanto ascosa per pietà mi tieni

che di colei che le mie paci infesta

passi alquanto il furor, l’ira s’affreni

e con breve quiete almen ristori

le membra stanche da sì lunghi errori».

Mover potea con questi preghi un scoglio,                            224

ma da Cerer però trovossi esclusa,

che, non osando inacerbir l’orgoglio

del’altera cognata, alfin si scusa,

onde doppiando al cor tema e cordoglio

quindi dal suo sperar parte delusa,

né ben scorge il camin, sì spesso e tanto

le piove agli occhi e l’abbarbaglia il pianto.

Vede un’altra non lunge eccelsa mole                                   225

che par che fin al ciel s’estolla ed erga.

Scritte mostran su l’uscio auree parole

del nume il nome che dentro alberga.

Per supplicar la dea ch’ivi si cole

s’asciuga i fiumi, onde la guancia verga,

e, poiché dentro s’avicina e passa,

gli occhi solleva e le ginocchia abbassa,

ed abbracciando reverente e china                            226

l’altar di sacro sangue ancor fumante

«O (dice) dele dee degna reina,

germana e moglie del sovran tonante;

o che Samo t’accolga, a cui bambina

desti i primi vagiti ancor lattante,

o di Cartago la beata sede,

che spesso assisa insu’l leon ti vede,

o che d’Inaco pur tra i verdi chiostri                          227

cerchi di Giove l’amorose frodi,

o che’ntesa a guardar dal ciel ti mostri

le mura argive, ond’hai tributi e lodi,

tu che Lucina sei detta da’ nostri,

ch’alma con alma in maritaggio annodi,

deh propizia a’ miei voti or me ritogli

al vicin rischio e’n tua magione accogli».

Giunon, mentr’ella prega e l’ara abbraccia,                           228

l’appare in vista umana e mansueta,

ma per non consentir cosa che spiaccia

ala motrice del gentil pianeta,

le nega albergo e con tal dir la scaccia:

«Servo fugace ricettar si vieta».

A quest’altra repulsa aspra e severa

di sua salute intutto ella despera.

Con cor tremante e con tremante piede                                229

fugge la tapinella e non sa dove.

In ciò che’ntorno ascolta, in ciò che vede,

vede di novo orror sembianze nove.

Lieve arboscel cui debil aura fiede,

lieve augellin che geme o che si move,

lieve foglia che cade o che si scote

di terror doppio il dubbio cor percote,

e per deserti inospiti fuggendo,                                 230

così co’ suoi pensier tra sé discorre:

«Or qual suffragio in si grand’uopo attendo,

se’l cielo istesso i miei lamenti aborre?

se la forza divina, ancor volendo,

aiutar non mi può, chi mi soccorre?

chi mi difenderà, s’anco gli dei

non mi sanno schermir contro costei?

In qual grottafosca o sì profonda                          231

chiuder mi deggio? o dove andarlunge

ch’agli occhi inevitabili m’asconda

di Citerea, che’n ogni parte giunge?

Fia dunque il meglio ch’al destin risponda

e’l corso affretti, ov’ei mi sferza e punge.

Che tardo? Un franco ardir tronchi ogn’indugio

e l’altrui crudeltà sia mio refugio.

Colà n’andrò dov’ella alberga e regna                                  232

in prigion volontaria a farmi ancella.

Forse quell’ira alfin del cielo indegna

pietosa deporrà, sicome bella.

Forse ancor fia ch’ivi trovar m’avegna

chi m’aventò nel cor fiamme e quadrella

e che con lieta o con infausta sorte

o m’impetri perdono o mi diamorte

Mentr’ella in guisa tal s’aggira ed erra,                                  233

drizzando i passi ove di gir propone,

e per ottener pace a tanta guerra

gli argomenti tra via studia e compone,

stanca Ciprigna di cercarla in terra,

i rimedi del ciel tentar dispone;

rivolge il carro inver le stelle e poggia

su i chiostri empirei, ove il gran Giove alloggia.

Quivi Mercurio con preghiere astringe                                  234

che la bandisca e sappia ove si cela;

gli narra la cagion ch’a ciò la spinge,

promette premiar chi la rivela,

dichiara il nome e le fattezze pinge,

aggiungendo gl’indizi ala querela,

accioché, s’egli avien ch’alcun la trovi,

scusa poi d’ignoranza altrui non giovi.

L’una a casa ritorna e l’altro piomba                         235

veloce in terra a promulgar l’editto.

«Qualsivoglia mortale (a suon di tromba

publicato per lui dice lo scritto)

Psiche, degna di carcere e di tomba,

rubella e rea di capital delitto,

fia ch’a Venere bella accusi e scopra,

ricompensa ben degna avrà del’opra.

Venga tra le piagge a lei dilette,                             236

dove il tempio de’ mirti erge Quirino,

che dala dea benigna avrà di sette

baci soavi un guiderdon divino,

e più dolce fra gli altri un ne promette

in cui lingueggi il tenero rubino,

in cui labro con labro il dente stringa

e di nettare e mel si bagni e tinga

Questo grido tra’ popoli diffuso                                237

alletta tutti ala mercé proposta,

onde non trova alcun locochiuso

che non v’entri a spiar se v’è nascosta.

Ella con piè smarrito e cor confuso

già dela diva ala magion s’accosta,

dale cui porte incontr’a lei s’avanza

una ministra sua, ch’è detta Usanza.

«Pur ne venisti (ad alta voce esclama)                                   238

schiava sfacciata, ove il castigo è certo!

O non t’è forse ancor giunta la fama

di quanto in te cercando abbiam sofferto?

Giungi a tempo a pagarlo, e già ti chiama

giustissimo supplicio al proprio merto.

Tra le fauci del’orco alfin pur desti,

perché l’orgoglio tuo punito resti».

Così parlando le cacciò le mani                                239

de’ capei d’oro entro le bionde masse

e con motti oltraggiosi e con villani

scherni, volesse o no, seco la trasse.

Giunta ala dea, da tanti strazi strani

rotta, con viso chino e luci basse

le ginocchia abbracciolle, innanzi al piede

le cadde a terra e le gridò mercede.

Con un riso sprezzante a lei rivolta                            240

dice Venere allor: «Se’ tu colei

ch’ale dee di beltà la gloria hai tolta?

ch’hai domo il domator degli altri dei?

Ecco pur la tua socera una volta

degnata alfin di visitar ti sei.

O vien forse a veder l’egro marito,

ch’ancor per tua cagion langue ferito?

Or io ti raccorrò, vivi secura,                        241

come buona raccor nuora conviene!

Su suso, ancelle mie, Tristezza e Cura,

date a costei le meritate pene

E tosto a far maggior la sua sventura

ecco duri flagelli, aspre catene.

Battendola con rigide percosse

la fiera coppia ad ubbidir si mosse.

La rimenano avante al suo cospetto,                         242

poich’ambedue l’han tormentata forte,

spettacol da commovere ogni petto,

senon di lei, che la disama a morte.

Di corruccio sfavilla e di dispetto

e, dale luci allor traverse e torte

girando obliquo il guardo al’infelice,

aspramente sorride e così dice:

«E’ par mi voglia ancor col peso immondo                           243

del suo tumido ventre indur pietate,

e mi prometta già, tronco fecondo,

gloriose propagini e beate.

Felicissima me, ch’avola il mondo

m’appellerà nela più verde etate,

e’l figlio d’una vil serva impudica

fia che nipote a Venere si dica.

Ma perché tanto onor? Di nozze tali                         244

figlio nascer non può, spurio più tosto.

Son illecite, ingiuste ed ineguali,

fur di furto contratte e di nascosto,

onde quelche trarrà quindi i natali

tra gl’infami illeggittimi fia posto,

se però tanto attenderem ch’al sole

esca il bel parto di sì degna prole.

No no, far non poss’io che rompre il freno                           245

sofferenza irritata alfin non deggia;

vo’ di mia man da quel nefando seno

trar l’eterno disnor dela mia reggia;

pace mai non avrò tanto ch’apieno

e lei sbranata e me sbramata io veggia;

sazia mai non sarò finch’abbia presa

giusta vendetta del’ingiusta offesa».

Tace e le di piglio, e daglinfermi                          246

membri tutte le squarcia e vesti e pompe.

La misera sel soffre e non fa schermi,

né pur in picciol gemito prorompe.

Vadan pur fra’ tiranni i corpi inermi,

l’armi però del cor forza non rompe,

la costanza viril, ch’è ne’ tormenti

lo scudo adamantin degl’innocenti.

Poi di vari granelli accolti insieme                              247

confuso un monte, ala fanciulla impera

che prenda a separar seme da seme

e sia l’opra spedita innanzi sera.

Vassene ala gran cena, e fuor di speme

sola la lascia, e pensa in qual maniera

Psiche potrà nel tempo a lei concesso

agevolarsi il gran lavor commesso.

Psiche, atterrita dal crudel comando,                        248

stupisce e tace e d’ubbidir diffida,

ché, l’assegnato cumulo mirando,

non sa come lo scelga o lo divida;

tenta indarno ogn’industria e, paventando

la rigorosa dea che non l’uccida,

di non poter distinguere si dole

quella incomposta inestricabil mole,

quando in soccorso suo corse veloce                                   249

l’agricoltrice e provida formica,

quella che suol, quando più l’aria coce,

da’ campi aprici depredar la spica.

Questa, biasmando dela dea feroce

l’atto e mossa a pietà di sua fatica,

dale vicine allor valli e campagne

tutto il popol chiamò dele compagne.

Concorre tosto in numerose schiere                          250

con sollecita cura e diligente

rigando il verde pian di linee nere

il lungo stuol dela minuta gente,

e la mistura, ove l’uman savere

manca e per cui la donna è sì dolente,

con sommo studio e con mirabil arte

ordinata e partita, alfin si parte.

La notte intanto i rai d’Apollo spense                                   251

e già con l’ombre Arpocrate sorgea

e i balli suoi per l’alte logge immense

tra le ninfe del ciel Cinzia traea,

quando tornò dale celesti mense,

di balsamo e di vin colma, la dea

e, tutta cinta d’odorate rose,

terminate trovò l’imposte cose.

«Non tua, né di tua man, senon m’inganno,                           252

fu già quest’opra, o scelerata (disse)

opra fu di colui che per tuo danno

di te volse il destin che s’invaghisse.

Ma godi pur, ch’al’un e l’altra stanno

le devute da me pene prefisse».

E, partendo da lei, poich’ha ciò detto,

consente al sonno e si ritragge in letto.

Nel’ora poi che fa dal mar ritorno                             253

l’Alba e colora il ciel di rosa e giglio,

e’nsu l’aureo balcon, che s’apre al giorno,

rasciuga al primo sole il vel vermiglio,

dal ricco strato e di bei fregi adorno

la pigra fronte e’l sonnacchioso ciglio

sollevando Ciprigna, ala donzella,

sdegnosa tuttavia, così favella:

«Vedi quel bosco, le cui ripe rode                            254

precipitoso e rapido ruscello?

Pecorelle colà senza custode

pascon lucenti di dorato vello.

Io voveder se pur con nova frode

t’ingegnerai di ritornar da quello.

Vattene dunque e dele spoglie loro

recami incontanente un fiocco d’oro».

Risoluta di cedere al destino                         255

va Psiche per sommergersi in quell’onde,

ma verde canna, che del rio vicino

vive su le palustri e fresche sponde,

animata da spirito divino

e mossa da leggiere aure seconde,

ode con dolce e musico concento

sussurrar questo suon tremulo e lento:

«O da tanti travagli e sì diversi                                  256

essercitata per sì lunghe vie,

deh! non volere i bei cristalli tersi

macchiar col sangue tuo del’acque mie,

né contro i mostri andar crudi e perversi,

ch’abitan queste spiagge infami e rie;

fere ch’han di fin or la pelle adorna,

ma sasso hanno la fronte, acciar le corna.

Tocche dal sol, qualor più forte avampa,                              257

entrano in rabbia immoderata orrenda,

dal cui dente crudel morte non scampa

chiunque il morso avelenato offenda.

Aspetta pur che la più chiara lampa

a mezzol cielo insu’l meriggio ascenda;

nel centro allor del’ampia selva ombrosa

la greggia formidabile si posa.

E tu di quel gran platano nascosta                             258

sotto i frondosi e spaziosi rami,

finché l’ira dormendo abbia deposta,

potrai tutto esseguir, quantunque brami,

e secura carpir quindi a tua posta

del’auree lane e i preziosi stami

che rimangon negli arbori che tocca

implicati e pendenti a ciocca a ciocca».

Con questi accenti il calamo sonoro                          259

Psiche gentil di sua salute informa,

che, ben instrutta e’ntesa al bel tesoro,

attende ch’ogni pecora si dorma,

e, poich’ha da que’ tronchi il sottil oro

rapito alfin dela lanosa torma,

con esso in grembo a Citerea sen riede,

che, veggendola viva, apena il crede.

Con torvo ciglio e grosso cor la mira,                                   260

cessa l’odio, anzi s’avanza e poggia

e vie più cresce essacerbata l’ira,

sicome in calce suol foco per pioggia.

A nova occasion la mente gira

e d’affligerla pensa in altra foggia.

«So ben l’autor (dicea) di questa prova,

ma vovederne esperienza nova.

Da quell’alpestra e ruvida montagna,                        261

ch’al raggio oriental volge le spalle,

fiume, che d’acque brune i sassi bagna,

scorrer vedrai nela vicina valle;

questo, senza sboccar nela campagna

esce di Stige per occulto calle,

e’n quella nera e fetida palude

dopo lungo girar s’ingorga e chiude.

Se spavento il tuo petto or non occupa                                 262

ed hai pur, come mostri, animo ardito,

nel più alto colmo, onde dirupa

l’acqua, hai tosto a salir con piè spedito,

e dala scaturigine più cupa

del fonte, che rampollo è di Cocito,

tentando il fondo del’interna vena,

trarmi di sacro umor quest’urna piena».

Dopo questo parlar la fronte crolla                           263

intorbidando de’ begli occhi il raggio,

né ben di perseguirla ancor satolla,

par la minacci di più grave oltraggio.

Presa da lei la cristallina ampolla,

Psiche al gran monte accelera il viaggio,

sperando pur ch’a tante sue ruine

un mortal precipizio imponga fine.

Ma come arriva ale radici prime                               264

del poggio altier, che volge al sol la schiena,

vede l’ertaaspra e sì sublime

che volarvi gli augei possono apena.

Inaccessi recessi, aguzze cime,

dove non tuona mai, né mai balena,

poich’al verno maggior le nubi e’l gelo

gli fan dal mezzo ingiù corona e velo.

Lubrico è il sasso e dale fauci aperte                         265

vomita il fiume oscuro in viva cote,

che per latebre tortuose incerte

e per caverne concave ed ignote

serpe, e tra pietre rotto ispide ed erte

con rauchi bombi i margini percote;

caduto stagna e si diffonde in laghi,

dove fischiano intorno orridi draghi.

Raccoglie la vallea del’acqua stigia                           266

tutta la piena nel suo ventre interno;

riga l’onda il terren pallida e bigia,

orribil sì che poco è più l’inferno.

Quivi raro uman piè segnò vestigia,

né la visita mai raggio superno,

anzi le nevi insu’l bollir del’anno

a dispetto del sol sempre vi stanno.

Quel fiume, ancorché crudo, ebbe pietate                             267

di veder spentisereni rai

e parea dir con l’onde innamorate:

«Fuggi, mira ove sei, guarda che fai!

Deh! non lasciar perir tanta beltate!

Torna tornati indietro; ove ne vai?

È follia più che senno e più che sorte,

senza riscossa alcuna esporsi a morte».

Psiche presso la foce, onde deriva                            268

il torrente infernal, di sasso muto

resta quasi cangiata in statua viva,

quel giogo insuperabile veduto,

sì d’ogni moto e d’ogni senso priva

che’l conforto del pianto anco ha perduto.

Ma qual cosa mortale è che non scerna

il tuo grand’occhio, o providenza eterna?

Spiegò l’augel real dal ciel le penne,                          269

forse ingrato al mio nume esser non volse,

ché del’antico ossequio gli sovenne,

quando il frigio coppier tra l’unghie accolse;

questi rapidamente a lei ne venne

e’n sì fatto parlar la lingua sciolse:

«Spera dunque, o malcauta, il tuo desio

stilla attigner giamai di questo rio?

Fatale è il rio che vedi, e son quest’acque                             270

a Giove istesso orribili e temute,

e i giuramenti suoi fermar gli piacque

inviolabilmente in lor virtute.

Ma dammi pur cotesto vetro». E tacque

e, preso il vaso entro le grinfe acute,

volando sovra l’apice del monte,

l’empiè del’onda del tartareo fonte.

Ciò fatto, la guastada in man le porge                                   271

e torna al ciel per via spedita e corta.

Psiche, che del licor colma la scorge,

volentier la riprende e la riporta

e, fra tante sciagure, in lei risorge

speme che la rinfranca e la conforta,

ch’ha sotto ignudo petto armato core,

forte, senon di ferro, almen d’amore.

Chi può dir ciò che disse e ciò che feo                                  272

la diva allor di Pafo e d’Amatunta?

Non freme sì dal cacciator rifeo

barbara tigre saettata e punta,

o dagli austri sferzato il vasto Egeo,

come mormora e sbuffa ala sua giunta;

non sa come sfogar l’astio crudele

e le si gonfia di gran rabbia il fiele.

«Ben ti mostri (dicea) com’esser devi,                                  273

di malizie maestra e di malie,

poiché sapesti in tante imprese grevi

sì ben tutte adempir le voglie mie.

Far certo un tal miracolo potevi

sol per arte d’incanti e di magie,

ma cosa non minor forse di questa,

bella mia pargoletta, ancor ti resta.

Prendi questo vasel, ch’io t’appresento,                               274

discendi a Dite e subito ritorna,

dove a comandar pena e tormento

la reina dell’erebo soggiorna;

che mi mandi del suo fino unguento,

che la pelle ammollisce e’l viso adorna;

ma convienti spacciar tosto la via,

perch’al pasto di Giove a tempo io sia.»

Psiche, senza far motto, a terra fissi                          275

tien que’ bei lumi, ond’io sospiro e gemo,

ché ben s’accorge, andando inver gli abissi,

d’esser mandata al’infortunio estremo.

Pensa qual mi fess’io, qual mi sentissi,

quando solo in narrarlo ancor ne tremo,

vederla astretta allor col proprio piede

a girne in parte ond’uom giamai non riede.

Poco oltre va, che trova eccelsa rocca                                 276

e rivolge desperata i passi,

perché pensa tra sé, s’indi trabocca,

poter girne in tal guisa ai regni bassi.

La torre, o meraviglia!, apre la bocca

e discioglie la lingua ai muti sassi.

Che non potrà chi potèl cor piagarmi,

se può dar senso agl’insensati marmi?

Lascio di raccontar con qual consiglio                                  277

scese d’abisso ale profonde conche,

con quai tributi senz’alcun periglio

passò di Pluto al’intime spelonche

e, de’ mostri d’Averno al fiero artiglio

le forze tutte rintuzzate e tronche,

per via, che’ndietro mai non riconduce,

ritornò salva a riveder la luce.

E taccio come poi le venne audace                           278

di quel belletto d’Ecate desio,

indi il pensier le riuscì fallace,

ché’l Sonno fuor del bossoletto uscio,

onde d’atra caligine tenace

le velò gli occhi un repentino oblio

e, da grave letargo oppressa e vinta,

cadde immobile a terra e quasi estinta.

Io, sano già dela ferita e molto                                  279

da sì lunga prigion stancato omai,

per un picciol balcon libero e sciolto

fuor dela chiusa camera volai,

e, vago pur di riveder quel volto

bramato, amato e sospirato assai,

parvi, battendo le veloci piante,

stella cadente o folgore volante.

dove senza mente e senza moto                           280

giace, mi calo ed a’ begli occhi volo,

ne tergo il sonno e nel’avorio voto

di novo il chiudo, e ben n’ha sdegno e duolo;

con l’aurea punta delo stral la scuoto,

pria la riprendo e poi la riconsolo,

talché, con lieta speme al cor concetta,

porta il dono infernale a chi l’aspetta.

Giunse le palme, umile in atto, e fuori                        281

tai note espresse: «Andai sotterra e venni,

eccomi fuor de’ sempiterni orrori,

e’l licor di Proserpina n’ottenni;

impommi pur difficoltà maggiori:

nulla ricuserò di quanto accenni,

ch’una devota affezzion tutt’osa

e fa potere ogn’impossibil cosa.

Ma non fia mai quel , lassa, ch’io speri                               282

picciola requie ala penosa vita?

quando vedrò di que’ begli occhi alteri,

ch’innamorano il ciel, l’ira addolcita?

Se fermo è pur ch’io fra tant’odi fieri

d’ogni calamità sia calamita,

fa di tua man che’l fiato, ond’oggi io spiro,

sia dela morte il precursor sospiro.

Deh, donde aviene, o dea pietosa e santa,                            283

che tu meco in tal guisa incrudelisca?

Se pur è ver che’n questa, che m’ammanta,

spoglia mortal qualche beltà fiorisca,

già non è in me temerità cotanta

che d’emularti o di sprezzarti ardisca.

Dei tu, che reggi l’amorosa stella,

odiarmi perché’l ciel mi fece bella?

Perfida io già non fui; se forse errai,                          284

colpevol son d’involontario errore.

Un scusabil fallir perdona omai,

se pur fallo può dirsi amar Amore,

colui dale cui forze, e tu tel sai,

difendersi non vale ardito core;

dunque t’adirerai perch’abbia amato

quelche pur del tuo grembo al mondo è nato?

L’amo, nol nego, e fia che’n me si scioglia                            285

prima il nodo vital che l’amoroso.

E seben fui pur dianzi al vento foglia,

ond’al cospetto suo tornar non oso,

più giamai perder fede o cangiar voglia

non mi vedrà, siami nemico o sposo,

tanto che’l sole a questi occhi dolenti

porti l’ultimo de’ miei tormenti.

Non cheggio il letto suo, né mi si debbe,                               286

so ben che di tal grazia indegna sono;

ma in quel bel seno, ond’egli nacque e crebbe,

spero trovar pietà, nonché perdono».

Più oltre ancor continovato avrebbe

dele sue note addolorate il suono,

ma la doglia nel cor l’abondò tanto

che diè fine al parlar, principio al pianto.

La dea l’ascolta e di stupore impetra,                                   287

che’n tanti rischi indomita la trova;

ma’l petto a quel parlar l’apre e penetra

un non so che di tenerezza nova.

Il diamante del cor pietà le spetra,

ond’a forza convien che si commova;

ella nol mostra e col suo sdegno ha sdegno

che cede vinta al’aversaria il regno.

In questo mezzo io pur temendo in vero                                288

il minacciato mal, con tanta fretta

rivolo inverso il ciel, che men leggiero

di mal pieghevol arco esce saetta.

Quivi al monarca del celeste impero

espongo ogni ragion, ch’a me s’aspetta;

narro di lei gl’ingiusti oltraggi, e come

grava ognor Psiche d’indiscrete some.

Prego, lusingo il suo gran nume eterno                                  289

e gli fo del mio cor la fiamma nota.

Sorrise Giove e con amor paterno

mi prese il mento e mi baciò la gota.

«Seben (disse) il tuo ardir con tanto scherno

sovente incontr’a me gli strali arrota,

sich’a tor forme indegne anco m’ha mosso,

a’ tuoi preghi però mancar non posso».

Gli dei convoca e quest’affar consiglia                                  290

e le mie nozze celebrar comanda;

essorta a contentarsene la figlia,

poscia il suo fido nunzio in terra manda.

Rapita già tra l’immortal famiglia,

gusta il cibo divino e la bevanda,

e meco dopo tante aspre fatiche

nel teatro del ciel sposata è Psiche.

L’Ore, spogliando de’ lor fregi i prati,                                  291

tutto di rose imporporaro il cielo;

sparser le Grazie aromati odorati,

cantar le Muse la mia face e’l telo;

le corde d’oro e i calami cerati

toccar lo dio d’Arcadia e quel di Delo;

resse Imeneo la danza e volse in essa

ballar con l’altre dee Venere istessa.

Così di tanti affanni a riva giunsi                                292

e per sempre il mio bene in braccio accolsi,

con cui, mentre ch’alfin mi ricongiunsi,

tanto mi trastullai, quanto mi dolsi;

né dal’amato sen più mi disgiunsi,

né dal nodo gentil più mi disciolsi,

e del mio seme, entro il bel sen concetto,

nacque un figliuol che si chiamò Diletto –.

Amor così ragiona, e l’altro intanto                           293

il suo parlar meravigliando ascolta,

e per pietà d’affettuoso pianto

qualche perla gentil stilla talvolta,

ma con le faci e le faville a canto

sente avampar nel cor la fiamma accolta;

la fiamma, che’l pastor con sue vivande

gl’infuse al cor, già si dilata e spande.

 




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