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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto 6, allegoria

IL GIARDINO DEL PIACERE. Sotto la figura del giardino ci vien rappresentato il Piacere. Nelle cinque porte si sottointendono i cinque sentimenti del corpo. Nel cristallo e nel zaffiro della prima porta si significa la materia dell’occhio, ch’è l’organo della vista. Nel cedro della seconda il senso dell’odorato. Nella favoletta del pavone si dinota la maravigliosa fabrica del fermamento. Ama la colomba, percioché sicome in effetto questi due uccelli, secondo i naturali, si amano insieme, così tutte le luci superiori sono mosse e regolate dal divino amore. È trasformato da Giove, perché dal sommo artefice Iddio ebbe quello, come ogni altro cielo, la materia e la forma. Fingesi servo d’Apollo e da lui gli sono adornate le penne della varietà di tanti occhi, per essere il sole vivo fonte originale di tutta la luce, che poi si communica alle stelle. Ne’ diversi oggetti, passatempi e trattenimenti piacevoli si adombrano le voluttà sensuali.

 

Canto 6, argomento

Al giardin del Piacer col giovinetto

sen va la dea del’amorosa luce.

Per le porte de’ sensi indi il conduce

di gioia in gioia al’ultimo diletto.

 

Canto 6

Armi il petto di gel chi vede Amore                           1

saettar foco e ferir l’alme a morte,

e dela rocca fragile del core

difenda pur le malguardate porte;

né del crudele e perfido signore

v’introduca giamai le fiere scorte,

ch’insidiose a chi non ben le serra

sotto vista di pace apportan guerra.

Chi da quest’empio e dala carne infida                                 2

condur si lascia infra perigli errante,

è qual cieco che’l can prenda per guida,

segue del senso le fallaci piante;

s’avien poi ch’egli caggia o che l’uccida

chi per torto sentier lo scorse avante,

non si lagni d’altrui che di sestesso,

che’l fren d’ogni sua voglia in man gli ha messo.

È ver, che da sé sola a ciò non basta                        3

nostra natura inferma e’ndebolita,

quand’anco il gran dottor, l’anima casta,

delo spirto di Dio tromba gradita,

per schermirsi da tal che ne contrasta,

ebbe mestier di sovrumana aita;

né degli assalti suoi può fedel alma

senza grazia divina acquistar palma.

Ma vuolsi ancor con studio e con fatica                                4

schivar quel dolce invito, esca de’ sensi,

perché dela domestica nemica

sol con la fuga la vittoria ottiensi

e chi fuggir non sa questa impudica

a rischio va di precipizi immensi,

dove caduta poi l’anima sciocca

d’una in altra follia sempre trabocca.

Questa è la donna, ch’importuna e tenta                               5

Adam per far che gusti esca interdetta;

la meretrice, che’n prigion tormenta

Giuseppe il giusto ed a peccar l’alletta;

questa è colei, che Sisara addormenta,

e per tradirlo sol seco il ricetta;

la disleal, che pria lusinga e prega

il malcauto Sansone e poi lo lega.

Questa è la Bersabea, per cui s’inchina                                 6

il buon re d’Israele ad opra indegna;

questa è di Salomon la concubina,

che follemente idolatrar gl’insegna,

l’infame Circe, la proterva Alcina,

l’Armida, che sviar l’alme s’ingegna,

la Vener, che lontan dala ragione

al giardin del piacer conduce Adone.

Infiora il lembo di quel gran palagio                           7

spazioso giardin, mirabil orto.

Miseria mai né mai v’entrò Disagio,

v’han Delizie ed Amori ozio e diporto.

Colà, senza temer fato malvagio,

Venere bella il bel fanciullo ha scorto,

cangiando il ciel con quel felice loco,

che sembra il cielo o cede al ciel di poco.

– Non pensar tu che senza alto disegno                                8

 (disse volto Mercurio al bell’Adone)

fondata abbia Ciprigna entro il suo regno

questa sì vaga e florida magione,

ch’intelletto divin, celeste ingegno

nulla a caso giamai forma o dispone;

misterioso il suo edificio tutto

a sembianza del’uomo è qui costrutto.

Del corpo uman la nobile struttura                            9

in semedesma ha simmetria cotanta,

ch’è regola infallibile e misura

di quanto il ciel con l’ampio tetto ammanta.

Tal fra gli altri animali il Natura,

che solo siede e sol dritto si pianta

e, come l’alma eccede ogni altra forma,

così d’ogni altro corpo il corpo è norma.

Le meraviglie che comprende e serra                                    10

non son possenti ad agguagliar parole;

nave in onda, né palagio in terra,

teatro, né tempio è sotto il sole,

né v’ha machina in pace, ordigno in guerra,

che non tragga il model da questa mole;

trovano in sì perfetta architettura

il compasso e lo squadro ogni figura.

Miracol grande, in cui con piena intera                                  11

Giove de’ doni suoi versò l’eccesso,

dela divinità sembianza vera,

imagin viva e simulacro espresso.

Quasi in angusta mappa immensa sfera,

fu l’universo epilogato in esso;

tien sublime la fronte, alte le ciglia,

sol per mirar quel ciel che l’assomiglia.

È distinto in tre parti il maggior mondo:                                 12

l’una è de’ sommi dei, che’n alto stassi;

dele sfere rotanti hanno il secondo

loco le belle e ben disposte classi;

ritien l’ultimo sito e più profondo

la region degli elementi bassi.

E quest’altro minor, ch’ha spirti e sensi,

ben di proporzion seco conviensi:

sostien la vece del sovran motore                             13

nel capo eccelso la virtù che’ntende;

stassi a guisa di sol nel mezzo il core,

loqual pertutto il suo calor distende;

il ventre nela sede inferiore,

qual corpo sublunar, varia vicende.

Così in governo e nutrimento e vita,

questa casa animata è tripartita.

Son cinque corpi il cielo e gli elementi                                   14

e pur de’ sensi il numero è sì fatto:

l’orbe stellato di bei lumi ardenti

è dela vista un natural ritratto;

son poi tra lor conformi e rispondenti

l’udito al’aere ed ala terra il tatto,

par che meno in simpatia risponda

l’odorato ala fiamma, il gusto al’onda.

Potea ben la divina onnipotenza,                               15

con quell’istesso suo benigno zelo

con cui pose nel’uom tanta eccellenza,

donargli ancora incorrottibil velo

e di quel puro fior di quinta essenza,

onde non misto è fabricato il cielo,

come simile al ciel la forma veste

di materia comporlo anco celeste;

ma però ch’egli a specolare è nato                            16

e convien ch’ogni specie in lui riluca

e ch’al chiaro intelletto, ond’è dotato,

i fantasmi sensibili conduca,

non devea d’altra tempra esser formato,

che del’elementar, benché caduca,

per far di quanto intende e quanto sente

prima il senso capace e poi la mente.

Di tutto il bel lavor che con tant’arte                         17

orna del’uomo il magistero immenso,

sono i nervi istromenti, onde comparte

lo spirto ai membri il movimento e’l senso:

altri molli, altri duri, in ogni parte

ciascun è sempre al proprio ufficio intenso,

né può senz’essi alcuno atto esseguire

la facoltà del moto o del sentire.

Or tratti avante e ne vedrai gli effetti,                         18

e dirai ch’a ragion Vener si mosse

a far che’l loco sacro a’ suoi diletti

del’essempio del tutto essempio fosse.–

Qui tacette Cillenio e con tai detti

dalo stupore il giovane riscosse,

che del’orto gioioso era in quel punto

già nel primo sogliare entrato e giunto.

Nel’orto, in cinque portici diviso,                              19

dan cinque porte al peregrin l’entrata

e da un custode insu la soglia assiso

la porta d’ogni portico è guardata.

S’entra per ogni porta in paradiso

dove un giardinetto si dilata,

talché di spazio egual tra sé vicini

contiene un sol giardin cinque giardini.

Cinque giardin la dilettosa reggia                               20

nele sue cinque torri inclusi abbraccia,

siché da’ suoi balcon lunge vagheggia

differente un giardin per ogni faccia.

Confine un muro ogni giardino ombreggia,

che stende linea infuor di mille braccia.

Questo in quadro si chiude e in mezzo lassa

porte, onde l’un giardin nel’altro passa.

Ciascun canton de’ quattro innanzi sporge                            21

una torre angolare insu la punta,

e la quinta tra lor nel mezzo sorge

sì ch’oltre il muro la cornice spunta;

e, come dissi, a dritto fil si scorge

torre da torre egualmente disgiunta;

e con giusta misura arte leggiadra,

i’ non so come, ogni giardino inquadra.

Dela porta del portico primiero,                                22

ch’è di cristallo e di zaffir contesta,

vivace e nobil giovane è l’usciero,

di diverso color sparso la vesta.

Un avoltoio in pugno ed un cerviero

si tiene a piè da quella parte e questa,

un specchio ha innanzi e nelo scudo incisa

la generosa che nel sol s’affisa.

Ai duo felici amanti immantenente                             23

fecesi incontro il giardinier cortese

e, con sembiante affabile e ridente,

Adon raccolse e per la mano il prese.

– Ben venga (disse) il vivo sole ardente,

ch’ala nostra reina il core accese.

Dritto fia ben che degli alberghi nostri

nulla si celi a lui, tutto si mostri. –

Dimmi (al nunzio di Giove Adon converso)                                    24

dimmi (disse) ti prego, o cara scorta,

con l’animal di vaghe macchie asperso

che vuol dir questa guardia e questa porta?

quel famelico augel, quel vetro terso

e quel vario vestir, che cosa importa?

Suo stranio arnese e sua sembianza ignota

i’ saprei volentier ciò che dinota. –

Risponde l’altro: – Le più degne e prime                               25

parti di tutta la sensibil massa,

l’occhio, sicome principe sublime,

in gloria eccede, in nobiltà trapassa,

ché, posto dela rocca insu le cime

ogni membro vulgar sotto si lassa

e, dove il tutto regge e’l tutto vede,

tra la plebe de’ sensi altero siede.

Siede eminente e d’ogni senso è duce                                   26

e certo il gran fattor tale il compose,

ch’è tra quelli il miglior, sì per la luce,

ch’è tra le qualità più preziose,

sì per la tanta e tal, ch’ognor produce,

varietà di colorate cose,

sì per lo modo ancor spedito e presto

del’operazion ch’intende a questo.

Perché senza intervallo o mutar loco                         27

giunge in instante ogni lontano oggetto,

talché negli atti suoi si scosta poco

dala perfezzion del’intelletto;

onde se quel, vie più che vento o foco

rapido e vago, occhio del’alma è detto,

questo, ch’è di Natura oprabella,

intelletto del corpo anco s’appella.

Per l’occhio passa sol, per l’occhio scende                           28

qualunque l’alma imagine riceve

e di quant’ella vede e quanto intende

quasi l’obligo tutto al’occhio deve.

L’occhio, com’ape suol, che coglie e prende

i più soavi fior leggiadra e lieve,

scegliendo il bel dela beltà che scorge,

al’interno censor l’arreca e porge.

Dale fonti del cerebro natie,                          29

ond’hanno i nervi origine e radice,

un sol principio per diverse vie

di duo stretti sentier sue linee elice.

Quindi del tutto esploratori e spie

traggono gli occhi ogni virtù motrice;

e quindi avien, come per prova è noto,

che move ambo in un punto un steso moto.

Lubrico e di materia umida e molle                           30

questo membro divin formò Natura,

perché ciascuna impression che tolle,

possa in sé ritener sincera e pura.

Perché volubil sia, donar gli volle

orbicolare e sferica figura,

oltre che’n forma tal può meglio assai

franger nel centro e rintuzzare i rai.

Gli spirti unisce ala pupilla e spira                              31

dala gemina sfera il raggio vivo,

che’n piramide aguzza, ovunque il gira,

si stende fuor del circolo visivo.

La specie intanto in sé di quelche mira

ritrae, come suol ombra o specchio o rivo;

così nel’occhio, mentre il guardo vago

esce dala potenzia, entra l’imago.

O quanto studio o quanta industria mise                                32

qui l’eterno maestro, o quante accoglie

vene, arterie, membrane e’n quante guise

sottile aragne e dilicate spoglie.

Per quanti obliqui muscoli divise

passano e quinci e quindi e fila e foglie,

quante corde diverse e quanti e quali

versano l’occhio ed angoli e canali!

Di tuniche e d’umori in vari modi                              33

havvi contesto un lucido volume

ed uva e corno e con più reti e nodi

vetro insieme congiunge, acqua ed albume;

che son tutti però servi e custodi

del cristallo, onde sol procede il lume;

ciascun questo difende e questo aiuta,

organo principal dela veduta.

L’immortal providenza, acciochesposto                               34

sia meno ai danni del’offese esterne,

gli ha dato, in un ricovero riposto

sotto l’arco del ciglio, ime caverne;

per siepi e propugnacoli v’ha posto

palpebre infaticabili ed eterne,

sol perché’l batter lor continuo e ratto

dagli umani accidenti il serbi intatto.

Ed a guisa di sole, acciochaprisse,                           35

emulo al’altro, al picciol mondo il giorno,

qual corona di raggi anco v’affisse

sottilissime sete intorno intorno.

Nel curvo globo l’iride descrisse,

ch’ha di smalti celesti un fregio adorno

e, temprati di limpidi zaffiri,

vi dipinse nel mezzo i sommi giri.

Questi del’alma son balconi e porte,                         36

indici fidi, oracoli veraci,

dela dubbia ragion secure scorte

e del’oscura mente accese faci.

Son lingue del pensier pronte ed accorte

e del muto desir messi loquaci;

geroglifici e libri, ov’altri pote

de’ secreti del cor legger le note.

Vivi specchi sereni, onde traspare                             37

quanto il cupo del petto in sé ristringe

e dove in guise manifeste e chiare

ogni suo affetto l’anima dipinge;

i ridenti piacer, le doglie amare

vi scopre, or d’ira or di pietà gli tinge

e, ciò ch’è più, visibilmente in essi

son del foco d’amor gl’incendi espressi.

E perché’l primo stral, ch’aventi l’arco                                 38

di quell’alato arcier, dagli occhi viene,

per questo il primo grado, il primo varco

del giardino d’Amor la vista ottiene.

Quinci potrai, già d’ogni dubbio scarco,

il mistero, cred’io, comprender bene

del ministro gentil che guarda il vallo,

degli augei, dela fera e del cristallo. –

Ciò detto, per incognito sentiero,                              39

dove altrui vestigio il suol non serba,

ma serba il prato entro’l suo grembo intero

intatto il fiore, inviolata l’erba,

colà dentro lo scorge, ov’al verziero

fa corona il gran muro alta e superba,

e di pietrelucide la tesse,

che tutto il bel giardin, si specchia in esse.

Per lungo tratto a guisa di corona                              40

da ciascun fianco il bel giardin si spande,

dove in ogni stagion Flora e Pomona

guidano danze e trecciano ghirlande.

Il muro principal che l’imprigiona

tetto ricopre a meraviglia grande,

sostenuto da un ordine leggiadro

d’alte colonne e compartito in quadro.

Da quattro galerie per quattro grate,                         41

che cancelli han d’or fin, s’esce negli orti,

dove prendono ognor schiere beate

di ninfe e di pastor vari diporti

e, passando in piaceri un’aurea etate,

fanno giochi tra lor di tante sorti

quante suol forse celebrarne apena

nele vigilie sue la bella Siena.

Forman parte di lor, sedendo sotto                           42

gran tribuna di fronde, un cerchio lieto,

e l’un al’altro sussurrando un motto

dentro l’orecchie, taciturno e cheto,

de’ suoi chiusi pensier non interrotto

scopre a chi più gli piace ogni secreto.

Con questa invenzion chieste e concesse

si patteggian d’amor varie promesse.

Parte in gioco più strano e più diverso                                  43

dispensano del l’ore serene:

nel molle grembo il capo ingiù converso

vaga donzella d’un garzon si tiene;

ciascun altro la man, ch’egli a traverso

dopo’l tergo rivolge, a batter viene

solleva ei giamai la testa china,

se chi battuto l’ha non indovina.

Odesi di lontan scoppio di riso,                                44

quando per legge di colui che regna

di bella ninfa perditrice il viso,

che’n foco avampa, col carbon si segna.

Altri più dolci e con più saggio aviso

trar dal trionfo suo spoglie s’ingegna,

ché, con un bacio in bocca o su la gota,.

vuol che’l perduto pegno ella riscota.

Chi con le carte effigiate in mano                              45

prova quanto fortuna in terra possa;

chi le corna agitate in picciol piano

fa ribalzar dele volubil ossa;

chi con maglio leggier manda lontano

l’eburnea palla ad otturar la fossa;

chi, poiché dal cannel le sorti ha tratte,

su tavolier le tavole ribatte.

Van le vergini belle a schiera sparte                          46

scalze il piè, scinte il seno e sciolte il crine;

rozza incoltura in lor, beltà senz’arte

fa del’anime altrui maggior rapine.

Parte per l’erba va scherzando e parte

tra le linfe argentate e cristalline,

parte coglie viole ed amaranti

per farne dono ai fortunati amanti.

Quella danza tra’ fior, questa incorona                                  47

di rose il crine al favorito amico;

questi canta d’amor, quegli ragiona

con la sua donna in un boschetto aprico.

Alcun ven’ha che, scritto in Elicona,

legge amoroso alcun romanzo antico

e i versi espone in guisa tal, che quasi

sotto gli essempi altrui narra i suoi casi.

Altri nel cavriuol rapido e snello                                48

al veloce levrier la lassa allenta;

altri, da’ geti sciolto e dal cappello,

contro la garza il girifalco aventa;

altri più lieve e più minuto augello

con più sottile insidia ingannar tenta,

tendendo, accioché preso e’ vi rimagna,

pania tenace o dilicata aragna.

Né vi manca però fra que’ diletti                               49

chi nel margo palustre, ove si giace,

col cane assaglia o con lo stral saetti

anitra opima o foliga loquace;

né chi con nasse e vangaiuole alletti

la trutta pigra e’l carpion fugace,

né chi tragga dal’acque a cento a cento

orate d’oro e cefali d’argento.

Mentre sotto quel ciel che soli o piogge                                50

non teme, arda quantunque o geli l’anno,

tra tali e tante feste in tante fogge

le brigate piacevoli si stanno,

Adone e Citerea per l’ampie logge

lastricate di gemme, intorno vanno,

mirando pur di que’ dipinti chiostri

l’artificio smarrito a’ giorni nostri.

Da tutti quattro i lati in ogni parte                              51

il muro a varie imagini è dipinto.

Ciò che favoleggiar l’antiche carte

degli amori celesti, in esso è finto.

Gl’innamorati dei mirabil arte

v’ombreggiò sì, che’l ver dal’ombra è vinto

e, benché tutti mute abbian le lingue,

il silenzio e’l parlar vi si distingue.

Non son già corrottibili colori,                                  52

che le belle figure han colorite;

misture tali, incognite a’ pittori,

da macina mortal non fur mai trite:

son quinte essenze chimiche e licori

di gemme a lento foco intenerite,

minerali stillati, le cui tempre

mai non perdon vivezza e duran sempre.

Se sì perfetta grana, azzurfino                               53

avesse alcuno artefice moderno,

ben v’ha tal che poria col legno e’l lino

far al secol migliore ingiuria e scherno.

Del secondo miracolo d’Arpino

quanto fora più chiaro il nome eterno?

dico di lui, che con la man far suole

quelche l’altro facea con le parole.

Il ligustico Apelle, il Paggi vanto                                54

sommo e splendor dela città di Giano,

quanto di gloria accrescerebbe o quanto

ale fatiche dela nobil mano.

Il mio Castel, che del conquisto santo

fregia le carte al gran cantor toscano,

lasceria forse de’ suoi studi illustri

vie più salde memorie a mille lustri.

E tu Michel, di Caravaggio onore,                            55

per cui del ver più bella è la menzogna,

mentre che creator più che pittore,

con l’angelica man gli fai vergogna;

e voi, Spada e Valesio, il cui valore

fa de’ suoi figli insuperbir Bologna;

e voi, per cui Milan pareggia Urbino,

Morazzone e Serrano e Procaccino;

e tu, che col pennel vinci gl’intagli,                            56

e i duo vicinifamosi e noti

di Verona e Cador, non pur agguagli,

Palma, ma lor di man la palma scuoti;

e tu, Baglion, che con la luce abbagli

del’ombre tue, ch’han sensi e spirti e moti,

con assai più lodate opre e pitture

avreste, ond’arricchir l’età future.

E voi, Bronzino e Pasignan, per cui                           57

il prodigio tebano Arno rivede,

poiché gemino lume e quasi dui

novi soli d’onor v’ammira e crede.

Caraccio a Febo caro e tu con lui

Reni, onde’l maggior Reno al’altro cede,

alcun non temeria, che fusser poi

cancellati dagli anni i lavor suoi.

A contemplar la loggia e la parete                             58

il portier del giardino Adone invita,

di mute poesie, d’istorie liete

imaginata tutta e colorita,

e del fanciul dal’arco e dala rete

i dolci effetti ad un ad un gli addita,

divisandogli a bocca or quelli, or questi

furtivi amori degli eroi celesti.

Vedi Giove (dicea) là’ve s’aduna                           59

schiera di verginelle ir con l’armento.

Vedi che scherza e la superba luna

crolla del capo e sfida a giostra il vento.

Tutto candido il pel, la fronte ha bruna,

dove in mezzo biancheggia un sol d’argento.

Già muggir sembra e sembra al suo muggito

muggir la valle intorno intorno e’l lito.

Ala ninfa gentil, che varie appresta                            60

trecce di fiori ale sue trecce d’oro,

s’avicina pian piano e dela vesta

umil le bacia il vago lembo il toro.

Ella il vezzeggia e’ntesse al’aspra testa

di catenate rose alto lavoro;

ed egli inginocchion le terga abbassa

e dala bella man palpar si lassa.

Sovra gli monta la donzella ardita,                             61

quel prende allor per entro l’acque il corso

e sì sen porta lei, che sbigottita

volgesi a tergo e’nvan chiede soccorso.

Cogliesi tutta e tutta in sé romita

l’una man stende al corno e l’altra al dorso.

Su’l mar piovono i fior nel grembo accolti,

scherzano i biondi crini al’aura sciolti.

Solca la giovinetta il salso regno,                               62

sparsa il volto di neve, il cor di gelo,

quasi stanco nocchiero in fragil legno;

il tauro è nave e gli fa vela il velo.

Van guizzando i delfini e lieto segno

fanno di festa al gran rettor del cielo;

ridendo, Amor superbamente il mira

quasi per scherno e per le corna il tira.

Le sconsolate e vedove compagne                           63

in atto di pietà stanno insu’l lido

additando la vergine che piagne,

credula, ahi troppo, al predatore infido.

Par che di lor per poggi e per campagne

«Europa ove ne vai?», risoni il grido;

par che l’arena intorno e l’aura e l’onda

«Europa ove ne vaimesta risponda.

Eccol vestito di canute piume                                    64

a bella donna intorno altrove il miri,

qual di Caistro o di Meandro al fiume,

rotar volando in spaziosi giri

e gorgogliar sovra’l mortal costume

canori pianti e musici sospiri,

temer del proprio folgore il baleno

e comporre il suo nido entro il bel seno.

Ecco d’Anfitrion prender la forma                            65

e la casta moglier schernir si vede;

ecco Satiro poi pasce la torma

con corna in testa e con caprigno piede;

ecco due volte in aquila trasforma

la spoglia, inteso a due leggiadre prede;

ecco converso in foco arde e sfavilla,

ecco in grandine d’or si strugge e stilla.

Vedi lo schernitor del’aureo strale,                           66

lo dio, che dela luce è tesoriero,

a cui del’arti mediche non vale,

né del’erbe salubri aver l’impero,

siché profonda al cor piaga mortale

non porti alfin dalo sprezzato arciero.

Ecco gl’incende il cor d’ardente face

la bella di Peneo figlia fugace.

Ed ecco, mentre l’amorosa traccia                            67

segue anelante e giungerla si sforza,

degli occhi amati e del’amata faccia

repentino rigor la luce ammorza;

fansi radici i piè, rami le braccia,

imprigiona i bei membri ispida scorza;

gode egli almen le sue dorate e bionde

chiome fregiar dele già chiome, or fronde.

Volgiti poscia al vecchiarel Saturno,                          68

tutto voto di sangue e carco d’anni,

come invaghito d’un bel viso eburno

in forma di destrier la moglie inganni.

Mira quel dal cappello e dal coturno,

ch’ha nel coturno e nel cappello i vanni;

quegli è il corrier di Giove e’n terra scende,

ché dela ninfa Maura Amor l’accende.

Pon mente , dove la notte ha stese                         69

l’ombre tacite intorno e’l mondo imbruna,

come per disfogar sue voglie accese,

le due disciolte trecce accolte in una,

si reca in braccio placida e cortese

al vago suo l’innamorata Luna

e fra’ poggi di Latmo al suo pastore

addormenta le luci e sveglia il core.

Mira il selvaggio dio non lunge molto,                                   70

ch’uscito fuor d’una spelonca vecchia,

di verdi salci e fresche canne avolto

le corna, i crini e l’una e l’altra orecchia,

al ciel leva le luci e nel bel volto

dela candida dea s’affisa e specchia,

e par la preghi in sì pietosi modi,

che vi scorgi il pensier, la voce n’odi.

L’argentata del ciel luce sovrana                               71

deposta alfin la lusingata diva,

ale promesse dela bianca lana

dal suo chiaro balcon scender non schiva;

vedila, or chi dirà che sia Diana?

col rozzo amante in solitaria riva

e’n vece di lassù guidar le stelle,

su’l frondoso Liceo tonder l’agnelle.

Poi vedi Endimion dal’altro lato                                72

quindi avampar d’un amoroso sdegno,

e col capo e col dito il nume amato

di rampognar, di minacciar fa segno:

«Perfida (par le dica in vista irato)

perfida, orché non celi il lume indegno?

perfida, avara e disleale amante,

più volubil nel cor, che nel sembiante

Dela fiamma gentil, che nel mar nacque,                                73

ecco poscia arde il mare, arde l’inferno;

arder quel dio si vede in mezzo l’acque,

che del’acque e del mar volge il governo;

arde per la beltà, che sì gli piacque,

il tiranno crudel del’odio eterno;

strugge ardore amoroso il cor severo

a quel signor, ch’ha degli ardori impero. –

Sì dice l’un, l’altro gli sguardi e l’orme                                  74

ale mura superbe intento gira

e, mentre queste ed altre illustri forme,

di cui son tutte effigiate, ammira,

sembra, né sa s’ei vegghia o pur s’ei dorme,

statua animata, imagine che spira,

anzi più tosto un’insensata e finta

tra figure spiranti ombra dipinta.

Non v’è dipinta di Ciprigna e Marte                         75

l’istoria oscena troppo ed impudica,

perché’l zoppo marito il fece ad arte,

di cui fur quelle volte opra e fatica

e celar volse le vergogne in parte

del fiero amante e dela bella amica,

per non rinovellar l’onta de’ due,

e nele gioie lor l’ingiurie sue.

Sotto quest’archi, in queste logge ombrose,                          76

che volte han le facciate ala verdura,

onde il giardin le chiome sue frondose

può vagheggiar nele lucenti mura,

specolando l’imagini amorose

stassene Adon del’immortal pittura,

mentre colui del sagittario cieco

va passo passo ragionando seco.

Venere allor così gli dice: – O cara                           77

delizia del mio cor, dolce diletto,

deh de’ begli occhi tuoi la luce chiara

tanto omai non occupi un finto oggetto,

che de’ suoi raggi usurpatrice avara

parte a me neghi del bramato aspetto;

lascia ch’io possa almeno il foco, ond’ardo,

sorbir con gli occhi e depredar col guardo.

Non dee la vista tua fermarsi in cose                         78

che sien di te men peregrine e belle.

Vedi che fai dolenti e tenebrose

a disagio per te languir le stelle.

Non tener più le luci al sole ascose,

le luci emule al sol, del sol gemelle.

Se pitture vuoi pur, vero e non finto

mira testesso in questo sen dipinto. –

Qui tace; ed ecco per l’erbosa chiostra                                79

da lor non lunge, emulator del prato,

fa di sestesso ambiziosa mostra

l’occhiuto augel di più color fregiato

e, del bel lembo che s’indora e inostra

di fiori incorrottibili gemmato,

dilettoso spettacolo a chi’l mira,

un più vago giardin dietro si tira.

Per ventura in quel punto apunto avenne,                              80

ch’ale leggiadre sue spoglie diverse

la bella coppia si rivolse e tenne

per vaghezza le luci in lui converse.

Ond’egli allor dele sue ricche penne

il superbo gemmaio in giro aperse

ed allargò, quasi corona altera,

de’ suoi tant’occhi la stellata sfera.

– Di quest’augel pomposo e vaneggiante                               81

 (disse Venere allor) parla ciascuno.

Dicon ch’ei fu pastor, che’n tal sembiante

cangiò la forma e così crede alcuno

che la giovenca del’infido amante

a guardar con cent’occhi il pose Giuno

e che, quantunque a vigilar accorto,

fu da Mercurio addormentato e morto.

Contan che gli occhi, onde sen giva altero,                            82

nele piume gli affisse ancor Giunone,

ed è voce vulgar che’l suo primiero

nome fussArgo, ilqual fu poi Pavone.

Or dela cosa io vonarrarti il vero

diverso assai da questa opinione;

gli umani ingegni, quando più non sanno,

favole tali ad inventar si danno.

Era questi un garzon superbo e vano,                                   83

tutto d’ambizion colmo la mente,

cameriero d’Apollo e cortigiano,

che l’amò molto e’l favorì sovente.

Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,

ferigli il cor con aureo stral pungente,

facendo da’ begli occhi uscir la piaga

d’una donzella mia vezzosa e vaga.

Colomba detta fu questa donzella,                            84

laqual veder ancor potrai qui forse,

che fu pur in augel mutata anch’ella,

ma per altra cagion questo l’occorse.

Pavon si nominò, Pavon s’appella

costui, ch’amando in folle audacia sorse.

Seben altro di lui dice la fama,

Pavon chiamossi ed or Pavon si chiama.

Oltre che di bei drappi e vestimenti                           85

si dilettava assai per sua natura,

per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti

s’abbellia, s’arricchia con maggior cura:

pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti

variando ogni fuor di misura,

facea vedersi in sontuosa vesta

con gemme intorno e con piumaggi in testa.

Con tuttociò, da lei sempre negletto,                         86

senza speme languia tra pene e doglie,

perché discorde l’un dal’altro petto

di qualità contraria avean le voglie.

Tutto era fasto e gloria il giovinetto

ne’ pensieri, negli atti e nele spoglie;

l’altra costumi avea dolci ed umili,

mansueti, piacevoli e gentili.

La servia, la seguia fuor di speranza                          87

con sospir caldi e con preghiere spesse;

e perché, come pien d’alta arroganza,

pensava di poter quanto volesse,

ragionandole un prese baldanza

di farle troppo prodighe promesse;

tutto l’offrì ciò che bramasse al mondo

dal sommo giro al baratro profondo.

«Poiché tanto (diss’ella) osi e presumi,                                 88

voglio accettar la tua cortese offerta,

e del foco, ond’avampi e ti consumi,

giovami di veder prova più certa.

Recami alquanti de’ celesti lumi,

se vuoi pur ch’ad amarti io mi converta;

se servigio vuoi far che mi contenti,

dele stelle del cielo aver convienti.

Grande impresa fia ben quelch’io ti cheggio,                         89

non difficile a te, s’ardir n’avrai,

poiché presso a colui tieni il tuo seggio

che le raccende con gli aurati rai.

Qualora scintillar lassù le veggio

di tanta luce io mi compiaccio assai

e bramo alcuna in mano aver di loro

sol per saper se son di foco o d’oro».

O volesse fuggir con questa scusa                             90

quell’assalto importun ch’egli le diede,

o forse per non esserne delusa

esperienza far dela sua fede,

o perché pur la femina è semprusa

ingorda a desiar ciò ch’ella vede

ed, indiscreta, altrui prega e comanda

e le cose impossibili dimanda,

basta ch’egli in virtù di tai parole                               91

ogni suo sforzo a cotantopra accinse;

aspettò finché’l ciel, sicome suole,

di purpureo color l’alba dipinse

ed egli uscito in compagnia del sole,

che la lampa minor sorgendo estinse,

ale luci notturne e mattutine

accostossi per far l’alte rapine.

«Su mio cor (dicea seco) andianne audaci                            92

l’oro a rubar del bel tesor celeste,

ch’un raggio sol di due terrene faci

val più che lo splendor di tutte queste.

Di stender non temiam le man rapaci

nele gemme ch’al ciel fregian la veste,

pur che’n cambio del furto abbiam poi quelle

dele stelle e del sol più chiare stelle».

Orbe del lume e dela scorta prive                             93

fuggian le stelle in varie schiere accolte,

e sicome talor per l’ombre estive

quando l’aria è serena avien più volte,

sbigottite, tremanti e fuggitive

per fretta nel fuggir ne cadean molte.

Pavone allora il suo mantel distese

ed un groppo nel lembo alfin ne prese.

Giove, che vide il forsennato e sciocco                                 94

giovane depredar l’auree fiammelle,

sdegnossi forte e da grand’ira tocco

gli trasformò repente abito e pelle;

l’orgoglioso cimier divenne un fiocco

e nela falda gli restar le stelle;

Febo, che pietà n’ebbe e l’amò tanto,

per sempre poi gliele stampò nel manto.

Del ciel l’ambiziosa imperadrice                                95

tosto che vide il non più visto augello

che’l pregio quasi toglie ala fenice,

il volubil suo carro ornò di quello;

poi le penne gli svelse e fu inventrice

d’un istromento insieme utile e bello

ond’ale mense estive han le sue serve

cura d’intepidir l’aura che ferve.

Ed io, che soglio ognor qualunque imago                              96

scacciar dagli orti miei difforme e trista,

d’averlo ammesso qui godo e m’appago,

ché grazia il loco e nobiltà n’acquista,

perché natura in terra augel più vago

non credo ch’offerir possa ala vista,

so cosa trovar fra quanti oggetti

invaghiscano altrui, che più diletti.

Vedilo , ch’a’ più bei fior fa scorno                        97

e ben d’altra pittura i chiostri onora,

con quanta maestà rotando intorno

di mirabil ghirlanda il palco infiora.

Perché crediam che sì si mostri adorno,

senon per allettar chi l’innamora

e per aprire ala beltà, che mille

fiamme gli aventa al cor, cento pupille?

Or che far dee, dolcissimo ben mio,                          98

gentil petto, alto core e nobil voglia?

Qual da sì dolce universal desio

anima fia, che si ritragga o scioglia?

Ma che mirar, ma che curar degg’io

del bel pavon la ben dipinta spoglia,

s’aprono agli occhi miei le tue bellezze

altri fregi, altre pompe, altre ricchezze? –

Così ragiona e seco il trae pian piano                                    99

dove al’altr’uscio il guardian l’aspetta,

che con bei fasci di fioretti in mano

e varie ampolle di profumi alletta.

Garzon verde vestito e non lontano,

esplorator dela fiorita erbetta,

scaltro seguso e d’odorato acuto

tutto, dovunque va, cerca col fiuto.

Inestinguibilmente a piè gli bolle                                100

infuso un misto d’odorate cose.

Con sangue di colombe e con midolle

di passere stemprò liquide rose

e col puro storace e l’ambra molle

il muschio dentro e l’aloè vi pose.

V’ha di Cirene il belgioin natio,

il cifo egizzio e’l mastice di Chio.

Vista costui da lunge avea la bella                             101

coppia, ch’agli orti suoi l’orme volgea,

onde subito a sé Zefiro appella

che’n curva valle e florida sedea:

– O genitor dela stagion novella

 (dice) vago forier di Citerea,

che con volo lascivo e lieve fiato

passeggiando il mio cielo, infiori il prato,

non vedi tu la graziosa prole                          102

del gran motor che su le stelle regna,

come col vivo suo terreno sole

le nostre case d’onorar si degna?

Su su, studio a raccorla usar si vole,

tu tanta dea d’accarezzar t’ingegna.

Con la virtù che da’ tuoi semi avranno,

figli la terra e pargoleggi l’anno.

Quanto essalan di grato Ibla e Pancaia,                                103

quanto l’Idaspe di lontan ne spira,

quanto n’accoglie giunto ala vecchiaia

l’arabo augel nel’odorata pira,

tutto qui spargi, accioché degno appaia

di lei ciò ch’ella sente e ciò che mira,

fa ch’animate di fiorita messe

godan del tuo favor le selci istesse.

Tutto per questi piani e questi poggi                          104

prodigo il tuo tesor diffondi e sciogli,

e qual rupe più sterile fa ch’oggi

a’ tuoi fecondi spiriti germogli;

onde, nonch’ella volentier v’alloggi,

ma d’ordirvi ghirlande anco s’invogli

e i nostri fior da que’ celesti diti

possano meritar d’esser carpiti. –

Scote a quel dir le piume a più colori                        105

tutto di fresco nettare stillante

dela vezzosa e leggiadretta Clori,

sorto dal seggio suo, l’alato amante:

Clori ninfa de’ prati e dea de’ fiori,

de’ lidi canopei grata abitante,

spargendo fior dala purpurea stola

sempre il segue costei dovunque ei vola.

La gonna che la copre è tutta ordita                          106

d’un drappo che si cangia ad ora ad ora;

del’augel di Ciprigna il collo imita

quando ai raggi del sol si trascolora;

di simil manto comparir vestita

suole agli occhi d’april la bella Flora;

tal fra l’umide nubi il curvo velo

spande ale prime piogge Iride in cielo.

Volano a prova e con disciolti lembi                         107

scorron del ciel le spaziose strade;

nubi accoglie quel ciel, gravide i grembi

di fini unguenti e d’ottime rugiade,

onde l’umor soave in puri nembi

da que’ placidi soffi espresso cade;

cade su l’erba e fiocca in larga vena

d’aromatici odor pioggia serena.

Ciò fatto, ei precursore, ella seguace,                                   108

l’ali battendo rugiadose e molli,

fan maritate con l’umor ferace,

le glebe partorir novi rampolli.

S’allarga l’aria in un seren vivace

e fioreggiano intorno i campi e i colli.

Vedresti, ovunque vanno, in mille guise

Primavera spiegar le sue divise.

Tornano al copular di due stagioni                            109

i secchi dumi con stupor vermigli;

sbucciano fuor de’ gravidi bottoni

dele madri spinose i lieti figli.

Ricca la terra di celesti doni

par ch’al’ottavo ciel si rassomigli;

par che per vincer l’Arte abbia Natura

applicato ogni studio ala pittura.

Qual di splendor sanguigno e qual d’oscuro                          110

tingonsi i fiori in quelle piagge e’n queste,

qual di fin oro e qual di latte puro,

qual di dolce ferrugine si veste.

Adone intanto nel secondo muro

con l’altro di beltà mostro celeste

per angusto sportel passa introdotto

ch’è di cedro odorato ed incorrotto.

Mercurio incominciò: – Tra quante abbraccia                                   111

maggior delizie il cerchio dela luna,

cosa non ha di cui più si compiaccia

Venere o’l figlio suo, che di quest’una,

trov’io che più vaglia o che più faccia

lusingamento o tenerezza alcuna,

che la soavità de’ molli odori,

molto possenti ad allettar gli amori.

Ostie crudeli e sacrifici infausti,                                 112

miseri tori ed innocenti agnelle

offre la gente al ciel, tanto ch’essausti

restan gli armenti ognor di questi e quelle

e, sol per far salir d’empi olocausti

un fumo abominevole ale stelle,

aggiunto il foco ale svenate strozze,

arde agli eterni dei vittime sozze

e crede stolta ancor, che questi suoi                          113

di sangue vil contaminati altari

aborriti lassù non sien da noi,

che siam pur sì pietosi, anzi sien cari;

com’uopo abbian di pecore e di buoi

cittadini del ciel beati e chiari

o le dolcezze lor sempre immortali

deggian cangiar con immondizie tali.

Doni i più preziosi, i più graditi                                  114

che possan farsi a quegli eccelsi numi,

di natural simplicità conditi

son frutti e fiori, aromati e profumi.

Ma sovra quanti mai più reveriti

rotano i raggi in ciel celesti lumi,

Adon, la bella dea, con cui tu vai,

di queste offerte si diletta assai,

e per questa cagion qui, dove torna                          115

ella per uso ad albergar talora,

di tutto il bel che l’universo adorna,

scelse quanto diletta e quanto odora.

Or s’è ver, ch’a colei che qui soggiorna

ed a tutti gli dei che’l mondo adora,

soglion tanto piacer gli odori sparsi,

quanto denno dagli uomini pregiarsi?

Ben tirato un profil nel mezzo apunto                        116

scolpì del volto uman la man divina,

che quindi con le ciglia ambe è congiunto

e col labro sovran quinci confina.

E perché di guardarlo abbia l’assunto,

d’osso concavo e curvo armò la spina,

che qual base il sostenta; e tutto il resto

di molli cartilagini è contesto.

E perché, se vien pur sinistro caso                            117

una a turar dele finestre sue,

l’altra aperta rimanga ed abbia il naso

onde i fiati essalar, ne formò due;

e posta in mezzo al’un e l’altro vaso

terminatrice una colonna fue

tenera ma non fral, siché per questa

le sue piogge stillar possa la testa.

Ma benché oltre il decoro e l’ornamento                              118

ed oltre ancor ch’al respirare è buono,

vaglia a purgar del capo ogni escremento,

pur l’odorato è principal suo dono.

E consiste nel moto il sentimento

di due mammelle che da’ lati sono,

e movon certi muscoli al’entrata,

de’ quali un si ristringe, un si dilata.

Quindi s’apre la porta e lo spiraglio                          119

del senso interno al’ultime radici,

dove a guisa di forato vaglio

una parte sovrasta ale narici.

L’altra è spugnosa e con sottile intaglio

è destinata a’ necessari uffici,

che qual pomice o fongo avendo i fori,

rompe l’aere alterato entro i suoi pori.

È la spugna del cranio umida e tale                           120

che d’ogni arida cosa assorbe i fiati,

traendo a sé la qualità reale

degli oggetti soavi ed odorati.

Passa il caldo vapore e in alto sale

ai ventricoli suoi per duo meati,

che non si serran mai, talché con esso

l’aere insieme e lo spirto han sempre ingresso.

Ma tra risi e piacer frapor non deggio                                   121

di severa dottrina alti sermoni,

però ch’ala tua dea su i fianchi io veggio

di pungente desio fervidi sproni

e del mio dir questo fiorito seggio

soggiungerà la prova ale ragioni.

Senti auretta che spira. – In cotal guisa

l’arguto dio col bell’Adon divisa.

De’ fioriti viali in lunghi tratti                          122

mirando van le prospettive ombrose,

ne’ cui margini a fil tirati e fatti

miniere di rubini apron le rose.

Stan disposti ne’ quadri i fiori intatti

con leggiadre pitture ed ingegnose,

e di forme diverse e color vari

con mille odori abbagliano le nari.

Trecce di canne e reti e gelosie                                 123

ale ben larghe alee tesson le coste

e dagli erbai dividono le vie

compassate a misura e ben composte,

le cui fabriche egregie e maestrie

la dea del loco addita al suo bell’oste,

movendo seco per quel suolo i passi,

fatto a musaico di lucenti sassi.

Amor con meraviglie inusitate                                   124

semplice qui conserva il suo diletto,

perché pon nele piante innamorate

ogni perfezzion senza difetto

e con foglie più spesse e più odorate,

quando la rosa espone il bel concetto,

o candida o purpurea o damaschina,

nascer fa solo il fior senza la spina.

Ciò ch’han di molle i morbidi Sabei,                         125

gl’Indi fecondi o gli Arabi felici,

ciò che produr ne sanno i colli iblei,

le piagge ebalie o l’attiche pendici,

quanto mai ne nutriste orti panchei,

prati d’Imetto e voi campi corici,

con stella favorevole e benigna

tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.

Vi suda il gatto etiope e ben discosto                                    126

lascia di sua virtù traccia per l’aura,

né vi manca per tutto odor composto

di pasta ispana o di mistura maura.

Casia, amaraco, amomo, aneto e costo

e nardo e timo ogni egro cor restaura,

abrotano, serpillo ed elicriso

e citiso e sisimbro e fiordaliso.

Havvi il baccare rosso, in piaggia aprica                               127

nato a spedir le membra in lieve assalto;

havvi la spina arabica e la spica,

che più groppi di verghe estolle in alto;

d’Etiopia il balan qui si nutrica,

colà di Siria il virtuoso asfalto;

spunta mordace il cinnamomo altrove

e la pontica noce a piè gli piove.

Tra i più degni germogli il panaceo                            128

le sue foglie salubri implica e mesce

e’l terebinto col dittamo ideo,

da cui medico umor distilla ed esce;

e col libico giunco il nabateo

e d’India il biondo calamo vi cresce.

Chi può la serie annoverar di tante,

ignote al nostro ciel, barbare piante?

Fumante il sacro incenso erutta quivi                         129

d’alito peregrin grati vapori;

scioglie il balsamo pigro in dolci rivi

i preziosi e nobili sudori;

stilla in tenere gomme e’n pianti vivi

i suoi viscosi e non caduchi umori

Mirra, del bell’Adon la madre istessa,

e’l bel pianto raddoppia, orch’ei s’appressa.

Non potè far, che del materno stelo                          130

non compiangesse il figlio il caso acerbo.

Siati sempre (gli disse) amico il cielo,

tronco, che’n mezzo al cor piantato io serbo.

Le tue chiome non sfrondi orrido gelo,

le tua braccia non spezzi austro superbo

e quando ogni altra pianta i fregi perde,

in te verdeggi il fior, fiorisca il verde. –

parla, ed ella la cangiata spoglia                            131

dal sommo crine ala radice estrema

per la memoria del’antica doglia

tutta crollando allor, palpita e trema.

Com’abbracciar coverdi rami il voglia,

sestessa inchina e par languisca e gema

e, sparsi de’ suoi flebili licori,

fa lagrimar gl’innamorati fiori.

Ne’ fior ne’ fiori istessi amor ha loco,                                   132

amano il bel ligustro e l’amaranto

e narciso e giacinto, aiace e croco

e con la bella clizia il vago acanto.

Arde la rosa di vermiglio foco,

l’odor sospiro e la rugiada è pianto.

Ride la calta e pallida ed essangue

tinta d’amor la violetta langue.

Ancor non eri, o bell’Adone, estinto,                        133

ancor non eri in novo fior cangiato.

Chi diria che di sangue, oimé! dipinto

dei di testesso in breve ornare il prato?

Presago già, benché confuso e vinto,

d’un tanto onor che gli destina il fato,

ciascun compagno tuo t’onora e cede,

t’ingemman tutti il pavimento al piede.

Havvi il vago tulippo, in cui par voglia                                   134

quasi in gara con l’Arte entrar Natura;

qual d’un bel riccio d’or tesse la foglia

ch’ai broccati di Persia il pregio fura;

qual tinto d’una porpora germoglia

che degli ostri d’Arabia il vanto oscura;

trapunto ad ago o pur con spola intesto

drappo non è che si pareggi a questo.

Ma più d’ogni altro ambizioso il giglio                                   135

qual re sublime in maestà sorgea

e, con scorno del bianco e del vermiglio,

in alto il gambo insuperbito ergea;

dolce gli arrise, indi di Mirra al figlio

segnollo a dito e’l salutò la dea:

Salve (gli disse) o sacra, o regia, o degna

del maggior gallo e fortunata insegna.

Ti vedrà con stupor l’età novella                               136

chiara quanto temuta e gloriosa;

ma quante volte di dorata e bella

diverrai poi purpurea e sanguinosa?

Non sol negli orti miei convien ch’anch’ella

ti ceda omai la mia superba rosa,

ma, fregiato di stelle, anco il tuo stelo

merita ben che si traspianti in cielo. –

Non so se v’era ancor la granadiglia,                        137

ch’a noi poscia mandò l’indica piaggia,

di natura portento e meraviglia,

e ceda ogni altra pur stirpe selvaggia.

Al no più tosto il mio pensier s’appiglia,

deve altro stimarne anima saggia,

ché star non può, né dee puro e sincero

tra l’ombre il sol, con le menzogne il vero.

Disse alcun, ch’a narrar le glorie e l’opre                              138

del sempiterno lor sommo fattore

le stelle, onde la flotte il manto copre,

son caratteri d’oro e di splendore.

Or miracol maggior la terra scopre;

quasi bei fogli apre le foglie un fiore,

fiore, anzi libro, ove Gesù trafitto

con strane note il suo martirio ha scritto.

Benedicati il cielo e chi lo scrisse,                             139

o sacro fior, che tanta gloria godi,

e i fiori, in cui de’ regi i nomi disse

leggersi antica musa, or più non lodi.

Chi vide mai, che’n prato alcun fiorisse

primavera di spine e lance e chiodi?

e che tra mostri al Redentor rubelli

pullulasser cofiori i suoi flagelli?

In India no, ma ne’ giardin celesti                              140

portasti i primi semi a’ tuoi natali

tu, che del tuo gran Re tragici e mesti

spieghi in picciol teatro i funerali.

Nel’orto di Giudea, credo, nascesti

da que’ vermigli e tepidi canali

che gli olivi irrigaro, ov’egli essangue

angosciose sudò stille di sangue.

Ahi! qual pennello in te dolce e pietoso                                 141

trattò la man del gran pittore eterno?

e con qual minio vivo e sanguinoso

ogni suo strazio espresse ed ogni scherno?

di quai fregi mirabili pomposo

al sol più caldo, al più gelato verno

dentro le tue misteriose foglie

spieghi l’altrui salute e le sue doglie?

Qualor bagnato da’ notturni geli                                142

con muta lingua e taciturna voce,

anzi con liete lagrime, riveli

de’ tuoi fieri trofei l’istoria atroce

e rappresenti ambizioso ai cieli

l’aspra memoria del’orribil croce,

per gran pietate il tuo funesto riso

materia di pianto al paradiso.

Vivi e cresci felice. Ove tu stai                                  143

Sirio non latri ed aquilon non strida,

né di profano agricoltor giamai

vil piè ti calchi o falce empia t’incida,

ma con chiar’onde e con sereni rai

ti nutrisca la terra, il ciel t’arrida,

Favonio ognor con la compagna Clori

dela bell’ombra tua gli odori adori.

Te sol l’aurora in oriente ammiri,                               144

tue pompe invidi e tua beltà vagheggi;

in te si specchi, a te s’inchini e giri

stupido il sol da’ suoi stellanti seggi.

Ma né questi né quella al vanto aspiri

che di luce o color teco gareggi,

ché sol la vista tua può donar loro,

qual non ebber giamai, porpora ed oro.

Lagrimette e sospir calde e vivaci                             145

d’aure in vece ti sieno e di rugiade;

angeli sien del ciel l’api predaci,

che rapiscan l’umor che da te cade

e, mille in te stampando ardenti baci

di devota dolcezza e di pietade,

dal fiel che ti dipinge amaro e grave,

traggano a’ nostri affanni il mel soave.

Tutto al venir d’Adon par che ridenti                        146

rivesta il bel giardin novi colori;

umili in atto intorno e reverenti

piegan la cima i rami, ergonla i fiori;

vezzose l’aure e lusinghieri i venti

gli applaudon con sussurri adulatori;

tuttutti a salutarlo ivi son pronti

gli augei cantando e mormorando i fonti.

Con l’interne del cor viscere aperte                          147

ogni germe villan fatto civile,

gli fa devoto affettuose offerte

di quanto ha di pregiato e di gentile;

dovunque il volto gira o il piè converte

presto si trova a corteggiarlo aprile;

aranci e cedri e mirti e gelsomini

spiran nobili odori e peregrini.

Qui di nobil pavon superba imago                             148

il crespo bosso in ampio testo ordiva,

che nel giro del lembo altero e vago

ordin di fiori in vece d’occhi apriva.

Quivi il lentisco di terribil drago

l’effigie ritraea verace e viva

e l’aura, sibilando intorno al mirto,

formava il fischio e gl’infondea lo spirto.

Colà l’edra ramosa, intesta ad arte,                          149

capace tazza al natural fingea,

dove il licor dele rugiade sparte

ufficio ancor di nettare facea;

con verdi vele altrove e verdi sarte

fabricava il timon nave o galea,

su la cui poppa i vaghi augei cantanti

l’essercizio adempian de’ naviganti.

La Gioia lieta e la Delizia ricca,                                 150

l’accarezza colei, costei l’accoglie.

La Diligenza i fior dal prato spicca,

l’Industria i più leggiadri in grembo toglie;

e la Fragranza i semplici lambicca,

e la Soavità sparge le foglie;

l’Idolatria tien l’incensiero in mano,

la Superbia n’essala un fumo vano.

La Morbidezza languida e lasciva,                            151

la Politezza dilicata e monda,

la Nobiltà che d’ogni lezzo è schiva,

la Vanità che d’ogni odore abonda,

la Gentilezza affabile e festiva,

la Venustà piacevole e gioconda

e, con l’Ambizion gonfia di vento,

il Lusso molle e’l barbaro Ornamento.

Venner questi fantasmi ed, a man piene                                152

su’l bel viso d’Adon spruzzando stille

d’odorifere linfe, entro le vene

gl’infuser sottilissime faville.

Poi con tenaci e tenere catene,

ch’ordite avean di mille fiori e mille,

trasser legati il giovane e la diva

dove al’Ozio in grembo Amor dormiva.

O fusse degli odor l’alta dolcezza,                            153

laquale il trasse a quel beato loco,

o pur che vinto alfin dala stanchezza

schermo cercasse dal’estivo foco,

quivi colui che l’universo sprezza

e del’altrui languir si prende gioco,

con un fastel di fior sotto la fronte

erasi addormentato a piè d’un fonte.

La pesante faretra e l’arco grave                              154

sostiene un mirto e ne fa scherzo al vento;

l’ali non move già, che ferme l’have

un sonno dolce, a lusingarlo intento;

ma’l sonno lieve e’l venticel soave

fan con moto talor lascivo e lento

vaneggiar, tremolar, qual’onda in fiume,

le bionde chiome e le purpuree piume.

Quando la madre il cattivel ritrova                            155

ch’al sonno i lumi inchina e i vanni piega,

tosto pian pian, pria che si svegli o mova,

per l’ali il prende e con la benda il lega.

Amor si desta e di campar fa prova

e si scusa e lusinga e piagne e prega;

non l’ascolta Ciprigna e, seben scherza,

simulando rigor, stringe la sferza.

– Tu piagni (gli dicea) tu crudo e rio,                         156

che di lagrime sol ti pasci e godi?

E pur dianzi dormivi e pur, cred’io,

sognavi ancor dormendo insidie e frodi.

Tu che turbi i riposi al dormir mio

e m’inganni e schernisci in tanti modi,

tu, che’l sonno interrompi ai mesti amanti,

dormivi forse al mormorar de’ pianti? –

Così dice e’l minaccia e da’ bei rai                           157

folgora di dispetto un lampo vivo;

ma’l suo vezzoso Adon, che non sa mai

il bei volto veder senon giolivo,

corre a placarla e – Serenate omai

quel sembiante (le dice) irato e schivo.

Vorrò veder, s’ad impetrar son buono

dal vostro sdegno il suo perdono in dono. –

Come veduto il pasto, in un momento                                   158

mordace can la rabbia acquetar suole

o come innanzi al più sereno vento

si dileguan le nubi e riede il sole,

così del’ira ogni furore ha spento

Venere ale dolcissime parole.

Piace (risponde) a me, poich’a te piace,

per maggior guerra mia, dargli la pace.

Arbitro è il cenno tuo del mio consiglio,                                159

quanto puoi nel’amor puoi nelo sdegno.

E che curar degg’io di cieco figlio?

Tu se’ il mio caro e prezioso pegno.

Porta Amor l’arco in man, tu nel bel ciglio;

tende Amor il lacciuol, tu se’ il ritegno;

Amor ha il foco e tu dai l’esca; Amore

m’uscì del seno e tu mi stai nel core.

Ma sappi, anima mia, che quale il vedi,                                 160

quel ch’or ti fa pietà, povero infante,

volge il mondo sossovra e sotto i piedi

ha con tutti i celesti il gran tonante.

Ben tenaccorgerai se tu gli credi;

ma non gli creda alcun accorto amante.

Scelerato, fellon, furia, non dio,

partorito mai non l’avess’io.

È cieco sì, non perché già gli strali                             161

se ferir vuol, non veggia ove rivolga,

ch’ascoso il cor nel petto de’ mortali

trovar ben sa, senza che’l vel si sciolga.

Cieco ei s’infinge sol negli altrui mali,

né gli cal, ch’altri pianga o che si dolga;

e cieco è sol però ch’accieca altrui

per dar la morte a chi si fida in lui.

Fiero accidente e rapido volere,                               162

desio che’nchina a partorir nel bello,

scende al cor per la vista e vuol godere,

cerca il diletto e sol s’acqueta in quello.

Ma poiché lusingato ha col piacere,

ai più fidi e devoti è più rubello.

Gli altri affetti del’alma, apena entrato

scaccia e s’usurpa quel che non gli è dato.

Sotto la sua vittoriosa insegna                                   163

piangon millalme afflitte i propri torti.

Mansueto e feroce, ama e disdegna,

prega e comanda, or pene or conforti.

Leggi rompe, armi vince e, mentre regna,

piega i saggi egualmente e sforza i forti.

Risse e paci compone, ordisce inganni,

sa far lieti i dolori, utili i danni.

Tenero come ortica e come cera                              164

è duro, umil fanciullo e fier gigante.

Il disprezzo lo placa, e la preghiera

più terribile il rende e più arrogante.

Qual Proteo ha qualità varia e leggiera,

in tante forme si trasforma e tante.

Ha l’entrata ne’ cor pronta e spedita,

faticosa e difficile l’uscita.

Ha faci e reti e lacci ed arco e dardi,                         165

quant’ha, tutto è veleno e tutto è foco.

Mostra viso benigno e dolci sguardi,

or salta, or vola e non ha stabil loco.

Forma falsi sospir, detti bugiardi,

spesso s’adira e volge in pianto il gioco.

Quelche giova non cura o quelche lice,

teme genitorgenitrice.

La spada a Marte e la saetta a Giove                                   166

toglie di mano e sì l’aventa e vibra.

Repentino e furtivo assalti move,

né con scarse misure i colpi libra.

Fa piaghe inevitabili e dove

passa, attosca gli spirti in ogni fibra.

Va per tutto e per tutto or cala, or poggia,

ma sol ne’ cori e non altrove alloggia.

Ciò che del mentitor l’arte richiede,                          167

ciò ch’ai furti del’alme oprar bisogna,

dalo dio del’astuzie e dele prede

nelo studio imparò dela menzogna.

Non conoscer giustizia e romper fede,

schernir pietate e non stimar vergogna,

tutto apprese da lui; né scaltro e destro

il discepol fu poi men del maestro.

Consiglier disleal, guida fallace,                                 168

chiunque il segue di tradir si vanta.

Astuto uccellator, mago sagace,

i sensi alletta e gl’intelletti incanta.

Indiscreto furor, tarlo mordace,

rode la mente e la ragion ne schianta.

Passion violenta, impeto cieco,

tosto si sazia e’l pentimento ha seco.

Ceda del mar Tirren la fera infida                              169

e del fiume d’Egitto il perfidangue,

ehe forma a danni altrui canto omicida

e piange l’uom, poiché gli ha tratto il sangue;

questi toglie la vita e par che rida,

ferisce a morte e per pietà ne langue;

in gioconda prigion, di vita incerto

tiene altrui preso e mostra l’uscio aperto.

Non ebbe il secol mai moderno o prisco                               170

mostro di lui più sozzo o più difforme,

ma perch’altri non fugga il laccio e’l visco,

non si mostra giamai nele sue forme;

Medusa al’occhio, al guardo è basilisco,

nel morso ala tarantola è conforme;

ha rostro d’avoltoio orrido e schifo,

man di nibbio, unghia d’orso e piè di grifo.

Non giova a fargli schermo arte o consiglio,                          171

poiché per vie non conosciute offende.

Fere, ma non fa piaga il crudo artiglio,

o se pur piaga fa, sangue non rende,

se rende sangue pur, non è vermiglio,

ma stillato per gli occhi in pianto scende.

E così lascia in disusata guisa

senza il corpo toccar, l’anima uccisa.

Chi non vide giamai serpe tra rose,                           172

mele tra spine o sotto mel veleno;

chi vuol veder il ciel, di nebbie ombrose

cinto quand’è più chiaro e più sereno,

venga a mirar costui, che tiene ascose

le grazie in bocca e porta il ferro in seno:

lupo vorace in abito d’agnello,

fera volante e corridore augello.

Lince privo di lume, Argo bendato,                           173

vecchio lattante e pargoletto antico,

ignorante erudito, ignudo armato,

mutolo parlator, ricco mendico,

dilettevole error, dolor bramato,

ferita cruda di pietoso amico,

pace guerriera e tempestosa calma,

la sente il core e non l’intende l’alma.

Volontaria follia, piacevol male,                                174

stanco riposo, utilità nocente,

desperato sperar, morir vitale,

temerario timor, riso dolente,

un vetro duro, un adamante frale,

un’arsura gelata, un gelo ardente,

di discordie concordi abisso eterno,

paradiso infernal, celeste inferno.

Era a gran pena dal mio ventre al sole                                   175

questo seme di vizi uscito fora,

né’l fianco a sostener la grave mole

dela faretra avea ben fermo ancora,

quando del fiero ingegno, acerba prole,

maturò le perfidie innanzi l’ora;

e seben l’ali ancor non gli eran nate,

con la malizia avantaggiò l’etate.

Iva ala scola, a quella scola in cui                              176

virtù s’impara ed onestà s’insegna

e piangea nel’andar, come colui

che sì fatte dottrine aborre e sdegna;

e, com’è stil de’ coetanei sui,

perché’l digiuno a ristorar si vegna,

pien di poma portava un picciol cesto

che di fronde di palma era contesto.

Perché non si smarrisse o smarrit’anco                                 177

fusse ai tetti materni almen ridutto,

sospeso gli avev’io su’l tergo manco

di breve in forma un titolo costrutto;

eravi affiso un pergameno bianco

di minio e d’or delineato tutto

e scritto v’era di mia propria mano:

«Questi è di Vener figlio e di Vulcano

Poco tardò, che di trovar gli avenne                          178

la Vigilanza, ch’attendea tra via;

con l’Importunità l’Audacia venne,

poi la Consuetudine seguia.

Costoro in guisa tal ch’ebro divenne,

l’abbeverar del vin dela Follia;

ebro il tennero a bada, infinché tutti

del suo panier si divoraro i frutti.

Or, dov’altri donzelli in varie guise                            179

de’ primieri elementi apprendean l’arte,

il malvagio scolar giunto s’assise

nela più degna ed onorata parte;

quindi poi sorto, a recitar si mise

la lezion su le vergate carte

e, quasi pur con indice o puntale,

la tabella scorrea con l’aureo strale;

ma peroché non ben del suo dettato                         180

seppe le note espor, con scorni ed onte

ne fu battuto, ond’ei con l’arco aurato

al Senno precettor ruppe la fronte.

Così fuggissi ed al’albergo usato

non osando tornar, calò dal monte

e con la turba insana e fanciullesca

venne in desio d’essercitar la pesca,

e, mancandogli corda, agli aurei crini                         181

svelle una ciocca e lungo fil ne stende

e, questo immerso entro i zaffir marini

in vece d’asta, ad una freccia appende.

Gittan lo stame ancor gli altri Amorini,

perde il tempo ciascuno e nulla prende;

solo il mio figlio a strana preda inteso

tragge carco il lacciuol di ricco peso.

Guizzava apunto in quella istessa riva,                                   182

dove i dolci de’ cor tiranni e ladri

intendeano a pescar, ninfa lasciva,

cui pari altra non ebbe occhi leggiadri;

mentre perle costei cogliendo giva

dal cavo sen dele cerulee madri,

vide folgoreggiar per entro l’onda

del pargoletto dio la treccia bionda.

Ala luce del’or, ch’alletta e’nganna,                          183

s’accosta incauta e vi s’involve e gira;

tosto che sente Amor tremar la canna,

con l’aita degli altri a sé la tira;

presa è la ninfa e di dolor s’affanna,

giunge al’arena e si dibatte e spira;

apena al’aura è fuor del’acque uscita,

che’n acquistando il sol, perde la vita.

Tra questi indugi ecco la notte oscura,                                  184

ch’imbruna il cielo e discolora il giorno.

Allor ramingo e pien d’alta paura,

vassi lagnando e non sa far ritorno,

ma pur, riconosciuto ala scrittura,

è ricondotto al mio divin soggiorno.

Io per punirlo allor la verga prendo,

ed ei si scusa e supplica piangendo:

«Pietà (diceami) affrena l’ira alquanto,                                  185

pietà, madre, mercé, perdono, aiuto,

ch’anco staman, non senza affanno e pianto,

dal severo maestro io fui battuto.

E fors’egli miracolo cotanto,

che sia per poco un fanciullin perduto?

anco in più ferma età, né meraviglia,

perdé per sempre Cerere la figlia.

Se questa volta il rio flagel deponi,                            186

vo’ che novo da me secreto impari;

insegnerotti, pur che mi perdoni,

a pescar cori, iquai ti son sì cari;

sappi, che non si fan tai pescagioni

senza l’esca del’or ne’ nostri mari;

pon l’oro in cima pur degli ami tuoi,

e se ne scampa alcun, battimi poi.

Nel mar d’Amor ciascun amante pesca                                187

per trarre un cor fugace al suo desio.

Ma però che de’ cori è cibo ed esca

l’or, che del vulgo già s’è fatto dio,

chi vuol che’l duo lavor ben gli riesca,

usi quest’arte, che ti scopro or io:

qualor uom ch’ama a bella preda intende,

se l’esca non è d’or, l’amo non prende

Con queste ciance, del suo fallo stolto                                  188

campò la pena il lusinghier crudele.

Ma per altra follia non andò molto,

ch’a me tornò con gemiti e querele;

vassene in un querceto ombroso e folto

ne’ giardini di Gnido a coglier mele

e seco a depredar gli aurei fialoni

van gli alati fratelli in più squadroni;

e perché’l dolce de’ licor soavi                                 189

orso o mosca non è che cotantami,

cerca de’ faggi opachi i tronchi cavi,

spia de’ frassini annosi i verdi rami;

e nel pedal d’un elce, ecco duo favi

vede coverti di pungenti essami;

vulgo d’api ingegniere accolto in quella

sta sussurrando a fabricar la cella.

Chiama i compagni e lor la cova addita                                 190

che la ruvida scorza in sé ricetta;

corre dentro a ficcar la destra ardita,

ma la ritira poi con maggior fretta;

folle chi cani attizza o vespe irrita,

ché non si sdegnan mai senza vendetta;

pecchia d’acuta spina armata il morse,

ond’ei forte gridando a me ricorse

e, dela guancia impallidito l’ostro,                             191

di timor, di dolor palpita e langue:

«Madre madre ( mi dice) un picciol mostro,

e mi scopre la man tinta di sangue,

un che quasi non ha denterostro

e sembra d’or e punge a guisa d’angue,

minuto animaletto, alata serpe

hammi il dito trafitto in quella sterpe».

Io, che’l conosco e so di che fier aghi                                   192

s’armi sovente, ancorché vada ignudo,

mentre che i lumi rugiadosi e vaghi

gli asciugo e la ferita aspra gli chiudo,

«Che d’animalpiccolo t’impiaghi

 (rispondo) il pungiglion rigido e crudo,

da pianger figlio o da stupir non hai:

e tu, fanciullo ancor, che piaghe fai?»

L’Occasion, ch’è nel fuggirpresta,                        193

vide un giorno per l’aria ir frettolosa.

Suora minor dela Fortuna è questa

e tien le chiavi d’ogni ricca cosa;

l’ali ha su’l tergo e di vagar non resta,

sempre andando e tornando e mai non posa;

lungo, diffuso e folto il crine ha, salvo

verso la coppa ov’è schiomato e calvo.

Per poterla fermar, l’occhio e’l pensiero                               194

molto attento ed accorto aver conviene,

ch’animal non fu mai tanto leggiero

e vuol gran senno a custodirla bene;

frutto di suo sudor non gode intero

chi la prende talor né la ritiene.

Egli appostolla e tante insidie tese,

che, mentr’ella volava, alfin la prese.

Ma poich’al laccio suo la giunse e colse                                195

e la chioma fugace ebbe distretta,

di lentisco una gabbia intesser volse

per tenervela poi, chiusa e soggetta.

O poco cauto! Intanto ella si sciolse;

così perde piacer chi tempo aspetta:

mentr’era intento a que’ pensieri sciocchi,

gli uscì di mano e gli svanì dagli occhi.

Quante da indi in poi colpe diverse                           196

da lui commesse, io qui trapasso e celo?

Taccio quando di neve il sen s’asperse

e si stracciò di su la fronte il velo;

lassa, allor per mio mal le luci aperse,

allora fu l’ardor suo misto di gelo;

l’iniqua Gelosia, che’l tolse in braccio,

gli sbendò gli occhi e l’attuffò nel ghiaccio.

Fuggì tremando assiderato e molle,                           197

tutto stillante il sen pruine e brume,

al cieco albergo, ove lo Sdegno folle

tien di torbida fiamma acceso lume;

e però ch’appressar troppo si volle,

riscaldando le membra, arse le piume;

quindi tacito e mesto a casa venne

con la fascia squarciata e senza penne.

L’insolenza e l’ardir contar non voglio,                                 198

quando sotto le piante Onor si pose,

al cui saggio ammonir crebbe in orgoglio

con ingiurie villane ed oltraggiose.

E perché la Ragion, che’n alto soglio

siede reina a giudicar le cose,

citollo al tribunal del suo governo,

ricusando ubbidir, la prese a scherno,

anzi un regno per sé solo e diviso                              199

a dispetto fondò dela Ragione;

volse anch’egli il suo inferno e’l paradiso

in disprezzo di Giove e di Plutone;

nel’un pose diletto e gioia e riso,

ma beate suol far poche persone;

l’altro tutto colmò di fiamme ardenti,

dove i dannati suoi stanno in tormenti.

Dele più chiare e più famose lodi                              200

del mio folletto hai qualche parte intesa,

ma del gran fascio di cotante frodi

sappi, che quel ch’io narro, il men non pesa.

Di sue prodezze intempestive or odi

un’altra egregia e segnalata impresa:

la misera Speranza un giorno batte,

balia che lo nutrì del proprio latte.

Indi da me scacciato e’n faccia tinto                         201

del color dela porpora e del foco

e dala Rabbia e dal Furor sospinto,

che l’accompagnan sempre in ciascun loco,

prese a giocar con l’Interesse e, vinto,

l’arco perdette e le quadrella in gioco;

costui, ch’ogni valor spesso gli toglie,

vinselo e trionfò dele sue spoglie.

Ma di novarco e di quadrella nove                          202

poich’arciera Beltà l’ebbe fornito,

sen gio, ventura a ricercare, altrove,

insopportabilmente insuperbito;

e, mentre inteso a far l’usate prove,

scorrea l’onda e l’arena, il monte e’l lito,

tra i sepolcri di Menfi infausta sorte

guidollo a caso ad incontrar la Morte.

Quel teschio scarno e nudo di capelli,                                   203

quella rete di coste e di giunture,

dele concave occhiaie i voti anelli,

del naso monco le caverne oscure,

dele fauci sdentate i duo rastelli,

del ventre aperto l’orride fessure,

de’ secchi stinchi le spolpate fusa

Amor mirar non seppe a bocca chiusa;

non si seppe tener, che non ridesse                           204

volto a schernirla, il garruletto audace,

onde pugna crudel tra lor successe,

vibrando ella la falce egli la face.

Ma si frapose e quel furor ripresse

componendogli insieme amica Pace

e, quella notte, in un medesmo tetto

abitanti concordi, ebber ricetto.

Levati la diman, l’armi scambiando,                          205

l’un si prese del’altro arco e quadrella,

ond’adivenne poi, che saettando

fero effetti contrari e questi e quella.

L’uno uccidendo e l’altra innamorando

ancor serban quest’uso ed egli ed ella;

Morte induce ad amar l’alme canute,

Amor tragge a morir la gioventute.

Adon bella mia pena e caro affanno,                         206

luce degli occhi miei, fiamma del core,

guardati pur da questo rio tiranno,

ch’alfin non sene trae, senon dolore. –

Così parla Ciprigna e’ntanto vanno

fuor del boschetto, ove trovaro Amore.

Amor si va le lagrime tergendo,

e con occhio volpin ride piangendo.

 




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