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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto 7, allegoria

LE DELIZIE. L’argento della terza porta ha proporzione con la materia dell’orecchio, sicome l’avorio e il rubino della quarta si confanno con quella della bocca. Le due donne, che nel senso dell’udito ritrova Adone, son la Poesia e la Musica. I versi epicurei cantati dalla Lusinga alludono alle dolci persuasioni di queste due divine facoltà, qualora, divenute oscene meretrici, incitano altrui alla lascivia. Le ninfe, che nel senso del gusto dal mezzo in giù ritengono forma di viti ed abbracciano e vezzeggiano chi loro si accosta, son figura della ebrietà, laqual suol essere molto trabocchevole agl’incentivi della libidine. Il nascimento di Venere, prodotta dalle spume del mare, vuol dire che la materia della genitura, come dice il filosofo, è spumosa e l’umore del coito è salso. Il natal d’Amore, celebrato con festa ed applauso da tutti gli animali, a conoscere la forza universale di questo efficacissimo affetto, da cui riceve alterazione tutta quanta la natura. Pasquino, figlio di Momo e della Satira, che per farsi grato a Venere le manda a presentare la descrizione del suo adulterio, dimostra la pessima qualità degli uomini maledici, i quali eziandio quando vogliono lodare non sanno senon dir male. Vulcano, che fabrica la rete artificiosa, è il calor naturale, ch’ordisce a Venere ed a Marte, cioè al disiderio dell’umano congiungimento, un intricato ritegno di lascive e disoneste dilettazioni. Sono i loro abbracciamenti discoverti dal Sole, simulacro della prudenza, percioché questa virtù col suo lume dimostra la bruttura di quell’atto indegno e la fa conoscere e schernire da tutto il mondo.

 

Canto 7, argomento

Accenti di dolcissima armonia

ascolta Adon tra suoni e balli e feste;

s’asside a mensa con la dea celeste

e le lodi d’amor canta Talia.

 

Canto 7

Musica e Poesia son due sorelle                               1

ristoratrici del’afflitte genti,

de’ rei pensier le torbide procelle

con liete rime a serenar possenti.

Non ha di queste il mondo arti più belle

o più salubri al’affannate menti,

cor la Scizia ha barbaro cotanto,

se non è tigre, a cui non piaccia il canto.

Suol talvolta però metro lascivo                                2

l’alte bellezze lor render men vaghe,

e l’onesto piacer fassi nocivo

e divengon di dee tiranne e maghe.

Né fa rapido stral passando al vivo

tinto di toscoprofonde piaghe,

come i morbidi versi entro ne’ petti

van per l’orecchie a penetrar gli affetti.

Elle, ingombrando il cor di cure insane                                  3

col dolce vin dela lussuria molle,

quasi del padre ebreo figlie profane,

l’infiamman sì che fervido ne bolle.

Instigate da lor le voglie umane

a libertà licenziosa e folle,

dietro ai vani appetiti oltre il prescritto

trascorron poi del lecito e del dritto.

Ma s’ala forza magica di queste                                4

incantatrici e perfide sirene

ad aggiungere ancor per terza peste

il calor dela crapula si viene,

che non può? che non fa? quante funeste

ulularo per lei tragiche scene?

Toglie di seggio la ragion ben spesso,

l’anima invola al cor, l’uomo a sestesso.

Lupa vorace, ingordo mostro infame,                                   5

lo cui cupo desir sempre sfavilla,

che sol per satollar l’avide brame

brami collo di grù, ventre di Scilla,

sichesca omai bastante a tanta fame

la terra o l’acqua non produce o stilla,

e dala gola tua divoratrice

apena scampa l’unica fenice.

Dolce velen, che d’umor dolce e puro                                  6

irrigando il palato innebri l’alma,

dal tuo lieto furor non fu securo

chi pria t’espresse con la rozza palma.

Del tuo sommo poter, fra quanti furo

oppressi mai di così grave salma,

Erode e Baldassare ed Oloferne

han lasciate tra noi memorie eterne.

Ma vie più ch’alcun altro Adone è quello                              7

che ne fa chiara prova, espressa fede.

Eccolo che verso il terzo ostello

con la madre d’Amor rivolge il piede.

E’l portinaio ad ospitebello

aperto il passo e libero concede

e, per via angusta e flessuosa e torta,

d’un in altro piacer fassi sua scorta.

Stava costui con pettine sonoro                                8

sollecitando armonico stromento.

Un cinghiale in disparte, un cervo, un toro

teneano a quel sonar l’orecchio intento.

Ma, deposta la lira, al venir loro

su’l cardin croccar l’uscio d’argento.

D’argento è l’uscio e certe conche ha vote

che s’odon tintinnir, quando si scote.

Dela bella armonia (di Mirra al figlio                                  9

disse il figlio di Maia) è questi il duce;

anch’ei dela tua dea servo e famiglio

al piacer del’udire altrui conduce.

fatto è senza provido consiglio

ch’alberghi con Amor chi amor produce,

poiché non è degli amorosi metri

cosa in amor che maggior grazia impetri.

Chi d’eburnea testudine eloquente                            10

batter leggiadra man fila minute,

sposando al dolce suon soavemente

musica melodia di voci argute,

sente talor, né penetrar si sente

di que’ numeri al cor l’alta virtute,

spirto ha ben dissonante, anima sorda

che dal concento universal discorda.

quel senso Natura, accioché sia                           11

di tal dolcezza al ministerio presto;

e benchentrar per la medesma via

soglia ciascun nel’uomo abito onesto,

poscia ch’ogni arte e disciplina mia

non ha varco nel’alma altro che questo,

una è sol la cagion, vario l’effetto,

l’uno ha riguardo al prò, l’altro al diletto.

Perché sempre la voce in alto monta,                                    12

però l’orecchia in alto anco fu messa

e d’ambo i lati, emula quasi, affronta

degli occhi il sito in una linea istessa.

men certo è del’occhio accorta e pronta,

minor che nel’occhio ha studio in essa,

in cui tanti son posti e ben distinti

aquedotti e recessi e labirinti.

Picciole sì, se pareggiarsi a quelle                             13

denno d’altro animal vile e vulgare,

ma più formarsi ed eccellenti e belle

già non potean né più perfette e rare.

Sempre aperta han l’entrata e son gemelle

per la necessità del loro affare;

proprio moto non hanno e fatte sono

d’un’asciutta sostanza acconcia al suono.

Il suono oggetto è del’udito e mosso                         14

per lo mezzo del’aere al senso viene;

dal’esterno fragor rotto e percosso

l’aere del suon la qualità ritiene,

da cui l’aere vicin spinto e commosso

come in acqua talor mobile aviene,

porta ondeggiando d’una in altra sfera

al’uscio interior l’aura leggiera.

Scorre dov’è poi tesa a quest’uso                         15

di sonora membrana arida tela;

quivi si frange e purga e quivi chiuso,

agitando sestesso, entro si cela,

e tra quelle torture erra confuso

finch’al senso commun quindi trapela,

dela cui region passando al centro

il caratter del suon vi stampa dentro.

Concorrono a ciò far, d’osso minuto                        16

ed incude e triangolo e martello,

e tutti son nel timpano battuto

articolati ed implicati a quello;

ed a quest’opra lor serve d’aiuto

non so s’io deggia dir corda o capello,

sottil così che si distingue apena

se sia filo o sia nervo, arteria o vena.

Vedi quanto impiegò l’amor superno                        17

in un fragil composto ingegno ed arte,

sol per poter del suo diletto eterno

almen quaggiù communicargli parte.

Ha sotto umane forme alma d’inferno

chi sprezza ingrato il ben ch’ei gli comparte.–

E qui fine al suo dir facondo e saggio

pose degli alti numi il gran messaggio.

Aprir sentissi Adone il cor nel petto                          18

e gli spirti brillar d’alta allegria,

quando di tanti augei, ch’avean ricetto

in quell’albergo, udì la sinfonia.

Qual vagabondo e libero a diletto

per le siepi e sugli arbori salia;

qual, perché troppo alzar non si potea,

intorno al’acque e sovra i fior pascea.

Uopo non ha ch’industre man qui tessa                                 19

di ben filato acciar gabbia o voliera,

accioché degli augei la turba in essa

senza poter fuggir stia prigioniera:

spaziosa uccellaia è l’aria istessa

che fa lor sempre autunno e primavera,

ed ala libertà d’ogni augellino

carcere volontario è il bel giardino,

rete, né cancel rinchiude o serba                          20

il pomposo fagian, l’umil pernice;

il verde parlator scioglie per l’erba

lingua del sermon nostro imitatrice;

v’ha di zaffiri e porpore superba

la sempiterna e singolar fenice;

v’ha quel che’n sé sospeso eccelse strade

tenta e d’aure si nutre e di rugiade.

L’aquila imperiale il sol vagheggia,                            21

col rostro il petto il pelican si fere,

va il picchio a scosse e l’aghiron volteggia,

la grù le sue falangi ordina in schiere,

lo smeriglio e’l terzuol seguon l’acceggia,

l’oche in fila di sé fanno bandiere

e la gazza tra lor menando festa

erge la coda e l’upupa la cresta.

La colomba or nel nido a covo geme,                                   22

or bacia il caro maschio, or tutta sola

rade l’aria con l’ali, or per l’estreme

cime d’un arboscel vola e rivola.

Or col pavone innamorato insieme

ingemma al sol la variabil gola,

del cui ricco monil l’iri fiorita

la corona del vago in parte imita

e le sovien, mentre dispiega l’ale,                              23

dela leggiadra sua prima sembianza

e tra que’ fior, da cui nacque il suo male,

ancor di diportarsi ha per usanza.

Ed or di chi cangiolla in forma tale

rinova più la misera membranza,

veggendo in compagnia del caro Adone

la bella dea, del suo dolor cagione;

la qual, rivolta allora agli arboscelli,                           24

Odi (gli dice) odi con quanti e quali

motti amorosi, o fior di tutti i belli,

spiegano i più sublimi il canto e l’ali.

Amor, ch’alato è pur come gli augelli,

fa che senta ogni augel gli aurati strali.

Il tutto vince alfin questo tiranno. –

E qui tacendo ad ascoltar si stanno.

Per far distinto al vago stuol che vola                        25

con lingua umana articolar sermone,

maestro qui non si richiede o scola,

qual trovò poi la vanità d’Annone.

Ogni semplice accento era parola

che, parlando di Venere e d’Adone,

in spedita favella alto dicea:

– Ecco con l’idol suo la nostra dea. –

Chiusa tra’ rami d’una quercia antica,                                   26

di sua verde magion solinga cella,

la monichetta de’ pastori amica

seco invita a cantar la rondinella.

Orfano tronco in secca piaggia aprica

d’olmo tocco dal ciel la tortorella

non cerca no, ma sovra verde pianta

solitaria, non sola, e vive e canta.

Saltellando garrisce e poi s’asconde                         27

il calderugio infra i più densi rami.

Seco alterna il canario e gli risponde

quasi d’amor lodando i lacci e gli ami.

Recita versi il solitario altronde

e par che’l cacciator perfido chiami.

Fan la calandra e’l verzelin tra loro

e’l capinero e’l pettirosso un coro.

La merla nera e’l calenzuol dorato                            28

odonsi altrove lusingar l’udito.

La pispola il rigogolo ha sfidato,

con l’ortolan s’è il beccafico unito.

Contrapunteggian poi dal’altro lato

lo strillo e’l raperin che sale al dito.

Con questi la spernuzzola e’l frusone

e lo sgricciolo ancor vi si frapone.

Con l’assiuolo il lugherin si lagna,                              29

col sagace fringuel lo storno ingordo.

L’allodetta la passera accompagna,

il fanello fugace il pigro tordo.

Straniero augel di selva o di montagna

non s’introduce in sì felice accordo

se, giudice la dea, non porta in prima

di mille vinti augei la spoglia opima.

Canta tra questi il musico pennuto,                            30

l’augel che piuma innargentata veste,

quelche con canto mortalmente arguto

suol celebrar l’essequie sue funeste,

quelche con manto candido e canuto

nascose già l’adultero celeste,

quando da bella donna e semplicetta

fu la fiamma di Troia in sen concetta.

Del bianco collo il lungo tratto stende,                                  31

apre il rostro canoro e quindi tira

fiato che, mentre inver le fauci ascende,

per obliquo canal passa e s’aggira.

Serpe la voce tremolante e rende

mormorio che languisce e che sospira,

e i gemiti e i sospir profondi e gravi

son ricercate flebili e soavi.

Ma sovr’ogni augellin vago e gentile                          32

che più spieghi leggiadro il canto e’l volo

versa il suo spirto tremulo e sottile

la sirena de’ boschi, il rossignuolo,

e tempra in guisa il peregrino stile

che par maestro del’alato stuolo.

In mille fogge il suo cantar distingue

e trasforma una lingua in mille lingue.

Udir musico mostro, o meraviglia,                             33

che s’ode sì, ma si discerne apena,

come or tronca la voce, or la ripiglia,

or la ferma, or la torce, or scema, or piena,

or la mormora grave, or l’assottiglia

or fa di dolci groppi ampia catena,

e sempre, o se la sparge o se l’accoglie

con egual melodia la lega e scioglie.

O che vezzose, o che pietose rime                            34

lascivetto cantor compone e detta.

Pria flebilmente il suo lamento esprime,

poi rompe in un sospir la canzonetta.

In tante mute or languido, or sublime

varia stil, pause affrena e fughe affretta,

ch’imita insieme e’nsieme in lui s’ammira

cetra flauto liuto organo e lira.

Fa dela gola lusinghiera e dolce                                35

talor ben lunga articolata scala.

Quinci quell’armonia che l’aura molce,

ondeggiando per gradi, in alto essala,

e, poich’alquanto si sostiene e folce,

precipitosa a piombo alfin si cala.

Alzando a piena gorga indi lo scoppio,

forma di trilli un contrapunto doppio.

Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra                              36

rapida rota o turbine veloce.

Sembra la lingua, che si volge e vibra,

spada di schermidor destro e feroce.

Se piega e’ncrespa o se sospende e libra

in riposati numeri la voce,

spirto il dirai del ciel che’n tanti modi

figurato e trapunto il canto snodi.

Chi crederà che forze accoglier possa                                  37

animettapicciola cotante?

e celar tra le vene e dentro l’ossa

tanta dolcezza un atomo sonante?

O ch’altro sia che da lievaura mossa

una voce pennuta, un suon volante?

e vestito di penne un vivo fiato,

una piuma canora, un canto alato?

Mercurio allor che con orecchie fisse                                    38

vide Adone ascoltar cantobello:

– Deh che ti pare (a lui rivolto disse)

dela divinità di quell’augello?

Diresti mai che tanta lena unisse

in sì poca sostanza un spiritello?

un spiritel che d’armonia composto

vive in sì anguste viscere nascosto?

Mirabil arte in ogni sua bell’opra,                              39

ciò negar non si può, mostra Natura;

ma qual pittor, che’ngegno e studio scopra

vie più che’n grande in picciola figura,

nele cose talor minime adopra

diligenza maggiore e maggior cura.

Quest’eccesso però sovra l’usanza

d’ogni altro suo miracolo s’avanza.

Di quel canto nel ver miracoloso                               40

una istoria narrar bella ti voglio:

caso inun memorando e lagrimoso,

da far languir di tenerezza un scoglio.

Sfogava con le corde in suon pietoso

un solitario amante il suo cordoglio.

Tacean le selve e dal notturno velo

era occupato in ogni parte il cielo.

Mentr’addolcia d’amor l’amaro tosco                                  41

col suon che’l Sonno istesso intento tenne,

l’innamorato giovane, ch’al bosco

per involarsi ala città sen venne,

sentì dal nido suo frondoso e fosco

questo querulo augel batter le penne

e gemendo accostarsi ed invaghito

mormorar tra sestesso il suono udito.

L’infelice augellin, che sovra un faggio                                  42

erasi desto a richiamare il giorno

e dolcissimamente in suo linguaggio

supplicava l’aurora a far ritorno,

interromper del bosco ermo e selvaggio

i secreti silenzi udì dintorno

e ferir l’aure d’angosciosi accenti

del trafitto d’Amor gli alti lamenti.

Rapito allora e provocato insieme                             43

dal suon, che par ch’a sé l’inviti e chiami,

dale cime del’arbore supreme

scende pian piano insu i più bassi rami;

e ripigliando le cadenze estreme,

quasi ascoltarlo ed emularlo brami,

tanto s’appressa e vola e non s’arresta

ch’alfin viene a posargli insu la testa.

Quei che le fila armoniche percote                            44

sente, né lascia l’opra, il lieve peso,

anzi il tenor dele dolenti note

più forte intanto ad iterare ha preso.

E’l miser rossignuol quanto più pote

segue suo stile ad imitarlo inteso.

Quei canta, e nel cantar geme e si lagna,

e questo il canto e’l gemito accompagna.

E quivi l’un su’l flebile stromento                               45

a raddoppiare i dolorosi versi

e l’altro a replicar tutto il lamento

come pur del suo duol voglia dolersi,

tenean con l’alternar del bel concento

tutti i lumi celesti a sé conversi

ed allettavan pigre e taciturne

vie più dolce a dormir l’ore notturne.

Da principio colui sprezzò la pugna                           46

e volse del’augel prendersi gioco.

Lievemente a grattar prese con l’ugna

le dolci linee e poi fermossi un poco.

Aspetta che’l passaggio al punto giugna

l’altro e rinforza poi lo spirto fioco

e, di natura infaticabil mostro,

ciò ch’ei fa con la man rifà col rostro.

Quasi sdegnando il sonatore arguto                          47

del’emulazion gli alti contrasti

e che seco animal tanto minuto,

nonché concorra, al paragon sovrasti,

commincia a ricercar sovra il liuto

del più difficil tuon gli ultimi tasti;

e la linguetta garrula e faconda,

ostinata a cantar, sempre il seconda.

Arrossisce il maestro e scorno prende                                  48

che vinto abbia a restar da sì vil cosa.

Volge le chiavi, i nervi tira e scende

con passata maggior fino ala rosa.

Lo sfidator non cessa, anzi gli rende

ogni replica sua più vigorosa

e, secondo che l’altro o cala o cresce,

labirinti di voce implica e mesce.

Quei di stupore allor divenne un ghiaccio                              49

e disse irato: «Io t’ho sofferto un pezzo.

O che tu non farai questa ch’io faccio

o ch’io vinto ti cedo e’l legno spezzo».

Recossi poscia il cavo arnese in braccio

e, come in esso a far gran prove avezzo,

con crome in fuga e sincope a traverso

pose ogni studio a variare il verso.

Senz’alcuno intervallo e piglia e lassa                        50

la radice del manico e la cima,

e come il trae la fantasia s’abbassa,

poi risorge in un punto e si sublima.

Talor trillando al canto acuto passa

e col dito maggior tocca la prima,

talora ancor con gravità profonda

fin del’ottava insu’l bordon s’affonda.

Vola su per le corde or basso, or alto                                   51

più che l’istesso augel la man spedita.

Di su, di giù con repentino salto

van balenando le leggiere dita.

D’un fier conflitto e d’un confuso assalto

inimitabilmente i moti imita

ed agguaglia col suon de’ dolci carmi

i bellicosi strepiti del’armi.

Timpani e trombe e tutto ciò che, quando                             52

serra in campo le schiere, osserva Marte,

i suoi turbini spessi accelerando,

nela dotta sonata esprime l’arte,

e tuttavia moltiplica sonando

le tempeste de’ groppi in ogni parte;

e mentr’ei l’armonia così confonde,

il suo competitor nulla risponde.

Poi tace e vuol veder se l’augelletto                          53

col canto il suon per pareggiarlo adegua.

Raccoglie quello ogni sua forza al petto,

né vuole in guerra tal pacetregua.

Ma come un debil corpo e pargoletto

esser può mai ch’un sì gran corso segua?

Maestria tale ed artificio tanto

semplice e natural non cape un canto.

Poiché molte e moltore ardita e franca                                 54

pugnò del pari la canora coppia,

ecco il povero augel ch’alfin si stanca

e langue e sviene e’nfievolisce e scoppia.

Così qual face che vacilla e manca,

e maggior nel mancar luce raddoppia,

dala lingua che mai ceder non volse

il dilicato spirito si sciolse.

Le stelle, poco dianzi innamorate                              55

di quel soave e dilettevol canto,

fuggir piangendo e dale logge aurate

s’affacciò l’alba e venne il sole intanto.

Il musico gentil per gran pietate

l’estinto corpicel lavò col pianto

ed accusò con lagrime e querele

non men sestesso che’l destin crudele

ed ammirando il generoso ingegno,                           56

fin negli aliti estremi invitto e forte,

nel cavo ventre del sonoro legno

il volse sepelir dopo la morte.

dar potea sepolcro unqua più degno

a sì nobil cadavere la sorte.

Poi con le penne del’augello istesso

vi scrisse di sua man tutto il successo.

Ma chi fu che l’instrusse? il mastro vero,                               57

non so se’l sai, fu di quest’arte Amore.

Egli insegnò la musica primiero,

ei fu de’ dolci numeri l’autore

e del soave ordigno e lusinghiero

volse le corde nominar dal core.

O che strana armonia dolce ed amara

nela sua scola un cor ferito impara!

Dica costei che’l sa, costei che’l sente,                                 58

di questa invenzion l’origin vera;

fa che l’istesso Amor, ch’è qui presente,

ti narri onde l’apprese e’n qual maniera.

Contan ch’un nela fucina ardente,

che d’Etna alluma la spelonca nera,

dove alternano i fabri i colpi in terzo,

l’ingegnoso fanciullo entrò per scherzo

ed osservando de’ martelli i suoni                             59

librati insu l’ancudini percosse,

le cui battute a tempo a tempo e i tuoni

facean parer ch’un bel concerto fosse,

le regole non note e le ragioni

dele misure a specolar si mosse,

e con stupor del padre e de’ ministri

gl’intervalli trovò de’ bei registri.

Dela prim’opra il semplice lavoro                             60

fu rozza alquanto e maltemprata cetra

e da compor quell’organo sonoro

la materia gli diè l’aurea faretra.

Per fabricarne le chiavette d’oro

ruppe lo stral, che rompe anco la pietra.

L’arco proprio adoprò d’archetto in vece

e dela corda sua le corde fece.

Apollo, il dotto dio, meglio dispose                           61

l’ordine poi de’ tasti e de’ concenti,

ed io, che vago son di nove cose,

novi studi mostrai quindi ale genti

e’n più forme leggiadre e dilettose

d’inventar m’ingegnai vari stromenti,

onde certa e perfetta alfin ne nacque

la bella facoltà che tanto piacque.

Piace a ciascun, ma più ch’agli altri piace                              62

agl’inquieti e travagliati amanti,

trova altro refugio ed altra pace

un tormentato cor che suoni e canti.

Egli è ben ver che’l suono è sì efficace

che provoca talor sospiri e pianti

e i duo contrari estremi in guisa ha misti

che rallegra gli allegri, attrista i tristi.–

Qui tacque il gran corrier, che porta alato                             63

in man lo scettro e di due serpi attorto,

perché mentre ch’Adone innamorato

per l’ameno giardin mena a diporto,

venir non lunge per l’erboso prato

d’uomini e donne un bel drappello ha scorto,

e due ninfe di vista assai gioliva

come capi guidar la comitiva.

Mostra ignudo il bel seno una di queste                                64

e tremanti di latte ha le mammelle,

verdeggiante ghirlanda, azzurra veste

ed ali, onde talor vola ale stelle;

trombe, cetre, sampogne un stuol celeste

di fanciulli le porta e di donzelle;

nela destra sostien scettro d’alloro,

stringe con l’altra man volume d’oro.

Di costei la compagna ha di fioretti                           65

amorosi e leggiadri i crini aspersi,

varia la gonna, in cui di vari aspetti

e chiavi e note ha figurate e versi;

dietro le tranno ancor ninfe e valletti

misure e pesi ed organi diversi,

musici libri e con ballorie e canti

di vermiglio lieo vasi spumanti.

Soggiunse allor Mercurio: – Ecco di due                               66

suore d’un parto inclita coppia e degna,

degna non dico del’orecchie tue,

ma del gran re che su le stelle regna.

La prima ha del divin nel’opre sue,

l’altra di secondarla anco s’ingegna

e con stupore e con diletto immenso

l’una attrae l’intelletto e l’altra il senso.

Quella ch’innanzi alquanto a noi s’appressa                          67

e più nobil rassembra agli occhi miei,

seben ritrovatrice è per sestessa

e l’arte del crear trae dagli dei,

con la cara gemella è sì connessa

ch’i ritmi apprende a misurar da lei,

e da lei, che le cede e le vien dietro,

prende le fughe e le posate al metro.

Colei però che accompagnar la suole                                   68

ha del’aiuto suo bisogno anch’ella,

sa spiegar se si rallegra o dole

senon le passion dela sorella;

da lei gli accenti impara e le parole,

da lei distinta a scioglier la favella;

senza lei fora un suon senza concetto,

priva di grazia e povera d’affetto.

Per queste lor reciproche vicende                             69

sempre unite ambedue n’andranno al paro

e con quel lume, onde virtù risplende,

risplenderan nel secolo più chiaro.

I primi raggi lor la Grecia attende,

cui promette ogni grazia il cielo avaro,

la Grecia in cui per molti e molti lustri

le terranno in onor spiriti illustri.

Col tempo poi diverran gioco e preda                                  70

e dele genti barbare e degli anni;

colpa di Marte, a cui convien che ceda

ogni arte egregia, e colpa de’ tiranni.

Sola l’Italia alfin fia che possieda

qualche reliquia degli antichi danni,

ma la bella però luce primiera

si smarrirà dela scienza vera.

Benchalloggino or qui le mie dilette,                         71

non son già queste le lor stanze usate;

nel mio ciel con altre giovinette

abitan come dee sempre beate.

Se mai lassù venir ti si permette,

ti mostrerò gli alberghi ove son nate.

Qui con Amore a trastullarsi intente

dal’eterna magion scendon sovente. –

Vennero al vago Adon strette per mano,                              72

tutte festa il sembiante e foco il volto,

queste due belle e con parlar umano,

poiché’n schiera tra lor l’ebbero accolto,

n’andaro ove s’aprì nel verde piano

di lieta gente un largo cerchio e folto,

ch’invitandolo seco al bel soggiorno

gli corona, anzi teatro intorno.

Non so se vere o vane avean sembianze                               73

tutti di damigelle e di garzoni.

Alternavan costor mute e mutanze,

raddoppiavan correnti e ripoloni,

lascivamente ale festive danze

dolci i canti accordando, ai canti i suoni.

Cetre e salteri e crotali e taballi

ivan partendo in più partite i balli.

Forati bossi e concavi oricalchi                                 74

e rauche pive e pifferi tremanti

mostrano altrui come il terren si calchi,

regolando con legge i passi erranti;

per l’ampie logge e su i fioriti palchi

miransi cori di felici amanti

tagliar canari, essercitar gagliarde,

menar pavane ed agitar nizzarde.

Precede lor la prima coppia, e questa                                   75

con piante maestrevoli e leggiere,

guidatrice del ballo e dela festa,

carolando sen va fra quelle schiere,

gaia in vista e sovra’l pièpresta

che forse al suon dele rotanti sfere

soglion lassù men rapide e men belle

per le piazze del ciel danzar le stelle.

Dicean tutti cantando: – O dea beata,                                   76

o bella universal madre e nutrice,

con l’istessa Natura a un parto nata,

di quanto nasce original radice,

per cui genera al mondo e generata

ogni stirpe mortal vive felice:

felice teco in queste rive arrivi

quella beltà per cui felice vivi.

Al tuo cenno le Parche ubbidienti                              77

tiran le fila in vari stami ordite.

Dal tuo consiglio, in tua virtù crescenti

Natura impara a seminar le vite.

Per legge tua di sfere e d’elementi

stansi le tempre in bel legame unite.

Se non spirasse il tuo spirto fecondo

i nodi suoi rallenterebbe il mondo.

Tu ciel, tu terra e tu conservi e folci                           78

fiori, erbe, piante e nele piante il frutto.

Tu crei, tu reggi e tu ristori e molci

uomini e fere e l’universo tutto,

che senza i doni tuoi giocondi e dolci

solitario per sé fora e distrutto;

ma mentre stato varia e stile alterna

la tua mercede, il suo caduco eterna.

Lumiera bella, che con luce lieta                               79

dele tenebre umane il fosco allumi,

da cui nasce gentil fiamma secreta,

fiamma onde i cori accendi e non consumi;

d’ogni mortal benefattor pianeta,

gloria immortal de’ più benigni numi,

ch’altro non vuoi ch’a prò di chi l’ottiene

godere il bello e possedere il bene.

Commessura d’amor, virtù ch’innesti                        80

con saldi groppi di concordi amplessi

e le cose terrene e le celesti

e supponi al tuo fren gli abissi istessi;

per cui con fertil copula contesti

vicendevol desio stringe duo sessi,

siché, mentre l’un dona e l’altro prende,

il cambio del piacer si toglie e rende.–

Con quest’inno devoto e questo canto                                  81

venne la turba a venerar la dea,

ballando sempre, e fatto pausa alquanto

al concerto dolcissimo, tacea.

Con Mercurio ed Amore Adone intanto

e con Venere altrove il piè movea,

quand’ecco a sé con non minor diletto

novello il trasse e disusato oggetto.

Un fiore, un fiore apre la buccia e figlia,                                82

ed è suo parto un biondo crin disciolto,

e dopo’l crin con due serene ciglia

ecco una fronte e con la fronte un volto.

Al principio però non ben somiglia

il mezzo e’l fin, ma differente è molto.

Vedesi ala beltà, che quindi spunta,

forma di stranio augello esser congiunta.

Tosto che’n luce a poco a poco uscio                                  83

quel fantastico mostro al’improviso,

non sorse in piè, ma del suo fior natio

restò tra l’erbe e tra le foglie assiso.

Occhio ha ridente, atto benigno e pio,

ha feminile e giovenile il viso.

Veston le spalle e’l sen penne stellate,

fregian le gambe e i piè scaglie dorate.

Serpentina la coda al ventre ha chiusa,                                  84

lunata e qual d’arpia l’unghia pungente.

Cela un amo tra’ fiori, onde delusa

tira l’incauta e semplicetta gente.

Tien di nettare e mel la lingua infusa,

che persuade altrui soavemente.

Così la bella fera i sensi alletta,

fera gentil, che la Lusinga è detta.

La Lusinga è costei. Lunge fuggite,                           85

o di falso piacer folli seguaci!

Non ha sfinge o sirena o più mentite

parolette e sembianze o più sagaci!

Copron perfide insidie, aspre ferite,

abbracciamenti adulatori e baci.

Vipera e scorpion, con arti infide

baciando morde ed abbracciando uccide.

La chioma intanto, che’n bei nodi involta                              86

stringon con ricche fasce auree catene,

dal carcer suo disprigionata e sciolta

su per le membra a sviluppar si viene;

laqual può, tanto è lunga e tanto è folta,

le laidezze del corpo adombrar bene,

siché sotto le crespe aurate e bionde

tutti i difetti inferiori asconde.

Del’altrui vista insidiosa e vaga                                 87

ella o che non s’avide o che s’infinse,

indi la voce incantatrice e maga

in note più ch’angeliche distinse;

note in cui per far dolce incendio e piaga

Amor le faci e le quadrella intinse.

Uscir dolce tremanti udiansi fuori

i misurati numeri canori.

Tal forse intenerir col dolce canto                             88

suol la bella Adriana i duri affetti

e con la voce e con la vista intanto

gir per due strade a saettare i petti;

e’n tal guisa Florinda udisti, o Manto,

ne’ teatri de’ tuoi regi tetti,

d’Arianna spiegar gli aspri martiri

e trar da mille cor mille sospiri.

Fermaro il corso i fiumi, il volo i venti                                    89

e gli augelletti al suo cantar le penne.

Fuggì l’arbor di Dafni i bei concenti,

che del canto d’Apollo a lei sovenne.

Apollo istesso i corridori ardenti,

vinto d’alta dolcezza, a fren ritenne.

E queste fur le lusinghiere e scorte

voci, ovaccolta in aura era la morte:

– Voi che scherzando gite, anime liete,                                 90

per la stagion ridente e giovenile,

cogliete con man provida, cogliete

fresca la rosa insu l’aprir d’aprile,

pria che quel foco che negli occhi avete

freddo ghiaccio divenga e cener vile,

pria che caggian le perle al dolce riso

e, com’è crespo il crin, sia crespo il viso.

Un lampo è la beltà, l’etate un’ombra,                                  91

sa fermar l’irreparabil fuga.

Tosto le pompe di natura ingombra

invida piuma, ingiuriosa ruga.

Rapido il tempo si dilegua e sgombra,

cangia il pel, gli occhi oscura, il sangue asciuga;

Amor non men di lui veloci ha i vanni:

fugge cofior del volto il fior degli anni.

De’ lieti la primavera è breve,                               92

né si racquista mai gioia perduta.

Vien dopo’l verde con piè tardo e greve

la Penitenza squallida e canuta.

Dove spuntava il fior, fiocca la neve,

e colori e pensier trasforma e muta,

sì ch’uom freddo in amor quelle pruine

ch’ebbe dianzi nel core, ha poi nel crine.

Saggio colui ch’entro un bel seno accolto                             93

gode il frutto del ben che gli è concesso.

Ed o! stolto quel cor, né men che stolto

crudo, né men ch’altrui crudo a sestesso,

cui quel piacer per propria colpa è tolto,

che vienraro e si desiaspesso.

Anima in cui d’amor cura non regna

o che non vive o ch’è di vita indegna. –

Cigno che canti, rossignuol che plori,                        94

musa o sirena che d’amor sospiri,

aura o ruscel che mormori tra’ fiori,

angel che mova il plettro o ciel che giri,

non di tanta dolcezza innebria i cori,

lega i sensi talor, pasce i desiri,

con quanta la mirabile armonia

per l’orecchie al garzone il cor feria.

Sparse vive faville in ogni vena                                  95

gli avea già quella insolita beltade,

quando un raggio di sol toccolla apena,

che la disfece in tenere rugiade.

O diletto mortal, gioia terrena,

come pullula tosto e tosto cade!

Vano piacer che gli animi trastulla,

nato di vanità, svanisce in nulla.

In questo mentre a più secrete soglie                         96

già s’apre Adon con la sua bella il varco.

Già di candido avorio uscio l’accoglie,

ch’ha di schietto rubin cornice ed arco.

Tien di frutti diversi e fronde e foglie

il ministro che’l guarda un cesto carco.

Fan de’ sapori, ond’egli ha il grembo onusto,

una scimia ed un orso arbitro il gusto.

Questi, guidando Adon di loggia in loggia,                            97

in una selva sua fa che riesca.

Piangon quivi le fronde e stillan pioggia

di celeste licor soave e fresca,

onde l’augel che tra’ bei rami alloggia

in un tronco medesmo ha nido ed esca,

ed ala cara sua prole felice

quella pianta ch’è culla anco è nutrice.

Con certa legge e semprugual misura                                   98

qui tempra i giorni il gran rettor del lume.

Non v’alterna giamai tenor Natura,

né con sue veci il sol varia costume,

ma fa con soavissima mistura

gli ardori algenti e tepide le brume.

Sparsa il bel volto di sereno eterno

ride la state e si marita al verno.

In ogni tempo e non arato o culto                             99

meraviglie il terren produce e serba,

e nel prato nutrisce e nel virgulto

la matura stagion mista al’acerba,

perché l’anno fanciullo e’nsieme adulto

dona il frutto ala pianta, il fiore al’erba,

talché congiunto il tenero al virile

lussuria ottobre e pargoleggia aprile.

Di fronde sempre tenere e novelle                             100

l’orno, l’alno, la quercia il ciel ingombra:

piante sterili sì, ma grandi e belle,

di frutto invece han la bellezza e l’ombra.

L’allor non più fugace opache celle

tesse di rami e’n guisa il prato adombra

che, per dar agli amori albergo ed agio,

par voglia d’arboscel farsi palagio.

Vi fan vaghe spalliere ombrosi e folti                         101

tra purpurei rosai verdi mirteti.

Quasi per mano stretti e’n danza accolti

ginebri e faggi e platani ed abeti

si condensan così ch’ordiscon molti

labirinti e ricovri ermi e secreti;

Febo il crin, senon talor v’asconde,

quando l’aura per scherzo apre le fronde.

Trionfante la palma infra lo spesso                            102

popolo dele piante il capo estolle.

Piramide de’ boschi, alto il cipresso

signoreggia la valle, agguaglia il colle.

Umidetto d’ambrosia il fico anch’esso

mostra il suo frutto rugiadoso e molle,

che piangendo si sta fra foglia e foglia,

chino la fronte e lacero la spoglia.

Dala madre ritorta e pampinosa                                103

pende la dolce e colorita figlia,

parte fra’ tralci e fra le foglie ascosa,

parte dal sole il nutrimento piglia.

Altra di color d’oro, altra di rosa,

altra più bruna ed altra più vermiglia.

Qual acerba ha la scorza e qual matura,

qual comincia pian piano a farsi oscura.

Scopre il punico stelo il bel tesoro                            104

degli aurei pomi di rossor dipinti;

apre un dolce sorriso i grani loro

ne’ cavi alberghi in ordine distinti,

onde fa scintillar dal guscio d’oro

molli rubini e teneri giacinti

e, quasi in picciol iride, commisti

sardonici, balassi ed ametisti.

Nutre il susin tra questi anco i suoi parti:                               105

altri obliqui ne forma, altri ritondi,

quai di stille di porpora consparti,

quai d’eben negri e quai più ch’ambra biondi.

Men pigro il moro in sì beate parti

al verme serican serba le frondi.

Havvi il mandorlo aprico et havvi il pome

che trae di Persia il suo legnaggio e’l nome.

Al’opra natural cultrice mano                                    106

con innesti ingegnosi aggiunse pregio,

indolcì l’aspro, incivilì l’estrano,

ornò’l natio di peregrino fregio.

Congiunto al cornio suo minor germano

fiammeggia il soavissimo ciregio.

Nasce l’uva dal sorbo ed adottato

dal’arancio purpureo è il cedro aurato.

Anzi virtù d’amor vie più che d’arte,                         107

la men pura sostanza indi rimossa,

perché perfetta il frutto abbia ogni parte,

fa che le polpe sue nascan senz’ossa,

e tanto in lor di suo vigor comparte

che ciascun d’essi oltremisura ingrossa.

Il pero, il prun prodigioso e’l pesco

vive in ogni stagion maturo e fresco.

Mostrando il cor fin nele foglie espresso                               108

preme il tronco fedel l’edra brancuta.

Stringe il marito e gli s’appoggia appresso

la vite, onde la vita è sostenuta.

Vibra nel gelo amor, nel vento istesso

la face ardente e la saetta acuta.

L’acque accese d’amor bacian le sponde

e discorron d’amor l’aure e le fronde.

Tra que’ frondosi arbusti Adon sen varca                             109

e conumi compagni oltre camina,

dove ogni pianta i verdi rami inarca,

quasi voglia abbracciar chi s’avicina,

e di frutti e di fior giamai non scarca

e del bel peso prodiga, s’inchina.

Piove nettar l’olivo e l’elce manna,

mele la quercia e zucchero la canna.

Qui son di Bacco le feconde vigne,                           110

dove in pioggia stillante il vin si sugge.

Di candiduve onusta e di sanguigne

quivi ogni vite si diffonde e strugge;

le cui radici intorno irriga e cigne

di puro mosto un fiumicel che fugge;

scorre il mosto dal’uve e dale foglie

e’n vermiglio ruscel tutto s’accoglie.

S’accoglie in rivi il dolce umore e’n fiume                             111

apoco apoco accumulato cresce,

e nutre a sé tra le purpuree spume

di color, di sapor simile il pesce.

Folle chi questo o quel gustar presume,

che per gran gioia di sestesso n’esce:

ride, e’l suo riso è sì possente e forte

che la letizia alfin termina in morte.

Arbori estrane qui, se prestar fede                            112

lice a tanto portento, esser si scrive.

Spunta con torto e noderoso piede

il tronco inferior sovra le rive,

ma dala forca insù quelche si vede

ha forma e qualità di donne vive:

son viticci le chiome e i diti estremi

figliano tralci e gettano racemi.

Dafni o Siringa tal fors’esser debbe                          113

in riva di Ladone o di Peneo,

quando l’una a Tessaglia e l’altra accrebbe

nova verdura ai boschi di Liceo.

Forse in forma sì fatta a mirar ebbe

sue figlie il Po nel caso acerbo e reo,

quando a spegner le fiamme entro il suo fonte,

sinistrando il sentier, venne Fetonte.

Sotto le scorze ruvide ed alpestre                             114

sentesi palpitar spirto selvaggio.

Soglion ridendo altrui porger le destre

e s’odon favellar greco linguaggio.

Ma che frutto si colga o fior silvestre

non senza alto dolor soffron l’oltraggio.

Bacian talor lusingatrici oscene,

ma chi gusta i lor baci ebro diviene.

Con pampinosi e teneri legami                                  115

stringono ador ador quel fauno e questo,

che, non potendo poi staccar da’ rami

la parte genital, fanno un innesto.

Fansi una specie istessa e di fogliami

veston le braccia e divien sterpo il resto,

verdeggia il crine e con le barbe in terra

indivisibilmente il piè s’afferra.

Quanti favoleggiò numi profani                                  116

l’etate antica han quivi i lor soggiorni.

Lari, Sileni e Semicapri e Pani,

la man di tirso, il crin di vite adorni,

Geni salaci e rustici Silvani,

Fauni saltanti e Satiri bicorni

e, di ferule verdi ombrosi i capi,

senza fren, senza vel Bacchi e Priapi

e Menadi e Bassaridi vi scerni                                  117

ebre pur sempre e sempre a bere acconce,

ch’intende or di latini, or di falerni

a votar tazze ed asciugar bigonce

ed, agitate da’ furori interni,

rotando i membri in sozze guise e sconce,

celebran l’orgie lor con queste o tali

fescennine canzoni e baccanali:

– Or d’ellera s’adornino e di pampino                                  118

i giovani e le vergini più tenere,

e gemina nel’anima si stampino

l’imagine di Libero e di Venere.

Tutti ardano, s’accendano ed avampino

qual Semele, ch’al folgore fu cenere,

e cantino a Cupidine ed a Bromio

con numeri poetici un encomio.

La cetera col crotalo e con l’organo                         119

su i margini del pascolo odorifero,

il cembalo e la fistula si scorgano

col zuffolo, col timpano e col pifero,

e giubilo festevole a lei porgano,

ch’or Espero si nomina, or Lucifero,

ed empiano con musica che crepiti

quest’isola di fremiti e di strepiti.

I satiri con cantici e con frottole                                120

tracannino di nettare un diluvio.

Trabocchino di lagrima le ciottole

che stillano Pausilipo e Vesuvio.

Sien cariche di fescine le grottole

e versino dolcissimo profluvio.

Tra frassini, tra platani e tra salici

esprimansi de’ grappoli ne’ calici.

Chi cupido è di suggere l’amabile                             121

del balsamo aromatico e del pevere,

non mescoli il carbuncolo potabile

col Rodano, con l’Adige o col Tevere,

ch’è perfido, sacrilego e dannabile

e gocciola non merita di bevere

chi tempera, ch’intorbida, chi’ncorpora

corivoli il crisolito e la porpora.

Ma guardinsi gli spiriti che fumano,                           122

non facciano del cantaro alcun strazio,

e l’anfore non rompano che spumano,

già gravide di liquido topazio;

ché gli uomini ir in estasi costumano,

e s’altera ogni stomaco ch’è sazio,

e’l cerebro che fervido lussuria

più d’Ercole con impeto s’infuria –.

Mentr’elle ivan così con canti e balli                          123

alternando euoè giolive e liete,

intente tuttavia negl’intervalli,

sgonfiando gli otri, ad innaffiar la sete,

passando Adon di quell’amene valli

nele più chiuse viscere secrete,

trovò morbida mensa ed apprestati

erano intorno al desco i seggi aurati.

– Qui, bellissimo Adon, depor conviensi                               124

 (ricominciò Cillenio) ogni altra cura.

Col ristoro del cibo uopo è che pensi

di risarcir, di rinforzar natura.

E poiché ciascun già degli altri sensi

in queste liete piagge ebbe pastura,

vuolsi il gusto appagar, però che tocca

del diletto la parte anco ala bocca.

La bocca è ver che del’uman sermone,                                 125

solo ufficio del’uomo, è nunzia prima.

Concetto alcun non sa spiegar ragione

che per lei non si scopra e non s’esprima;

interprete divin, per cui s’espone

quanto nel petto altrui vuol che s’imprima,

e la voce è di ciò mezzana ancella,

l’intelletto e’l pensier di chi favella.

Ma serve ancora ad operar che cresca                                 126

l’interno umor, né per ardor s’estingua;

a cui, quando talor cibo rinfresca,

fa credenziera e giudice la lingua;

né per la gola mai passa alcun’esca,

ch’ivi prima il sapor non si distingua.

Fatto il saggio ch’ell’ha d’ogni vivanda,

in deposito al ventre alfin la manda.

E perché l’uom, ch’ale fatiche è lento,                                  127

nel’operazion mai non si stanchi,

e, non pascendo il natural talento,

l’individuo mortal si strugga e manchi,

vuol chi tutto creò che l’alimento

non sia senza il piacer che lo rinfranchi,

onde questo con quel sempre congiunto

abbia a nutrirlo e dilettarlo a un punto.

Notasti mai da quante guardie e quali                                   128

sia la lingua difesa e custodita?

Perché da’ soffi gelidi brumali

del nevoso aquilon non sia ferita,

quasi di torri o pur d’antemurali

coronata è per tutto e ben munita;

e perch’altro furor non la combatta,

sotto concavo tetto il corpo appiatta.

Dale fauci al palato in alto ascende                           129

quanto basta e convien polputa e grossa.

Larga ha la base, e quanto più si stende

s’aguzza in cima, ed è spugnosa e rossa.

Ha la radice, onde deriva e pende,

forte, perch’aggirar meglio si possa.

Volubilmente si ripiega e vibra,

muscolosa, nervosa e senza fibra.

Dico così che il facitor sovrano                                 130

cotale ad altro fin non la costrusse

senon perché del nutrimento umano,

che dal gusto provien, stromento fusse;

senza ilqual uso inutil fora e vano

quanto di dolce al mondo egli produsse.

E questa del tuo cor fiamma immortale

senza Cerere e Bacco è fredda e frale.–

Così parla il signor del’eloquenza,                             131

indi per mano il vago Adon conduce

dove pompa di real credenza

veste i selvaggi orror di ricca luce.

Con bell’arte disposto e diligenza

l’oro e l’elettro in ordine riluce.

Di materia miglior poi vi si squadra

d’altre vasella ancor serie leggiadra.

Ma duo fra gli altri di maggior misura                        132

d’un intero smeraldo Adon ne vide,

gemma d’amor che cede e non s’indura

alo scarpello, e col bel verde ride.

Non so se di sì nobile scultura

oggi alcun’opra il gran Bologna incide

che i bei rilievi e i dilicati intagli,

qui da Dedalo fatti, in parte agguagli.

In un de’ vasi il simulacro altero                                133

dela diva del loco è sculto e finto,

ma sì sembiante è il simulato al vero

che l’esser dal parer quasi n’è vinto.

Il sanguigno concetto e’l suo primiero

fortunato natal v’appar distinto.

Miracolo a veder come pria nacque,

genitrice d’Amor, figlia del’acque.

Saturno v’è, ch’al proprio padre tronca                                134

l’oscene membra e dalle in preda a Dori;

Dori l’accoglie in cristallina conca,

fatta nutrice de’ nascenti ardori.

Zefiro v’è, che fuor di sua spelonca

batte l’ali dipinte a più colori,

e del parto gentil ministro fido

sospinge il flutto leggiermente al lido.

Vedresti per lo liquido elemento                               135

nuotar la spuma gravida e feconda,

poscia in oro cangiarsi il molle argento

e farsi chioma innanellata e bionda.

La bionda chioma incatenando il vento

serpeggia e si rincrespa, emula al’onda.

Ecco spunta la fronte a poco a poco,

già l’acque a’ duo begli occhi ardon di foco.

O meraviglia, e trasformar si scorge                          136

in bianche membra alfin la bianca spuma.

Novo sol dal’Egeo si leva e sorge,

che’l mar tranquilla e l’aria intorno alluma;

sol di beltà, ch’altrui conforto porge

e dolcemente l’anime consuma.

Così Venere bella al mondo nasce,

un bel nicchio ha per cuna, alghe per fasce.

Mentre col piè rosato e rugiadoso                            137

il vertice del mar calca sublime

e con l’eburnea man del flutto ondoso

dal’auree trecce il salso umor s’esprime,

gli abitator del pelago spumoso

lascian le case lor palustri ed ime

e fan, seguendo il lor ceruleo duce,

festivi ossequi al’amorosa luce.

Palemon d’un delfino il curvo tergo                           138

preme, vezzoso e pargoletto auriga,

e, balestrando un fuggitivo mergo,

fende i solchi del mar per torta riga.

Quanti tritoni han sotto l’onde albergo,

altri accoppiati in mansueta biga

tiran pian pian la conca, ov’ella nacque,

altri per altro affar travaglian l’acque.

Chi del’obliquo corno a gonfie gote                          139

fa buccinar la rauca voce al cielo;

chi, per sottrarla al sol che la percote,

le stende intorno al crin serico velo;

chi, volteggiando con lascive rote,

le regge innanzi adamantino gelo

e, perché solo in sua beltà s’appaghi,

ne fa lucido specchio agli occhi vaghi.

Né di scherzar anch’elle infra costoro                                   140

del gran padre Nereo lascian le figlie,

ch’accolte in lieto e sollazzevol coro

cantano a suon di pettini e cocchiglie,

e porgendo le van succino ed oro,

candide perle e porpore vermiglie.

fatto stuol per l’umida campagna

la riceve, la guida e l’accompagna.

Nel’altro vaso del suo figlio Amore                           141

il nascimento effigiato splende.

Già la vedi languir, mentre che l’ore

vicine omai del dolce parto attende,

nela bella stagion, quand’entra in fiore

la terra e novellabito riprende.

Par che l’alba oltre l’uso apra giocondo

il primo del più bel mese al mondo.

Sovra molli origlieri e verdi seggi                               142

la bella dea per partorir si posa.

Par che rida la riva e che rosseggi

presso il museo fiorito indica rosa.

Par che l’onda di Cipro apena ondeggi;

danzano i pesci insu la sponda erbosa.

Con pacifiche arene ed acque chiare

par senza flutto e senza moto il mare.

Per non farsi importuni i Zefiretti                               143

a quelle dolcemente amare doglie

stansi a dormir, quasi in purpurei letti,

de’ vicini roseti infra le foglie.

Colgon l’Aure lascive odori eletti

per irrigar le rugiadose spoglie,

spoglie bagnate di celeste sangue,

dove tanta beltà sospira e langue.

Pria che gli occhi apra al sol, le labbra al latte,                                  144

per le viscere anguste Amor saltante

precorre l’ora impetuoso e batte

il sen materno con feroci piante

e del ventre divin le porte intatte

s’apre e prorompe, intempestivo infante.

Senza mano ostetrice ecco vien fuori,

ed ha fasce le fronde e cuna i fiori.

Fuor del candido grembo apena esposto,                             145

le guizza in braccio, indi la stringe e tocca.

Pigolando vagisce e corre tosto

su l’urna manca a conficcar la bocca.

Stillan le Grazie il latte, ed è composto

di mel, qual più soave Ibla mai fiocca.

Parte, alternando ancor balia e mammelle,

dale tigri è lattato e dal’agnelle.

Stame eterno al bambin le filatrici                              146

d’ogni vita mortal tiran cantando.

Van mansuete insu que’ campi aprici

le fere più terribili baccando.

Tresca il leone e con ruggiti amici

il vezzoso torel lecca scherzando

e, con l’unghia sonora e col nitrito,

lieto applaude il destriero al suo vagito.

Bacia l’agnel con innocente morso                            147

acceso il lupo d’amorosa fiamma.

La lepre il cane abbraccia e l’ispidorso

la giovenca si tien sotto la mamma.

L’aspra pantera insu’l vergato dorso

gode portar la semplicetta damma.

E toccar il dragon, benché pungente,

del nemico elefante ardisce il dente.

Mirasi Citerea, che gli amorosi                                 148

scherzi ferini di mirar s’appaga,

e ride ch’animai tanto orgogliosi

sentan per un fanciullo incendio e piaga.

Par che sol del cinghial mirar non osi

gioco, festa o piacer, quasi presaga,

presaga che, per lui tronca una vita,

ogni delizia sua le fia rapita.

Tal de’ vasi è il lavoro; Amor s’appiglia                                149

ala maggior dele gemmate coppe,

poscia di quello stuol, che rassomiglia

le semidee che si cangiaro in pioppe,

per farne scaturir pioggia vermiglia

ad una con lo stral svena le poppe

e fa che dal bel sen per cento spilli

odorato licor dentro vi stilli

e, tre volte ripiena, ad una ad una                             150

tutte sorbille e propinò ridendo;

ne bebbe una a Mercurio, a Vener una,

una a colui che la distrugge ardendo.

Così a ciascun ne dedicò ciascuna:

la prima ala Salute offrì bevendo,

l’altro vaso di vin colmo e spumoso

diede al Piacere e l’ultimo al Riposo.

Cento ninfe leggiadre e cento Amori,                        151

cento fauni nell’opra abili e destri,

quinci e quindi portando e frutti e fiori,

son dela bella imbandigion maestri.

Qui con purpurea man Zefiro e Clori

votan di gigli e rose ampi canestri,

Pomona e Vertunno han colmi e pieni

de’ lor doni maturi i cesti e seni.

Natura dele cose è dispensiera,                                152

l’Arte condisce quel ch’ella dispensa.

Versa Amaltea, che n’è la vivandiera,

del ricco corno suo la copia immensa.

Havvi le Grazie amorosette in schiera

e loro ufficio è rassettar la mensa;

e vigilante infra i ministri accorti

il robusto custode havvi degli orti.

Ogni sergente aprova ed ogni serva                          153

le portate apparecchia e le vivande.

Altri di man d’Aracne e di Minerva

su i tronchi e per lo suol cortine spande.

Altri le tazze, accioché Bacco ferva,

corona d’odorifere ghirlande.

Chi stende insu i tapeti i bianchi drappi,

chi vi pon gli aurei piatti e gli aurei nappi.

Così per Ibla ala novella estate                                 154

squadra di diligenti api si vede,

che le lagrime dolci e dilicate

di Narciso e d’Aiace a sugger riede;

poi nele bianche celle edificate

vanno a ripor le rugiadose prede;

altra a comporre il favo ed altra schiera

studia dal mele a separar la cera.

È tutta in moto la famiglia: or vanno                           155

quei che curano il pasto, or fan ritorno.

Alcuni Amori a ventilar vi stanno

con l’ali aperte e sferzan l’aure intorno.

Le quattro figlie del fruttiferanno,

per far intutto il bel convito adorno,

recan d’ogni stagion tributi eletti,

e son diverse d’abiti e d’aspetti.

Ingombra una di lor di fosco velo                              156

la negra fronte e la nevosa testa;

di condensato e cristallino gelo

stringe l’umido crin fascia contesta;

qual nubiloso e folgorante cielo

minaccia il ciglio torbida tempesta;

copre il rugoso sen neve canuta

calza il gelido piè grandine acuta.

Altra spirando ognor fecondo fiato                           157

ride con giovenil faccia serena;

un fiorito legame ed odorato

la sparsa chioma e rugiadosa affrena;

la sua vesta è cangiante e variato

iri di color tanti ha il velo apena;

va di verde cappello il capo ombrosa,

nel cui vago frontal s’apre una rosa.

L’altra, che’ntorno al ministerio assiste,                                158

par che di sete e di calore avampi;

ispida il biondo crin d’aride ariste,

tratta il dentato pettine de’ campi;

secche anelan le fauci, arsicce e triste

fervon le guance, e vibran gli occhi lampi;

umida di sudor, di polve immonda

odia sempre la spoglia ed ama l’onda.

Circonda il capo al’ultima sorella,                             159

che quasi calvo è poco men che tutto,

un diadema d’intorta uva novella,

di cedri e pomi e pampini costrutto,

intessuta di foglie ha la gonnella,

di fronde il cinto ed ogni groppo è frutto;

stilla umori il crin raro e riga intanto

di piovosa grondaia il verde manto.

Insieme con la diva innamorata                                 160

Adone ala gran mensa il piè converse.

Amor, paggio e scudier, l’onda odorata

su le man bianche in fonte d’or gli asperse;

Amor scalco e coppier l’esca beata

in cava gemma e’l buon licor gli offerse;

Amor del pasto ordinator ben scaltro

pose a seder l’un sole a fronte al’altro.

Somigliavan duo soli ed ella ed egli,                          161

cui non fusser però nubi interposte,

e gian ne’ volti lor, come in duo spegli,

lampeggiando a ferir le luci opposte.

Dava costei sovente e rendea quegli

di fiamma e di splendor colpi e risposte,

e con lucida ecclisse e senza oltraggio

s’incontrava e rompea raggio con raggio.

Como, dio del piacer, piacevol nume                                    162

ch’a sollazzi ed a feste è sempre inteso,

per mitigar di que’ begli occhi il lume

e del sole importuno il foco acceso,

con due smaltate e gioiellate piume

di bel pavon, che tra le mani ha preso,

l’aere agitando in lieve moto e lento

tra i più fervidi ardor fabrica il vento.

Mercurio è quei che mesce e che rifonde                              163

nel’auree conche i preziosi vini;

Amor rinfresca con le limpid’onde

l’idrie lucenti e i vasi cristallini;

l’un e l’altro gli terge e poi gli asconde

nel più denso rigor de’ geli alpini,

le vicende scambiando or questo, or quello

nel servire or di coppa, or di coltello.

Traboccan qui di liquidoro e gravi                           164

di stillato ametisto urne spumanti.

Tengon gemme capaci i ventri cavi

di rugiada vital colmi e brillanti:

sangue giocondo e lagrime soavi

che non peste versar l’uve pregnanti,

onde di Cipro le feconde viti

soglion dolce aggravar gli olmi mariti.

La bella dea, di nettare vermiglio                              165

rugiadoso cristallo in man si strinse.

Libollo, e con dolce atto e lieto ciglio

nel bel rubino i bei rubini intinse.

Poi di vergogna, il semplicetto giglio

violando di rosa, il volto tinse

e l’invitò, postogli il vaso innanzi,

parte a gustar de’ generosi avanzi.

Il bel garzon, ch’ingordamente assiso                                    166

presso quell’esca, onde la vita ei prende,

tutto dal vago e dilicato viso,

l’altra spesso obliando, intento pende

e con guardo a nutrir cupido e fiso

men la bocca che gli occhi avido intende,

v’immerge il labro e vi sommerge il core,

e resta ebro di vin, ma più d’amore.

Mentre son del gran pasto insu’l più bello,                            167

ecco Momo arrivar quivi si vede,

Momo critico nume, arco e flagello

che gli uomini e gli dei trafige e fiede.

Ciò ch’egli cerchi e qual pensier novello

tratto l’abbia dal ciel, Vener gli chiede,

e perché volentier scherza con esso,

sel fa seder, per ascoltarlo, appresso.

Vo (rispose lo dio) tra queste piante                                  168

dela Satira mia tracciando l’orme,

dela Satira mia che poco avante

ha di me generato un parto informe,

parto nele fattezze e nel sembiante

mostruoso, orribile e difforme

che, se non fusse il suo sottile ingegno,

lo stimerei di mia progenie indegno.

Ma la vivacità mio figlio il mostra                              169

e lo spirto gentil ch’io scorgo in lui

e quelch’è proprio dela stirpe nostra:

la libertà del sindicare altrui;

onde meco delpar contende e giostra,

che pur sempre del vero amico fui

e mentir mai non volli e mai non seppi

chiuder la lingua tra catene e ceppi.

La lingua sua vie più che spada taglia,                                   170

la penna sua vie più che fiamma coce.

Con acuta favella il ferro smaglia

e con ardente stil fulmina e noce,

né contro i morsi suoi morso è che vaglia,

giova schermo incontro ala sua voce;

indomito animale, estranio mostro

ch’altro non ha che’l fiato e che l’inchiostro.

Non ha piè, non ha stinchi, ond’ei si regga,                           171

ha l’orecchie recise e’l naso monco.

Io non so come scriva e vada e segga,

ch’è storpiato e smembrato e zoppo e cionco.

Ma benché così rotto egli si vegga

ché del corpo gli resta apena il tronco,

non pertanto l’audacia in lui si scema,

poiché sol dela lingua il mondo trema.

Tal qual è, senza piante e senza gambe,                                172

ne’ secoli futuri e ne’ presenti,

dele man privo e dele braccia entrambe,

l’universo però fia che spaventi.

Quai piaghe ei faccia, il saprà ben Licambe

che, colto da’ suoi strali aspri e pungenti,

di desperato laccio avinto il collo,

darà di propria man l’ultimo crollo.

Gran cose ha di costui Febo indovino                                   173

e previste e predette agli altri numi.

Pronosticò che nome avrà Pasquino,

correttor dele genti e de’ costumi;

che per terror de’ principi il Destino

gli darà d’eloquenza e mari e fiumi,

e ch’imitarlo poi molti vorranno,

ma non senza periglio e senza danno.

Nemico è dela fama e dela corte,                             174

lacera i nomi e d’adular non usa;

in ferir tutti è simile ala morte;

s’io lui riprendo, egli mestesso accusa

con dir che’l mio dir mal non è di sorte

che la malizia altrui resti confusa.

Che più? nonch’altri il gran monarca eterno

nota, punta, ripicca e prende a scherno.

I fanciulli rapiti e le donzelle                          175

non sol di rinfacciargli ardisce ed osa,

ma pon nel’opre sue divine e belle

anco la bocca e biasma ogni sua cosa.

Trova degli elementi e dele stelle

imperfetta la mole e difettosa,

ogni parola impugna, emenda ogni atto

e si beffa talor di quanto ha fatto.

menda al mar, ch’ha i venti e le tempeste,                                   176

ala terra, che trema e che vacilla,

al’aria, che di nuvoli si veste,

ed al foco, che fuma e che sfavilla;

appone ala gran machina celeste

che maligne influenze infonde e stilla,

ch’altra luce si move, altra sta fissa,

che la luna è macchiata e’l sol s’ecclissa.

E non pur di colui che’l tutto regge,                           177

ma prende a mormorar dela Natura.

Dice ch’altrui vil femina dar legge

non dee, né dee del mondo aver la cura.

La detesta, la danna e la corregge,

e’l lavoro del’uom tassa e censura,

che non diè, che non , sciocca maestra,

al tergo un occhio, al petto una finestra.

Per questo suo parlar libero e schietto                                  178

Giove dal ciel l’ha discacciato a torto.

Gli com’al tuo sposo, e per dispetto,

se non fusse immortal, l’avrebbe morto.

Precipitato dal superno tetto,

restò rotto e sciancato e guasto e torto.

Ma perché pur codetti altrui fa guerra,

poco meglio che’n cielo è visto in terra.

Su le sponde del Tebro, ov’egli meno                                   179

credea che’l vizio e’l mal regnar devesse,

per dar legge al suo dir, ch’è senza freno,

tra bontate e virtute albergo elesse,

ma non cessò di vomitar veleno,

né però più ch’altrove ei tacque in esse;

seben malconcio e senza un membro intero

provò che l’odio alfin nasce dal vero.

Se tu vedessi, o dea, l’aspre ferite                            180

ch’ha per tutte le membra intorno sparte,

diresti che con Ercole ebbe lite

o ch’a guerra in steccato entrò con Marte.

Ch’o sien vere l’accuse o sien mentite,

ogni grande aborrir suol la nostrarte

e, perdendone alfin la sofferenza,

non voglion comportar tanta licenza.

Alcun ben vene fu che sene rise                                181

e di suo motteggiar poco gli calse,

però ch’egli è faceto e’n varie guise

sa novelle compor veraci e false,

benché l’arguzie sue giamai divise

non sien dale punture amare e salse.

Lecca talor piacevolmente e scherza,

nondimen sempre morde e sempre sferza.

Ma costoro ch’io dico, iquali in pace                        182

lo lascian pur gracchiar quant’egli vole,

sapendo per natura esser loquace

e che pronte ha l’ingiurie e le parole,

che per rispetto o per timor non tace

e ch’irritato più, più garrir suole,

son pochi e rari, ed han sinceri i petti,

temon ch’altri scopra i lor difetti.

E certo io non so già, s’è lor concesso                                  183

gli encomi udir d’adulator ch’applaude,

perché non deggian poi nel modo istesso

il biasmo tollerar come la laude.

E s’ai malvagi è d’operar permesso

ogni male a lor grado ed ogni fraude,

perché non lice ancor con pari ardire

come ad essi di fare, altrui di dire?

Io per me, bella dea, perch’altri offeso                                 184

si tenga del mio dir, scoppiar non voglio;

ma né turbarsi già chi n’è ripreso,

sentir ne devria sdegno o cordoglio,

perché qualor, pur come foco acceso

o rasoio crudel, la lingua scioglio,

con pietoso rigor di buon chirurgo

arder mostro e ferir, ma sano e purgo.

Or essendo il meschino in terra e’n cielo                               185

per tal cagion perseguitato tanto,

io, che pur l’amo con paterno zelo,

supplico il nume tuo cortese e santo

ch’appo la fonte del gran re di Delo,

de’ cigni tuoi già consacrata al canto,

del’acque immortali insu la riva

ti piaccia acconsentir ch’alberghi e viva.

Solo in quell’isoletta amena e lieta,                            186

che d’ogni insidia è libera e secura,

potrà vita menar franca e quieta,

e scriver e cantar senza paura.

Ei, seben non è cigno, è tal poeta

che meritar ben può questa ventura

d’esser ascritto infra que’ scelti e pochi,

ma non sia chi l’attizzi o chi’l provochi.

S’egli avien che talor d’ira s’infiammi,                                   187

invettive e libelli usa per armi,

iambi talor saetta ed epigrammi,

talor satire vibra ed altri carmi.

Stupir sovente insieme e rider fammi

quando vien qualche verso a recitarmi

contr’un che celebrar volse il Colombo

e d’India, in vece d’or, riportò piombo.

Per impetrar da te questa dimanda                            188

d’esser ammesso in quel felice coro,

una fatica sua bella ti manda,

da cui scorger potrai s’ha stil canoro

e s’egli degno è pur dela ghirlanda

ch’altrui circonda il crin di verde alloro.

In questo libro, che qui meco ho io,

punge, fuorché te sola, ogni altro dio.

Ogni altro dio dala sua penna è tocco,                                  189

fuorché sol tu, cui sacra il bel presente.

Narra gli onor del tuo marito sciocco

e qualche prova ancor di quel valente,

che, del’asta malgrado e delo stocco,

so che del cor t’è uscito e dela mente;

e senon ch’oggi ad altro intenta sei,

leggerne almeno un saggio a te vorrei. –

– Qual trastullo maggior (Ciprigna disse)                              190

dar ne potresti infra quest’ozi nostri,

che farne udir di lor quanto ne scrisse

spirtoarguto in suoi giocosi inchiostri?

Qual cosa, che più grata or ne venisse,

esser potea del’opera che mostri?

Ma per meglio ascoltar ciò che tu leggi,

ti vogliam dirimpetto ai nostri seggi. –

Allor tra varia turba ascoltatrice                                191

assiso incontro ai duo beati amanti,

d’oro fregiato l’orlo e la cornice

si pose Momo un bel volume avanti.

Le vergogne del cielo, il titol dice;

e diviso è il poema in molti canti,

ma fra molti un ne sceglie, indi le rime,

in questa guisa incominciando, esprime:

– Più volte ai dolci lor furti amorosi                           192

ritornati eran già Venere e Marte,

credendo a tutti gli occhi esser ascosi,

tanta avean nel celarsi industria ed arte;

ma il Sol, che i raggi acuti e luminosi

manda per tutto e passa in ogni parte,

nela camera entrò che’n sé chiudea

lo dio più forte e la più bella dea.

Veggendogli d’amor rapire il frutto                           193

seno a seno congiunti e labro a labro,

tosto a Vulcano a riferire il tutto

n’andò nel’antro affumigato e scabro.

Batter sentissi al caso indegno e brutto,

vie più grave e più duro il torto fabro

di quelch’egli adoprava in Mongibello,

su l’incudin del core altro martello.

Non fu già tanto il Sol col divin raggio                                   194

mosso per zelo a palesar quell’onte,

quanto per vendicar con tale oltraggio

la saetta ch’uccise il suo Fetonte,

che, quando al troppo ardito e poco saggio

garzon, ch’ei tanto amò, ferì la fronte,

non men ch’al figlio il corpo, al genitore

trafisse di pietà l’anima e’l core.

Poiché distintamente il modo e’l loco                        195

del’alta ingiuria sua da Febo intese,

nel petto ardente delo dio del foco

foco di sdegno assai maggior s’accese.

Temprar nel’ira sua si seppe poco

colui che tempra ogni più saldo arnese.

De’ fulmini il maestro al’improviso

fulminato restò da quell’aviso.

Vassen dove de’ ciclopi ignudi                              196

ala fucina il rozzo stuol travaglia.

Fa percosse sonar le curve incudi,

di piglio ala lima, ala tanaglia,

e ponsi a fabricar con lunghi studi

pieghevol rete di minuta maglia.

D’un infrangibil filo adamantino

la lavorò l’artefice divino.

Di quel lavor la maestria fabrile                                 197

se sia diamante o fil mal s’argomenta.

Non men che forte egli l’ordì sottile,

la molle e dilicata e lenta

che di filar giamai stame simile

l’emula di Minerva indarno tenta

e, quantunque con man si tratti e tocchi,

invisibil la trama è quasi agli occhi.

Con arte tale il magistero è fatto                               198

ch’ancorchentrino i duo tra que’ ritegni,

purché non faccian sforzo inquanto al tatto,

non si discopriran gli occulti ingegni.

Ma se verran con impeto a quell’atto

che suol far cigolar dintorno i legni,

tosto che’l letto s’agita e scompiglia

la rete scocca e al talamo s’appiglia.

Uscito poi dela spelonca nera                                   199

zoppicando sen corre a porla in opra.

Nela stanza l’acconcia in tal maniera

ch’impossibil sarà che si discopra.

Ne’ sostegni di sotto ala lettiera,

nele travi del palco anco disopra,

per le cortine in giro ei la sospende

e tra le piume la dispiega e stende.

Quand’egli ha ben le benconteste sete                                  200

disposte intorno in sì sagaci modi

che discerner alcun dele secrete

fila non può gl’insidiosi nodi,

lascia l’albergo e, dela tesa rete

dissimulando le nascoste frodi,

spia l’andar degli amanti e’l tempo aspetta

dela piacevol sua strana vendetta.

Usò per affidargli astuzia e senno,                             201

senza punto mostrar l’ira che l’arse.

correr voce ch’ei partia per Lenno,

e’l grido ad arte per lo ciel ne sparse.

Udita la novella, al primo cenno

nel loco usato vennero a trovarse,

e per farlo di dio divenir bue,

nel dolce arringo entrarono ambidue.

tosto che la cuccia il peso grave                            202

de’ duo nudi campioni a premer viene,

prima ch’ancor si sieno ala soave

pugna amorosa apparecchiati bene,

la machinata trappola la chiave

volge che porge il moto ale catene,

fàsuo gioco l’ordigno e’n que’ diletti

rimangono i duo rei legati e stretti.

L’ordito intrico in guisa tal si strinse                          203

e sì forte dintorno allor gl’involse

che per scoter colui non sene scinse,

per dibatter costei non sene sciolse.

Or, poich’entrambo aviticchiati avinse

e’n tal obbrobrio a suo voler gli colse,

del’aguato in cui stava uscito il zoppo,

prese la corda ovatteneasi il groppo.

Dela perfida rete il capo afferra,                               204

indi del chiuso albergo apre le porte,

tira le coltre, il padiglion disserra,

e convoca del ciel tutta la corte

e, col re de’ guerrieri entrata in guerra

scoprendo lor la disleal consorte

avinta di durissima catena,

fa dele proprie infamie oscena scena.

«Deh, venite a veder se più vedeste,                         205

 (altamente gridava) opre mai tali.

L’eroe divino, il capitan celeste,

ditemi, è quegli , divi immortali?

l’imprese sue terribili son queste?

questi i trofei superbi e trionfali?

Ecco le palme gloriose e degne,

le spoglie illustri e l’onorate insegne.

Gran padre e tu che l’universo reggi,                         206

vienne a mirar la tua pudica prole.

Così serba Imeneo le sacre leggi?

tali ignominie il ciel permetter suole?

E che fa dunque Astrea negli alti seggi,

se punir i colpevoli non vole?

Son cose tollerabili? son atti

degni di deità scherzifatti?

Ama la figlia tua questo soldato                                207

sano, gagliardo e di giocondo aspetto,

e perché va pomposo e ben ornato,

di giacersi con lui prende diletto.

Schiva il mio crin malculto e rabbuffato,

del mio piè diseguale odia il difetto,

l’arsiccio volto aborre e con disprezzo

mi schernisce talor, s’io l’accarezzo.

Se zoppo mi son io tal qual mi sono,                         208

Giove e Giunon, mi generaste voi;

e generato forse agile e buono,

perché dal ciel precipitarmi poi?

Se pur volevi, o gran rettor del tuono,

sotto giogo perpetuo accoppiar noi,

non devevi così prima sconciarmi

o non devevi poi genero farmi.

La colpa non è mia dunque se guasti                         209

del piede i nervi e le giunture ho rotte;

se rozzo e senza pompe e senza fasti

tinta ho la faccia di color di notte,

tu sei che colaggiù mi confinasti

abitator dele sicane grotte.

Ma s’ancor quivi io ti ministro e servo,

non meritai di trasformarmi in cervo.

Deve per questo la mia bella moglie,                         210

bella ma poco onesta e poco fida,

qualora a trarsi le sfrenate voglie

cieco appetito la conduce e guida,

punto ch’io metta il piè fuor dele soglie

e da lei m’allontani e mi divida,

puttaneggiando dentro il proprio tetto,

disonorare il marital mio letto?

Deve per tuttociò negli altrui deschi                           211

cibo cercar la meretrice infame,

dovunque il figlio a satollar l’adeschi

del’ingorda libidine le brame?

Io pur al par de’ più robusti e freschi

credo vivanda aver per la sua fame,

ché dove un membro è difettoso e manca,

altra parte supplisce intera e franca.

Ma non so se’n tal gioco averrà mai                         212

ch’ella più mi tradisca e che m’offenda.

Così, perfida e rea, così farai

de’ tuoi dolci trastulli amara emenda,

finché la dote, ond’io stolto comprai

le mie proprie vergogne, a me si renda.

Poi per commun quiete il re superno

vo’ che faccia tra noi divorzio eterno.

Or mirate, vi prego, alme divine,                               213

gli altrui congiunti ai vituperi miei,

s’io fui ben cauto e s’io fui buono alfine

uccellatore e pescator di dei.

Dite s’anch’io so far prede e rapine,

come l’empio figliuol sa di costei.

Veggiasi chi di noi mastro più scaltro

sia di reti e di lacci o l’uno o l’altro.

So che lieve è la pena e che’l mio torto                                 214

vie più palese in tal castigo appare;

ma le corna ch’ascose in grembo porto

vopormi in fronte manifeste e chiare,

purch’io riceva almen questo conforto

di far la festa publica e vulgare.

Voglio la parte aver del piacer mio

e, poiché ride ognun, ridere anch’io».

Mentr’ei così dicea, tutti coloro                                215

ch’ala favola bella eran presenti

il teatro del ciel facean sonoro

con lieti fischi e con faceti accenti,

e diceano, additandogli fra loro,

di sì novo spettacolo ridenti:

«Ve’ come il tardo alfin giunse il veloce,

ve’ come fu dal vil domo il feroce».

O quanti fur dei giovinetti, o quanti,                           216

ch’inaviditi di sì dolce oggetto,

in rimirando i duo celesti amanti

che staccar non potean petto da petto,

vie più d’invidia assai tra’ circostanti

che di riso in quel punto ebber suggetto,

e per participar di que’ legami

curato non avrian d’esser infami.

Recato avriansi a gran ventura molti                          217

spettatori del caso e testimoni

più volentieri allor, ch’esser disciolti,

come lo dio guerrier farsi prigioni.

Restar tra nodisoavi involti

voluto avrian, non ch’altri, i duo vecchioni,

Titon dico e Saturno, i freddi cori

accesi anch’essi d’amorosi ardori.

Pallade e Cinzia, verginelle schive,                            218

tenner gran pezza in lor lo sguardo fiso,

poi da cosesozze e sì lascive

torser in , tinte di scorno, il viso.

Giunon, diva maggior del’altre dive,

non senza un gentilissimo sorriso

coprissi il ciglio con la man polita,

ma giocava con l’occhio infra le dita.

Vergognosetta d’un ludibrio tanto                             219

la dea d’amor, chi membri alabastrini

non avea da coprir velomanto

tenea bassa la fronte e gli occhi chini.

Intorno al corpo immacolato intanto

sparsi i cancelli de’ legami fini,

craticolando le sembianze belle,

diviso aveano un sole in molte stelle.

Bravò lo dio del ferro e si contorse,                          220

quando il forte lacciuol prima annodollo,

romper col suo valor credendo forse

e stracciar que’ viluppi ad un sol crollo,

ma poiché prigioniero esser s’accorse,

poterne ritrar le braccia e’l collo,

anch’ei, benché di rabbia enfiato e pieno,

a pregar cominciò, come Sileno.

Vulcan tien tuttavia la rete chiusa,                             221

scioglie il nodo, né rallenta il laccio

ché l’infida moglier così delusa

vuol ch’ivi al drudo suo si resti in braccio.

Intercede ciascuno, ed ei ricusa

di liberargli dal noioso impaccio.

Pur del vecchio Nettun consente a’ preghi

che la coppia impudica alfin si sleghi.

Dassi alo dio che nele piante ha l’ale                         222

cura d’aprir quell’ingegnosa gabbia,

ed ei non intraprende ufficio tale

per cortesia, né per pietà che n’abbia,

ma perché del’adultera immortale,

che di vergogna e di dispetto arrabbia,

sciogliendo il nodo che l’avolge e chiude,

spera palpar le belle membra ignude.

Oltre che d’acquistarsi ei fa disegno                          223

l’arredo indissolubile e tenace,

dico la rete che con tanto ingegno

fu già d’Etna tessuta ala fornace,

solo per poter poi con quel ritegno

prender per l’aria Cloride fugace,

Cloride bella, che volando suole

precorrer l’alba alo spuntar del sole.

Scatenato il campion con la diletta,                           224

l’una piangea de’ vergognosi inganni,

minacciò l’altro con crudel vendetta

di ristorar d’un tant’affronto i danni.

Sorsero alfin confusi e per la fretta

insieme si scambiar l’armi copanni:

questi il vago vesti, quelle l’amica,

Marte la gonna e Vener la lorica. –

Volea l’istoria del successo intero                             225

Momo seguir, poiché fur colti in fallo,

e dir come di giovane guerriero

fu trasformato Alettrione in gallo,

che del duce di Tracia essendo usciero,

guernito d’armi e carco di metallo,

qual fida spia, qual sentinella accorta,

fu da lui posto a custodir la porta.

Ma perché’l sonno il vinse e non ben tenne                           229

per guardarsi dal sol la mente desta,

tal qual trovossi apunto, augel divenne

con lo sprone al tallon, con l’elmo in testa.

I ricchi arnesi si mutaro in penne,

il superbo cimier cangiossi in cresta,

ed or, meglio vegghiando in altro manto

accusa il suo venir sempre col canto.

E questo ed altro ancor legger volea,                        227

ma sdegnoso girò Venere il guardo

e per lanciarlo un nappo alzato avea

e’l colpia, s’a fuggire era più tardo.

Sfacciato detrattor! (disse la dea)

così mi loda il tuo figliuol bugiardo?

Canti le proprie, e non l’altrui vergogne,

inventor di calunnie e di menzogne. –

Di ciò Mercurio, che con gli altri intorno                               228

stavalo ad ascoltar, si rise molto,

e quando la mirò d’ira e di scorno,

più che foco soffiato, accesa in volto,

di quel selvaggio e rustico soggiorno

desviando l’amico entro il più folto,

il sottrasse al furor del’alta diva,

che ne fremea di rabbia e n’arrossiva.

Era quivi Talia fra l’altre ancelle,                               229

per come Citerea nata da Giove,

che le Grazie e le Muse avea sorelle,

una dele tre dive e dele nove.

Più soave di lei tra queste o quelle

o la lingua o la mano altra non move;

Talia, ninfa de’ mirti e degli allori,

Talia, dotta a cantar teneri amori.

Costei d’avorio fin curvo stromento                          230

recossi in braccio e, giunta innanzi a loro,

degli aurei tasti in suon dimesso e lento

tutto pria ricercò l’ordin sonoro,

indi con pieno, chiaro, alto concento

scoccò dolce canzon dal’arco d’oro,

e fur pungenti sì, ma non mortali

le note a chi l’udi, ferite e strali.

Saggia Talia, che’nsul fiorir degli anni                                  231

fosti de’ miei pensier la cura prima

e meco i molli e giovenili affanni,

non senza altrui piacer, cantasti in rima,

tu lo mio stile debile su i vanni

al ciel solleva, onde i tuoi detti esprima;

sveglia l’ingegno e con celeste aita

movi al canto le voci, al suon le dita.

Amor è fiamma che dal primo e vero                                 232

foco deriva e’n gentil cor s’apprende

e, rischiarando il torbido pensiero,

altrui sovente il desir vago incende,

e scorge per drittissimo sentiero

l’anima al gran principio, ond’ella scende,

mostrandole quaggiù quella che pria

vide lassù bellezza e leggiadria.

Amor, desio di bel, virtù che spira                            233

sol dolcezza, piacer, conforto e pace,

toglie al cieco Furor l’orgoglio e l’ira,

gli fa l’armi cader, gelar la face.

Il forte, il fier che’l quinto cerchio aggira

ale forze d’Amor vinto soggiace.

Unico autor d’ogni leggiadro effetto,

sommo ben, sommo bel, sommo diletto.

Ardon nel beato alto soggiorno                             234

ancor d’eterno amor l’eterne menti.

Son catene d’amor queste, che’ntorno

stringonforte il ciel, fasce lucenti.

E questi lumi che fan notte e giorno

son del lor fabro Amor faville ardenti.

Foco d’amor è quel ch’asciuga in cielo

ala gelida dea l’umido velo.

Ama la terra il cielo e’l bel sembiante                                    235

mostra ridente a lui che l’innamora,

e sol per farsi cara al caro amante

s adorna, il sen s’ingemma, il crin s’infiora;

i vapor dale viscere anelante,

quasi a lui sospirando, essala ognora.

I rauchi suoni, i crolli impetuosi

gemiti son d’amor, moti amorosi.

Né già l’amato cielo ama lei meno,                           236

che con millocchi sempre la vagheggia;

a lei piagne piovoso, a lei sereno

ride, e sospira a lei quando lampeggia;

irrigator del suo fecondo seno,

in vicende d’amor seco gareggia

e fa ch’ella poi gravida germoglie

piante e fior, frutti e fronde, erbette e foglie.

Qual sì leggiero o sì veloce l’ale                                237

spiega per l’ampio ciel vago augelletto,

cui del’alato arcier l’alato strale

e non giunga e non punga insieme il petto?

Qual pesce guizza in freddo stagno, o quale

cova de’ fiumi il cristallino letto,

cui non riscaldi amor, ch’entro per l’onde

vivi del suo bel foco i semi asconde?

Nel mar, nel mare istesso, ove da Teti                                  238

ebbe la bella madre umida cuna,

più che del pescator, d’amor le reti

han forza, e regna amor più che fortuna.

E perché da’ pittori e da’ poeti

ignudo è finto e senza spoglia alcuna,

senon perché sott’acqua a nuoto scende

e del suo foco i freddi numi accende?

Segue il suo maschio per le vie profonde                              239

la smisurata e ruvida balena.

Va dietro ala sua femina per l’onde

ondeggiando il delfin con curva schiena.

Qui con lingua d’amor muta risponde

al’angue lusinghier l’aspra murena.

con nodi d’amor saldi e tenaci

porge una conca al’altra conca i baci.

Amano l’acque istesse: elle sen vanno                                   240

al fonte original, ch’a sé le’nvita,

e s’al bel corso, che lasciar non sanno,

è precisa la via, piana e spedita,

tal con forza amorosa impeto fanno

che s’apron rotti gli argini l’uscita.

In seno il mar l’accoglie e’n lor trasfonde

prodigamente il proprio nome e l’onde.

Ricetta il tortorel con la compagna,                           241

bello essempio di fede, un ramo, un nido,

e se l’un poi vien men, l’altra si lagna

e fere il ciel di doloroso strido.

La colomba gentil non si scompagna

dal consorte giamai diletto e fido;

coppia in cui si mantien semplice e pura

l’innocenza d’amore e di natura.

Teme il cigno d’amor la face ardente                        242

vie più che’l foco del’eterna sfera,

e più d’amor l’artiglio aspro e pungente,

che del’aquila rapida e guerrera.

L’aquila ancor, del fulmine possente

ministra e d’ogni augel reina altera,

noi teme meno, anzi d’altrui predace,

fatta preda d’amor, d’amor si sface.

Il fier leon con la leonza invitta                                  243

amor sol vince ed al suo giogo allaccia.

Più dal’aurato stral geme trafitta

l’orsa crudel che dalo spiedo in caccia.

Fa vezzi al tigre suo la tigre afflitta,

loqual copiè levati alto l’abbraccia.

Posa il destrier non trova e par che piene

sol del foco del core abbia le vene.

Spira accesa d’amor tosco amoroso                         244

la vipera, peggior d’ogni altra biscia;

ella per allettar l’aspe orgoglioso

d’oro si veste e’ncontr’al sol si liscia;

corregli in grembo e lo scaldato sposo

seco insieme si stringe e seco striscia;

son baci i morsi, e sì gl’irrita amore

che di piacer l’un morde e l’altro more.

Dal suo monton non lunge, a piè d’un lauro,                          245

mentr’ei pugna per lei, stassi l’agnella,

e per dargli al travaglio alcun restauro,

se riede vincitor, gli applaude anch’ella.

Arde il robusto e giovinetto tauro

per la giovenca sua vezzosa e bella,

e ne’ tronchi per lei l’armi ritorte

aguzza e sfida il fier rivale a morte.

Nonch’altro i tronchi istessi, i tronchi, i tralci                         246

senton dolci d’amor nodi e ferite.

Chi può dir com’agli olmi e com’ai salci

l’edra sempre s’abbarbichi e la vite?

E chi non sa che, se con scuri o falci

da spietato boschier son disunite,

lagrimando d’amor così recise,

si lagnan dela man che l’ha divise?

Fronda in ramo non vive o ramo in pianta                             247

cui non sia dato entro la ruvidalma

sentir quella virtù feconda e santa

che con nodo reciproco le’ncalma.

Con sibili amorosi amor si vanta

far sospirare il frassino e la palma.

Baciansi i mirti, e con scambievol groppo

alno ad alno si sposa e pioppo a pioppo.

Ma qual sì dura o gelida si trova                               248

cosa quaggiù che ferro agguagli o pietra?

la pietra e’l ferro ancor baciansi a prova,

né dal rozzo seguace ella s’arretra.

Da viva pietra, ov’altri il tratti e mova,

vive d’amor faville il ferro spetra,

e’l ferro istesso intenerito e molle

in fucina d’amor s’incende e bolle.

S’amor dunque sostegno è di natura,                        249

s’amor è pace d’ogni nostra guerra,

s’ale forze d’amor forza non dura,

se le glorie d’amor meta non serra,

se la virtù del’amorosa arsura

in ciel regna, in abisso, in mare, in terra,

qual fia, che non adori, alma gentile

le catene d’amor, l’arco e’l focile? –

Mentre la Musa in stil leggiadro e grave                                250

fea con maestra man guizzar le corde

e ne traea di melodia soave

al’armonico ciel tenor concorde,

su per gli eburnei bischeri la chiave

volgendo, per temprar nervo discorde,

un per caso ne ruppe e sì le spiacque

ch’appese il plettro a un ramoscello e tacque.

 




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