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Giovan Battista Marino Adone IntraText CT - Lettura del testo |
I TRASTULLI. Il Piacere, che nel giardino del tatto sta in compagnia della Lascivia, allude alla scelerata opinione di coloro che posero il sommo bene ne’ diletti sensuali. Adone che si spoglia e lava, significa l’uomo che, datosi in preda alle carnalità e attuffandosi dentro l’acque del senso, rimane ignudo e privo degli abiti buoni e virtuosi. I vezzi di Venere, che con essolui si trastulla, vogliono inferire le lusinghe della carne licenziosa e sfacciata, laquale ama e accarezza volentieri il diletto.
Perviene Adone ale delizie estreme
e, prendendo tra lor dolce trastullo,
l’innamorata diva e’l bel fanciullo
ala meta d’amor giungono insieme.
Canto 8
Giovani amanti e donne innamorate 1
in cui ferve d’amor dolce desio,
per voi scrivo, a voi parlo, or voi prestate
favorevoli orecchie al cantar mio.
Esser non può ch’ala canuta etate
abbia punto a giovar quelche cant’io;
fugga di piacer vano esca soave
bianco crin, crespa fronte e ciglio grave.
Spesso la curva e debile vecchiezza, 2
che gelate ha le vene e l’ossa vote,
aborre quel, che conseguir non pote;
uom non atto ad amar, disama e sprezza
anco il tenor del’amorose note
e’l ben che di goder si vieta a lui
per invidia dannar suole in altrui.
Lunge, deh! lunge, alme severe e schive 3
dala mia molle e lusinghiera musa!
incorrotta onestà vadane esclusa.
Ah! non venga a biasmar quant’ella scrive
d’implacabil censor rigida accusa,
la cui calunnia con maligne emende
le cose irriprensibili riprende.
Di poema moral gravi concetti 4
udir non speri ipocrisia ritrosa,
che, notando nel ben solo i difetti,
suol cor la spina e rifiutar la rosa.
So che, fra le delizie e fra i diletti
degli scherzi innocenti, alma amorosa
cautamente trattar saprà per gioco,
senza incendio o ferita, il ferro e’l foco.
Suggon l’istesso fior ne’ prati iblei 5
e, secondo gl’instinti o buoni o rei,
l’una in tosco il converte e l’altra in mele.
Or s’averrà ch’alcun da’ versi miei
concepisca veleno e tragga fele,
altri forse sarà men fiero ed empio
che raccolga da lor frutto d’essempio.
Sia modesto l’autor; che sien le carte 6
men pudiche talor, curar non deve.
L’uso de’ vezzi e’l vaneggiar del’arte
o non è colpa, o pur la colpa è lieve.
Chi, dale rime mie, d’amor consparte,
vergogna miete o scandalo riceve,
condanni o scusi il giovenile errore,
ché, s’oscena è la penna, è casto il core.
Già sergenti ed ancelle avean levati 7
dale candide nappe i nappi d’oro,
in cui di cibi eletti e dilicati
i duo presi d’amor preser ristoro;
onde, poich’a versar fiumi odorati
venne l’aureo baccin tra le man loro,
sula mensa volò lieta e fiorita
il bianco bisso ad asciugar le dita.
Allor, dal seggio suo Venere sorta, 8
verso l’ultima torre adduce Adone.
Vien tosto a disserrar l’aurata porta
l’ostier del’amenissima magione.
Ignudo ha il manco braccio, e l’unghia torta
v’affige dentro e stringelo un falcone.
Le talpe, le testudini e l’aragne
son sempre di costui fide compagne.
Chiuso nel’ampio e ben capace seno 9
è quel giardin dela maestra torre,
degli altri assai più spazioso e pieno
di quante seppe Amor gioie raccorre.
Un largo cerchio e di bell’ombre ameno
vien un teatro sferico a comporre,
che, col gran cinto del’eccelse mura,
protege la gratissima verdura.
Adon va innanzi e par che novo affetto 10
d’amorosa dolcezza il cor gli stringa.
Non fu mai d’atto molle osceno oggetto
che quivi agli occhi suoi non si dipinga:
sembianti di lascivia e di diletto,
simulacri di vezzo e di lusinga,
trastulli, amori, o fermi il guardo o giri,
gli son sempre presenti, ovunque miri.
Sembra il felice e dilettoso loco 11
pien d’angelica festa un paradiso.
Spira quivi il Sospiro aure di foco,
vaneggia il Guardo e lussureggia il Riso.
Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco.
Stassi il Diletto in grembo al Vezzo assiso.
Scaccia lunge il Piacer con una sferza
le gravi Cure e col Trastullo scherza.
Chino la fronte e con lo sguardo a terra 12
l’amoroso Pensier rode sestesso.
Chiede conforto al Duol, pace ala Guerra
il Prego, in atto supplice e dimesso.
Scopre negli occhi quelche’l petto serra
il Cenno, del Desir tacito messo.
Sporge le labra e l’altrui labra sugge
il Bacio e, nel baciar, sestesso strugge.
Sta l’Adulazion sovra le soglie 13
del dolce albergo e’l peregrin vi guida.
La Promessa l’invita e’n guardia il toglie,
la Gioia l’accompagna e par che rida.
La Vanità ciascun che v’entra accoglie
e la Credenza ogni ritroso affida.
La Ricchezza, di porpore vestita,
superbamente i suoi tesor gli addita.
Havvi l’Ozio che langue e si riposa, 14
lento ed agiato, e in ogni passo siede.
Pigro e con fronte stupida e gravosa
seguelo il Sonno e mal sostiensi in piede.
Ordir di giglio, incatenar di rosa
fregi al suo crin la Gioventù si vede.
Seco strette ha per mano in compagnia
Beltà, Grazia, Vaghezza e Leggiadria.
Con l’ingordo Desio ne vien la Speme, 15
Perfida, adulatrice e lusinghiera.
Mascherati la faccia, errano insieme
l’accorto Inganno e la Menzogna in schiera.
Sparsa le chiome insu la fronte estreme
fuggendo va l’Occasion leggiera.
Balla per mezzo la Letizia stolta,
salta per tutto la Licenzia sciolta.
L’esca e’l focile in man, sfacciata putta, 16
tien la Lussuria ed al’Infamia applaude.
Baldanzosa l’Infamia, ignuda tutta,
non apprezza e non cura onore o laude.
Le serpi dela chioma orrida e brutta
copre di vaghi fior l’astuta Fraude
e’l velen dela lingua aspro ed atroce,
di dolce riso e mansueta voce.
Tremar l’Audacia ai primi furti e starsi 17
vedi smorto il Pallor caro agli amanti.
Volan con lievi penne in aria sparsi
gli Spergiuri d’amor vani e vaganti.
Con l’Ire molli e facili a placarsi
van le dubbie Vigilie e i rozzi Pianti
e le Gioie interrotte e non secure.
Ride la terra qui, cantan gli augelli, 18
danzano i fiori e suonano le fronde,
sospiran l’aure e piangono i ruscelli,
ai pianti, ai canti, ai suoni Eco risponde.
Aman le fere ancor tra gli arboscelli,
amano i pesci entro le gelid’onde,
le pietre istesse e l’ombre di quel loco
spirano spirti d’amoroso foco.
– A dio, ti lascio; omai fin qui (di Giove 19
disse là giunto il messaggier sagace)
per ignote contrade ed a te nove
averti scorto, o bell’Adon, mi piace.
Eccoci alfine insu’l confin, là dove
ogni guerra d’amor termina in pace.
Di quel senso gentil questa è la sede,
a cui sol di certezza ogni altro cede.
Ogni altro senso può ben di leggiero 20
deluso esser talor da’ falsi oggetti;
questo sol no loqual sempr’è del vero
fido ministro, e padre de’ diletti.
Gli altri, non possedendo il corpo intero,
ma qualche parte sol, non son perfetti;
questo, con atto universal, distende
le sue forze pertutto e tutto il prende.
Vorrei parlarne, e ti verrei solvendo 21
più d’un dubbio sottil dele mie scole;
ma tempo è da tacer, ch’io ben comprendo
che la maestra tua non vuol parole.
Io qui rimango, ad Erse mia tessendo
ghirlandetta di mirti e di viole.
Tu vanne e godi. Io so che’n tanta gioia
qualunque compagnia ti fora a noia. –
Con un cenno cotal di ghigno astuto 22
si rivolse a Ciprigna in questo dire;
poi smarrissi da lor, siché veduto
non fu per più d’un dì, fino al’uscire.
Ma pria che desse l’ultimo saluto
ai due focosi amanti insu’l partire,
del’un e l’altro, in pegno di mercede,
giunse le destre e gl’impalmò per fede.
Restar soletti in quell’orror frondoso 23
poiché Mercurio dipartissi e tacque.
Rigava un fonte il vicin margo erboso
in cui forte Natura si compiacque.
L’acque innaffiano il bosco e’l bosco ombroso
specchia sestesso entro le limpid’acque,
talch’un giardino in duo giardin distinto
vi si vedea, l’un vero e l’altro finto.
Porta da questo fonte umile e lento 24
per torto solco il picciol corno un rio.
Parria vero cristallo e vero argento,
senon sene sentisse il mormorio.
D’oro ha l’arene, e quindi è sempre intento
di sua mano a raccorlo il cieco dio,
onde fabrica poi gli aurati strali,
strazio immortal de’ miseri mortali.
In duo rivi gemelli si dirama 25
l’amoroso ruscel: l’uno è di mele,
pien di quanta dolcezza il gusto brama,
l’altro corrompe il mel di tosco e fele,
quel fel, quel tosco ond’armò già la Fama
l’aspre saette del’arcier crudele.
Crudel arcier, ch’anco il materno seno
Dal velenoso e torbido compagno 26
sen va diviso il fiumicel melato,
onde per canal d’or più d’un rigagno
verga di belle linee il verde prato
e sboccan tutte in un secreto bagno
che nel centro del bosco è fabricato.
Di questo bagno morbido e soave
la Lascivia e’l Piacer tengon la chiave.
Siede al’uscio il Piacer di quell’albergo 27
con la Lascivia a trastullarsi inteso,
garzon di varia piuma alato il tergo,
ridente il volto e di faville acceso;
l’aurato scudo, il colorato usbergo
giacegli inutilmente a piè disteso;
torpe tra’ fior, pacifico guerriero,
l’elmo, ch’una sirena ha per cimiero.
Curvo arpicordo da’ vicini rami 28
pende e spesso dal’aura ha moto e spirto.
D’ambra tersa e sottile in biondi stami
forcheggia il crine intortigliato ed irto,
tutto impacciato di lacciuoli e d’ami,
di fresca rosa e di fiorito mirto.
Arco di bella e varia luce adorno
gli fa diadema in testa, iride intorno.
Né di men bella o men serena faccia 29
mostrasi in grembo a lui la lusinghiera;
di viti e d’edre i capei d’oro allaccia,
di canuti armellin guarda una schiera.
Un capro a lato e con la destra abbraccia
il collo d’una libica pantera;
regge con l’altra ad un troncon vicino
ammiraglio lucente e cristallino.
Quivi al venir d’Adone e Citerea, 30
componendo del crin le ciocche erranti,
dele luci umidette e scintillanti.
Spesso a un nido di passere volgea,
che sul’arbor garrian, gli occhi incostanti
e la succinta, anzi discinta, gonna
scorciava più che non conviensi a donna.
Feriro il bell’Adon di meraviglia 31
quelle forme vezzose e lascivette,
e, con l’alma sospesa insu le ciglia,
a contemplarle immobile ristette.
Ella, d’un bel rossor tutta vermiglia,
impedita da scherzi e lusinghette,
col suo drudo per man dal’erba sorse
ed al donzel che l’incontrava occorse.
Vergata a liste d’or candida tela 32
di sottil seta e di filato argento
vela le belle membra e, quasi vela,
si gonfia in onde e si dilata al vento,
e l’interno soppanno apre e rivela,
tra’ suoi volazzi, in cento giri e cento.
Crespa le rughe il lembo e non ben chiude
l’estremità dele bellezze ignude.
Dal’ali del’orecchie ingiù pendente 33
di due perle gemelle il peso porta.
Sostiene il peso, di fin or lucente,
sferica verga in picciol’orbe attorta.
Di smeraldi cader vezzo serpente
si lascia al sen con negligenza accorta
e dela bianca man, ch’ad arte stende,
d’indiche fiamme il vivo latte accende.
Dal’estivo calor, che mentre bolle 34
le’nfiamma il volto d’un incendio greve,
schermo si fa d’un istromento molle
di piuma vie più candida che neve
e, per gonfiar di sua superbia folle
con doppio vento il vano fasto e lieve,
v’ha di cristallo oriental commessi
duo specchi in mezzo, e si vagheggia in essi.
Tese costei sue reti al vago Adone, 35
ogni atto er’amo, ogni parola strale.
Rompea talor nel mezzo il suo sermone
languidamente e con dolcezza tale,
che’l diamante spezzar dela ragione
potea, nonché del senso il vetro frale.
Parlava, e’l suo parlar tronco e diviso
fregiava or d’un sospiro, or d’un sorriso.
– Se quanto di beltà nel volto mostri 36
tanto di cortesia chiudi nel petto,
ché tal certo (diss’ella) agli occhi nostri
argomento di te porge l’aspetto,
venirti a sollazzar ne’ chiusi chiostri
non sdegnerai di quel beato tetto.
Nel tetto là ch’io ti disegno a dito,
come degno ne sei, sarai servito.
Questi è quei, se nol sai, ch’altrui concede 37
quel ben che può far gli uomini felici.
Ognuno il cerca, ognuno il brama e chiede,
usan tutti per lui vari artifici.
Chi ritrovar nele ricchezze il crede,
chi nele dignità, chi negli amici,
ma raro il piè da quest’albergo ei move,
né, fuorché nel mio grembo, abita altrove.
Del sozzo vaso, ov’ogni mal s’accoglie, 38
apena uscì che fu chiamato in cielo;
ma gli convenne pria depor le spoglie,
talch’ignudo v’andò senz’alcun velo.
Scende dal ciel sovente in queste soglie
dov’io gelosa agli occhi indegni il celo,
il celo altrui con ogni industria ed arte,
solo a qualche mio caro io ne fo parte.
Quando volò nel’immortal soggiorno, 39
nacque nel mondo un temerario errore;
del manto ch’ei lasciò si fece adorno
un aversario suo, detto Dolore;
questi sen va con le sue vesti intorno,
siché’l somiglia al’abito di fore;
onde ciascun mortal, preso al’inganno,
invece del Piacer segue l’Affanno.
Io son poi sua compagna, io son colei 40
che volgo in gioia ogni travaglio e duolo.
Da noi soli aver puoi, se saggio sei,
quel piacer de’ piacer ch’al mondo è solo.
De’ suoi seguaci e de’ seguaci miei
è quasi innumerabile lo stuolo;
né tu dei men felice esser di questi,
poiché giunger tant’oltre oggi potesti.
Qui lavarti conviene. A ciò t’invita 41
il loco agiato e la stagion cocente.
Nostra legge il richiede e la fiorita
tua bellezza ed etate anco il consente.
Ma più quella beltà che teco unita,
teco, o te fortunato, arde egualmente.
Non entra in questa casa, in questo bosco
chi non vaneggia e non folleggia nosco. –
A queste parolette Adon confuso 42
nulla risponde e taciturno stassi,
ch’a tenerezze tante ancor non uso
tien dimessa la fronte e gli occhi bassi.
Ma da più ninfe è circondato e chiuso
che non voglion soffrir ch’innanzi passi.
Qual dal bel fianco la faretra scioglie,
qual gli trae la cintura e qual le spoglie.
Al’importuno stuol che l’incatena 43
non senza scorno il giovinetto cede
e, salvo un lento vel che’l copre apena,
nudo si trova dala testa al piede.
Gira la vista allor lieta e serena
ala sua diva, e nuda anco la vede,
ch’ogni sua parte più secreta e chiusa
confessa agli occhi ed ala selva accusa.
Ella tra’l verde del’ombrosa chiostra 44
vergognosetta trattasi in disparte,
sue guardinghe bellezze or cela or mostra,
fa di sestessa inun rapina e parte;
impallidisce, indi i pallori inostra,
sembra caso ogni gesto ed è tutt’arte;
giungon vaghezza ai vaghi membri ignudi
consigliati disprezzi, incolti studi.
Copriala aprova ogni arboscel selvaggio 45
con braccia di frondosa ombra conteste,
peroché’l sol con curioso raggio
spiar volea quella beltà celeste.
Videsi di dolcezza ancora il faggio,
il faggio, onde pendean l’arco e la veste,
non possendo capir quasi in sestesso
far più germogli e divenir più spesso,
Il groppo allor che’nsu la fronte accolto 46
stringea del crine il lucido tesoro,
con la candida man lentato e sciolto
sparse Ciprigna in un diluvio d’oro,
onde, a guisa d’un vel dorato e folto
celando il bianco sen tra l’onde loro,
in mille minutissimi ruscelli
dal capo scaturir gli aurei capelli.
Celò’l bel sen con l’aureo vel, ma come 47
appiattando la testa in cespo erboso
invan l’augel che trae di Fasi il nome
crede tutto a chi’l mira essersi ascoso,
così, seben dele diffuse chiome
fece al’altre bellezze un manto ombroso,
scopriva intanto infra quell’ombre aurate
sol nel sol de’ begli occhi ogni beltate.
Oltre che di quel sol chiaro e sereno 48
quella nube gentil non splendea manco.
Ella pur cerca or il leggiadro seno
velarsi, or il bel tergol or il bel fianco;
ma le fila del’or tenersi a freno
sul’avorio non san, lubrico e bianco
e quelche di coprir la man si sforza,
audace venticel discopre a forza.
Vanno al gran bagno. Or dal’antiche carte 49
di Baia e Cuma il paragon si taccia.
In un quadro perfetto è con bell’arte
disposto, ed ogni fronte è cento braccia,
di ben commodi alberghi in ogni parte
cinto, e tre ne contien per ogni faccia;
camere e logge in triplicata fila
vi stanno ed ogni stanza ha la sua pila.
In mezzo al’edificio alto si scorge 50
piantato di diaspro un gran pilastro
per le cui vene interne il fonte sorge,
che per dodici canne intorno porge
l’acque in vasi d’acate e d’alabastro.
È d’argento ogni canna assai ben tersa,
come d’argento son l’acque che versa.
Vansi l’acque a versar, ma pigre e lente, 51
in ampie conche di forbiti sassi,
siché raccor si può l’umor cadente
dal’ordin primo de’ balcon più bassi.
Pigra dico sen va l’onda lucente
e move tardi i cristallini passi
che’n sì ricco canal mentre s’aggira,
le sue delizie ambiziosa ammira.
E quindi poscia per occulta tromba 52
a sua propria magion passa ciascuna,
e, traboccando con fragor, rimbomba,
tanto lucida più quanto più bruna.
Rassembra ogni magion spelonca o tomba,
par la luce del sol luce di luna.
Pallido v’entra per anguste vie,
tanto che non v’è notte e non v’è die.
Il portico a cui l’onda in grembo piove 53
serie di curvi fornici sostiene.
Fregiano il muro interior là dove
l’umido gorgo a scaricar si viene,
marmi dipinti in strane fogge e nove
di belle macchie e di lucenti vene.
Lusingan d’ognintorno i bei riposi
covili opachi e molli seggi ombrosi.
Ma null’opra mortal l’arte infinita 54
che di pietre mirabili arricchita
splende, e gemma plebea non vi lampeggia:
v’ha quelche’l ciel, v’ha quelche l’erba imita,
v’ha quelch’emulo al foco arde e rosseggia;
stucchi non v’ha, ma di sottil lavoro
smalti sol coloriti in lame d’oro.
Tra’ bei confin dele gemmate rive 55
sì serena traspar l’onda raccolta
che i non suoi fregi usurpa, e’n sé descrive
tutti gli onor dela superba volta.
Non tanto forse in sì bell’acque e vive
sdegneria Cinzia esser veduta e colta;
forse in acque sì belle il suo bel viso
meglio ameria di vagheggiar Narciso.
Quinci, penso, adivien che la loquace 56
già ninfa che per lui muta si tacque,
d’abitar, fatta voce, or si compiace
dov’ei di vaneggiar già si compiacque.
Quivi de’ detti estremi ombra seguace
d’arco in arco lontan fugge per l’acque;
e, qual d’Olimpia entro l’eccelsa mole,
moltiplica risposte ale parole.
Venne allor l’una coppia, e l’altra scorse 57
de’ bei lavacri al più vicin recesso;
né molto andò che quindi uscir s’accorse
d’accenti e baci un fremito sommesso.
Adone a quella parte il passo torse
tanto che per veder si fè dapresso.
Vide, e gli cadder gli occhi in fondo al fonte
tanta vergogna gli gravò la fronte.
Su la sponda d’un letto ha quivi scorto 58
ch’a bellissima ninfa in braccio attorto
il fior d’ogni piacer coglie furtivo.
Del bel tenero fianco al suo conforto
palpa con una man l’avorio vivo,
con l’altra, ch’ad altr’opra intenta accosta,
tenta parte più dolce e più riposta.
Tra’ noderosi e nerboruti amplessi 59
del robusto amator la giovinetta
geme, e con occhi languidi e dimessi
dispettosa si mostra e sdegnosetta.
Il viso invola ai baci ingordi e spessi,
e nega il dolce, e più negando alletta;
ma mentre si sottragge e gliel contende,
nele scaltre repulse i baci rende.
Ritrosa a studio e con sciocchezze accorte 60
svilupparsi da lui talor s’infinge,
e’ntanto tra le ruvide ritorte
più s’incatena e più l’annoda e cinge,
in guisa tal che non giamai più forte
spranga legno con legno, inchioda e stringe.
Flora non so, non so se Frine o Taide
trovar mai seppe oscenità sì laide.
Serpe nel petto giovenile e vago 61
l’alto piacer del’impudica vista,
ch’ale forze d’Amor tiranno e mago
esser non può ch’un debil cor resista;
anzi dal’esca dela dolce imago
l’incitato desio vigore acquista;
e, stimulato al natural suo corso,
meraviglia non fia se rompe il morso.
E la sua dea, che d’amorosi nodi 62
ha stretto il core, a seguitarlo intenta,
con detti arguti e con astuti modi
pur tra via motteggiando il punge e tenta:
– Godi pur (dicea seco) il frutto godi
de’ tuoi dolci sospir, coppia contenta.
Sospir ben sparsi e ben versati pianti,
felici amori e più felici amanti!
Sia fortuna per voi. Non so se tanto 63
fia cortese per me chi m’imprigiona. –
Così favella al suo bel sole a canto
e sorride la dea mentre ragiona,
facendo pur del destro braccio intanto
al suo fianco sinistro eburnea zona.
E già colei che gl’introdusse quivi
spargea dal suo focil mille incentivi.
Come fiamma per fiamma accresce foco, 64
come face per face aggiunge lume,
o come geminato a poco a poco
prende forza maggior fiume per fiume,
così’l fanciullo al’inonesto gioco
raddoppia incendio e par che si consume,
e, tutto in preda ala lascivia ingorda
dela modestia sua non si ricorda.
Già di sestesso già fatto maggiore 65
drizzar si sente al cor l’acuto strale,
tanto ch’omai di quel focoso ardore
a sostener lo stimulo non vale;
ond’anelando il gran desir che’l core
con sollecito spron punge ed assale
e bramoso di farsi apien felice,
pur rivolto ala dea, la bacia e dice:
– Io moro, io moro oimé, se non mi dona 66
Se di me non vi cal, già si sprigiona,
già pendente al suo fin corre la vita.
Ferve la fiamma, ed imminente e prona
l’anima già prorompe insu l’uscita.
Quella beltà per cui convien ch’io mora
suscita con gli spirti i membri ancora.
Tosto ch’a dolce guerra amor protervo 67
mi venne oggi a sfidar con tanti vezzi,
tesi anch’io l’arco, ed or già temo il nervo
per soverchio rigor non mi si spezzi.
Non posso più, del’umil vostro servo
il troppo ardir non si schernisca o sprezzi,
che vorria pur, come veder potete,
dela gloria toccar l’ultime mete. –
Così parlando e dela lieve spoglia 68
la falda alquanto in languid’atto aperta,
l’impazienza del’accesa voglia
senz’alcun vel le dimostrò scoverta.
– Soffri (diss’ella allor) finché n’accoglia
apparecchio miglior, la speme e certa;
dala Commodità, mia fida ancella,
data in breve ne fia stanza più bella.
Ritardato piacer, portalo in pace, 69
nele dilazion cresce non poco.
Bastiti di saver che mi disface
di reciproco amor scambievol foco.
Teco insu l’ora dela prima face
m’avrai, ti giuro, in più secreto loco.
Fa pur bon cor, tien la mia fede in pegno,
tosto averrà che’n porto entri il tuo legno.–
Come a fiero talor veltro d’Irlanda 70
buon cacciator che’nfuriato il veda,
benché venga a passar dala sua banda
vicina assai la desiata preda,
la libertà però che gli dimanda
non così tosto avien che gli conceda,
anzi fermo e tenace ad ogni crollo
tira il cordon che gl’imprigiona il collo,
così né men, per più scaldar l’affetto 71
nel difficil goder l’amante accorta,
mentr’ei volea del suo maggior diletto
con la chiave amorosa aprir la porta,
di quel primo appetito al giovinetto
l’impeto affrena e’l bacia e’l riconforta.
Poi con la bella man quindi il rimove
e l’invita a girar le piante altrove.
Può da que’ chiusi alberghi al’ampia corte 72
libero uscir per più d’un uscio il piede;
e scritta dele stanze insu le porte
d’ogni lavanda la virtù si vede.
Ciascun’acqua ha virtù di varia sorte,
come l’esperienza altrui fa fede.
Qual vigor, qual sapore in sé contegna
il tatto e’l gusto espressamente insegna.
O miracol gentil, vena che scorre 73
d’un sasso solo in varie urne stillante,
come possa distinte in sé raccorre
doti diverse e qualità cotante!
Chi può di tutte i propri effetti esporre?
Qual più, qual meno è gelida o fumante,
altra più torbidetta, altra più chiara,
altra dolce, altra salsa ed altra amara.
La tempra di quell’onde ove fu posta 74
la bella dea con l’idol suo gradito
del fonte insidioso era composta
che congiunse a Salmace Ermafrodito,
e’n sé tenea proprietà nascosta
di rinfiammare il tepido appetito,
oltre l’erbe ch’infuse erano in essa,
dotate pur dela virtute istessa.
V’era il fallo e’l satirio in cui figura 75
oscene forme il fiore e la radice,
la menta che salace è per natura,
l’eruca degli amori irritatrice,
e v’era d’altri semplici mistura,
già di Lampsaco colti ala pendice.
Amor, ma dimmi tu nel bel lavacro
qual fu nudo a veder quel corpo sacro.
Non così belle con le chiome sparse 76
quando ala prima ingiuria il mar soggiacque
ai duci d’Argo vennero a mostrarse
le vezzose Nereidi in mezzo al’acque.
Tal mai non so se la sua stella apparse
qualor dal’ocean più chiara nacque;
pare il bel volto il sol nascente, e pare
il seno l’alba e quella conca il mare.
Simulacro di ninfa, inciso e fatto 77
di qual marmo più terso in pregio saglia,
posto in ricca fontana, o bel ritratto
d’avorio fin, cui nobil fabro intaglia,
somiglia apunto ala bianchezza, al’atto,
senon che’l moto sol la disagguaglia;
e la fan differir dal sasso scolto
l’oro del crin, la porpora del volto.
Al folgorar dele tremanti stelle 78
arser gli umori algenti e cristallini,
ed avampar d’insolite fiammelle
l’umide pietre e i margini vicini.
Vedeansi accese entro le guance belle
dolci fiamme di rose e di rubini
e nel bel sen per entro un mar di latte
tremolando nuotar due poma intatte.
Or qual Fortuna insu la fronte ammassa 79
l’ampio volume dela treccia bionda;
or qual cometa andar parte ne lassa
dopo le terga ad indorar la sponda;
aura talor che la scompiglia e squassa
fa rincresparla ed ondeggiar con l’onda,
onde il crin rugiadoso e sparso al vento
oro parea che distillasse argento.
Parea, battuta da beltà sì cara, 80
disfarsi di piacer l’onda amorosa,
e bramava indurarsi e spesso avara
in sen la si chiudea, quasi gelosa.
Chiudeala, ma qual pro s’era sì chiara
che mal teneala al bell’Adone ascosa?
Però che tralucea nel molle gelo
come suol gemma in vetro o lampa in velo.
O qual gli move al cor lascivo assalto 81
l’atto gentil, mentre si lava e terge!
Or nel’acque s’attuffa, or sorge in alto,
or le vermiglie labra entro v’immerge,
or di quel molle e cristallino smalto
con la man bianca il caro amante asperge,
or il sen sene spruzza ed or la fronte
e fa d’alto piacer piangere il fonte.
Adone anch’egli de’ leggiadri arnesi 82
scinto, e pien di stupore e di diletto,
sotto effigie gelata ha spirti accesi,
agghiacciando di fore, arde nel petto
e mentre ha gli occhi al suo bel foco intesi,
svelle dale radici un sospiretto
così profondo e fervido d’amore
che par che sospirar si voglia il core.
– Ahi qual m’abbaglia (sospirando dice) 83
folgore ardente e candido baleno?
quai vibrar veggio, spettator felice,
fiamme i begli occhi e nevi il bianco seno?
forse del ciel del’acque abitatrice
fatta è quest’alma? o questo è un ciel terreno?
Traslato è in terra il ciel. Venga chi vole
in aquario quaggiù vedere il sole.
Beltà, cred’io, non vide in val di Xanto 84
né d’amoroso foco arse cotanto
quando mirò la malmirata argiva,
qual’io la veggio allettatrice e quanto
sento l’alma stemprarmi in fiamma viva;
fiamma di cui maggior non so se fusse
quella che la sua patria arse e distrusse.
Dimmi, padre Nettun, se ti rimembra 85
quand’ella uscì dele tue salse spume,
di’ se vedesti nele belle membra
tanto splendore accolto e tanto lume.
Dimmi tu, Sol, quella beltà non sembra
oggi maggior del solito costume?
maggior che quando in ciel fosti di lei
invido testimonio agli altri dei.
Fosti men fortunato, Endimione, 86
indegno di mirar quelch’oggi io miro,
quando a te scese dal sovran balcone
la bianca dea del’argentato giro.
Cedimi cedi, o misero Atteone,
ch’io per più degno oggetto ardo e sospiro;
e differente è ben la nostra sorte,
ch’io ne traggo la vita e tu n’hai morte.
O bellezza immortal, perché nel’onde 87
ti lavi tu, se son di te men pure?
l’acque ale macchie tue divengon monde
e fansi belle con le tue brutture.
Deh, poich’a sì soavi e sì seconde
destinato son io gioie e venture,
ch’io ti lavi e t’asciughi ancor consenti
con vivi pianti e con sospiri ardenti.
E, s’è ver che ne’ fonti anco e ne’ fiumi 88
fa che com’Aci in acqua io mi consumi
e com’Alfeo mi liquefaccia e stilli.
Forse raccolto tra’ cerulei numi,
mirando i fondi miei chiari e tranquilli,
fia che nela stagion contraria al ghiaccio
la bella fiamma mia mi guizzi in braccio. –
Così discorre, e’ntanto i freddi umori 89
prendon vigor dal’amorose faci.
Amor gli stringe e stringe i corpi e i cori
con lacci indissolubili e tenaci.
Del nodo che temprò que’ fieri ardori
fè catene le braccia e groppi i baci,
e con la propria benda ai vaghi amanti
forbì le membra gelide e stillanti.
Giunto era il sol del gran viaggio al fine 90
lasciando al suo sparir smarriti i fiori.
Facean scorta ai silenzi ed ale brine
l’ombre volanti e i sonnacchiosi orrori.
Chiudea la notte in bruno velo il crine
mendica de’ suoi soliti splendori,
ché la stella d’amor, d’amore accesa,
in ciel non venne, ad altro ufficio intesa.
Cameretta riposta, ove consperse 91
Amor l’uscier che ne volgea le chiavi.
Tutte incrostate e qual diamante terse
v’ha di fino cristallo e mura e travi,
che con lusso superbo, ov’altri miri,
son specchi agli occhi e mantici ai desiri.
Talamo sparso di vapor sabeo, 92
cortine ha qui di porpora di Tiro.
Quelche per Arianna e per Lieo
d’indiche spoglie le baccanti ordiro,
quelch’a Teti le ninfe ed a Peleo
fabricar di corallo e di zaffiro,
povero fora al paragon del letto
ch’è dale Grazie ai lieti amanti eretto.
Splende il letto real di gemme adorno 93
e colonne ha di cedro e sponde d’oro.
Fanno le coltre al’oriente scorno,
vincono gli origlieri ogni tesoro.
Purpurea tenda gli distende intorno
fregiato un ciel di barbaro lavoro;
biancheggiano fra gli ostri e fra i rubini
morbidi bissi ed odorati lini.
Quattro strani sostegni ha ne’ cantoni 94
su le cui cime il padiglion s’appoggia.
Son fatti a guisa d’arbori a tronconi
d’oro e smeraldo in disusata foggia.
Qui, quasi in verdi e concave prigioni,
stuol d’augellini infra le fronde alloggia,
onde s’alcun talor scote la pianta
ode concerto angelico che canta.
Questo fu il porto che tranquillo accolse 95
la nobil coppia dal dubbioso flutto.
Qui del seme d’amor la messe colse,
qui vendemmiò de’ suoi sospiri il frutto;
qui, tramontando il sol, Vener si tolse
d’Adon più volte il bel possesso intutto;
e qui per uso al tramontar di quello
spuntava agli occhi suoi l’altro più bello.
Daché la queta, oscura, umida madre 96
del silenzio e del sonno i colli adombra,
finché le bende tenebrose ed adre
il raggio mattutin lacera e sgombra,
di quelle membra candide e leggiadre
gode la dea gli abbracciamenti al’ombra,
senza luce curar, senon la cara
luce che le sue tenebre rischiara,
e dal’orto ancor poi fin al’occaso 97
se’l cova in grembo e con le braccia il fascia.
Notte e dì sempr’è seco; e se per caso
di necessario affar talvolta il lascia,
che sia brev’ora senza lei rimaso
sentesi sospirar con tanta ambascia,
ch’aver sembra nel cor la fiamma tutta
che Troia accese e Mongibello erutta.
Quando il rapido sol per dritta verga 98
poggiando a mezzo’l ciel fende le piaggie,
là’ve de’ monti le frondose terga
tesson verde prigion d’ombre selvagge,
per soggiornar dove il suo bene alberga
solitaria sovente il piè ritragge,
e gode o lungo un fiume o sotto un speco
partir l’ore, i pensieri e i detti seco,
e sempre in suo desir costante e salda 99
o siede o giace o scherza il dì con esso.
Concorde al’acque del’ombrosa falda
freme de’ baci il mormorar sommesso,
né raggio d’altro sol la fiede o scalda
che de’ begli occhi in cui si specchia spesso,
né sul meriggio estivo aura cocente
senon sol quella de’ sospir, mai sente.
Vassene poi per questa riva e quella 100
l’orme seguendo del’amate piante,
predatrice di fere ardita e bella,
del caro predator compagna errante,
e l’arco in mano, al fianco le quadrella
porta talor del fortunato amante,
talch’ogni fauno ed ogni dea silvana
gli crede Apollo l’un, l’altra Diana.
Così qualor giovenca giovinetta 101
sen va per campi solitari ed ermi,
tenera sì che calpestar l’erbetta
ancor non sa con piè securi e fermi,
né curva in sfera ancor piena e perfetta
dela fronte lunata i novi germi,
seguela, ovunque va, per la verdura
la torva madre e la circonda e cura.
Fatta gelosa è sì di quel bel volto 102
che teme Amor d’amor non sen’accenda;
teme non Borea in turbine disciolto
dale nubi a rapirlo in terra scenda;
teme non Giove in ricca pioggia accolto
a sì rara bellezza insidie tenda.
Vorria poter celar luci sì belle
ala vista del sole e dele stelle.
Se si rischiara il mondo o se s’imbruna, 103
spieghi, o pieghi la notte il fosco velo,
del’aurora ha sospetto e dela luna,
ch’a lei nol furi e non sel porti in cielo.
Odia come rival l’aura importuna,
gli augelli, i tronchi, i fior l’empion di gelo.
Ha quasi gelosia de’ propri baci,
de’ propri sguardi suoi troppo voraci.
Sotto le curve e spaziose spalle 104
d’un incognito al sol poggio frondoso,
cinto da cupa e solitaria valle,
s’appiatta in cavo sasso antro muscoso.
Raro de’ suoi recessi il chiuso calle
altri tentò che’l Sonno e che’l Riposo.
L’ombre sue sacre, i suoi riposti orrori
e fere reveriscono e pastori.
Questo, l’Arte imitando, avea Natura 105
di rozzi fregi a meraviglia adorno.
L’avea con vaga e rustica pittura
sparso di fronde e fior dentro e dintorno.
Gli fea d’appio e di felce un’ombra oscura
schermo al’ingiurie del cocente giorno.
Difendea l’edra incontr’al sol l’entrata
di cento braccia e cento branche armata.
Qui spesso ricovrar da’ campi aprici 106
la bellissima coppia avea costume,
e’n liet’ozio passar l’ore felici,
secura dal’ardor del maggior lume.
Eran de’ sonni lor l’aure nutrici,
cortinaggi le fronde e l’erbe piume,
secretarie le valli e le montagne,
e l’erme solitudini compagne.
Incontro al biondo arcier che folgoranti 107
dritto dal’arco d’or scoccava i raggi,
scudo faceano ai duo felici amanti
con torte braccia i Briarei selvaggi.
Mossi dal’aure vane e vaneggianti
con alterni sussurri abeti e faggi
pareano dire, e lingua era ogni fronda:
– Più ne nutrisce amor che’l sole e l’onda.–
Or quivi un dì fra gli altri, ecco che stanco 108
tornar di caccia ed anelante il vede.
L’or biondo e crespo, il terso avorio e bianco
tre volte e quattro a rasciugar gli riede.
Gli fa catena dele braccia al fianco,
sel reca in grembo e’n grembo al’erba siede;
e’n vagheggiando lui che l’invaghisce,
pur com’aquila al sol, gli occhi nutrisce.
Tien le luci ale luci amate e fide 109
congiunte, il seno al seno, il viso al viso.
Divora e bee, qualora ei bacia o ride,
con la bocca e con l’occhio il bacio e’l riso.
– Deh chi dagli occhi miei pur ti divide,
o non da’ miei pensier giamai diviso?
qual’altra esser può mai cura che vaglia
a far che del mio duol nulla ti caglia?
Or m’avveggio ben io che d’egual foco, 110
chi creduto l’avria? meco non ardi,
e che formi talor, sicome poco
avezzo a ben amar, vezzi bugiardi,
poiché posposto ala fatica il gioco,
dale tue cacce a me torni sì tardi,
e curi, come suole ogni fanciullo,
più che tutt’altro, un pueril trastullo. –
Così dicendo col bel vel pianpiano 111
gli terge i molli e fervidi sudori,
vive rugiade, onde il bel viso umano
riga i suoi freschi e mattutini fiori.
Poi degli aurei capei di propria mano
coglie le fila e ricompon gli errori
e di lagrime il bagna e mesce intanto,
tra perle di sudor, perle di pianto.
Ed egli a lei: – Deh! questi pianti asciuga, 112
deh! cessa omai queste dogliose note.
Pria seminar di neve, arar di ruga
tu vedrai queste chiome e queste gote,
che mai per altro amor sia posto in fuga
l’amor che dal mio cor fuggir non pote.
Se tu, fiamma mia cara, immortal sei,
immortali saran gl’incendi miei.
Per quella face ond’infiammato io fui 113
giuro, e per quello stral che’l cor m’offende,
giuro per gli occhi e per le chiome, in cui
lo strale indora Amor, la face accende,
ch’Adon fia sempre tuo, né mai d’altrui,
tal è quel sol ch’agli occhi suoi risplende.
S’altro che’l ver ti giuro, o bella mia,
di superbo cinghial preda mi sia.–
Ed ella a lui: – Se tu, ben mio, sapessi 114
quanto sia dolce esser amato amando,
e quant’è duro esperienza avessi
lunge dal’amor suo girsene errando,
di scambievole amor segni più espressi
mi daresti talor meco posando,
e saremmo egualmente amanti amati,
tu contento, io felice, ambo beati.
È ver che nulla il bel pensiero affrena, 115
che sempre al’occhio il caro oggetto appressa.
In alme strette di leal catena
so che per lontananza amor non cessa.
Dividale, se può, libica arena,
oceano profondo, alpe inaccessa:
pur lasciar il suo bene è peggio assai
che desiarlo e non goderlo mai.
Godianci, amianci. Amor d’amor mercede, 116
degno cambio d’amore è solo amore.
Fansi in virtù d’un’amorosa fede
due alme un’alma e son duo cori un core.
Cangia il cor, cangia l’alma albergo e sede,
in altrui vive, in semedesma more.
Abita amor l’abbandonata salma,
e vece vi sostien di core e d’alma.
O dolcezza ineffabile infinita, 117
soave piaga e dilettosa arsura,
dove, quasi fenice incenerita,
ha culla insieme il core e sepoltura;
onde da duo begli occhi alma ferita
muor non morendo e’l suo morir non cura
e, trafitta d’amor, sospira e langue
senza duol, senza ferro e senza sangue.
Così dolce a morir l’anima impara 118
esca fatta al’ardor, segno alo strale,
e sente in fiamma dolcemente amara
per ferita mortal morte immortale.
Morte, ch’al cor salubre, ai sensi cara,
non è morte, anzi è vita, anzi è natale.
Amor che la saetta e che l’incende,
per più farla morir, vita le rende.
Or se risponde il tuo volere al mio 119
e son conformi i miei desiri ai tuoi;
se quanto aggrada a te, tanto bram’io
e quanto piace a me tanto tu vuoi;
s’è diviso in duo petti un sol desio
ed è commune un’anima tra noi;
se ti prendi il mio core e’l tuo mi dai,
perché de’ corpi un corpo anco non fai?
O del’anima mia dolce favilla, 120
o del mio cor dolcissimo martiro,
o dele luci mie luce e pupilla,
o mio vezzo, o mio bacio, o mio sospiro,
volgimi quegli, ond’ogni grazia stilla,
fonti di puro e tremulo zaffiro,
porgimi quella ove m’è dato in sorte
in coppa di rubino a ber la morte.
Que’ begli occhi mi volgi. Occhi vitali, 121
occhi degli occhi miei specchi lucenti,
occhi, faretre ed archi e degli strali
intinti nel piacer fucine ardenti,
occhi del ciel d’amor stelle fatali
e del sol di beltà vivi orienti;
stelle serene, la cui luce bella
può far perpetua ecclisse ala mia stella.
Quella bocca mi porgi. O cara bocca, 122
dela reggia del riso uscio gemmato,
siepe di rose, in cui saetta e scocca
viperetta amorosa arabo fiato,
arca di perle ond’ogni ben trabocca,
cameretta purpurea, antro odorato,
ove rifugge, ove s’asconde Amore
poich’ha rubata un’alma, ucciso un core. –
Tace, ma qual fia stil che di ciascuna 123
paroletta il tenore a pien distingua?
Certo indegna è di lor, senon quell’una
che la forma sì dolce, ogni altra lingua.
Sì parlando e mirando ebra e digiuna
pasce la sete sì, non che l’estingua,
anzi, perché più arda e si consumi,
bacia le dolci labra e i dolci lumi.
Bacia e dopo’l baciar mira e rimira 124
le baciate bellezze or questi, or quella.
Ribacia, e poi sospira e risospira
le gustate dolcezze or egli, or ella.
Vivon due vite in una vita e spira,
confusa in due favelle, una favella.
Giungono i cori insu le labra estreme,
corrono l’alme ad intrecciarsi insieme.
Di note ador ador tronche e fugaci 125
risona l’antro cavernoso e scabro.
– Dimmi o dea (dice l’un) questi tuoi baci
movon così dal cor, come dal labro? –
Risponde l’altra: – Il cor nele mordaci
labra si bacia, amor del bacio è fabro,
il cor lo stilla, il labro poi lo scocca,
il più ne gode l’alma, il men la bocca.
Baci questi non son, ma di concorde 126
Parlan tacendo in lor le lingue ingorde
ed han gran sensi in tal silenzio espressi.
Son del mio cor, che’l tuo baciando morde,
muti accenti i sospiri e i baci istessi.
Rispondonsi tra lor l’anime accese
con voci sol da lor medesme intese.
Favella il bacio e del sospir, del guardo 127
voci anch’essi d’amor, porta le palme,
perch’al centro del cor premendo il dardo
su la cima d’un labro accoppia l’alme.
Che soave ristoro, al foco ond’ardo,
compor le bocche, alleggerir le salme!
Le bocche, che di nettare bramose
han la sete e’l licor, son api e rose.
Quel bel vermiglio che le labra inostra 128
alcun dubbio non ha che sangue sia.
Or se nel sangue sta l’anima nostra,
sicome i saggi pur vogliono che stia,
dunque, qualor baciando entriamo in giostra,
bacia l’anima tua l’anima mia,
e mentre tu ribaci ed io ribacio,
l’alma mia con la tua copula il bacio.
Siede nel sommo del’amate labbia, 129
dove il fior degli spirti è tutto accolto,
come corpo animato in sé pur abbia,
il bacio che del’anima vien tolto.
Quivi non so d’amor qual dolce rabbia
l’uccide, e dove muor resta sepolto;
ma là dove ha sepolcro, ancora poi,
baci divini, il suscitate voi.
Mentre a scontrar si va bocca con bocca, 130
mentre a ferir si van baci con baci,
sì profondo piacer l’anime tocca,
ch’apron l’ali a volar, quasi fugaci;
e di tanta che’n lor dolcezza fiocca
essendo i cori angusti urne incapaci,
versanla per le labra e vanno in esse
anelando a morir l’anime istesse.
Treman gli spirti infra i più vivi ardori 131
quando il bacio a morir l’anima spinge.
Mutan bocca le lingue e petto i cori,
spirto con spirto e cor con cor si stringe.
Palpitan gli occhi e dele guance i fiori
amoroso pallor scolora e tinge;
e morendo talor gli amanti accorti
ritardano il morir, per far due morti.
Da te l’anima tua morendo fugge, 132
io moribonda insu’l baciar la prendo,
e’n quel vital morir che ne distrugge,
mentre la tua mi dai, la mia ti rendo;
e chi mi mira sospirando e sugge,
suggo, sospiro anch’io, miro morendo;
e per morir, quando ti bacio e miro,
vorrei ch’anima fusse ogni sospiro. –
– Fa dunque, anima mia (l’altro le dice) 133
ch’io con vita immortal cangi la morte.
Voli l’anima al ciel, siché felice
sia degli eterni dei fatta consorte.
Fa ch’io viva e ch’io mora, e, se ciò lice,
fa ch’io riviva poi con miglior sorte.
Dolcemente languendo al’istess’ora,
fa che’n bocca io ti viva, in sen ti mora.
Un albergo medesmo in que’ dolci ostri 134
unisca il mio desir col tuo desire.
Le nostr’anime, i cor, gli spirti nostri
vadano insieme a vivere e morire.
Ferito a un punto il feritor si mostri,
pera la feritrice insu’l ferire,
onde, mentre ch’io moro e che tu mori,
ravivi il morir nostro i nostri ardori.
Sostien, diletta mia, ch’a mio diletto 135
senza cessar dale tue labra io penda,
ma col labro vermiglio il bianco petto
avarizia d’amor non mi difenda,
né que’ begli occhi al mio vorace affetto
dispettoso rigor, prego, contenda.
Morendo io vivrò in te, tu in me vivrai,
così ti renderò quanto mi dai.
Se nulla è in noi di nostro e non v’ha loco 136
cosa che possa tua dirsi né mia,
se’l mio cor non è mio molto né poco,
come’l tuo credo ancor, che tuo non sia;
poiché tu sei mia fiamma, io son tuo foco,
e ciò che brama l’un, l’altro desia;
poiché di propria mano amor ha fatto
e fermato tra noi questo contratto,
consenti pur ch’io ti ribaci e dammi 137
ch’io te, come tu me, stringa ed abbracci.
Pungi, ferisci, uccidi e svenir fammi
finché l’anima sudi e’l core agghiacci.
Te l’ardor mio, me la tua fiamma infiammi
e me teco e te meco un laccio allacci.
Perpetuo moto abbian le lingue e doppi
sien dele braccia e dele labra i groppi.
Per mezzo il fior dele tue labra molli 138
Amor, qual augellin vago e vezzoso,
con cento suoi fratei lascivi e folli
vola scherzando e vi tien l’arco ascoso.
Né vuol ch’io le mie fami ivi satolli,
dele dolcezze sue quasi geloso,
ché, tosto ch’io per mitigar l’ardore
ne colgo un bacio, ei mi trafige il core.
Ma qualor da lui scampo e là rifuggo 139
dov’ha più di vermiglio il tuo bel viso,
più dolce ambrosia, o me beato, io suggo
di quella che si gusta in paradiso.
Zefiretto soave, ond’io mi struggo,
sento spirar dele tue rose al riso,
loqual del foco che’l mio cor consuma,
ventilando l’ardor, vie più l’alluma.
No, che baci non son questi ch’io prendo, 140
son dela dolce Arabia aure odorate,
d’una soavità ch’io non intendo,
più che di cinnamomo, imbalsamate.
Son profumi d’Amor ch’ei va traendo
dal’incendio del’alme innamorate.
Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mele han Parnaso, Ibla ed Imetto.
Felice me, che meritar potei 141
quel dolce mai che tanto ben m’ha fatto.
Ma son ben folle ne’ diletti miei,
che bacio e parlo in un medesmo tratto.
È sì grande il piacer, che non vorrei
la mia bocca occupar, fuorché’n quest’atto.
E con la bocca istessa il cor si dole
quando i baci dan luogo ale parole. –
– Ed io (dic’ella) che fruir mi vanto 142
gloria infinita in que’ superni seggi,
non provo colassù diletto tanto,
ch’ala gioia presente si pareggi.
Prendi pur ciò che chiedi, e chiedi quanto
di me ti piace, a tuo piacer mi reggi.
Ecco a picciole scosse a te mio bene
sospirando e tremando il cor sen viene.
Deh nel core, o mio core, omai m’aventa 143
quella lingua d’amor dolce saetta,
e’n cote di rubino aguzzar tenta
la punta ch’a morir dolce m’alletta;
e fa tanto ch’anch’io morir mi senta,
del tuo dolce morir dolce vendetta.
Serpe sembri al ferir, ché ben ascose
stan sovente le serpi infra le rose.
E se, perch’ella è velenosa e schiva, 144
forse imitar la vipera ti spiace,
movila almen, sicome suol lasciva
coda guizzar di rondine fugace.
O pur qual fronda di novella oliva
rincresparla t’insegni Amor sagace.
Vibrala sì, che la tua bocca arciera
emula de’ begli occhi, il cor mi fera. –
– Non sono (egli ripiglia) or non son questi 145
gli occhi, onde dolci al cor strali mi scocchi?
Gli occhi, onde dolce il cor dianzi m’ardesti?
Begli occhi! – e’n questo dir le bacia gli occhi.
– Begli occhi (ella soggiunge) occhi celesti
cagion che di dolcezza il cor trabocchi.
Core, ond’io vivo senza cor, tesoro,
ond’io povera son, vita, ond’io moro. –
Allora il vago: – Anzi tu sol tu sei 146
quel core onde’l mio cor vita riceve.
Cor mio... – Più volea dir, quando colei
la parola in un bacio e’l cor gli beve.
Ella per lui si strugge, egli per lei,
com’a raggio di sol falda di neve.
Suonano i baci e mai dal cavo speco
forse a più dolce suon non rispos’eco.
Fa un groppo allor del’un e l’altro core 147
quel sommo del piacer, fin del desio.
Formano i petti in estasi d’amore
di profondi sospiri un mormorio.
Stillansi l’alme in tepidetto umore,
opprime i sensi un dilettoso oblio.
Tornan fredde le lingue e smorti i volti,
e vacillano i lumi al ciel travolti.
Tramortiscon di gioia ebre e languenti 148
l’anime stanche, al ciel d’amor rapite.
Gl’iterati sospiri, i rotti accenti,
le dolcissime guerre e le ferite,
narrar non so. Fresche aure, onde correnti,
voi che’l miraste e che l’udiste, il dite,
voi secretari de’ felici amori
verdi mirti, alti pini, ombrosi allori.
Ma già fugge la luce e l’ombra riede, 149
e s’accosta a Marocco il sole intanto;
imbrunir d’oriente il ciel si vede,
cangia in fosco la terra il verde manto.
Già cede al grillo la cicala e cede
il rossignuolo ala civetta il canto,
che garrisce le stelle e dice oltraggio
del bel pianeta al fuggitivo raggio.