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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 11

Le BELLEZZE. Per la luce, che circonda l’ombre delle donne belle, s’intende la bellezza, laqual da’ platonici fu detta raggio di Dio. Nella Fama, che seguita la reina Maria de’ Medici e parla delle sue grandezze, si comprende che la loda va sempre dietro alla virtù, e che le azzioni generose ed illustri non restano giamai senza la meritata gloria. In Mercurio, ch’a’ prieghi d’Adone calcolandogli la figura della natività e pronosticandogli la morte, vien confutato da Venere, si dinota quanto sia grande l’umana curiosità di volere intendere le cose future e quanto poco si debba credere alla vanità dell’astrologia giudiciaria.

 

Canto, argomento 11

Bellezze a contemplar d’alme divine

sen poggia al terzo ciel la coppia lieta,

e degli effetti di quel bel pianeta

scopre lo dio facondo alte dottrine.

 

Canto  11

O già del’Arno, or dela Senna onore,                                   1

Maria, piuch’altra invitta e generosa,

donna non già, ma nova dea d’amore,

che vinta col tuo giglio hai la sua rosa

e del gallico Marte il fiero core

domar sapesti e trionfarne sposa,

nate colà su le castalie sponde

prendi queste d’onor novelle fronde.

Queste poche d’onor fronde novelle,                                    2

questi fior di Parnaso e di Permesso

la tua chioma real degna di stelle

non sprezzi, ond’io corona oggi le tesso,

poich’anco il sole, o sol del’altre belle,

ch’è dela tua beltà ritratto espresso,

scorno non ha che fra la luce e l’oro

che gli fregiano il crin, serpa l’alloro.

Che tue lodi garrisca e di te canti                              3

stridula voce, ignobil cetra e vile,

che i tuoi sì chiari e sì famosi vanti

adombri oscuro inchiostro, oscuro stile,

che i pregi tuoi sì spaziosi e tanti

raccolga angusto foglio, alma gentile,

sdegnar non dei, ch’è gloria e non oltraggio

illustrar l’ombre altrui col proprio raggio.

Sai che pur rauco a salutar l’Aurora                          4

infra i cigni canori il corvo sorge;

in picciol onda, in picciol vetro ancora

chiusa del ciel l’immensità si scorge;

suol celeste dea, quando talora

simulacro votivo altri le porge,

ricco di sua bellezza aver a sdegno

rozzo lin, rozzo piombo e rozzo legno.

Tu del’ingegno mio propizia stella                             5

per quest’acqua, ch’io corro, esser ben dei,

poiché i divini amor canto di quella

dela cui stirpe originata sei,

e di volto e di cor benigna e bella

ben la somigli e ti pareggi a lei,

a cui, per farsi a te deltutto eguale,

quanto sol manca è l’onestà reale.

Troppo audace talor tento ben io                              6

cantando alzarmi al tuo celeste foco,

ma le penne al’ardir, l’aure al desio

mancano, e caggio augel tarpato e roco.

Pur se del’opre tue nel cantar mio

il più si tace e quelch’io scrivo è poco,

gran fiamma secondar breve favilla

suole, e fiume talor succede a stilla.

Uscita col canestro era e con l’urna                          7

la condottrice de’ novelli albori,

dal’aureo vaso e dala mano eburna

versando perle e seminando fiori.

Già la caliginosa aria notturna

spogliava l’ombre e rivestia i colori

e precorreano e prediceano il giorno

la stella innanzi e gli augelletti intorno,

quando l’augelle querule e lascive,                            8

il carro dela dea levando in alto,

dal cerchio di quel nume, a cui s’ascrive

l’eloquenza e’l saver, spiccaro il salto;

e’n breve, acceso di fiammelle vive,

vive ma non cocenti, un puro smalto,

quasi di schietto azzurro oltramarino,

ala vista d’Adon si vicino.

Vassi al Ciel di costei, che’l cor ti sface,                            9

 (disse Mercurio allor) dal ciel secondo.

Mira colà dela sua bella face

il dolce e signoril lume fecondo.

O letizia, o delizia, o vita, o pace

universal del’un e l’altro mondo,

come seren, qual non più mai si vide,

dela lampa felice il lampo ride!

Di questa stella, a cui siam presso omai,                               10

la grandezza non è quant’altri crede,

ch’è del globo terren minore assai,

pur tanta in ogni modo esser si vede,

e tanti sparge e sì vivaci rai

che Giove istesso in qualche parte eccede;

ed a lei cede ogni altra luce intorno,

salvo le due che fan la notte e’l giorno,

né di tutto l’essercito stellante,                                  11

i cui splendor col suo bel volto imbruna,

fiammaluminosa arde, tra quante

ferme n’ha il cielo o peregrine, alcuna.

Quinci, quando talor spunta in levante,

piazza intorno si fa, come la luna;

e talvolta adivien che splender suole

in faccia al giorno al paragon del sole.

Qualor gli sguardi aventurosi gira                              12

e spiega insu’l balcon le chiome bionde,

tai di grazia e d’amor faville spira,

tanti di cortesia raggi diffonde,

che può gli occhi invaghir di chi la mira

e la notte fugar, che si nasconde,

dando stupor dal suo lucente albergo

al mio gran zio, che la sostien su’l tergo.

Luce del mondo ed ultima e primiera,                                   13

ella il giorno dischiude, ed ella il serra;

sorge la prima a rischiarar la sera,

tosto che’l carro d’or gira sotterra;

poi, quando tutta la fugace schiera

dele stelle minor nel mar si serra,

riman nel’aria d’ogni luce priva,

sola in vece del sol, finch’egli arriva.

Sempre accompagna il sol, né mai da lui                               14

per brevissimo spazio si disgiunge,

com’ancor fa la mia, sichambodui

non sappiam l’un dal’altro andarne lunge:

siam suoi seguaci, e seco ognun di nui

quasi in un tempo alfin del corso giunge,

terminando dipar con la sua scorta

del gran calle vital la linea torta.

Ben, come veder puoi, di sua sembianza                               15

grande veracemente è la chiarezza,

ma sua virtute e sua fatal possanza

sappi ancor che risponde ala bellezza.

Di piacevol natura ogni altra avanza,

tutta benignità, tutta è dolcezza.

Tu per lei sola apien fatto contento

saprai per prova dir s’adulo o mento.

Egli è ben ver che, se Saturno o Marte                                 16

a lei s’accosta con obliquo aspetto,

le contamina il lume e le comparte

di sua rea qualità qualche difetto.

Ma quando avien che’n elevata parte

lunge da sguardo infausto abbia ricetto,

non si può dir con quanti effetti e quali

fortunati suol far gli altrui natali.

Gli agi del letto, e con diletto e riso                           17

scherzi, giochi, trastulli, ozi promette;

bellezza dona e leggiadria di viso,

ma fa molli le genti e lascivette.

E, se quand’io le son incontro assiso,

meco amica e concorde i rai riflette,

produce in terra con auspici lieti

chiari oratori e celebri poeti.

Se Febo poscia a visitar si move                               18

e’n sito principal la casa tiene,

o viensi a vagheggiar col padre Giove,

de’ suoi tesori prodiga diviene.

Il grembo apieno allarga e laggiù piove

ogni grazia, ogni onore ed ogni bene,

e col favor del’una e l’altra luce

a gran fortune i suoi soggetti adduce. –

Con questo dir per entro il lucidarco                                   19

del cerchio adamantin drizza il sentiero,

ch’al conosciuto carro aprendo il varco,

la diva ammette al suo celeste impero;

loco che, di piacer, di gioia carco,

paradiso del ciel può dirsi invero,

e tanta luce e tanta gloria serra

ch’appo quel cielo ogni altro cielo è terra.

Aurette molli, Zefiri lascivi,                            20

fonti d’argento e nettare sonanti,

di corrente zaffir placidi rivi,

rive smaltate a perle ed a diamanti,

rupi gemmate di smeraldi vivi,

selve d’incenso e balsamo stillanti,

prati sempre di porpora fioriti,

piagge deliziose, antri romiti,

vaghi perterra di grottesche erbose,                          21

di pastini ben culti ampi giardini,

bei padiglioni di viole e rose,

di garofani bianchi e purpurini,

dolci concordie e musiche amorose

di sirene, di cigni e d’augellini,

boschi di folti allori e folti mirti,

tranquilli alberghi di felici spirti,

freschi ninfei di limpidi cristalli,                                  22

puri canali di dorate arene,

siepi di cedri, cespi di coralli,

scogli muscosi e collinette amene,

ombre secrete di solinghe valli

e di verdi teatri opache scene,

tortorelle e colombe innamorate

fanno gioir le region beate.

Havvi riposte e cristalline stanze                                23

di scelti unguenti e d’odorati fumi,

che soglion ricettar belle adunanze

di ninfe no, ma di celesti numi;

altra liete canzoni e liete danze

accorda al’armonia de’ sacri fiumi,

altra nuota in un rio, ch’ha l’onde intatte

di manna e mele e di rugiada e latte.

Sicome suol triangolar cristallo,                                 24

ripercosso talor da raggio averso,

mostrar rosso ed azzurro e verde e giallo

quasi fiorito un bel giardin diverso,

onde chi mira i bei colori, ed hallo

del gran pianeta al lampeggiar converso,

veggendo iride fatto un puro gelo,

non sa se’l sol sia in terra o il vetro in cielo,

così volgendo ai dilettosi oggetti,                               25

novi al suo senso, attonito le ciglia,

entrato il bell’Adon tra que’ ricetti,

non senza alto piacer si meraviglia.

Su’l collo ai volatori amorosetti

l’uccisor d’Argo abbandonò la briglia

e gli lasciò su per la riva fresca

pascer d’ambrosia incorrottibil esca.

Nel dritto mezzo vaneggiava un piano                                   26

cinto di colli e spazioso in giro,

che portava lo sguardo assai lontano,

tutto d’or mattonato e di zaffiro.

Era inun piazza e prato, e quivi in strano

lavor composti a risguardare usciro

vari orticelli di bei fior dipinti,

che di larghi sentieri eran distinti.

Dietro la pesta Adon, sotto la cura                           27

dela sua bella ed amorosa duce,

si mise per la florida pianura,

la cui via dritta inver la costa adduce,

quando rasserenossi oltremisura

quell’emispero di beata luce,

ed ecco un lustro lampeggiar dintorno

che sole a sole aggiunse e giorno a giorno.

A guisa di carbon che si raviva                                 28

di borea ai soffi e doppio vampo acquista,

novo splendor sovra splendore arriva,

che riga l’aria di vermiglia lista.

Quasi ampia sfera il bel chiaror s’apriva,

nel cui centro il garzon ficcò la vista,

e vide entro quel circolo lucente

gran tratta spaziar di lieta gente.

Come augellini, che talor satolli                                 29

a stormo a stormo levansi dal fiume,

quasi congratulanti, ai vicin colli

scoton cantando le bagnate piume;

o come pecchie, che da’ campi molli

rapir le care prede han per costume,

tra’ purpurei fioretti e tra gli azzurri

alternando sen van dolci sussurri,

così menavan tra festivi canti                         30

l’anime fortunate allegra vita,

lucide a meraviglia e folgoranti,

tutte in età di gioventù fiorita.

Vive persone no, paion sembianti

specchiati in bel cristal, che’l vero imita;

ciascuna lor imagine rassembra

vanità ch’abbia corpo ed abbia membra.

Tremolavan per entro i rai sereni                               31

quelle fulgide fiamme a mille a mille

non altrimenti ch’atomi o baleni

soglian per le snebbiate aure tranquille,

o lucciolette, che ne’ prati ameni

con vicende di lampi e di scintille

vibrano, quasi fiaccole animate,

il focil dele piume innargentate.

– Deh per quel dolce ardor (disse il donzello                        32

ala sua dea) che per te dolce m’arse,

dammi ch’io sappia che fulgore è quello

che repentino agli occhi nostri apparse?

e quelle luci, che’n più d’un drappello

vanno per mezzo i raggi erranti e sparse,

dimmi che son, poich’a beltàrara

la chiarezza del ciel più si rischiara? –

– La luce che tu miri è quella istessa                          33

ch’arde ne’ tuoi begli occhi (ella rispose)

specchio di Dio che si vagheggia in essa,

fior dele più perfette e rare cose,

stampa immortal da quel suggello impressa,

dove il Fattor la sua sembianza pose,

proporzion d’ogni mortal fattura,

pregio del mondo e gloria di Natura.

Esca dolce del’occhio e dolce rete                           34

del cor, che dolcemente il fa languire,

vero piacer del’alma, alma quiete

de’ sensi, ultimo fin d’ogni desire,

fonte che solo altrui può trar la sete

e sol render amabile il martire.

S’udito hai nominar giamai bellezza,

qui ne vedi l’essenza e la pienezza.

L’anima nata infra l’eterne forme                              35

ed avezza a quel bel, ch’a sé la chiama,

dela beltà celeste, in terra l’orme

cerca e, ciò che l’alletta e segue e brama

e quando oggetto a’ suoi pensier conforme

trova, vi corre ingordamente e l’ama;

fior, fronde e gemme e stelle e sole ammira,

ma vie più’l sol che’n duo begli occhi gira.

Bellezza è sole e lampo e fiamma e strale,                             36

fere ovarriva e ciò che tocca accende;

sua forza è tanta e sua virtute è tale

ch’innebria sì, ma senza offesa offende.

Nulla senza beltà diletta o vale,

il tutto annoia, ove beltà non splende:

e qual cosa si può fra le create

più bella ritrovar dela beltate?

Perde appo questo, ancorché inun s’accoglia                                   37

quanto il mondo ha di buono, ogni altro bene.

Ogni altro ben ch’a desiare invoglia,

alfin sazia il desio, quando s’ottiene;

sol quel desio, che di beltà germoglia,

cresce in godendo, e vie maggior diviene;

sempre amor novo a novo bel succede,

tanto più cerca, quanto più possiede.

Giogo caro e leggier, leggiera salma,                         38

prigionia grata e tirannia soave.

In qualunqu’altro affar perder la palma

altrui rincresce e l’esser vinto è grave;

a quest’impero sol qual più grand’alma

soggiace, e d’ubbidir sdegno non have.

Non è corsuperbo o sì rubello

che non si pieghi e non s’inchini al bello.

Violenza gentil ch’opprime, affrena,                          39

tira, sforza, rapisce e pur non noce;

tosco vital che nutre ed avelena,

e senza danno al cor passa veloce;

magia del ciel ch’incanta ed incatena,

e non ha mano e non ha lingua o voce;

voce che muta persuade e prega,

man che senza legami annoda e lega.

Un sol guardo cortese, un atto pio                            40

di bella donna mille strazi appaga,

fa subito ogni mal porre in oblio,

lodar l’incendio e benedir la piaga.

Cupido di penar rende il desio

e del proprio dolor l’anima vaga,

ed uom di vita e di conforto privo

è possente a tornar beato e vivo.

Questo è quel lume ch’innamora e piace,                              41

e fa corona al’anime contente.

foco in fiamma, né favilla in face,

stella in ciel, né sole in oriente

arde in sì puro incendio e sì vivace

ch’agguagli il dolce ardor che qui si sente;

sono astratte sostanze e lucidombre,

d’ogn’impaccio terren libere e sgombre.

Son dele donne più famose e belle                            42

tutte raccolte qui l’alme beate,

peroché per fatal legge di stelle

quante giamai ne fieno o ne son state,

quelle che nacquer già millanni e quelle

che nasceran nela futura etate,

son, come qui le vedi, a schiera a schiera

tuttequante devute ala mia sfera.

E se vago sei pur di mirar come                                43

liete sen van per questa piaggia aperta,

e vuoi ch’alcuna io ne disegni a nome,

meco non ti rincresca ascender l’erta.

Quivi, di quante scorgi aurate chiome,

contezza avrai più manifesta e certa,

che meglio apparirà, benché remota,

qualunque fia tra lor degna di nota. –

Ciò detto, ad un poggiuol poggiaro in cima                           44

dele rupi più basse e più vicine.

– Ma qual (seguì Ciprigna) elegger prima

del bel numer degg’io, ch’è senza fine?

O quai più stimerò degne di stima,

le barbare, le greche o le latine,

fra tante le più belle e nobil donne

ch’abbia il ciel destinate a vestir gonne?

Tu vedi ben colei, che tanta luce                               45

fra l’altre tutte di bellezza ha seco.

È la famosa suora di Polluce,

flebil materia al gran poeta cieco.

Vedi Briseida, che’l più forte duce

sdegnoso appartar dal campo greco.

Polisena la segue, e va contenta,

che l’ira ostil col proprio sangue ha spenta.

L’altra, ch’alquanto ha turbatetto il ciglio,                             46

è la vezzosa vedova africana,

del mio ramingo ed agitato figlio

fiamma quasi maggior che la troiana;

tien nela destra il ferro ancor vermiglio,

né la piaga del petto intutto è sana,

e’n tanta gioia pur mostra la vista

d’ira, d’odio, d’amor, d’affanno mista.

Quella, ch’ha in man due serpi, e tanta dopo                         47

lussuria trae di barbaresche spoglie,

e pende nel color del’Etiopo,

ma col suo bruno al’alba il pregio toglie,

e’l nero crine al’uso di Canopo

sotto un diadema a più colori accoglie,

del grand’Antonio amica, è Cleopatra,

che l’ha di sua beltà fatto idolatra.

Danae è colei, che semplicetta accolse                                 48

nel grembo virginal l’oro impudico.

Quella è l’incauta Semele, che volse

mirar in trono il non ben noto amico.

Ecco Europa colà, da cui già tolse

la più nobil provincia il nome antico;

eccoti Leda qui, che si compiacque

del bianco augello, ond’Elena poi nacque.

V’è Dianira, che si duol delusa                                 49

d’aver ucciso l’uccisor d’Anteo.

Havvi Arianna, che l’inganno accusa

del troppo ingrato e perfido Teseo.

Guarda Andromeda poi, che non ricusa

il fido suo liberator Perseo,

ed Ero guarda, che da lido a lido

trasse più volte il nuotator d’Abido.

Vedi una turba di progenie ebrea                              50

tutta in un groppo, che laggiù camina?

in queste sol, che’l fior son di Giudea,

arde di santo amor fiamma divina.

V’ha Rebecca e Rachele e Bersabea,

havvi Susanna, Ester, Dalida e Dina,

e Giuditta è tra lor, la vedovella

feroce e formidabile, ma bella.

Mira il tragico ardor del pria crudele,                                    51

poi ripentito, anzi arrabbiato Erode,

Marianne gentil, che le querele

del fiero amante di quassù non ode.

L’altra, che d’aver tolto al suo fedele

il bel trionfo insuperbisce e gode,

io dico a Tito il buono, è Berenice,

che del gran vincitore è vincitrice.

Or t’addito di belle un altro coro,                             52

non meno accese in amoroso rogo.

La gran donna del Lazio è madre loro,

cui por s’aspetta al’universo il giogo.

Livia d’Augusto è prima infra costoro,

Messalina di Claudio ha l’altro luogo,

senza mill’altre ancor, che ne tralascio

per restringer gran massa in picciol fascio.

Lasciar però non voglio una, che sotto                                  53

la manca poppa insanguinata e guasta

ha di punta mortale il fianco rotto:

Lucrezia, ancorché fama abbia di casta,

non so s’ha, come il corpo, il cor corrotto;

so ch’ala forza altrui poco contrasta,

e so che col pugnal non s’apre il petto,

che gustar pria non voglia il mio diletto.

No no, non già per ira il sen si fiede                          54

ch’abbia, ti so ben dir, contro il tiranno,

per vendicar, sicome il vulgo crede,

con un colpo il suo torto e’l commun danno;

fallo sol per dolor, perché s’avede

pur troppo tardi del suo sciocco inganno,

che n’ha passata per follia d’onore

senza tanto piacer l’età migliore.

Volgiti a Fausta, che di foco infausto                         55

per cagion del figliastro ha il cor tant’arso

che convien che, d’Amor fatto olocausto,

Crispo l’estingua col suo sangue sparso.

Il tempo a dirne tante è troppo essausto,

l’occhio a segnarle tutte è troppo scarso;

lascio l’antica schiera e passo a quella

che dee nobilitar l’età novella.

Tra’ più chiari splendor dele moderne                                   56

vedi scintillar Giulia Gonzaga.

Del’immensa beltà che’n lei si scerne,

potrà far solo il grido incendio e piaga,

ed al fier Soliman le fibre interne

strugger del’alma innamorata e vaga,

onde per adempir gli alti desiri

verrà lo scita a ber l’onde di Liri.

Vedi duo rami del medesmo stelo,                            57

una coppia real di Margherite,

sol per bear la terra elette in cielo,

e far di casto amor dolci ferite.

Quella ch’è prima, e di purpureo velo

le schiette membra e candide ha vestite,

indorerà con luce ardente e chiara

e del secolo il ferro e di Ferrara.

L’altra, che mano a man seco congiunge,                              58

di Lorena felice i poggi onora.

Folgoreggia il bel volto ancor da lunge

e di lume divin tutto s’infiora;

Amor non cura, e pur saetta e punge,

ed altrui non volendo, uccide ancora.

Mira con che ridente aria soave

tempra il rigor del portamento grave.

Ecco d’ogni beltà, per cui beata                               59

fia Novellara, un novo mostro e strano.

Per imagin formar sì ben formata

del gran pittor s’avantaggiò la mano.

D’Amor guerriera e di faville armata

fa piaghe ardenti, onde si fugge invano.

Ogni sua paroletta, ogni suo sguardo

fulmina una facella, aventa un dardo.

Isabella la bella è costei detta,                                  60

che dale prime due non si dilunga.

Disponi il core, o gran Vincenzo, aspetta

ch’un suo raggio per gli occhi al cor ti giunga!

Saprai di qual ardor, di qual saetta

dolcemente mortal riscaldi e punga.

Venga a mirar costei chi non intende

come si possa amar cosa ch’offende.

Che lume è quel, che trae di lampi un nembo?                                  61

che candidombra? e di che rai si veste?

porta nel volto Amor, le Grazie in grembo,

e nulla ha di terren, tutta è celeste;

sì sì, tien scritto nel’aurato lembo,

la Fenice del Po, Giulia da Este.

O del mondo cadente ultima speme,

prole gentil del’onorato seme!

O come la vegg’io folgor divino                                62

tra mille balenar luci lombarde!

Finchuom degno di lei trovi il destino,

scompagnata trarrà l’ore più tarde.

Quasi tra perle lucido rubino

da fin or circoscritto avampa ed arde,

quasi rosa tra’ fior, che’n fresca sponda

ferma il sol, molce l’aura e nutre l’onda.

Ecco del Tebro una pregiata figlia,                            63

onde la gloria Aldobrandina irraggia,

idolo dela terra e meraviglia

di questa lieta e fortunata piaggia.

Volge l’arciere e sagittarie ciglia

bella, né men che bella onesta e saggia;

ride il bel volto e quasi un ciel s’ammira

che le stelle paterne intorno gira.

Altre due ne van seco in una schiera,                        64

che le sembran compagne e son sorelle.

Colei, che più s’accosta ala primiera,

apre al verno maggior rose novelle.

L’altra, incontrando la più chiara sfera,

fa quel del sol ch’ei fa del’altre stelle.

Farà la prima il Taro adorno e lieto,

del’altre due s’arricchirà Sebeto.

Omai Savoia agli onor suoi m’appella,                                  65

e quattro dive a rimirar m’invita:

Caterina e Maria con Isabella,

e la maggior di tutte è Margherita.

Qual Paride, che scelga or la più bella?

qual lingua fia di giudicarle ardita?

Per queste, onde risona e Tile e Battro,

le Grazie, che son tre, diverran quattro.

L’Aurora ti parrà, se quella vedi,                              66

quand’ella il pigro suo vecchio abbandona.

Se questa prendi a risguardar, la credi

la bella e bianca figlia di Latona.

Se del’altra di lor notizia chiedi

e miri lo splendor che l’incorona,

dirai ch’a mezzo giorno, a mezza state

ha minor lume il luminoso frate.

Ma la perla ch’io dico, a cui gran pregi                                 67

l’Indo stupisce e l’oriente ha scorno,

dagli antichi tesor di cento regi

uscita a rischiarar d’Europa il giorno,

quella che dee di preziosi fregi

far del gran figlio mio l’erario adorno,

è tal che mai non ne produsse alcuna

la conca, ove nascendo ebbi la cuna.

Amor dirà che’l paragone è vile,                               68

a cui tanto di questa il candor piacque,

ch’al suo povero sen ne monile,

e nel foco affinolla, e non nel’acque.

Dirà, che questa sua perla gentile

tra l’onde no, ma tra le stelle nacque,

e che’l ciel, perché vince ogni altra stella,

vuolsi, in vece del sole, ornar di quella.

Il più lucido fil del vello aurato,                                 69

per porla in nobil filza, ha Cloto attorto,

e, per legarla, il più fin or pregiato

ha scelto Amor, ch’abbia l’occaso o l’orto.

Ma legge vuol d’irreparabil fato

che’n breve il suo signor rimanga morto;

né, potend’ella distemprarsi in pianto,

piangan sangue per lei Torino e Manto.

Quell’altra, che somiglia altera e sola                        70

l’unica verginella peregrina

qualor le piume ha rinovate e vola

a visitar la region vicina,

Matilda è poi, d’Emanuel figliuola,

ne’ cui begli occhi Amor gli strali affina,

ed a cui diè di sua beltà superna

quanto può dar l’onnipotenza eterna.

Quegli occhi vaghi e di dolcezza ardenti,                               71

per cui fia più del ciel bella la terra,

struggeran, nonché i cor, le nevi algenti

che del’Alpi canute il cerchio serra.

Moveran con tal armi e sì pungenti

contro l’alme ritrose assalto e guerra,

che torran lor nel’amorosa impresa

e l’ingegno e la fuga e la difesa.

Vedi un rivaggio che, del’erba fresca                        72

ripiegando le cime, il prato bagna.

Quivi agli amori Amor istesso adesca

quant’avran mai di bello Italia e Spagna.

Quivi fiorisce ogni beltà donnesca,

ma forz’è, che di dirne io mi rimagna,

ch’al’occhio, che non ben tante n’accoglie,

la lontananza e lo splendor le toglie.

Pur non convien che con silenzio io passi,                             73

quelle che son tra l’Alpi e i Pirenei.

E prima ala mia vista incontro fassi

alma, che co’ suoi lumi abbaglia i miei,

sola degna a cui ceda e’l pomo lassi

ch’ottenni dal pastor de’ boschi idei:

Margherita Valesia, il cui valore

è tesor di virtù, pompa d’onore.

Quest’altra perla, che qual sol fiammeggia,                           74

ragion non è ch’io del mio dir defraude,

benché d’un tal suggetto io ben m’aveggia

con le parole estenuar la laude.

O con qual grazia e maestà passeggia,

come stupido il ciel tutto l’applaude!

tanti spirti reali intorno piove

che par la sfera mia sfera di Giove.

Ma par negli atti si contristi e dolga,                          75

e va turbata e disdegnosa alquanto

che senza morte si rallenti e sciolga

quel nodo, onde strinse imeneo santo,

e ch’altra a un punto le rapisca e tolga

di Gallia il regno e di beltate il vanto,

onde perder inun deggia per quella

e di reina il titolo e di bella.

Più oltre, o che divin volto vegg’io,                           76

il cui grave rigor modera e molce

di benigna letizia un raggio pio

e d’onesto sorriso un lampo dolce.

Ell’è Ciarlotta, ardor del regno mio,

che gli onor di Condé sostiene e folce:

nume degno d’altari e che s’adori

con sacrifici d’anime e di cori.

Dal cielo, ond’esce il gran fanal di Delo,                               77

ala riva ch’è meta a sua fatica,

e da’ pigri trioni, ove di gelo

la Tana il piede incristallito implica,

fin dove sotto il più cocente cielo

ferve di Libia la pianura aprica,

beltà non v’ha che più s’ammiri e pregi,

possente ad infiammar l’alme de’ regi.

Aguzza il guardo pur, se pur da tante                        78

luci esser può che non languisca offeso,

e guarda ch’a quel sol ch’avrai davante

non resti o l’occhio cieco o il core acceso:

vedrai Maria Borbon, dal cui sembiante

il modello del bel Natura ha preso.

Beltà che far potrebbe in forme nove

spuntar le corna e nascer l’ali a Giove.

Questa degli avi suoi degna nipote,                           79

farà di Mompensier più chiari i figli.

Hanno ancor molto a volger queste rote

pria che nasca laggiù chi la somigli:

bella onestà le ’mporpora le gote,

ma confonde ale rose i patri gigli;

fa beato l’inferno il suo bel viso

e pon le pene eterne in paradiso.

Risguarda or quella in umiltà superba                        80

sotto candido vel fronte serena,

quant’aspetto real ritiene e serba!

È la vaga Luigia di Lorena.

Del’angelica vista alquanto acerba

e del bel guardo la licenza affrena,

ma la forza del foco e delo strale

che passa i cori ad affrenar non vale.

Per questa il mio reame il suo legnaggio                                81

non men d’onor che di beltà fiorisce;

vince parlando ogni rigor selvaggio,

le tigri umilia e gli aspidi addolcisce;

stempra gli smalti col benigno raggio,

scalda i ghiacci, apre i marmi, i cor rapisce:

Amor, questi miracoli son tuoi,

che’n virtù de’ begli occhi il tutto puoi.

Mira quell’altra, che con schivi gesti                          82

dal commercio commun sen va lontana;

agli atti gravi, agli andamenti onesti

sfaretrata talor sembra Diana;

ma, per quanto comprendo ai rai celesti,

è la dea Caterina, alma sovrana,

che’n sé romita e dalo stuol divisa

fa di sé sol gioir Gioiosa e Guisa.

Anna obliar di Suesson non deggio,                          83

ornamento e stupor dela mia corte.

Languir per lei d’amor millalme veggio,

e veggio al nascer suo nascer la morte.

O dele glorie mie colonna e seggio,

o maniere leggiadre, o luci accorte!

Dove di quelle luci il sol non giri,

altro ch’ombre non vede occhio che miri.

Fisa la vista, e tra’ più densi rai                                 84

Enrichetta Vandoma intento mira,

e duo d’amor luciferi vedrai,

che’n vece d’occhi la sua fronte gira;

duo giardini di fior non secchi mai

veston le guance, onde dolce aura spira;

ride la bocca, onde puoi ben vederle

in ostel di rubin chiostri di perle.

E che dirò di quella nobil ombra,                              85

in cui tanto di lume Apollo infuse,

che di Safo e Corinna i raggi adombra,

e gloria accresce e numero ale Muse?

Anna Roana, che d’un lauro al’ombra

le suore seco a gareggiar ben use

sfida a cantar con que’ celesti accenti,

che del foco d’amor son sì cocenti.

Tacerò poi fra tante lampe eccelse                            86

quella, onde Roccaforte arde e sfavilla?

Per crear questa luce, il ciel si svelse

del destro lume l’unica pupilla.

S’ancor verde ed acerba Amor la scelse

per arder l’alme, e sol d’ardor nutrilla,

deh! che fia poscia e qual trarranne arsura,

quando ale fiamme sue sarà matura?

Ma dove lascio un altro lume chiaro,                         87

Maria, de’ Mombasoni egregia prole?

Grazia che stia di tanta grazia al paro

non mira in quanto mondo alluma il sole.

Le doti illustri delo spirto raro

raccontar non si lasciano a parole;

dir di lei non si può che non s’onori,

onorar non si può che non s’adori.

Incomposta bellezza e semplicetta                            88

parte si scopre in lei, parte si chiude;

ignudo Amor nel vago viso alletta,

le Grazie nel bel sen scherzano ignude;

cortese orgoglio e maestà negletta,

maniere insieme e mansuete e crude,

gravità dolce e gentilezza onesta

bella la fan, ma’n sua beltà modesta.

A queste glorie aggiungi, a queste lodi,                                  89

i pregi del magnanimo marito,

io dico Carlo, che con saldi nodi

d’amor santo e pudico è seco unito,

e l’un fassi del’altro in dolci modi

di scambievole onor fregio gradito

con quel lume reciproco fra loro

ch’oro a gemma raddoppia e gemma ad oro.

O del Rodano altero inclito figlio,                              90

per cui di gloria il Gallo impenna l’ali,

signor degno di scettro, il cui consiglio

volge la chiave de’ pensier reali,

il cui sommo valor farà dal giglio

sovente pullular palme immortali,

dritto fia ben che d’ogni gioia colmo

stringabella vite un sì degnolmo. –

E qui Venere tace, indi gli addita                               91

in disparte un drappel di donne elette,

e fra lor, come capo, è reverita

una, che trae per man tre pargolette.

Tien composta negli atti, a brun vestita

le bionde trecce in fosco vel ristrette,

e diadema reale ha su la chioma

di tre gigli fregiato e di sei poma.

Son le fanciulle ala beltà materna                              92

e nel volto e nel gesto assai sembianti,

e’n fronte ala maggior par si discerna

cerchio di gemme illustri e scintillanti,

sì che d’Apollo la corona eterna

tempestata non è di raggi tanti,

onde nel tutto a lei si rassomiglia,

di sì gran genitrice emula figlia.

Tal dove l’ombre trionfali spande                              93

la pianta amica a Giove e cara al sole,

sotto il suo tronco verdeggiante e grande

tenera sorge e giovinetta prole.

Tal rosa ancor non atta ale ghirlande,

non aperta e non chiusa in orto suole,

spiegando al’aura i suoi novelli onori,

dala madre imparar come s’infiori.

Parve fra le più degne e più leggiadre                                    94

questa ad Adon la più leggiadra e degna,

onde rivolto ala benigna madre

del picciol dio, che nel suo petto regna,

– Chi è colei, che fra sì belle squadre

 (disse) d’ogni beltà porta l’insegna?

colei, che’n vista affabilmente altera

guida l’illustre ed onorata schiera?

Ben reina mi par dele reine,                          95

cotanta in lei d’onor luce risplende.

Ed ha tre fanciullette a sé vicine,

in cui l’effigie sua ben si comprende,

e, coronata d’or l’oro del crine,

vassene avolta in tenebrose bende,

e sotto oscuro manto e bruno velo

può d’ogni lume impoverire il cielo. –

Adone (ella risponde) i’ ben vorrei                        96

spegner la sete al bel desir, che mostri,

ma scarsi sono a favellar di lei,

nonché gli accenti, i più facondi inchiostri;

non han luce più chiara i regni miei,

non vedran più bel sol mai gli occhi vostri;

con voce di diamante e stil di foco

cento lingue d’acciar ne dirian poco.

Altre volte soviemmi aver narrato                             97

gual d’eccellenze in lei cumul si serra.

O quante palme, o quanti allori il fato

nela futura età le serba in terra!

Ma di quanti travagli il mondo armato,

per maggior gloria sua, le farà guerra!

Che non può l’alta grafia e’l buon consiglio

e del provido ingegno e del bel ciglio?

Ma di sue lodi, a cui di par non m’ergo,                                98

dar ti potrà colei miglior novelle;

dico colei, che tu le vedi a tergo

tra’l fido stuol dele seguaci ancelle.

Fama s’appella e tien sublime albergo

nel’ultimo ciel sovra le stelle,

dove sorge, fondata immobilmente

di diamante immortal, torre eminente.

Olimpo, a Giove ingiurioso monte,                            99

Atlante, dele stelle alto sostegno,

Pelia, ch’altrui fu scala, Ossa, che ponte

per assalir questo superno regno,

l’Elmo, il Libano, il Tauro, o qual la fronte

erge a più eccelso inaccessibil segno,

fora a questa d’altezza ancor secondo,

che passa il ciel, che signoreggia il mondo.

Entrate innumerabili ha la rocca,                               100

e’l tetto e’l muro in molte parti rotto,

di bronzo usci e balconi, e non gli tocca,

che gran romor non faccia, aura di motto;

tosto ch’esce il parlar fuor d’una bocca,

a lei per queste vie passa introdotto,

e forma quivi un indistinto suono,

come suol di lontan tempesta o tuono.

Quivi la pose il gran rettor de’ cieli,                           101

quasi guardia fedel, cauta custode,

perché ciò che si fa scopra e riveli,

nunzia di quanto mira e di quant’ode.

Cosa occulta non è, ch’a lei si celi

e conforme al’opre o biasmo o lode.

Se si move aura in ramo, in ramo fronda,

esser non può che da costei s’asconda.

Del’umane memorie ombra seguace,                        102

sempre avisa, riporta e parte e riede,

riposa giamai, né giamai tace,

e più, quanto più cresce, acquista fede.

Garrulo nume e spirito loquace,

vita de’ nomi e di sestessa erede,

possente ad eternar gli eroi pregiati

e far presenti i secoli passati.

Generolla la terra, e cogiganti                                 103

nacque in un parto orribili e feroci;

dea, che quant’occhi intorno ha vigilanti,

tanti ha vanni al volar presti e veloci,

e quante penne ha volatrici e quanti

lumi, tante anco ha lingue e tant’ha voci,

e tante bocche e tante orecchie, ond’ella

tutto spia, tutto sa, tutto favella.

Picciola sorge e debile da prima,                              104

poi s’avanza volando e forza prende;

passa l’aria e la terra e su la cima

poggia de’ tetti e fra le nubi ascende;

e per vari idiomi in ogni clima

pari al guardo ed al volo il grido stende,

di ciò ch’altri mai fa, di ciò che dice

o di buono o di reo publicatrice.

Questa, che deve a tutti quattro i venti                                  105

far poi la gloria sua chiara e sollenne,

sodisfaratti in più diffusi accenti. –

Così detto, chiamolla, ed ella venne.

Battea per le serene aure ridenti

con moto infaticabile le penne;

l’occhiuto augel rassomigliava al’ali,

che di varie fiorian gemme immortali.

Di tersa luce e folgorante acceso                              106

brando, a’ cui lampi il sol perdea di molto,

stringea nel’una man, l’altra sospeso

reggea dal busto essangue un capo sciolto:

per la squallida chioma avinto e preso,

fosco nel ciglio e pallido nel volto,

spirava nebbia; e seppe Adon che questa

del’Oblio smemorato era la testa.

La sollecita dea, cui del desio                                   107

del bellissimo Adon nulla è nascosto,

e che, quando l’alato e cieco dio

il congiunse ala madre, il seppe tosto,

ben di lontan la sua dimanda udio

e quanto Citerea gli avea risposto,

ond’una allor dele sue cento lingue

sciogliendo, il ragionar così distingue:

Volgi, o mortale, ove quel sol lampeggia                            108

di bellezze e di grazie unico e solo,

gli occhi felici, e la beltà vagheggia

ch’alza i più pigri ingegni a nobil volo.

Dico quel sol per cui dolce fiammeggia

la terra, il cielo e l’un e l’altro polo;

quel vivo sole, ala cui chiara lampa

Senna senno non ha, se non avampa.

Questa è l’eccelsa e gloriosa donna,                         109

ch’accoppia a regio scettro animo regio,

gran reina de’ Galli e dela gonna

e del sesso imperfetto eterno pregio,

del’inferma virtù stabil colonna,

del’età ruginosa unico pregio,

essempio di beltà, nido d’amore,

specchio di castità, fonte d’onore.

Dal gran centro del ciel lunga catena                         110

di bel diamante innanellata pende;

con questa Amor, che l’universo affrena,

annoda altrui soavemente e prende;

per questa l’uom dala beltà terrena

d’un grado in altro ala celeste ascende,

e di questa quel bel, che’n lei s’ammira,

un’arno è d’or, che qui l’anime tira.

Quest’amo ascose infra’ suoi strali Amore                            111

in quel divino e maestoso aspetto,

in cui di due bellezze un doppio ardore

abbaglia ogni pensier, scalda ogni affetto.

L’una di nobil fiamma accende il core,

l’altra è degli occhi un reverito oggetto;

e quel gemino bel sì ben si mesce,

che qual foco per foco incendio cresce.

L’una il cupido senso alletta in guisa                          112

con vivi lampi di serena luce,

ch’empie d’alto piacer chi’n lei s’affisa,

se ben casti desir sempre produce.

L’altra dal carcer suo l’alma divisa

di raggio in raggio al sommo sol conduce,

mostrandole laggiù sotto uman velo

quella beltà, che si contempla in cielo.

Ben tu per questa scala ancor le piume                                 113

del tuo basso intelletto alzar potrai,

e nelo specchio del creato lume

del’increato investigar i rai,

e del corporeo e natural costume

l’impura qualità vinta d’assai,

di quel bel ciglio ala beata sfera

tornar d’umil farfalla aquila altera.

Laggiù nel mondo a soggiornar ben tardi                               114

verrà, ma carca di caduca salma.

E benché la gentil, per cui tu ardi,

possegga di beltà la prima palma,

nobili però non son que’ dardi,

con pace sua, che ti saettan l’alma.

L’una è lasciva dea, l’altra pudica,

l’una madre d’Amor, l’altra nemica.

E ti so dir ch’alfin, poich’avrà molto                          115

vestite in terra le terrene spoglie,

quando il nodo vital le sarà sciolto

dala falce crudel, che’l tutto scioglie,

lo suo spirto real fia qui raccolto

in questo istesso ciel, dov’or s’accoglie,

e, com’è legge di destino eterno,

s’usurperà di Venere il governo.

A lei di questo giro il grave pondo                            116

dal sovrano motor sarà commesso,

e d’influir laggiù nel vostro mondo

quanto influisce il suo bel nume istesso;

e ben contenta del’onor secondo

bramerà la tua dea di starle appresso,

né ben possente ad emularla apieno,

una dele sue Grazie essere almeno.

Potrebbon forse per cessar le gare                           117

dele vicende lor partir le cure:

quella le notti addur serene e chiare,

questa portar le torbide ed oscure.

Crederò ben che per invidia amare

tai cose ed a soffrir le saran dure,

ma perché’l corso del’eterne rote

porta questo tenore, altro non pote.

Senno farà, se volentier le cede                                118

e porta in pace il vergognoso oltraggio,

poiché pur di sua stirpe è degna erede

e di sua luce un segnalato raggio.

Sai ben di qual origine procede

del famoso Quirin l’alto legnaggio;

sai che d’ogni suo ramo è ceppo Enea,

che fu figliuol dela medesma dea.

Tu dei dunque saver ch’a nascer hanno                                119

del buon sangue troian l’alme latine,

onde il Tebro ornerà dopo qualch’anno

prosapia di propagini divine.

Quindi gli Anici e i Pier Leon verranno,

poi d’Austria i regi, indi d’Etruria alfine

a dilatar nel secolo più fosco

il romano splendor, l’austriaco e’l tosco.

Veggio del’Austro l’onorata pianta                           120

fatti partorir germi felici,

che nel’arbor del’or non fu mai tanta

ricca copia di rami e di radici.

Ma tra’ primi virgulti, onde si vanta,

quel ch’avrà più d’ogni altro i cieli amici

sarà Filippo, onor di sua famiglia,

dico colui che reggerà Castiglia.

Seguirà Carlo, al fortunato impero                            121

promosso poi con titolo di Quinto,

che di trionfi laureati altero

e d’illustri trofei fregiato e cinto,

poiché, partito dal paterno Ibero,

avrà l’Africa corsa e’l mondo vinto,

romito abitator d’ermi ricetti,

deporrà’l fascio de’ terreni affetti.

Sottentrerà l’altro Filippo al peso,                             122

quasi d’un novo Atlante un novo Alcide:

re tanto a pace ed a virtute inteso

giamai da polo a polo il sol non vide.

Questi, lo scettro in Lusitania steso,

cotanto il fato a’ bei pensieri arride,

in regione ancor non nota o vista

di dal mondo un altro mondo acquista.

Caterina vien poi con Isabella,                                  123

qui le vedi ambedue starsene in gioia.

Questa va Belgia a far beata, e quella

di sue bellezze ad abbellir Savoia.

Ecco il terzo Filippo: o degna, o bella

progenie del guerrier ch’uscì di Troia!

Spagna, costui con l’armi e col consiglio

ti fia principe e padre e padre e figlio!

Non fia clima remoto, estrema zona,                         124

dove lo scettro suo l’ombra non stenda,

ma l’ampia monarchia dela corona

è la luce minor che’n lui risplenda.

Quelche sovramortal gloria gli dona,

è quella coppia amabile e tremenda;

pietà che con giustizia insieme alberga:

o di tronco bennato inclita verga!

O come a propagar di stelo in stelo                          125

viensi la sterpe del gran rege ispano!

ecco novo Filippo innanzi’l pelo

già di novo spavento empie Ottomano.

Destina a lui quell’angeletta il cielo,

che la donna real si tìen per mano;

io dico dele tre la meno acerba,

quella ch’ha la corona, a lui si serba.

Ma del regio troncon che si dirama,                          126

il secondo germoglio ecco discerno.

Fernando il buon, la cui temuta fama

fia del Turco crudel terrore eterno.

E, perché fuorché’l giusto, altro non brama,

sempre rivolto a’ rai del sol superno,

spiegherà nel vessillo altero e bello

del sommo Giove lo scudiero augello.

Lascio Massimo poi, trapasso Ernesto                                 127

e Ridolfo e Mattia, del gran cultore

di quel più ch’altro aventuroso innesto

successori al’impero ed al valore;

e taccio Alberto, ilqual non fia di questo,

quantunque ultimo d’anni, ultimo onore,

ch’al’indomito Ren quel giogo grave,

che sì duro gli fu, farà soave.

L’altra è Giovanna, e ben scorger la puoi                              128

dolci balli menar per questi campi,

lieta, ch’al ciel per lei di tanti eroi

s’aggiunga un sol che più del sole avampi.

Stupisce l’Istro, e de’ cristalli suoi

stemprar sente lo smalto a sì bei lampi,

mentre, passando in braccio al gran Francesco,

con l’italico ciel cangia il tedesco.

E così fia ch’un stretto groppo incalme                                 129

d’Austria e d’Etruria ambe le piante insieme:

Etruria, a cui non già men nobilalme

de’ gran Medici ancor promette il seme,

che, per tante ch’aduna e spoglie e palme,

fin di Bisanzio il fier soldan ne teme.

Ma quand’ogni altro pur venga mancando,

basta a supplir per tutti un sol Fernando.

Questi non pur con ben armati legni                          130

tremar fa in guerra i più lontani mari,

di Corinto e di Ponto i lidi e i regni

purgando ognor di barbari corsari,

ma in pace ancor de’ più famosi ingegni,

e di cigni nutrisce incliti e chiari

schiere felici, onde per lui diviene

l’Arno Meandro e la Toscana Atene.

Cosmo di Cosmo anch’ei degno nipote                                131

lascerà dopo lui memorie illustri,

e le genti rubelle e le devote

domerà, reggerà per molti lustri.

L’oro fial men dela sua ricca dote,

quando con degne nozze Europa illustri,

copulando l’Esperie, e novi onori

traendo d’Austro ala città de’ fiori.

Mira colei, ch’alluma e rasserena                              132

tutto di questo ciel l’ampio orizzonte:

quella fia sua consorte, e Madalena,

leggilo, in lettre d’oro ha scritto in fronte;

del gran fiume german limpida vena

pur scaturita dal’austriaco fonte;

rosa giamai non vagheggiò l’Aurora

più modesta o più bella in grembo a Flora.

Lunga istoria sarebbe, o bell’Adone,                        133

dela schiatta ch’io dico a contar gli avi.

Giulio, Clemente, Ippolito, Leone

e i lor sommi maneggi e i pesi gravi;

ostri, mitre, diademi, elmi, corone,

e stocchi e scettri e pastorali e chiavi,

e la linea non mai rotta dagli anni

de’ Lorenzi, de’ Pieri e de’ Giovanni.

Ma sovra questi e sovr’ogni altro frutto                                134

che sì nobil giamai ceppo produca,

un rampollo gentil sarà produtto,

in cui tanto valor fia che riluca,

ch’alo splendor del suo legnaggio tutto

par che tenebre e lume a un punto adduca,

sicome sol ch’illumina le stelle,

ma, sorgendo tra lor, le fa men belle.

Ve’ quel cerchio lucente, ove raccolte                                  135

quasi in aureo epiciclo, altr’ombre stanno;

quivi in gran nebbia di splendore involte

le miglior di sua stirpe insieme vanno

e foltissimo stuol di molte e molte

stelle terrene e dee dietro si tranno;

ma di tutte è colei, che le conduce,

la lumiera maggior, l’unica luce.

Quella che seco parla e che s’asside                         136

sovra la rugiadosa erba vicina,

e d’esser del bel numero sorride,

pur con regio diadema, è Caterina;

e rintuzzar saprà l’armi omicide,

ch’han col tempo a sbranar Gallia meschina,

e saprà del gran corpo in sé diviso

saldar le piaghe, onde fia quasi ucciso.

Congiungerassi in nobil giogo e degno                                  137

l’una al secondo e l’altra al quarto Enrico.

Non si turbi però, né prenda a sdegno

di restar vinta da costei, ch’io dico,

e di ceder a lei non pur del regno

lo scettro sol, ma d’ogni pregio antico;

non pur dela real gloria e grandezza,

ma la corona ancor dela bellezza.

Del’istessa brigata eccoten’una,                                138

che come singolar fra l’altre io sceglio,

che l’Arno e’l Mincio illustra e’n sé raguna

del fior d’ogni beltà la cima e’l meglio,

gemma d’Amore e, senza menda alcuna,

di grazia e di virtù limpido speglio:

Leonora, ch’onora ogni alto stile,

e desta amore in ogni cor gentile.

Un’altra Caterina ha in compagnia,                           139

che, come il volto, ha l’abito vermiglio;

quella e questa delpar sposata fia

del sangue d’Ocno a genitore e figlio.

Ma vedi come ala gran suora e zia

reverenti ambedue volgono il ciglio,

dico a costei, che senza spada o lancia

ha sol con gli occhi a trionfar di Francia.

Dal mare il nome avrà, di cui fu prole                                    140

l’istessa dea, ch’ha del tuo core il freno;

e com’è di bellezza un chiaro sole,

così fia un mar di mille grazie pieno;

raccorrà in sé quanto raccoglier suole

di ricco il mare e di pregiato in seno;

anzi al mar darà perle il suo bel riso,

oro il bel crine e porpora il bel viso.

In questo sol dal mar fia differente:                            141

ricetta ei scogli e mostri, ira e furore,

ma costei sosterrà scettro innocente,

pien di clemenza e privo di rigore;

in lei duo vivi soli hanno oriente,

nel mare il sol tramonta e’l giorno more;

agli assalti de’ venti il mare soggiace,

l’animo suo tranquillo ha sempre pace.

Non fia giamai fra le più degne e conte,                                142

dovunque il volo mio stenda i suoi tratti,

altra che la pareggi o la sormonte

in leggiadre fattezze o in chiari fatti.

Prudenza in grembo e pudicizia in fronte,

senno ne’ detti e maestà negli atti

nova Aspasia la fan, nova Mammea,

anzi, degna del ciel, novella Astrea.

Fien magnanime imprese, opre virili                          143

del suo nobil pensier le cure prime:

al’ago, al’aspo, a’ rozzi studi e vili

non piegherà giamai l’alma sublime;

ma dale basse valli erger gli umili,

i superbi abbassar dal’alte cime,

maneggiar scettri e dispensar tesori,

questi fien di sua man degni lavori.

Uopo che molle amomo unga il bel crine                               144

o che barbaro nastro unqua lo stringa

non avrà già, che gli ori e l’ambre fine

fia che col suo biondor d’invidia tinga;

non dela guancia l’animate brine

artefice color fia che dipinga

altro che quel color di fiamme e rose

che Beltà sol con Onestà vi pose.

Non in terso cristallo avrà costume                           145

de’ begli occhi arrotar lo stral pungente,

ma le fia solo il chiaro antico lume

del suo sangue real specchio lucente;

sangue real che, quasi altero fiume,

di grandezza immortal colmo e possente,

verrà dal fonte di sì ricche vene

le belle a fecondar galliche arene.

Tenteran Morte rea, Fortuna avara,                          146

ambe d’Amor nemiche e di Natura,

di quest’inclito sol la luce chiara

con benda vedovil render oscura;

ma nel manto funesto assai più cara

fia de’ begli occhi suoi la dolce arsura

e, come fiamma di notturna sfera,

scoprirà doppio lume in spoglia nera.

Barbara man con sacrilegio infame,                           147

ferro crudel con perfida ferita

del’Alcide di Gallia il regio stame

troncando, ahi stolta in ciò vie più ch’ardita!

oserà di spezzar l’aureo legame

dela più degna e gloriosa vita.

Così talvolta avien che chi di spada

cader non può, di tradimento cada.

Ma come a questa Venere novella,                           148

quando il velo mortal squarcerà Morte,

per esser più del’altra onesta e bella,

il terzo cielo è destinato in sorte,

così costui, che la guerriera stella

vincerà di valor, Marte più forte,

del suo giorno vitale a sera giunto,

fia del quintorbe al gran dominio assunto.

Ahi! qual allor, qual esser deve e quanto,                              149

o Muse, il vostro affanno, il vostro lutto?

Dritto è che resti, abbandonando il canto,

da’ sospir vostri il sacro fonte asciutto;

dritto è che torni poi col largo pianto

de’ vostri lumi a ricolmarsi tutto:

degno n’è il caso; e se mortai non siete,

esser almen passibili devete.

Ma che fia di costei, veduto estinto                           150

sotto un colpo fellon l’Ercol novello?

e di sangue real bagnato e tinto

chiudere il corpo augusto angusto avello?

languirà, piangerà, né però vinto

fial decoro dal duolo o il duol men bello;

men bello il duol non fia nel suo bel viso,

che’l festivo seren del dolce riso.

Né, seben sola e sconsolata resta                             151

dopo l’orrendo e scelerato scempio,

vedova lagrimosa in bruna vesta

cede il fren del discorso al dolor empio;

anzi, qual buon nocchiero in ria tempesta,

di bontà sole e di giustizia essempio,

mar di prudenza e di fortezza scoglio,

degli scogli e del mar rompe l’orgoglio;

e, del vero sembiante essendo priva,                         152

benché l’abbia nel cor, del gran marito,

procura pur, se non l’effigie viva,

d’averne almeno un idolo mentito.

Quindi venir dala toscana riva

per man d’altro Lisippo a sé scolpito

fa di pesante e concavo metallo

il colosso real su’l gran cavallo.

Fonder di bronzo omai più non bisogna                                153

canne tonanti o fulmini guerrieri,

anzi convien che stempri il gran Bologna

quanti tormenti ha Marte orridi e fieri.

Tempo è ch’abbiano a far scorno e vergogna

le statue illustri e i simulacri alteri

ai crudi ordigni, agli organi da guerra,

poiché mercé d’Enrico è pace in terra.

Ed io, quando per lui bombarde ed armi                               154

in aratri e’n trofei vedrò cangiate,

poiché fien tutti i bronzi e tutti i marmi

rosi dal dente del’ingorda etate,

per eternar con gloriosi carmi

del magnanimo re l’opre onorate,

non già d’altra materia o d’altre tempre

le trombe mie vofabricar per sempre.

Ma strano caso avien, mentre per l’onde                              155

l’edificio mirabile camina,

però che tra le cupe acque profonde

l’assorbe la voragine marina,

Ciprigna istessa, che nel mar s’asconde

e dal mar nacque ed è del mar reina,

credendol Marte, in quel passaggio il prende

per abbracciarlo, alfin delusa il rende.

Dal divino scultor veggio animato                              156

l’alto destrier, che sembra un picciol monte;

veggiol, quasi da Pallade intagliato,

far con la vasta imago ombra al gran ponte,

e, mentre quivi in cotal atto armato

semedesmo a mirar china la fronte,

l’istesso eroe, del ciel fatto guerriero,

non sa dal finto suo scegliere il vero.

Ella, che del’artefice, ch’avanza                                157

natura istessa, il gran prodigio ammira,

sente dal’insensibile sembianza

uscir vive faville, onde sospira,

e, temprando il martir con la membranza,

dala scultura, che si move e spira,

pende immobile e tace, e così intanto

inganna gli occhi e disacerba il pianto.

Ma come quella a cui non d’altro cale                                  158

che’n vera pace assecurar Parigi,

per riunirsi ala corona australe

stringe con esso lei la fiordiligi.

Figlia del gran monarca occidentale

l’alta sposa sarà del buon Luigi:

Anna, che ne’ verdanni ed immaturi

fia ch’agli anni rapaci il nome furi.

S’io dicessi che’n bocca ha l’oriente,                                    159

ch’april di puri gigli il sen le’nfiora,

ch’ella porta negli occhi il sol nascente

e nele guance la vermiglia aurora,

poco direi, seben veracemente

quanto dir ne saprei, mentir non fora;

ma’l più s’asconde e’l men che’n lei s’apprezza

è la terrena esterior bellezza.

Vedila , che per solinghe strade                              160

spoglia il prato de’ fregi, ond’è vestito

e, per crescer bellezza ala beltade,

intrecciando ne va serto fiorito.

Dal’Ibero, ove’l sol tramonta e cade,

nascerà l’altro sol, ch’or io t’addito:

vedi, che del crin biondo il bel tesoro,

come il fiume paterno, ha l’onde d’oro.

O face di beltà gemina e doppia,                              161

a cui tante il destin glorie predice,

dove Amor con nobil laccio accoppia

d’Iberia e Gallia il sole e la fenice!

Leggiadra, augusta, aventurata coppia,

nasca da voi succession felice,

che con sempre fecondo ordin d’eroi

susciti in terra il prisco onor de’ tuoi!

Esca fien queste nozze, onde pugnaci                                   162

verrà poi Marte ad eccitar faville,

siché d’Amore e d’Imeneo le faci

fiamme saran di saccheggiate ville.

Dal letto al campo andrassi e’l suon de’ baci

turbato fia da mille trombe e mille.

Ragionarti di ciò parmi soverchio,

che già mostro ti fu nel’altro cerchio.

Altri accidenti ancor volger si denno                         163

pria che, cresciuto il pargoletto giglio,

ella deponga, e deporrallo a un cenno,

lo scettro franco e ceda il trono al figlio

e, la costanza accompagnando al senno,

dimostri animo invitto e lieto ciglio;

costanza tal che si può far ritratto

d’ogni altra sua virtù sol da quest’atto.

Or di qual più bel lauro ornar le chiome?                              164

di qual fregio miglior vergar le carte

speran gl’illustri spirti? o quale al nome

trar maggior luce altronde o gloria al’arte?

Ma che? forano lor troppo gran some

a segnarne pur l’ombra, a dirne parte,

ancorché dale dee del verde monte

tutto in lei si versasse il sacro fonte.

Sembra penna mortal, ch’osi talora                           165

ritrar de’ suoi splendor gli abissi immensi;

pennel che bella imagine colora,

ma non le però spirti, né sensi.

Onde se non l’essalta e non l’onora

il mio roco parlar quanto conviensi,

scusimi il sol de’ begli occhi sereno,

che quanto splende più, si vede meno.

Sveller però per celebrarla io voglio                          166

dale mie piume i più spediti vanni,

con cui più d’uno stile in più d’un foglio

farà scrivendo a Morte illustri inganni

e con quell’armi, ond’io trionfar soglio,

torrà l’ira al’oblio, la forza agli anni;

fra’ quali un ne verrà, ch’austro e boote

risonar ne farà con chiare note.

Dal mare ancor costui fia che s’appelli,                                 167

per in parte adeguar l’alto suggetto,

ma presso al mar d’onorgrandi e belli

fra picciol fiume il suo rozzo intelletto.

Pur come, benché poveri, i ruscelli

corrono al mare ed han dal mar ricetto,

così sprezzato ancor non fial suo stile,

di marvasto tributario umile.

O fortunato, o ben felice ingegno,                             168

destinato a cantar divini amori,

sì dal ciel favorito e fatto degno

di tanti e tanto invidiati onori!

Tu sarai di quel nome alto sostegno,

che fia ricca mercede a’ tuoi sudori,

di cui fia che risoni e Sona e Senna,

ornamento immortal dela tua penna.

Io, quanto a me, non poserò volando,                                  169

benché sia’l mondo a tanta gloria angusto,

finché le lodi sue non spiego e spando

dal’Atlante nevoso al’Indo adusto.

E con bisbiglio armonico essaltando

in petto feminil pensiero augusto,

sebene il falso al ver mescer mi piace,

sarò, lodando lei, sempre verace.

E giuro ancor di quest’aurata tromba                        170

il sonoro metallo enfiarforte

ch’a quell’alto romor che ne rimbomba

l’ali al Tempo cadran, l’armi ala Morte.

vietar potrà mai letargo o tomba,

perfida invidia, ingiuriosa sorte,

che dovunque virtù la scorge e chiama

non la segua per tutto anco la Fama. –

Così parlò, poi fuggitive e preste                               171

le penne dispiegò l’alata dea,

e’l cavo bronzo accompagnando a queste

voci, gli atri del ciel fremer facea,

e da più d’un vicino antro celeste

più d’un eco immortal le rispondea.

Allor l’Eternità quant’ella disse

col suo scarpello in bel diamante scrisse.

La vista intanto inusitata e strana                               172

di quelle vaghe e peregrine larve,

che, qual si fusse, o sussistente o vana,

basta che grata e dilettosa apparve,

divenuta o più chiara o più lontana,

non so dir come, in un momento sparve:

parve pesce fugace in cupo fiume;

non so se fusse o la distanza o il lume.

Come in superba e luminosa scena,                          173

al dispiegar dela veloce tela,

ogni pompa e splendore, ond’ella è piena,

ai riguardanti subito si cela,

così repente, in men che non balena,

ciascuna imago agli occhi lor si vela,

e nele più secrete e più profonde

viscere dela luce si nasconde.

Scendon la balza e dal poggetto ameno                                174

tornano al piano, onde partiro avanti.

Ma di stupore innebriato e pieno

spesso sospende Adon tra via le piante

e perch’alto desio gli bolle in seno

di saver qual destin gli è sovrastante,

che gliel voglia scoprir Mercurio prega,

e’n sì fatto parlar la lingua slega:

Orché di tante meraviglie ascose                            175

l’ordin m’è noto ai secoli prescritto,

molto vago sarei con l’altre cose

d’udir quanto di me nel fato è scritto.

Tu, per cui ciò che san, san le famose

scole d’Arcadia e i gran musei d’Egitto,

deh! qual di mie fortune in ciel si cela

fausto o misero evento, a me rivela. –

Risponde il divin messo: – Uom per natura                           176

ad oracol fatidico ricorre,

perché qualunque o buona o rea ventura

sia per lui fissa in ciel, gli deggia esporre.

Ma sovente adivien ch’egli procura

d’intender quel che poscia inteso aborre

e, s’infortunio alcun gli si predice,

vive vita dubbiosa ed infelice;

e v’ha talun che, da gran rabbia mosso,                                177

senza guardar che’l mal vien di qua sopra,

qual can, che morde il sasso, ond’è percosso,

odia colui che la bell’arte adopra.

Tacer non vo’ pertanto, e far non posso

che’l gran rischio imminente io non ti scopra;

che seben contro il ciel forza non hanno,

pur giova a molti antivedere il danno.

Quando il pianeta, che de’ cerchi nostri                                178

regge il minor, concorse al tuo natale,

ferì, varcando il gran sentier de’ mostri,

il più bravo e magnanimo animale,

e’l settimo occupò di tutti i chiostri,

angolo ch’è fra gli altri occidentale;

talché nel lume suo trovossi unito

ferino il segno e violento il sito.

Era Saturno insu quel segno anch’esso                                 179

e nel medesmo albergo avea ricetto

ed al’umida dea giunto dapresso

la risguardava di quartile aspetto;

e vibrando il suo raggio a un tempo istesso

d’impression contagiosa infetto,

opposto al chiaro dio che’l conduce,

il percotea con la maligna luce.

Intanto Marte era nel toro entrato,                            180

casa dov’abitar suol Citerea,

e già dopo il ventesimo passato

tutto sdegnoso il quarto grado avea,

e mandava al leone il suo quadrato,

che quasi in grado eguale il ricevea.

Or questo influsso, come vuol Fortuna,

sen vien per dritto ad incontrar la luna.

Contro la luna il fier quadrato giunge,                                    181

laqual dinotatrice è dela morte

e per direzion le si congiunge

minacciando ti pur l’istessa sorte,

perché, com’anaretico, l’aggiunge

virtù nel mal più vigorosa e forte;

e l’un e l’altro in loco tal s’annida

che ne divien nocente ed omicida.

Eccoti in somma, che’l più basso lume                                  182

a due stelle perverse applica a prova,

il malvagio vecchione e’l crudo nume,

a cui guerra sol piace e sangue giova.

Havvi due fere poi, ch’han per costume

di divorar chi sotto lor si trova,

ed havvi il sol, cui sguardo iniquo offende

e dal’altrui rigor rigore apprende.

Nel tempo dunque che t’accenno or io,                                183

sappi la mente aver provida e saggia.

Guardati pur dal bellicoso dio

e fuggi ogni crudel bestia selvaggia.

Ma non so se la vita al fato rio

potrai tanto sottrar, ch’alfin non caggia

e, qual da falce suol tronco ligustro,

non pera al cominciar del quarto lustro. –

Così parlava, e più parlar volea                                184

l’ambasciador del concistoro santo,

quando le sue ragion ruppe la dea,

che seco il bell’Adon trasse da canto.

Lascia omai queste favole (dicea)

ed al garrulo dio non creder tanto,

però ch’egli è ben saggio, a dirne il vero,

ma vie più fraudolento e menzognero.

Pascolava lo dio del’aurea cetra                               185

in Anfriso l’armento ed ei rubollo.

Tacciomi quando l’arco e la faretra,

ancor fanciullo, gli furò dal collo,

destro così che ne restò di pietra

e n’arrossì ma ne sorrise Apollo.

Tolse a Giove lo scettro, e non fu molto:

se non cocea, gli avrebbe il fulmin tolto.

Alo dio dela guerra invitto e franco                           186

il pugnal portò via dala vagina.

Al mio marito la tanaglia ed anco

il martello involò nela fucina.

A me stessa, che più?, rapì dal fianco

il cinto e si vantò dela rapina.

Or teco a scherzi intento ed a follie,

prende a vaticinar sogni e bugie.

Con quel parlar che morte altrui minaccia,                            187

la giovenil simplicità spaventa;

ala lingua mendace il fren dislaccia

e’l periglio vicin ti rappresenta

per veder scolorir la bella faccia

e provar se’l tuo cor sene sgomenta.

Ma che? quand’egli ancor non parli a gioco,

i pronostici suoi curar dei poco.

Di tai chimere io vo’ che tu ti rida;                            188

ancorché d’empio ciel raggio ti tocchi,

qual sì cruda sarà stella omicida

che’l rigor non deponga a’ tuoi begli occhi?

Folle chi, troppo credulo, confida

nel vano profetar di questi sciocchi,

che presenti non san le lor sciagure

e dansi a specolar l’altrui future.

Spesso la notte infra i più ciechi ingegni,                                189

più del’altrui che del suo mal presago,

i moti ad osservar de’ nostri regni

stassi astrologo egizzio, arabo mago,

e, figurando con più linee e segni

ogni casa celeste ed ogni imago,

l’immenso ciel di tanti cerchi onusto

vuol misurar con oricalco angusto.

Giudica i casi e, del’altrui natale                                190

mercenario indovin, calcola il punto,

né s’accorge talor, miser, da quale

non previsto accidente è sovragiunto;

e mentre cerca pur d’ogni fatale

congiunzion, come si trova apunto,

l’influenze esplorar benigne o felle,

quasi notturno can, latra ale stelle.

Non nego che non sieno i sommi giri                         191

nel mondo inferior molto possenti,

perché questi volubili zaffiri

son diafani tutti e trasparenti,

onde forz’è che colaggiù traspiri

il reflesso immortal de’ lumi ardenti,

e de’ lor raggi sovra i corpi bassi

esser non può che la virtù non passi.

Ma dico ben che’l ciel con le sue sfere                                 192

ubbidisce al gran re che’l tutto regge,

l’alta cui providenza, il cui sapere

ne dispone a suo senno e le corregge,

lasciando al’uomo il libero volere

essercitar con volontaria legge;

e raro avien che’n quella nebbia fosca

altri di tai secreti il ver conosca.

L’anima umana, in cui s’alligna e vive                                    193

dela scienza un natural desire,

stendendo oltre i confin, che le prescrive

divieto eterno, il curioso ardire,

cose imprender non dee di speme prive,

impossibili in terra a conseguire,

onde l’audacia sua pur troppo ardita

sia con l’essempio d’Icaro punita.

Ad oggetto sfrenato occhio non dura;                                   194

perdesi il senso in ogni estremo eccesso;

siché pronosticar cosa futura

ad ingegno mortal non è concesso.

Sol colui, che comanda ala natura,

sa prevenir del mondo ogni successo;

né può però l’istessa onnipotenza

al’altrui volontà far violenza.

Inclinar ben le voglie a male o bene                           195

favor di stella o nemicizia pote,

ma necessaria forza in sé non tiene

dele vaganti alcuna o del’immote.

S’uom n’è mosso talor, ciò non aviene

per tirannia dele celesti rote,

ma perché movon la corporea massa,

da cui poscia il voler mover si lassa.

Da’ sensi, ala cui fabrica concorre                            196

e’n cui, come già dissi, il ciel può molto,

suol l’inclinazion nascer, che corre

dietro ai moti malvagi a freno sciolto;

ma la ragion, che’ntende e che discorre,

fa resistenza al’appetito stolto.

Vinto il fato è dal senno, e può l’uom forte

sforzar le stelle e dominar la sorte.

Quando pur questi fuochi alti e superni                                 197

s’usurpassero in voi tanta possanza,

qual intelletto i gran decreti eterni

avria giamai d’interpretar speranza?

Chi per entrar ne’ penetrali interni

di Dio, sarà giamai dotto a bastanza?

Chi sarà che di farsi ardir si pigli

arbitro o consiglier de’ suoi consigli?

Qual sì veloce fia pensiero audace?                          198

Qual fia mai sì leggier pronto discorso

che’l tratto lieve e l’impeto fugace

possa seguir, senza divin soccorso,

di quella sfera rapida e rapace,

che seco trae d’ogni altra sfera il corso

e mille volte con diversi effetti

viene in un punto a variar gli aspetti?

Se dela vista è più spedito un dardo,                         199

se l’occhio al lampo di prestezza cede,

e pur e l’uno e l’altro è lento e tardo

a ragguaglio di quel ch’assai gli eccede,

come può cosa umano ingegno o sguardo

adeguar, ch’adeguar non si concede?

e dal volo del’anima agitante

il gran corpo del ciel trarre un instante?

Quanti in guerra talor, quanti per peste                                 200

restano in un momento uccisi e morti?

Quanti son da Nettun fra le tempeste

in un legno, in un punto insieme absorti?

Dunque gli danna un sol destin celeste

tutti delpari ale medesme sorti?

Come credibil fia, ch’abbian commune

una direzion tante fortune?

S’è ver che quei ch’al’istessora è nato                                 201

influsso abbia dal’altro indifferente,

perché viene a sortir diverso stato

il re che col villan nasce egualmente?

Perché si varia in lor costume e fato,

se non si varia il tempo o l’ascendente?

Ond’avien, se conforme hanno il natale,

che la vita e la morte è diseguale?

Non può dunque astronomica scienza,                                  202

specolazion di mente inferma

far securo presagio e dar sentenza

del’avenir determinata e ferma,

perché del suo saver la conoscenza

è general, che spesso il falso afferma;

né senza error qual più sottil pensiero

si vanti mai di perscrutarne il vero.

Fame o contagio, è ver, pioggia ed ecclisse                          203

a chi’l futuro investigar s’ingegna

dale stelle talvolta erranti o fisse

esser può ben che di ritrarre avegna.

Pur talor riuscì, quando il predisse,

contrario effetto a quelche l’arte insegna,

onde si scorge espressamente aperta

la vanità dela dottrina incerta.

Se quando egli predice o nebbia o vento,                             204

vedesi in ciel rasserenare il sole,

o quando un calor fiero e violento,

fredda l’aria divien più che non suole,

non è questo infallibile argomento

dela fallacia pur dele sue fole?

Ciò non l’accusa chiaro e manifesto

venditor di menzogne in tutto il resto?

Poiché il suo studio è mentitore e vano                                 205

in materiefacili e sì trite,

qual può regola dar giudicio umano

nele cose più dubbie ed esquisite?

Di quel ch’ha innanzi agli occhi aperto e piano

le cagion non intende assai spedite:

dico d’un fior, d’un’erba o d’un virgulto;

ed osa poi di presagir l’occulto?

Quando l’infante è nel materno seno,                        206

di qual sesso si sia non ben comprende

e vuol, nato ch’egli è, spirto terreno,

scoprir qual fin dal viver suo s’attende.

Cosa avenuta ei non capisce apieno

e quelchavenir deve a spiar prende;

non conosce sestesso e quelche mira,

e del gran Giove ai chiusi arcani aspira?

Quinci veder ben puoi quant’ella sia                          207

facoltà temeraria, arte fallace.

Ma siasi pure ogn’influenza ria

inevitabilmente anco efficace:

contro il vigor dela bellezza mia

qual forza avrà giamai sinistra face?

e qual dove son io, può farti oltraggio

di malefica luce infausto raggio?

L’orrida falce sua contro Ciprigna                            208

il più pigro pianeta indarno rota.

Contro me s’arma invan stella sanguigna:

vibri, se sa, la spada o l’asta scota,

ch’a placar del suo cor l’ira maligna

basta ch’un guardo mio sol la percota.

Qual timore aver puoi d’influssi rei,

se porto il tuo destin negli occhi miei? –

Dopo questo parlar, perché s’accorse                                  209

ch’Adone ai detti suoi pago rimase,

ma che malvolentier le piante torse

per dipartir dale lucenti case

e di tante bellezze alcuna forse

poterlo a lei rapir si persuase,

gelosa pur ch’Amor non l’invaghisse

di quelche visto avea, così gli disse:

– Io veggio ben che rimaner vorresti                         210

meco per sempre in così bei soggiorni

e l’albergo terren cangiar con questi

regni beati e d’ogni gloria adorni;

ma vuol legge fatal che più non resti

e convien ch’io laggiù teco ne torni;

picciol privilegio è d’uom mortale

l’esser poggiato, ov’altri unqua non sale.

Potervi solo entrar con la mia scorta                         211

per favor singolar ti si concede.

Destino il vieta e non v’ha strada o porta,

ond’uom vivo giamai vi ponga il piede.

Né ch’altri abiti qui Giove comporta,

sotto corporeo vel, che Ganimede.

Del camin nostro il terzo sol si serra

e già ne chiama a riveder la terra. –

Tacque, e già fatto un grado avea la notte                             212

dela scala, onde poggia al’orizzonte.

Volavan fuor dele cimerie grotte

i pigri abitator di Flegetonte;

e, tra le nubi ripercosse e rotte

raccolta in orbe la cornuta fronte,

Alba parea la vergine di Delo,

sorta anzi tempo ad imbiancar il cielo.

La partita s’affretta e’l saggio auriga                         213

già ripiglia la via ch’al venir tenne

e gli amorosi augei sferza ed instiga,

che fendon l’aria senza mover penne.

L’ombre segnando di dorata riga,

il bel carro calossi e’n terra venne

e posò lieve lieve alfin disceso

nel gran palagio il suo leggiadro peso.

Il sol, daché partir fino al ritorno,                              214

tre volte il lume estinse e tre l’accese,

tanto che nel viaggio e nel soggiorno

di tre notti e tre spazio si spese.

Ma perché’n ciel mai non tramonta il giorno,

Adon non senaccorse e nol comprese,

e tal esca gustò, tal licor bebbe,

che di cibi terreni uopo non ebbe.

 




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