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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 13

La PRIGIONE. La prigionia d’Adone con tutti gli strazi che sopporta da Falsirena, ci fa scorgere gli effetti della superbia, quando per esser disprezzata entra in furore, e la vita tribulata del peccatore, quando addormentato nel vizio ed impigrito nella consuetudine, si lascia legare dalle catene delle pericolose tentazioni. Il cangiarsi in uccello è mistero della leggerezza giovanile, che, vaneggiando, non ha ne’ suoi amorosi pensieri giamai fermezza. La fontana, in virtù della cui acqua egli ritorna al suo primo essere, allude alla divina grazia, laqual col mezzo della penitenza restituisce all’uomo la sua vera imagine, già contrafatta per lo peccato. Vulcano è simbolo di Satana, zoppo per la privazione d’ogni bene, brutto per la perdita de’ doni della grazia, abitatore di caverne per la stanza delle tenebre infernali, destinato all’essercizio del fuoco per lo ministerio delle fiamme eterne. L’uno, dopo l’avere incatenato Adone, cerca d’ucciderlo; e l’altro, dopo l’aver sottoposto l’uomo alla sua tirannide procura intutto di dar morte all’anima. Senonché Mercurio, figura della celeste e vera sapienza, lo consiglia, l’aiuta e rende vane tutte quante le diaboliche insidie. La noce d’oro, ch’aperta somministra altrui lautissime mense, oltre l’esser simbolo della perfezzione e della bontà, vuol significare che l’oro si fa abondanza in qualsivoglia luogo, ancorché sterile, e che al ricco non manca da vivere morbidamente nelle penurie maggiori. L’Interesse con l’orecchie asinili, che non gode della dolcezza dell’armonia, anzi l’aborre, ci rappresenta l’avarizia e l’ignoranza, che non si curano di poesie né si compiacciono di musiche. La trasformazione della fata e sue donzelle in bisce adombra l’abominevole condizione delle bellezze terrene e delle delizie temporali, lequali paiono altrui in vista belle, ma son piene di difformità e di veleno.

 

Canto, argomento 13

Tenta la maga invan l’arti profane,

poi schernir cerca Adon sott’altra forma;

l’addormenta, l’inganna e lo trasforma;

egli fugge, altri il segue, ella rimane.

 

Canto 13

Chi fu ch’ala tua lingua, o Zoroastro,                        1

concesse in prima autorità cotanta?

Donde apprese il tuo ingegno ad esser mastro

del’arte detestabile ch’incanta,

l’arte che contro ogni possanza d’astro

vincer natura e dominar si vanta?

E come ponno iniqui carmi e rei

del’inferno e del ciel sforzar gli dei?

Da qual forza fatal che gli corregge                           2

o da qual patto son legati e stretti?

È necessaria o volontaria legge

che sì gli rende altrui servi e soggetti,

quasi chi tutto può, chi tutto regge

tema d’un uom disubbidire ai detti?

È talento o timor quelche gli move

tant’opre a far prodigiose e nove?

Deh, quante volte dele lievi rote                                3

che si volgonratto intorno ai poli

veduto ha con stupor restarsi immote

Giove l’immense e smisurate moli?

Quante vid’egli ale malvage note

le lune in ciel moltiplicarsi e i soli,

scorrere i tuoni a suo dispetto e i lampi,

scotersi il mondo e titubarne i campi?

Turbasi al suon de’ mormorati accenti                                  4

l’ordine dele cose e si confonde.

Nettun, senza procelle e senza venti

gonfio, i lidi del ciel batte con l’onde;

poi quando più del mar fremon gli armenti

ritira il piè dale vicine sponde

e ricurvando insu l’umide fonti

tornan per l’erta i fiumi ai patri fonti.

Ogni fera più fera e più rabbiosa                               5

la sua rabbia addolcisce e disacerba.

Non è leone altier, tigre orgogliosa

che non deponga allor l’ira superba.

Vomita il fiel la serpe velenosa

e i lividorbi suoi stende per l’erba,

e smembrata la vipera e divisa

vive e rintegra ogni sua parte incisa.

Ma com’è poi che i versi abbian potere                                6

di separare i più congiunti cori,

e’l commercio reciproco e’l piacere

santo impedir de’ maritali amori?

Come del’alme il libero volere

anco scaldar d’involontari ardori,

ed agitar con empie fiamme insane

di maligno furor le menti umane?

Falsirena aspettò che piene avesse                            7

Cinzia del’orbe suo le parti sceme

ed oportuno alfin quel tempo elesse

che congiunte avea già le corna estreme.

E veggendo anco in ciel le stelle istesse

seconde al’arte sua volgersi insieme,

nel loco usato a celebrar sen venne

de’ sacrilegi suoi l’opra sollenne.

Sorge nel sen più folto e più confuso                         8

d’un bosco antico un solitario altare,

d’alti cipressi incoronato e chiuso

donde il sole orientale appare,

aperto a quella parte ov’ha per uso

depor la luce ed attuffarsi in mare.

Opaco orror l’ingombra e lo nasconde

sotto perpetue tenebre di fronde.

Quivi idoletti vari e simulacri                         9

l’innamorata incantatrice accolse

e quivi a più color tre veli sacri

con caratteri e segni intorno avolse;

e poiché a’ membri suoi nove lavacri

d’un’acqua che da tre fonti tolse,

discinta e scalza del sinistro piede

il foco e l’ostia ad apprestar si diede.

Con la casta verbena e’l maschio incenso                             10

le fiamme pria del’olocausto alluma

e di vapor caliginoso e denso

e l’ara e l’aria orribilmente affuma.

Poi di virtute occulta al nostro senso

dentro il magico incendio arde e consuma

mille con falce tronche erbe maligne,

erbe apena ancor note ale madrigne.

Delo stridulo alloro asperse in esso                           11

le nere bacche innanzi recise,

dela fico selvaggia il latte espresso

e dela felce il seme ella vi mise

e la radice ch’ha commune il sesso

del’eringe spinosa anco v’intrise

e fra gli altri velen che dentro v’arse

la violenta ippomene vi sparse.

Arse l’erbe e le piante ad una ad una,                                   12

sette volte l’altar circonda intorno,

tre s’inginocchia ad adorar la luna,

tre la contrada ove tramonta il giorno.

D’una pecora poi lanosa e bruna

con la manca tenendo il manco corno,

con la destra il coltel, tra i fochi e i fumi

trecento invoca sconosciuti numi;

e mentreché di Stige e Flegetonte                             13

l’occulte deità per nome appella,

versa di nero vino un largo fonte

infra le corna ala dannata agnella,

non pria però che dala fosca fronte

di lana un fiocco di sua man non svella

e che nol gitti entro le brage,ardenti

quasi primi tributi e libamenti.

Poscia con ferro acuto apre e ferisce                        14

la gola al’agna e la trafige e svena

e del sangue che fuor ne scaturisce

caldo e fumante un’ampia tazza ha piena.

Con l’estremo del labro indi lambisce

lievemente così che’l gusta apena.

Poi con olio e con mele in copia grande

ala madre commune in sen lo spande.

Una colomba ancor vaga e lasciva                            15

uccise di candor simile al latte

e, poiché quante piume ella vestiva

tarpate l’ebbe a penna a penna e tratte,

donolle in cibo a quella fiamma viva

finché fur tutte in cenere disfatte;

ma prima le legò nel’ala manca

con rosso fil la calamita bianca.

Ciò fatto strinse in tre tenaci nodi                              16

una ciocca di crin, ch’io non so come,

dormendo Adon, con sue sagaci frodi

gli tolse Idonia dale bionde chiome.

Sputò tre volte e’n tre diversi modi

disse, l’amante suo chiamando a nome:

Resti legato né mai più si scioglia

il crudo sprezzator d’ogni mia doglia. –

A sembianza di lui di vergin cera                               17

imagin poi misteriosa ammassa

e con un stecco di mortella nera

ben aguzzo e pungente il cor le passa.

E mentr’appo l’arsura atroce e fiera

a poco a poco distillar la lassa,

dice, volgendo il ramoscel del mirto:

– Così foco d’amor strugga il suo spirto. –

D’ippopotamo un core alfine ha preso                                  18

nela riva del Nil nato e nutrito

che, dela nova luna ai raggi appeso,

era ala sua freddombra inaridito;

e di faville oltracocenti acceso

e di spilli acutissimi ferito,

l’agita, il move, il trae come più vole

mormorando tra sé queste parole:

– Ecco il cor di colui ch’io cotantamo,                                 19

ecco ch’io gli ho settaghi in mezzo affissi.

Ecco che’l tiro a me poi con quest’amo

già fabricato sotto sette ecclissi.

Ecco, sette carbon fatti del ramo

che già colse mia madre entro gli abissi,

desti dal sacro mantice v’aggiungo

e sette volte intorno intorno il pungo. –

Da’ sacrifici abominandi ed empi                              20

cessò la fata e si partì ciò detto,

perché contro colui che duri scempi

ognor facea del suo piagato petto,

sperava pur dopo mill’altri essempi

di veder nova prova e novo effetto.

Ma di tante fatiche al vento spese

alcun frutto amoroso indarno attese.

E come per magie mai né per pianti                          21

sperar potea rimedio a sì gran male,

se la dea degli amori e degli amanti,

ch’invocava propizia, avea rivale?

se colei ch’ha negli amorosi incanti

sovrano impero e potestà fatale,

avea malconcia dele piaghe istesse,

in quelch’ella chiedea, tanto interesse?

Poiché con lungo studio invan compose                                22

suggelli e rombi e turbini e figure,

seppe mai con queste ed altre cose

quelle voglie espugnar rigide e dure,

tornossi in voci amare e dolorose

con Idonia a lagnar di sue sventure:

Lassa (diceale) in che mal punto il guardo

volsi da prima a que’ bei raggi ond’ardo.

Per mia fatal, cred’io, morte e ruina                          23

vidi tanta beltà non più veduta.

Infin di quanto il ciel quaggiù destina

difficilmente il gran tenor si muta.

Chi può per molte scosse in balza alpina

ben robusta piegar quercia barbuta?

quercia ch’austro prendendo e borea a scherno,

tocca col capo il ciel, col piè l’inferno?

Amo statua di neve, anzi di pietra,                            24

pertinace rigor, fermo desio.

Egli gela ale fiamme, ai pianti impetra,

né di voglia cangiar mi voglio anch’io.

Io non mi pento, ei non però si spetra,

guerreggia l’odio suo con l’amor mio.

L’uno in esser nemico e l’altra amante

non so chi di noi duo sia più costante.

Veggio moversi i monti anco a’ miei versi,                            25

non ammollirsi un animato sasso.

Talor de’ fiumi indietro il piè conversi,

fermar non so d’un fuggitivo il passo.

I mostri umiliai fieri e perversi,

né d’un altier garzon l’animo abbasso.

Da me l’inferno istesso è vinto e domo,

né son possente a soggiogare un uomo.

Semino in onda e fabrico in arena,                            26

persuado lo scoglio e prego il vento.

Al’aspe egizzio ed ala tigre armena

scopro la piaga mia, narro il tormento.

Idol crudel, di cui mi lice apena

sol la vista goder, di placar tento.

Se far potesse a questa alcun riparo

forse di questa ancor mi fora avaro.

Pregando, amando, lagrimando, ahi folle,                              27

ottener l’impossibile credei.

Far una selce impenetrabil molle

più tosto che quel core io spererei.

Quanto più foco in me vede che bolle,

tanto schernisce più gli affanni miei.

E pur volta ad amar bellezze ingrate

di chi mi fa doler prendo pietate.

Né per tante repulse io lascio ancora                        28

di correr dietro al’ostinate voglie.

Ogni altra donna alfin che s’innamora

sebene il morso al’onestà discioglie,

pur sfogando il martir che l’addolora

premio dela vergogna il piacer coglie.

Io senza alcun diletto averne tolto

sol dela propria infamia il frutto ho colto.

Vendo la libertà, compro il dolore,                           29

serva son di colui che’n carcer chiudo

e pago a prezzo d’anima e di core

pianti e sospir che’l fanno ognor più crudo.

Da così caldo e così saldo amore

qual mai potrebbe adamantino scudo,

senon solo quel petto andar securo,

altrui tenero forse, a me sì duro?

O beata colei che’l cor gl’impiaga,                            30

felici que’ begli occhi ond’arde tanto.

Quanto o quanto sarei d’intender vaga

chi sia costei ch’ha di tal grazia il vanto!

Ma di pietra per certo o d’erba maga

egli in sé cela alcun possente incanto

poiché giovan sì poco a far che m’ami

malie tenaci o magici legami. –

Lungamente sospeso (Idonia dice)                         31

tenuto ha questo dubbio il mio pensiero.

Ma tu che badi? ed a cui meglio lice

spiar d’un tal secreto il fatto intero?

Potrai ben tu de’ fati esploratrice

sforzar gli abissi a confessarti il vero,

tu che sì dotta sei nel’arti ascose

e sai cotanto del’oscure cose. –

Qui tace ed ella allor, che ben possiede                                32

quante ha Tessaglia incognite dottrine,

non già di Delo i tripodi richiede,

non di Delfo ricorre ale cortine,

non di Dodona ai sacri boschi il piede

volge per supplicar querce indovine,

non a qualunque oracolo facondo

abbia più chiaro e più famoso il mondo,

non il moto e’l color cura degli esti                            33

nel’ostie investigar de’ sacrifici,

né degli augei le cal giocondi o mesti

secondo il volo interpretar gli auspici,

destri o manchi i fulmini celesti

osserva o sieno infausti o sien felici,

specolando va le stelle e i cieli,

ma più tacite cose e più crudeli.

Nottera allor che dal diurno moto                            34

ha requie ogni pensier, tregua ogni duolo,

l’onde giacean, tacean zefiro e noto

e cedeva il quadrante al’oriuolo,

sopia l’uom la fatica, il pesce il nuoto,

la fera il corso e l’augelletto il volo,

aspettando il tornar del novo lume

otra l’alghe o tra’ rami o su le piume,

quand’ella prese a proferir possenti                          35

con lungo mormorio carmi e parole;

e bisbigliando i suoi profani accenti

atti a fermar nel maggior corso il sole,

il corpo s’impinguò di quegli unguenti

onde volar qual pipistrello suole

e per la cui virtù spesso s’è fatta

cagna, lupa, leonza, istrice e gatta.

Sovra un monton vie più che corvo nero                               36

che la lana e la barba ha folta e lunga,

monta, ed acconcio ad uso di destriero,

vuol che’n brevora a Babilonia giunga.

Quel, più ch’alato folgore leggiero

per l’aria va senza che sprone il punga;

ella ale corna attiensi e non le lassa,

cavalca i nembi e i turbini trapassa.

Nata tra quel soldano era pur dianzi                          37

e’l re d’Assiria aspra discordia e dura,

e venuti a giornata il giorno innanzi,

colma di morti avean la gran pianura.

Giacean de’ busti i non curati avanzi

sparsi sossovra in orrida mistura

e gonfio con le corna insanguinate

a lavarsi nel mar correa l’Eufrate.

Le campagne dintorno e le foreste                            38

son di tronchi insepolti ingombre e piene.

Veggionsi tutte in quelle parti e’n queste

porporeggiar le spaziose arene,

fatte d’esca crudel mense funeste

a lupi ingordi ed altre fere oscene

ch’a monte a monte accumulate in terra

le reliquie a rapir van dela guerra.

Ma dala maga che dal ciel discende                          39

son le delizie lor turbate e rotte,

onde lasciate le vivande orrende

fuggon digiune e timide ale grotte.

Ella di fosche nubi e fosche bende

che raddoppiano tenebre ala notte

avolta il capo, inviluppata i crini,

di quel tragico pian scorre i confini.

Per que’ campi di sangue umidi e tinti                                   40

vassene col favor del’ombra cheta

e la confusion di tanti estinti

volge e rivolge tacita e secreta;

e mentre de’ cadaveri indistinti,

a cui l’onor del tumulo si vieta,

calcando va le sanguinose membra,

oscura cosa e formidabil sembra.

Non so se’n vistatremenda e rea                          41

nela notte più profonda e muta

per la spiaggia di Colco uscir Medea

l’erbe sacre a raccor fu mai veduta,

quand’ella già rinovellar volea

del padre di Giason l’età canuta.

Atropo forse sola a lei s’agguaglia

qualor d’alcun mortal lo stame taglia.

Scelse un meschin di quella mischia sozza                             42

che passato di fresco era di vita.

Intero il volto, intera avea la strozza

ma d’un troncon nel petto ampia ferita.

Se sia guasto il polmon, se rotta o mozza

sia l’aspra arteria ond’ha la voce uscita

prendendo a perscrutar, trova la maga

ch’ha le viscere intatte e senza piaga.

Pende il fato da lei di molti uccisi                              43

che del’alta sentenza in dubbio stanno

e qual di tanti dal mortal divisi

voglia ala luce rivocar non sanno.

Se vuol tutti annodar gli stami incisi

convien che ceda l’infernal tiranno

e, le leggi del’erebo distrutte,

renda ale spoglie lor l’anime tutte.

Or del misero corpo a cui prescritta                          44

l’ultima linea ancor non era in sorte,

lubrico intorno al collo un laccio gitta

e con groppi tenaci il lega forte.

Indi accioché più lacera e trafitta

resti la carne ancor dopo la morte

fin dov’entra nel monte un cupo speco

su per sassi e per spine il tira seco.

Fendesi il monte in precipizio e sotto                         45

apre la cava rupe antro profondo

ch’arriva a Dite e discosceso e rotto

vede i confin del’un e l’altro mondo.

Quivi il mesto cadavere è condotto,

loco sacro per uso al culto immondo,

nel cui grembo giamai non s’introduce

senon fatta per arte ombra di luce.

Nel sen che quasi ancor tepido langue                                  46

fa nove piaghe allor la man perversa,

per cui lavando il già corrotto sangue

il vivo e’l caldo in vece sua vi versa.

Gli sparge ancora in ogni vena essangue

di varie cose poi tempra diversa.

Ciò che di mostruoso unqua o di tristo

partorisce Natura, entro v’ha misto.

Dela luna la spuma ella vi mesce,                              47

la bava quando in rabbia entra il mastino,

e’l fiel vi mette del minuto pesce

che’l volo arresta del fugace pino.

Ponvi l’onda del mar quando più cresce

e di Cariddi il vomito canino

e del’unico augello orientale

il redivivo cenere immortale.

L’incorrottibil cedro e l’amaranto,                            48

l’immortal mirra e’l balsamo v’interna,

la feconda virtù del grano infranto

e dela fera fertile di Lerna.

Del fegato di Tizio ancor alquanto,

che semedesmo rinascendo eterna,

e del seme del bombice v’ha messo,

verme possente a suscitar se stesso.

Il cerebro del’aspido vi stilla                         49

e la midolla del non nato infante

e del nido aquilino, onde rapilla,

vi pon la pietra gravida e sonante.

Havvi l’occhio del lince e la pupilla

del basilisco e del dragon volante,

del’iena la spina e la membrana

dela cerasta orribile africana.

Le polpe del biscion che nel mar Rosso                                50

guarda la preziosa margherita

infra l’altre sostanze, e’nsieme l’osso

del libico chelidro anco vi trita;

la pelle v’è ch’ha la cornice addosso

dopo ben nove secoli di vita;

né vi mancan le viscere col sangue

del cervo alpin che divorato ha l’angue.

Ferri di ceppi e pezzi di capestri,                              51

fili arrotati di rasoi taglienti,

punte d’aguzzi chiodi e sangui e mestri

di donne uccise e di svenate genti,

de’ fulmini la polve e degli alpestri

ghiacci il rigore e gli aliti de’ venti

e i sudori del sol, quand’arde luglio,

vi distempra confusi in un miscuglio.

V’aggiunse d’Etna l’orride faville,                             52

di Flegra i zolfi e di Cerauno i fumi,

del gran Cocito le cocenti stille,

del pigro asfalto i fervidi bitumi

e di mill’altri ingredienti e mille

abominande fecce, empi sozzumi,

infamie e pesti, onde la maga abonda,

incorporò nela mistura immonda.

Poiché tai cose tutte insieme accolte                         53

nele fibre e nel core infuse gli ebbe

e dal suo sputo infette altr’erbe molte

virtuose e mirabili v’accrebbe,

sovra il corpo incurvossi e sette volte

inspirò’l fiato a chi risorger debbe.

Al miracolo estremo alfin s’accinse

e’l proprio spirto ad animarlo astrinse.

Vestesi pria di tenebrose spoglie,                              54

poi prende nela man verga nefanda

ed ale chiome che’n su’l tergo accoglie,

fa d’intrecciate vipere ghirlanda.

Vie più ch’altra efficace indi discioglie

la fiera voce ch’a Pluton comanda

e move ai detti suoi sommessa e piana

lingua ch’assai discorde è dal’umana.

De’ cani imita i queruli latrati                         55

ed esprime de’ lupi i rauchi suoni,

forma i gemiti orrendi e gli ululati

dele strigi notturne e de’ buboni,

i fischi de’ serpenti infuriati,

gli spaventosi strepiti de’ tuoni,

del’acque il pianto, il fremer dele fronde,

tante voci una voce in sé confonde.

L’aer puro e seren s’ingombra e tigne                                   56

a quel parlar di repentina ecclisse;

veggionsi lagrimar stille sanguigne

l’alte luci del ciel, mobili e fisse;

bendò fascia di nubi atre e maligne,

come la terra pur la ricoprisse

e le vietasse la fraterna vista,

dela candida dea la faccia trista.

Dopo i preludi d’un sussurro interno                         57

seco pian pian sommormorato alquanto,

cominciando a picchiar l’uscio d’averno

in più chiaro tenor distinse il canto:

Tartareo Giove, che del foco eterno

reggi l’impero e del’eterno pianto,

al cui scettro soggiace, al cui diadema

tutto il vulgo del’ombre e serve e trema;

Persefone triforme, Ecate ombrosa,                          58

donna del’orco pallido e profondo,

al più crudo fratel congiunta in sposa

de’ tre monarchi ond’è diviso il mondo,

Notte gelida, pigra e tenebrosa,

figlia del Cao confuso ed infecondo,

umida madre del tranquillo dio,

del’Orror, del Silenzio e del’Oblio;

dive fatali e rigorosi numi                              59

che sedete a filar l’umane vite

e novo stame a chi già chiusi ha i lumi

per dinovo spezzarlo ancora ordite;

Cocito e tutti voi perduti fiumi,

voi ch’irrigate la città di Dite;

dolenti case, antri nemici al sole,

aprite il passo al’alte mie parole.

O regi e voi dele malnate genti                                  60

conoscitori ed arbitri severi,

ch’a giusti e del fallir degni tormenti

condannate gli spirti iniqui e neri;

e voi, ministre ai miseri nocenti

di supplici e di strazi acerbi e fieri,

vergini orrende che gli stigi lidi

fate sonar di desperati stridi;

e tu, vecchio nocchier, ch’altrui fai scorta                              61

a quelle region malvage e crude

solcando l’onda ognor livida e smorta

dela bollente e fetida palude;

e tu, vorace can, che’nsu la porta

dela gran reggia, ov’ogni mal si chiude,

perché chi v’entra più non n’esca mai,

con tre bocche e sei luci in guardia stai,

se voi sovente ne’ miei sacri versi                             62

con labra pur contaminate invoco,

se mai di sangue uman grate v’offersi

vittime impure in essecrabil foco,

se le minugia de’ bambin dispersi

e dal materno sen tratti di poco

posi gli aborti insu la mensa ria,

assistete propizi al’opra mia.

Già ritor non pretendo ai regni vostri                         63

le possedute e ben devute prede,

spirto avezzo a conversar tra mostri

per lungo tempo oggi per me si chiede;

quelche dimando de’ temuti chiostri

pose pur dianzi in su le soglie il piede

e di questa vital luce serena

ha quasi i raggi abbandonati apena.

Non nego a morte sua ragiondeggio                                64

del giusto dritto defraudar natura.

Sol dele stelle e non del sol vi cheggio

si conceda a costui picciola usura.

Godan quegli occhi che velati or veggio

di caligine cieca e d’ombra oscura,

poiché per sempre pur chiuder gli deve,

di poca luce un’intervallo breve.

Odi, spirito ignudo, anima errante,                            65

odi e ritorna al tuo compagno antico.

Solo qual sia l’amor, qual sia l’amante

rivela a me del mio crudel nemico.

Riedi subito al loco ov’eri innante

dato ch’avrai risposta a quant’io dico.

Ritorna, alma raminga e fuggitiva,

rivesti il manto e’l tuo consorte aviva. –

Ciò detto non lontan mira ed ascolta                         66

del trafitto guerrier l’ombra che geme

perché del carcer primo onde fu tolta

tra’ nodi rientrar paventa e teme

e nel petto squarciato un’altra volta

riabitar dopo l’essequie estreme.

– Chi fin laggiù (prorompe) in riva a Lete

mi turba ancor la misera quiete?

Lasso, e chi dela spoglia ond’io son scarco                          67

l’odiato peso a sostener m’affretta?

Dunque contro il destin severo e parco

il fil tronco a saldar Cloto è costretta?

Deh! ch’io ritorni per l’ombroso varco

ala requie interrotta or si permetta.

Miser, qual fato sì mi sforza e lega

che di poter morire anco mi nega? –

Ch’ei sia sì poco ad ubbidir veloce                           68

la donna spirital disdegno prende,

onde con sferza rigida e feroce

di viva serpe il morto corpo offende.

Poi, con più alta e più terribil voce

solleva il grido che sotterra scende

e penetrando i più profondi orrori

minaccia al’alma rea pene maggiori.

– Su su, che tardi ad informar quest’ossa?                            69

Qual più forte scongiuro ancora attendi?

Credi che nel’abisso e nela fossa

non ti sappia arrivar, se mel contendi?

o ch’esprimer que’ nomi or or non possa

inuditi, ineffabili, tremendi

che venir ti faranno a me davante

ciò ch’io t’impongo ad esseguir tremante?

Megera e voi dela spietata suora                              70

suore ben degne e degne dee del male,

m’udite? a cui parl’io? tanta dimora

dunque vi lice? e sì di me vi cale?

e non venite? e non traete ancora

fuor del penoso baratro infernale

da serpenti agitata e da facelle

l’alma infelice a riveder le stelle?

Io vi farò dele magion notturne                                 71

a forza uscir di scosse e di flagelli.

Vi seguirò per ceneri e per urne,

vi scaccerò da’ roghi e dagli avelli.

Sarete voi sì sorde e taciturne

quand’io co’ propri titoli v’appelli?

o con note più fiere ed essecrande

invocar deggio pur quel nome grande? –

A tai detti, oh prodigo! ecco repente                        72

il sangue intepidir gelido e duro

e le vene irrigar d’umor corrente

che già pur dianzi irrigidite furo.

Ripien di spirto e d’alito vivente

movesi già l’immobil corpo oscuro;

già già palpita il petto ed ogni fibra

ne’ freddi polsi si dibatte e vibra.

I nervi stende a poco a poco e sorge                        73

e comincia ad aprir l’egre palpebre.

Torna il calor, ma somministra e porge

ale guance un color ch’è pur funebre.

Pallidezza sì fatta in lui si scorge

che somiglia squallor di lunga febre;

e con la morte ancor confusa e mista

giostra la vita che pian pian racquista.

Di’ di’ (dic’ella allor) per cui si strugge                              74

colui per cui mi struggo? alzati e dillo.

Qual il cor fiamma gli consuma e sugge?

qual laccio il prese? e quale stral ferillo?

Dimmi ond’avien che più m’aborre e fugge

quant’io più’l seguo e più per lui sfavillo?

Se fia mai che si muti e quando e come

narra e dammi del tutto il loco e’l nome.

S’averrà che tu chiaro il ver mi scopra,                                 75

non come fan gli oracoli dubbiosi,

degna mercé riceverai del’opra

in virtù de’ miei versi imperiosi.

Farò che più non tornerai di sopra

né più verrà chi rompa i tuoi riposi;

da chiunque incantar ti vorrà mai

franco per tutti i secoli sarai. –

Così gli dice e carme aggiunge a questo                                76

per cui quant’ella vuol saver gli ha dato.

Quei sparge alfine un flebil suono e mesto

articolando in tal favella il fiato:

– Non io non già nel mondo empio e funesto,

donde giunto pur or son richiamato,

dele parche mirai gli alti secreti

né vi lessi del fato i gran decreti.

Pur quanto sostener pote il brevuso                         77

d’una fugace e momentanea vita,

dirò ciò che d’udirne oggi laggiuso

mi fu permesso innanzi ala partita.

Oggi ho di quel ch’a tua notizia è chiuso

dal’empia Gelosia l’istoria udita;

dal’empia Gelosia, Furia perversa,

che con l’altre talor Furie conversa.

Disse che’l bel garzon ch’a te sì piacque                               78

e che del’amor tuo cura non piglia,

dal re di Cipro è generato e nacque

per fraude già del’impudica figlia.

Ama la bella dea nata del’acque,

ella solo il protege, ella il consiglia;

e seben or senallontana e parte,

ama pur tanto lui che n’odia Marte.

Marte di sdegno acceso e di furore                           79

morte già gli minaccia acerba e rea;

onde s’è l’amor tuo sterile amore,

infausto anco è l’amor di Citerea.

Volger ricusa ale tue fiamme il core

perché fissa vi tien l’amata dea.

Poi cotal gemma lo difende e guarda

ch’esser non può che d’altro foco egli arda.

E poiché tu con fiero abuso e rio                              80

del’arti tue mi togli ai regni bassi

e per un curioso e van desio

fai che Stige di novo a forza io passi,

men crudel ch’al’alma al corpo mio,

ucciso ancor, d’uccidermi non lassi,

ascolta pur, ch’io voglio ora scoprirti

quelche non intendea prima di dirti.

Permette il giusto ciel per questo scempio                             81

e per l’audacia sol del tuo peccato

ch’osò con strano e non udito essempio

sforzar natura e violare il fato,

che non s’adempia mai del tuo cor empio

il malvagio appetito e scelerato,

né te l’amato bene amerà mai

né tu del bene amato unqua godrai. –

Più non diss’egli e ciò la maga udito                          82

di geloso dispetto ebra s’accese

e’l busto in negra pira incenerito

al fin più di morir non gli contese.

Ritornò pur quel misero ferito,

poich’a terra ricadde e si distese

mandando l’ombra ale tartaree porte,

dopo due vite ala seconda morte.

Ma già s’apre il giardin del’orizzonte,                                   83

già Clori il ciel di fresche rose infiora,

già l’oriente il piano intorno e’l monte

d’ostro e di luce imporpora ed indora;

e già con l’alba a piè, col giorno in fronte

sovra un nembo di folgori l’Aurora

per l’aperte del ciel fiorite vie

fa le stelle fuggir dinanzi al die.

Più veloce di stral ch’esca di nervo                           84

torna ovIdonia il suo ritorno attende.

– Questo barbaro (dice) empio e protervo

non è qual sembra, anzi d’amor s’accende.

Misera, e pur, benché d’amor sia servo,

di chi langue d’amor pietà non prende. –

Distintamente il tutto indi le spiega

e di consiglio in tanto affar la prega.

– Non per questo dei tu (l’altra risponde)                             85

abbandonar l’incominciata impresa.

Alma che bella fiamma in sé nasconde

e di quel bel l’impressione ha presa,

finché foco novel non venga altronde

d’una sola beltà si mostra accesa.

Mentr’ha l’occhio e’l pensiero in quel che brama,

altro non conoscendo, altro non ama.

Qualunque amante Amor infiamma e punge,                         86

ama l’oggetto bel che gli è presente,

ma la memoria sol ne tien da lunge

né la ritien però già lungamente.

Tosto ch’altra sembianza a mirar giunge

gli esce la prima imagine di mente.

Sempre il desir, di nove cose amico,

fa che’l novello amor scacci l’antico.

S’una volta averrà che tu pervegna                           87

pur di quel core ad occupar la reggia,

ch’oggi la madre di colui che regna

nel terzo ciel s’usurpa e tiranneggia,

essendo tu, senon di lei più degna,

di bellezza almen tal che la pareggia,

credimi, il primo ardor posto in oblio

l’inessorabil tuo diverrà pio.

La gemma poi che fa gl’incanti vani                           88

e’n cui tanta virtù stassi raccolta,

modo ben troverem che dale mani

o per froda o per forza a lui sia tolta.

Contro l’arte che sforza i petti umani

far allor non potrà difesa molta;

e tu di Citerea preso l’aspetto,

malgrado alfin di lei, n’avrai diletto. –

Falsirena a quel dir si riconforta                                89

e novo ardire entro’l suo cor si cria

perochél favellar che speme apporta

di cosa conseguir che si desia,

risuscitando la baldanza morta

fa creder volentier quel ch’uom vorria.

Quindi a colei che di ciò far promette

lascia cura del tutto e si rimette.

Miseramente in questo mezzo Adone                                   90

in dura servitù languia cattivo

passando la più rigida stagione

squallido, afflitto e quasi men che vivo.

Oltre il disagio e’l mal dela prigione

e l’esser del suo ben vedovo e privo,

forte accresceagli al cor pena e cordoglio

del crudo Idraspe il temerario orgoglio.

Chi può dir quanti affronti e quanti torti,                                91

ingiurie, villanie, dispetti e sdegni

dal discortese uscier sempre sopporti,

obbrobri intollerabili ed indegni?

Ma tormento peggior di mille morti

trapassa in lui d’ogni tormento i segni;

altro novo martir che troppo il punge

di tanti mali al cumulo s’aggiunge.

Feronia è più d’un che l’ha in governo;                             92

una nana è costei difforme e vecchia

laqual sera e mattin con onta e scherno

la vivanda gli reca e gli apparecchia.

Furia, credo, peggior non ha l’inferno;

può se stessa abborrir se mai si specchia.

Sembra, sì laida e sozza è nel’aspetto,

figlia dela Disgrazia e del Difetto.

Più groppi ha che le viti o che le canne                                  93

ed ha corpo stravolto e faccia smorta,

sbarrato il naso e lungo oltre due spanne,

ricurvo il mento, ampia la bocca e torta.

Come cinghiale infuor sporge le zanne

e su l’omero destro un scrigno porta.

Nele doppie pupille il guardo iniquo

fa gli occhi stralunar con giro obliquo.

Dopo molte ignominie e molti scorni                         94

che gli questo mostro, e beffe e giochi,

mentre con atti sconciamente adorni

d’alimenti il nutria debili e pochi,

motteggiandol pur un fra gli altri giorni

con parlar balbo e con accenti rochi,

sciolse la lingua, e poiché l’ebbe sciolta

intoppò, scilinguò più d’una volta:

– O feminella vil, ch’ad uominetto                         95

altro nome (dicea) conviensi male,

vo’, rimproverando il suo difetto,

far a Natura un vituperio tale,

or se non sai d’amor prender diletto,

il tuo sesso virile a che ti vale?

O qual beltà ti scalderà giamai

s’ad arder dela mia senso non hai?

Meraviglia non è se Falsirena                                    96

sprezzasti, ancorché vanto abbia di bella,

quando di vagheggiar ti degni apena

più vaga tanto e signoril donzella;

né per averne l’agio a prandio, a cena

solo con sola in sì remota cella,

sciocco che sei, richiedermi d’amore

t’è mai bastato in tante volte il core.

Senon che certo assecurata io fui                              97

ch’uom non se’ tu sicome gli altri sono,

anzi un freddo spadon qual’è costui

che qui ti guarda a tal mestier mal buono,

te sol torrei come sol degno a cui

facessi di mestessa intero dono

dandoti inun co’ miei sublimi amori,

suo malgrado, a goder cibi migliori.

Poiché son dunque i tuoi pensiersciocchi                          98

e ciechi alo splendor de’ raggi miei,

convien che tu mi mostri e ch’io ti tocchi

or or se maschio o pur femina sei.

E quando avenga che le mani e gli occhi

ti trovin poi qual mai non crederei,

troncar ti vo’ quell’organo infecondo

che tu possiedi inutilmente al mondo.

Ma perché dubbio alcuno in te non resti                               99

e le bellezze mie non prenda a riso

mira ciò che tu perdi e ciò ch’avresti,

ecco t’apro il tesor del paradiso.

Guarda se bella pur sotto le vesti

altrettanto son io quanto nel viso. –

Così dicendo s’accorciò la gonna

e sì gli veder ch’ell’era donna.

Poi le luci girò bieche e traverse                                100

sì che mirando lui mirava altrove

e quella bocca ad un sorriso aperse

che sepoltura par se s’apre o move,

e innanzi a lui sì oscene e sì diverse

di sua disonestà prese a far prove

che di fastidio ogni altro cor men franco

fora assai meno a sofferir già stanco.

Un tratto pur l’impazienza il vinse,                             101

che sdegno degno e generoso il mosse:

mentre la bruttarella a lui si spinse

sfacciata per baciar più che mai fosse,

Adone il pugno iratamente strinse

e la sinistra tempia le percosse.

Nel malpolito crin poscia la prese

ed a forza di calci al suol la stese.

La fiera gobba intorno a lui s’attorse                         102

aviticchiata in mostruosa lutta

e con l’ugne il graffiò, codenti il morse,

quanto arrabbiata più, tanto più brutta.

Ai romori, ale strida Idraspe corse

che risonar facean la casa tutta

e sgridando il garri che la scrignuta,

deputata a servirlo, avea battuta.

E con la sferza in mano anco il minaccia                                103

ch’egli il correggerà se non s’emenda.

Idonia allor vi sovraggiunge e scaccia

la coppia abominabile ed orrenda.

Poi con più grata e più piacevol faccia

vuol che’l fatto da capo a dir le prenda.

– La colpa (disse) è del tuo cor protervo

che potendo esser re, vuol esser servo.

Tu vedi, o folle, pur che ti ritrovi                               104

nele forze di lei che sì disami.

Perché non pronto ad accettar ti movi

l’offerto ben, sel proprio mal non brami?

Nulla quel tuo rigor fia che ti giovi

che tu costanza e continenza chiami.

S’uscir vuoi di molestie e di tormenti

altr’armi usar che crudeltà convienti.

Pensa dunque al tuo meglio ed a testesso                              105

non negar tanta gloria in tanto male;

che quando pur da te ne sia promesso

sotto sincera d’esser leale,

non sol quindi d’uscir ti fia concesso,

ma sarai quasi ai divi in terra eguale.

A bellezza, a ricchezza amor congiunto

ti farà beatissimo in un punto.

Ma s’avien ch’atra nebbia al’alma ingrata                             106

gli occhi dela ragione abbia sì chiusi

che la bontà dela benigna fata

riconoscer non sappia, anzi l’abusi,

cotesta oltr’ogni credere ostinata

pertinacia crudel sola s’accusi

di quanto mal per tal cagion t’avegna,

ch’amor divien furor quando si sdegna.

Quanto gradita è più, vie più s’avanza                                   107

in nobil alma umanità cortese.

Ingiuriata poi muta l’usanza,

pari è l’odio al’amor che pria l’accese.

Non ha nel’ire sue freno a bastanza

siché non corra a vendicar l’offese.

Ma ciò più molto avien qualor si sprezza

di magnanima donna alta bellezza.

Guardati, quando averla ora non vogli                                  108

supplichevole amante e lusinghiera,

d’averla poi con pene e con cordogli

tiranna formidabile e severa.

Conchiudo infin che se non sleghi e sciogli

chi del suo prigioniero è prigioniera,

senza trovar pietà fra tanti affanni

in villana prigion perderai gli anni. –

Adon che senza scampo e senza aita                        109

le cose in stato pessimo vedea,

pensò che s’egli cara avea la vita,

cara se non per sé per la sua dea,

mostrar gli convenia fronte mentita

e di cangiar pensier finger devea

e, l’opre al tempo accomodando in parte,

far virtù del bisogno ed usar l’arte.

Comincia a serenar l’aria del volto                            110

e più grato a mostrarsi e men rubello,

e sperando in tal guisa esser poi sciolto

qualch’indizio gli d’amor novello.

La prega intanto almen che gli sia tolto

dela nana importuna il gran flagello,

poiché gli è sovr’ogni altra aspra sciagura

malvagia ministra a soffrir dura.

Lieta Idonia promette e perché’l crede                                 111

da lunga fame indebolito e smorto,

ristorarlo s’ingegna e gli concede

di soavi conserve alcun conforto.

Ma nel’anel che Citerea gli diede

volgendo ador ador lo sguardo accorto,

pensa come gliel rubi e gli presenta

alloppiato vasel che l’addormenta.

D’oppio forte e gravoso è quel licore                                   112

composto e di mandragora e di loto.

Grato ala vista appare ed al sapore,

ma secreto nasconde un fumo ignoto

di sì strana virtù, di tal vigore,

ch’opprime gli occhi e toglie il senso e’l moto,

atto a stordir non pur le menti umane,

ma d’Esperia e di Stige il drago e’l cane.

Senza pensar più oltre, Adone il beve                                   113

tarda molto ad operar l’effetto,

ch’un sì tenace sonno il prese in breve

che fu qual ebro a vacillar costretto

e, vinto dal’oblio profondo e greve,

girsen su l’orlo a riversar del letto.

Idonia che del tutto era presaga,

lasciollo alquanto ed appellò la maga.

La maga insu l’entrar, poiché gli fece                        114

del dito trar l’adamantino anello,

un altro suo vene suppose in vece,

somigliante così che parea quello.

Poi legar con diece groppi e diece

di rigidoro il misero donzello,

ch’al raddoppiar dele catene grosse,

perché nulla sentia, nulla si mosse.

Salvo un sol chiavistel d’acciaio duro,                                   115

la cui chiavetta altrui fidar non osa,

tutta vuol che sia d’or semplice e puro

quella ricca catena e preziosa,

sì perché più che del metallo oscuro

del più lucido e fino è copiosa,

sì perché’n laccio d’oro essendo stretta

vuol con un laccio d’or farne vendetta.

Dopo lungo dormir quand’ei si desta                        116

e si ritrova in auree funi avinto

dalo stupore, onde confuso resta,

lo stupor del letargo intutto è vinto.

La cara gemma a contemplar s’appresta

non sapendo però ch’è l’anel finto;

e perché non vi scorge il volto amato

teme non contro lui sia forse irato.

Amor insidioso, i tuoi piaceri                                 117

com’han l’ali (dicea) veloci e lievi!

come schernisci altrui? non sia chi speri

gioie da te senon fugaci e brevi.

Perché levar tant’alto i miei pensieri

se poi precipitarmene volevi?

Mi sommergi nel porto apena giunto

e mi fai ricco e povero in un punto.

Fortuna ingiuriosa, i’ non credea                               118

perder in erba la sudata messe,

né ch’una stolta e temeraria dea

nel’impero d’amor ragione avesse.

Così dunque sen van, perfida e rea,

con le speranze mie le tue promesse?

dunque dal tuo furor perverso e duro

tra le miserie ancor non son securo?

Non prestai fede ala tua madre, Amore,                               119

quand’era, ch’or non son, contento e lieto.

Dicea ch’eri un mal dolce, un dolce errore,

sagittario crudel, rege indiscreto,

labirinto di fraude e di dolore,

libera servitù, porto inquieto,

in cui pietà mai non si trova.

Lasso, or tardi il conosco e’l so per prova.

Ma tua tutta è l’ingiuria e tuo l’oltraggio                                120

del grave mal ch’ingiustamente io porto;

devresti soffrir, signor malsaggio,

da sì bassa nemica un sì gran torto.

Ecco mi toglie il desiabil raggio

ch’era al mio lungo duol breve conforto

e tien pur sotto giogo aspro e servile

chiuso un tuo prigioniero in carcer vile.

Ed a te non bastò, cruda Fortuna,                             121

farmi nascer d’incesto in lido estrano,

d’ogni paterno ben fin dala cuna

spogliarmi e’l regno mio tormi di mano

e, ciò ch’è più, lasciarmi in notte bruna

dal sol, che splende altrui, tanto lontano,

ch’aggiunger nodi a nodi anco volesti:

e pur scettri ed onor mi promettesti.

Contro le tue spietate e rigidarmi                             122

qual privilegio avran diademi e troni,

se con chi langue e muor non le risparmi?

se né pur anco ai miseri perdoni?

se son trafitto, a che più saettarmi?

quest’è l’eccelso stato ove mi poni?

Precipizi maggior dunque hai prefissi

a chi caduto è già sotto gli abissi?

Ahi, chi del fior del mio sperar mi priva?                               123

chi nega agli occhi miei l’amata aurora?

Giungerò mai di tanti strazi a riva?

godrò mai lieta o consolata un’ora?

Com’esser può che senza vita io viva?

sarà pur ver che non morendo io mora?

Deh, che farò? com’avrò pace alcuna?

Con voi parlo, Amor empio, empia Fortuna.

Fortuna empia, empio Amor, quai pene o danni                                124

non sostien chi per voi piagne e sospira?

L’un è fanciul fallace e pien d’inganni,

femina l’altra ebra d’orgoglio e d’ira.

Questa sovra la rota e quei su i vanni,

quei sempre vola e questa sempre gira.

Cieco l’un, cieca l’altra, ed ambidui

aquila e lince a saettare altrui. –

Con queste note or di sua sorte dura,                                   125

or del crudel Amor seco discorre;

Venere incolpa che di lui non cura,

di Mercurio si duol che no’l soccorre;

quand’ecco entrato in quella stanza oscura

Mercurio istesso ala sua vista occorre,

ch’a dispetto di toppe e di serragli

viene a porgergli aita in que’ travagli.

Mercurio a cui già dala dea commesso                                 126

fu il patrocinio di chi’l cor le tolse,

gli assistea sempre e’l visitava spesso,

seben lasciar veder mai non si volse.

Veggendol dal digiun talvolta oppresso,

cibi divini e dilicati accolse

ed al mesto garzon poi la colomba

gli recava nel becco entro la tomba.

Or colta ha l’erba rara e vigorosa,                            127

non so ben dire in quale estrania terra,

contro la cui virtù meravigliosa

con mille chiavi indarno uscio si serra,

e se le piante alcun destrier vi posa

ne svelle i chiodi e lo discalza e sferra.

Con questa, senza strepito o fracasso,

invisibile altrui s’aperse il passo.

Carna, dea dele porte e dele chiavi,                          128

di quella entrata agevolò le frodi

e di volger per entro i ferri cavi

l’adunco grimaldel mostrogli i modi.

Le fibbie doppie, i catenacci gravi,

le grosse sbarre, i ben confitti chiodi

e le guardie saltar d’intorno al buco

così pian che non l’udì l’eunuco.

Uditi ch’ebbe il messaggier del cielo                         129

del tribulato giovane i lamenti,

a lui scoprissi e con un molle velo

gli venne ad asciugar gli occhi piangenti.

Poi tutto pien d’affettuoso zelo

dolce il riprende e con sommessi accenti,

che dela dea tra’ suoi maggior perigli

così mal custoditi abbia i consigli

e, ch’avisato in prima ed avertito,                             130

stato sia sì malcauto e sì leggiero

che lasciato levar s’abbia di dito

quel don maggior di qualsivoglia impero

e dato agio a colei che l’ha rapito

di porvi un falso anel simile al vero.

Poi dela gemma adultera e mendace

gli fa chiaro veder l’arte fallace.

L’altro inganno dipiù gli spiana e snoda                                 131

del contrafatto e magico sembiante

e dice che non miri e che non oda

l’istessa dea se gli verrà davante,

ch’altro non fia ch’insidia, altro che froda

che s’apparecchia ala sua costante;

che sotto finta imagine e furtiva

sarà la donna e sembrerà la diva.

L’instruisce del tutto e gli ricorda                              132

ch’ella d’ogni malia porta le palme,

che può con versi orrendi a morte ingorda

far vomitar le trangugiate salme,

tor malgrado di Dite avara e sorda

al’urne i corpi ed agli abissi l’alme,

può sommerger il sol nel mar profondo,

sotterra il cielo e nel’inferno il mondo.

Dicegli che bisogno ha che si guardi                          133

dale lusinghe sue qualor ragiona,

ch’ogni fata ha per esche accenti e sguardi

onde gli animi alletta e gl’imprigiona;

ma dopo i vezzi perfidi e bugiardi

sazia alfin gli schernisce e gli abbandona.

Molti uccider ne suol, talun n’incanta,

volto in fera, in augello, in sasso o in pianta.

Soggiunge ancor che non dia punto fede                               134

ale solite sue leggiadre forme,

poiché tutt’arte in lei quanto si vede

e l’essere al parer non è conforme;

e seben d’anni e di laidezza eccede

qualunque fusse mai vecchia difforme,

supplisce sì con l’artificio ch’ella

ne viene a comparir giovane e bella,

e che ciò fa perché vezzosa in vista                           135

d’alcun semplice amante il cor soggioghi,

con cui, ché raro avien ch’altri resista,

sua sfrenata libidine disfoghi.

Ma se’l perduto anel giamai racquista,

uscito fuor di que’ profondi luoghi,

e con esso averrà ch’egli la tocchi,

tosto del ver s’accorgeranno gli occhi.

Finalmente lo slega e dela foglia                                136

dono gli fa che più del ferro è forte

e l’ammaestra ancor come si scioglia

quando allentar vorrà l’aspre ritorte.

Seben fuggir non può fuor dela soglia,

mentre il fiero guardian guarda le porte,

basterà ben che quando altri nol miri,

disgravato del peso, almen respiri.

Stupisce Adon di quanto egli racconta.                                 137

L’altro di sen si trae, prima che parta,

possente a ristorar la doglia e l’onta,

lettra di linee d’or vergata e sparta.

La rosa che’l suggello ha nel’impronta

mostra onde vegna e di chi sia la carta.

Dice la riga in su’l principio scritta:

«Al suo bel feritor la dea trafitta».

La sciolse e parve inun gli si sciogliesse                                 138

l’alma dal core e che’n aprir s’aprisse.

Poi quante note su v’erano impresse

tanti baci amorosi entro v’affisse,

perché considerò, quando la lesse,

qual amor la dettò, qual man la scrisse.

Fu del gran pianto che’n sul foglio sparse

sola mercé se cosospir non l’arse.

Veggio (il foglio dicea) veggio i tormenti                            139

che di soffrir per mia cagion ti sforzi.

So le perfidie ordite e i tradimenti

per far ch’un sì bel foco in te s’ammorzi.

Per tanto la tua non si sgomenti,

ma combattuta più, più si rinforzi;

rompa del tuo cor l’auree catene

la ferrata prigion che ti ritiene.

Cruda prigion, ma vie più cruda molto                                  140

quella che qui mi tien legata e stretta,

ch’oltre che de’ begli occhi il sol m’ha tolto,

a chi mel toglie ancor mi fa soggetta.

Bramo il piè come il core averne sciolto,

ma la spada può più che la saetta,

e seben la sua forza ogni altra avanza,

amor contro furor non ha possanza.

Che mel senz’aghi e rosa senza spine                                    141

coglier mai non si possa, è legge eterna.

Stan le doglie ai piacer sempre vicine,

così piace a colui che ne governa.

Ma speriam pur che liberati alfine

io d’un inferno e tu d’una caverna,

tornando in breve al’allegrezza antica

scherniremo l’amante e la nemica.

So che m’ami e se m’ami ami testesso                                  142

perché più che’n testesso in me tu sei.

Se t’ho nel core immortalmente impresso,

s’ardon tutti per te gli affetti miei,

io nol vodir. Se tu non fossi in esso,

anzi se me non fossi, io tel direi.

Chiedilo a te, peroché’n te, cor mio,

più che’n mestessa, anzi pur te son’io.

Cor del’anima mia, vivi e sopporta                           143

e viva teco il tuo ben nato ardore;

e con un sol pensier ti riconforta

ch’altri giamai di me non fia signore;

e se forza a far altro or mi trasporta

scusabil è, non volontario errore.

Più non ti dico; a quanto a dir mi resta

supplirà teco il recator di questa. –

Letti i bei versi, acconciò i ferri e sparve                               144

Mercurio, e quindi era sparito apena

che la rival di Venere v’apparve

ma tal che non parea più Falsirena.

Quasi deluso da sì belle larve

a prima vista Adon non ben s’affrena;

e benché sappia esser beltà fallace,

l’inganno è però tal ch’agli occhi piace,

e senonché del ver tosto s’accorse,                          145

tal fu del fido messo il cauto aviso,

sendo senza l’anel, fuor d’ogni forse,

creduto avrebbe al simulato viso,

perché di Citerea tutti in lei scorse

portamenti e fattezze e sguardo e riso.

Ella in entrando il salutò per nome,

ma volendo parlar non seppe come.

Già lontana la fiamma avea nutrita                             146

che nel cor le lasciò la bella stampa;

orch’ella ha da vicin l’esca gradita,

subitamente in novo incendio avampa.

Fatta da quest’ardore alquanto ardita,

al’usata battaglia allor s’accampa.

Volse baciarlo e si restò per poco,

pur moderò sestessa in sì gran foco.

Per occultar, per colorir la trama                              147

biasma di Falsirena il perfidatto

e cruda, ingiusta e disleal la chiama

ch’a sì gran torto un tanto mal gli ha fatto.

Promette e giura poi per quanto l’ama

di far ancor che di prigion sia tratto.

Purch’ella del suo amor resti secura,

lasci poi di francarlo a lei la cura.

Gli s’asside da lato e gli distende                              148

mentre ragiona insu la spalla il braccio

e tuttavia con la man bella il prende

per annodarlo in amoroso laccio.

Benché legato ei sia, pur si difende

e’l collo almen desvia da quell’impaccio,

la testa abbassa e dale labra audaci

torce la bocca e le nasconde i baci.

Fittosi in grembo il volto, a lei l’invola,                                  149

anzi per non mirarla i lumi serra.

Ma poiché pur assai d’una man sola

durata è già la faticosa guerra,

la manca ella gli pon sotto la gola

e con la destra il biondo crin gli afferra,

con una mano il crin gli tira e stringe

con l’altra il mento gli solleva e spinge.

O sì o no ch’a forza ella il baciasse,                          150

veduto riuscir vano il disegno,

stanca, dal’opra sua pur si ritrasse

ed onta ad onta accrebbe e sdegno a sdegno.

Le luci alzando allor torbide e basse,

dela favella Adon ruppe il ritegno

e disse: – Or quando mai, dea degli amori,

fu ch’Amor ad amar sforzasse i cori?

Non è questo, non è vero godere,                            151

né modo d’appagar nobil desire.

E qual gioia esser può contro il volere

di chi non vuole alcun piacer rapire?

Ma che? delizie ed agi ama il piacere;

tra miserie e dolor chi può gioire?

Non si denno dubbiose e malsecure

le dolcezze mischiar con le sciagure.

Vuoi che tra ceppi e ferri io t’accarezzi?                               152

loco questo ti sembra atto ai diletti?

Serba, ti prego, a miglior tempo i vezzi

più ch’oportuni or importuni affetti.

Attendi pur che s’apra o che si spezzi

la prigione onde trarmi oggi prometti;

creder ch’ai trastulli io possa pria

teco tornar che libero ne sia.

Bastiti ch’io di te non ardo meno;                             153

abita il corpo qui d’anima privo;

l’anima alberga teco e nel tuo seno

vive vita miglior ch’io qui non vivo.

Né del carcere antico il duro freno

d’altra beltà mi lascia esser cattivo;

né quantunque dannata a sì rea sorte,

la mia vita per te teme la morte.

L’oro crespo e sottil, l’oro lucente                            154

di quella bionda treccia ond’io fui preso

quanto, o quanto, è più forte e più possente

di questo ricco mio tenace peso.

Questa catena è tal che solamente

ritiene il corpo e non n’è il core offeso.

Quella che mi legò la prima volta

mi stringe il core e non sarà mai sciolta. –

Così dicea dissimulando e certo                                155

ogni altro, a cui del’orator d’Egitto

stato non fusse un tanto inganno aperto

o che non fusse in lealtate invitto,

dal dolce oggetto ala sua vista offerto

fuggir non potea già d’esser trafitto.

Volgendo alfin l’ingannatrice il tergo

desperata partì da quell’albergo,

e con Idonia far l’ultime prove                                  156

del beveraggio magico risolve.

Qual guastada abbia a torre e come e dove

le’nsegna e qual licor misto a qual polve.

Quella il silopo a preparar si move

che gli umani desir cangia e travolve;

e nel secreto studio ove la fata

chiude gli arcani suoi, s’apre l’entrata.

Prende l’ampolla abominanda e ria                           157

e quel forte velen tempra e compone

che, se fusse qual crede e qual desia,

nonché le voglie infervorar d’Adone,

far vaneggiar Senocrate poria

e d’illecite fiamme arder Catone.

Ma non tutto quel male e quello scempio

permette il ciel che si promette l’empio.

La rea ministra ch’al garzon la mensa                                    158

dopo la nana ha d’apprestare in uso,

mesce il vin con quel sugo e gli dispensa

nel’aurea coppa il maleficio infuso.

Ma, non pari l’effetto aquel che pensa,

il disegno fellon lascia deluso;

apena ei l’acqua perfida ha bevuta

che subito di fuor tutto si muta.

Tutte le membra sue (mirabil mostro)                                    159

impiccioliro e si velar di penne

e di verde e d’azzurro e d’oro e d’ostro

piumato il corpo in aria si sostenne.

S’ascose il labro, anzi aguzzossi in rostro,

la bocca, il mento, il naso osso divenne;

divenne carne l’incarnata vesta

e si fece il cappel purpurea cresta.

Nele dita che fatte ha più sottili                                 160

spuntan curve e dorate unghie novelle,

fregian ristretto il collo aurei monili,

si raccoglie ogni braccio entro la pelle,

si ritiran le man bianche e gentili

e s’allargano in ali ambe l’ascelle.

Due gemme ha in fronte, ond’esce un dolce lume,

siché più vago augel non batte piume.

Venere bella, ahi qual perfidia, ahi quale                               161

forte ventura il tuo bel sol t’ha tolto?

La beltà, del tuo foco esca immortale,

ecco prende altra spoglia ed altro volto.

Strano malor del calice infernale

in cui tosco maligno era raccolto!

L’incantata bevanda ebbe tal forza

che fu possente a trasformar la scorza.

Fusse del nume che’l difende e guarda                                  162

providenza divina o fusse caso,

quando il vetro pigliò la maliarda,

scambiò per fretta e per errore il vaso.

Quelche fa che d’amore ogni cor arda,

simile intutto a questo, era rimaso

ed, ingannata dal’istessa forma,

in sua vece adoprò quelche trasforma.

Tosto che s’è del fallo Idonia accorta                                   163

mezzo riman tra stupida e dolente.

Per trascuragin sua vede che porta

l’amoroso rimedio altro accidente.

– Oimé misera (grida) oimé, son morta! –

e piagne invano, invan s’adira e pente;

il crin si svelle, il petto si percote,

stracciasi i panni e graffiasi le gote.

Già fuor dela prigion libero vola                                164

d’abito novo il novo augel vestito.

Lamentarsi vorria, ma la parola

non forma, come suol, senso spedito

e gorgheggiando dal’angusta gola

dela favella invece esce il garrito;

né del’umana sua prima sembianza,

tranne sol l’intelletto, altro gli avanza.

L’intelletto e’l discorso ha solo intero,                                  165

onde qual’è, qual fu, conosce apieno.

Rimembra il dolce suo stato primiero

e disegna al suo ben tornar in seno.

Poi sentendosi andar così leggiero

per l’immenso del ciel campo sereno,

mentre al’albergo usato il camin piglia,

di tanta agilità si meraviglia.

Lascia di quella ricca aurea contrada                        166

il sotterraneo infausto empio soggiorno,

passa le grotta e per la nota strada

fa nel superior mondo ritorno.

Ferma il sole i destrieri ovunque ei vada,

fermansi i venti a vagheggiarlo intorno,

e secondando il va da tutti i lati

musico stuol di cortigiani alati.

Del superbo diadema e del bel manto                                   167

le pompe aprova ammirano e i colori,

e con ossequi di festivo canto

gli fan per tutto il ciel publici onori.

Non ha mai la fenice applauso tanto

dal’umil plebe degli augei minori

qualor cangiando il suo sepolcro in culla

ritorna, di decrepita, fanciulla.

Ma chi può dir quante fortune e quanti                                  168

gravi passò tra via rischi e perigli?

Quai rapaci incontrò mostri volanti

che volser nel suo sen tinger gli artigli?

Aquile e nibi a cui scampar davanti

poco giovato avrian forze o consigli

se’l celeste tutor che n’avea cura

non gli avesse la via fatta secura.

Non però d’augel fiero unghiarostro                                169

gli nocque tanto in quella sorte aversa,

quanto il mostro peggior d’ogni altro mostro,

dico la Gelosia cruda e perversa.

Uscita questa del suo cieco chiostro

con l’amaro velen che sparge e versa

lo dio del ferro armar gli parve poco

se non facea gelar lo dio del foco.

Venne a Vulcano e le fu facil cosa                            170

far nel suo core impression tenace,

che per prova ei sapea l’infida sposa

d’ogni fraude in tai casi esser capace.

Rode men la sua lima e più riposa

attizzata da lui la sua fornace,

che non fa di quel tarlo il morso fiero,

che non fa la sua mente e’l suo pensiero.

Mentre di rabbia freme e di dispetto,                        171

dal dolor, dal furor trafitto e vinto,

a raddoppiargli ancor stimuli al petto

vi sovragiunge il biondo arcier di Cinto.

Questi dela cagion di quel sospetto

gli più certo aviso e più distinto,

onde il misero zoppo aggiunger sente

sovra il ghiaccio del’alma incendio ardente.

Somiglia il monte istesso ov’ei dimora,                                  172

che tutto è carco di nevosa bruma,

ma dal’interne viscere di fora

le faville essalando avampa e fuma.

Né così’l proprio mantice talora

le fiamme incita e i pigri ardori alluma,

come quell’instigar gli soffia e spira

negli spirti inquieti impeto d’ira.

Dalo sdegno che l’agita e l’irrita                                173

sospinto fuor del nero albergo orrendo,

con la scorta di Febo e con l’aita

tra sé machine nove ei va volgendo.

Quindi fu poscia di sua mano ordita

la catena ch’Adon strinse dormendo.

L’aurea catena che’n prigion legollo

fu lavor di Vulcan, pensier d’Apollo.

E non solo il lavor dela catena                                  174

l’un di lor consigliò, l’altro esseguio,

ma l’istessa prigion di Falsirena

fu fabricata dal medesmo dio.

Come ciò fusse o se notizia piena

n’ebbe la fata allor, non so dir io.

Prese d’un vil magnan vesta e figura

e di tesser que’ ferri ebbe la cura.

Tuttavia d’or in or quanto succede                            175

gli va scoprendo il condottier del giorno

che del vaticinar l’arte possiede

e d’ogni lume è di scienza adorno

e, sicome colui che’l tutto vede

scorrendo i poli e circondando intorno

dela terra e del ciel la cima e’l fondo,

può ben saver ciò che si fa nel mondo.

– Tu sai ben (gli dicea) quanto mi calse                                 176

del tuo mai sempre, anzi pur nostro onore

e che’n me questo debito prevalse

al’odio istesso dela dea d’amore,

laqual per tua cagion, benché con false

dimostranze il velen copra del core,

per la memoria dell’ingiuria antica

mi fu da indi in poi sempre nemica.

Orché pur d’Imeneo le sacre piume                          177

questa indegna del ciel furia d’inferno

con novo scorno di macchiar presume,

vuolsi ancora punir con novo scherno;

e posciachél suo indomito costume

a corregger non val freno o governo,

dela stirpe commun pensar bisogna

a cancellar la publica vergogna.

Se l’obbrobrio e l’infamia in ciò non vale,                             178

vagliane omai la crudeltate e’l sangue.

Io ti darò quest’arco e questo strale

che’n Tessaglia ferì l’orribil angue.

Poi quel rozzo berton, quel vil mortale

per cui sospira innamorata e langue,

io vo ch’apposti sì con la mia guida

ch’oggi di propria man tu glieluccida. –

Con questi detti a vendicar quel torto                                   179

il torto dio perfidamente induce.

Poi donde passar deve di corto

il trasformato giovane il conduce

e di tutto il successo il rende accorto

il portator dela diurna luce.

Gli disegna l’augel, gl’insegna l’arte

del trattar l’arco e gliel consegna e parte.

Ma qual fatto è sì occulto il qual non sia                                180

al tuo divin saver palese e noto,

virtù del tutto esploratrice e spia,

intelligenza del secondo moto?

Non consente Mercurio opraria,

ma vuol che quel pensier riesca a voto

e, dal rischio mortal campando Adone,

l’arte schernir del’assassin fellone.

Là’ve soggiorna il pargoletto alato                            181

l’alato messaggier volando corse

e per somma ventura addormentato

solo in disparte entro’l giardin lo scorse.

Discese a terra e gli si mise a lato

leggier così ch’Amor non senaccorse.

Quivi pian pian mentr’ei posava stanco

un’aurea freccia gl’involò dal fianco.

È di tal qualità la freccia d’oro                                  182

che dolcezza con seco e gloria porta,

reca salute altrui, porge ristoro,

il cor rallegra e l’anima conforta

ed ha virtù di risvegliare in loro

la fiamma ancor quand’è sopita o morta;

e se’l foco non è morto o sopito,

riscalda almen l’amore intepidito.

Senz’altro indugio ei sene va con essa,                                 183

dove il fabro crudel guarda la posta

e con la sua sottil destrezza istessa

gli scambia l’altra ch’ha nel suol deposta;

veduto è da lui quando s’appressa,

ch’altrove intanto ogni sua cura ha posta,

mentre la caccia insieme e la vendetta

insidioso uccellatore aspetta.

Venia l’augel con ali basse il suolo                            184

quasi radendo e l’adocchiò Vulcano,

che per troncargli inun la vita e’l volo

l’arco incurvò con la spietata mano,

e’n quel petto scoccò, ch’avezzo solo

era ai colpi d’amor, colpo inumano.

Ma la saetta d’or dala ferita

sangue non trasse e non fu pur sentita.

L’insensibile strale aventuroso                                  185

colselo sì, ma l’usato effetto,

che per novo miracolo amoroso

invece di dolor gli diè diletto

e quell’amor, che forse era dubbioso,

per sempre poi gli stabilì nel petto.

Così chi tende altrui froda ed inganno

è ministro talor del proprio danno.

Fuggito Adon lo scelerato oltraggio                          186

del feritore infuriato e pazzo,

stanco, ma quasi a fin di suo viaggio

giuntera a vista del divin palazzo,

quando trovò sotto un ombroso faggio

due ninfe dela dea starsi a sollazzo

ed avean quivi ai semplici usignuoli,

che tra’ rami venian, tesi i lacciuoli.

Tra quelle fila sottilmente inteste                                187

passò, ma nel passar diè nela rete

e le donzelle a corrervi fur preste,

forte di preda tal contente e liete.

Belle serve d’Amor, se voi sapeste

qual sia l’augel ch’imprigionato avete,

perch’a fuggir da voi mai più non abbia,

o come stretto il chiudereste in gabbia!

Corron liete ala preda e tosto ch’hanno                                188

tra’ nodi indegni il semplicetto involto,

perché ben di Ciprigna il piacer sanno

stimano che gradire il devrà molto.

Quindi al’ostel del Tatto elle sen vanno

e’l lascian per quegli orti andar disciolto,

secure ben che da giardinbello,

benché libero sia, non parte augello.

Giunto al nido primier de’ suoi diletti                         189

su’l ramoscel d’un platano si pose,

e vide, ahi dura vista!, in que’ boschetti

sovra un tapeto di purpuree rose

Venere e Marte che traean soletti

in trastulli d’amor l’ore oziose,

alternando tra lor vezzi furtivi,

baci, motti, sorrisi, atti lascivi.

Pendean d’un verde mirto il brando crudo,                           190

la lorica, l’elmetto e l’altro arnese.

Onde mentr’ei facea senz’armi ignudo

ala bella nemica amiche offese,

era il limpido acciar del terso scudo

specchio lucente ale sue dolci imprese

e con l’oggetto de’ piacer presenti

raddoppiava al’ardor faville ardenti.

Volava intorno a quel felice loco                               191

Zefiro, il bel cultor del vicin prato,

e de’ sospiri lor temprando il foco

con la frescura del suo lieve fiato

e con vago ondeggiar, quasi per gioco

sventolando il cimier del’elmo aurato,

facea concorde ale frondose piante

l’armatura sonar vota e tremante.

Sopiti omai dela tenzon lasciva                                 192

gli scherzi, le lusinghe e le carezze,

giunti eran già trastulleggiando a riva

del’amorose lor prime dolcezze.

Già dormendo pian pian dolce languiva

la reina immortal dele bellezze;

men che’l forte dio la bella dea

tutte le spoglie sue deposte avea.

Pargoleggianti esserciti d’Amori                                193

fan mille scherni al bellicoso dio;

e qual guizza tra’ rami e qual tra’ fiori,

qual fende l’aria e qual diguazza il rio;

e perché carchi d’ire e di furori

non cede intutto ancor gli occhi al’oblio,

tal v’ha di lor che’n lui tacito aventa

un sonnachioso stral che l’addormenta.

Lasciasi tutto allor cader riverso                               194

il feroce motor del cerchio quinto

e nel fondo di Lete apieno immerso

sembra, vie più ch’addormentato, estinto.

Di sangue molle e di sudore asperso,

dal moto stanco e dal letargo vinto,

rallentati, non sciolti, i nodi cari,

soffia il sonno dal petto e dale nari.

O che riso, o che giubilo, o che festa                        195

la schiera allor de’ pargoletti assale!

Scherzando van di quella parte in questa

a cento a cento e dibattendo l’ale.

Un fugge, un torna, un salta ed un s’arresta,

chi su le piume e chi sotto il guanciale.

Le cortine apre l’un, l’altro s’asconde

tra le coltre odorate e tra le fronde.

Tal, poiché lasso e disarmato il vide                          196

dopo mille posar mostri abbattuti,

osò già d’assalire il grande Alcide

turba importuna di pigmei minuti.

Così su’l lido ove Cariddi stride,

soglion con tirsi e canne i fauni astuti

del ciclopo pastor, mentre ch’ei dorme,

misurar l’ossa immense e’l ciglio informe.

Altri il divin guerrier con sferza molle                         197

fiede di rose e lievemente offende.

Altri ala dea più baldanzoso e folle

fura gli arnesi ed a trattargli intende.

Altri la cuffia, altri il grembial le tolle,

chi degli unguenti i bossoli le prende.

Chi lo specchio ha per mano e chi’l coturno,

chi si pettina il crin col rastro eburno.

Un ven’ha poscia, il qual mentr’ella assonna,                        198

del suo cinto divino il fianco cinge

e veste i membri dela ricca gonna

e con l’auree maniglie il braccio stringe

ed ogni gesto e qualità di donna

rappresenta, compone, imita e finge,

movendo su per quegli erbosi prati

gravi al tenero piede i socchi aurati.

L’andatura donnesca e’l portamento                         199

ne’ passi suoi di contrafar presume,

e’ntanto con un morbido stromento

di canute contesto e molli piume,

ond’allettare ed agitare il vento

Citerea ne’ gran soli ha per costume,

un altro dela plebe fanciullesca,

l’aria scotendo, il volto gli rinfresca.

Un altro, al’armi ben forbite e belle                           200

dato di piglio del’eroe celeste,

con vie più audace man gl’invola e svelle

dal lucidelmo le superbe creste;

e’l viso ventilandogli con quelle

ne sgombra l’aure fervide e moleste,

poi dala fronte gli rasciuga e terge

le calde stille onde’l sudor l’asperge.

Alcun altri divisi a groppo a groppo                          201

in varie legioni, in varie squadre,

con l’armi dure e rigorose troppo

muovon guerre tra lor vaghe e leggiadre.

Chi cavalca la lancia e di galoppo

la sprona incontro ala vezzosa madre,

chi con un capro fa giostre e tornei,

chi dela sua vittoria erge i trofei.

Parte piantan gli approcci e vanno a porre                            202

l’assedio a un tronco e fan monton del’asta,

batton la breccia e son castello e torre

la gran goletta e la corazza vasta.

Chi combatte, chi corre e chi soccorre,

altri fugge, altri fuga, altri contrasta,

altri per l’ampie e spaziose strade

con amari vagiti inciampa e cade.

Questi d’insegna invece il vel disciolto                                  203

volteggia al’aura e quei l’afferra e straccia.

Colui la testa impaurito e’l volto

nela celata per celarsi caccia

e dentro vi riman tutto sepolto

col busto, con la gola e con la faccia.

Costui, volgendo al’aversario il tergo,

corre a salvarsi entro’l capace usbergo.

Ma ecco intanto il principe maggiore                         204

del’alato squadron che lor comanda.

Comanda, dico, agli altri Amori Amore,

agli altri Amori iquai gli fan ghirlanda,

ch’ad onta sia del militare onore

tosto legata ala purpurea banda

la brava spada e’n guisa tal s’adatti

ch’a guisa di timon si tiri e tratti.

Senza dimora il grave ferro afferra                            205

sudando a prova il pueril drappello.

Ciascuno in ciò s’essercita e da terra

sollevarlo si sforza or questo or quello.

Ma perché’l peso è tal ch’apena in guerra

colui che’l tratta sol può sostenello,

travaglian molto ed han tra lor divise

le vicende e le cure in mille guise.

Chi curvo ed anelante andar si mira                          206

sotto il gravoso e faticoso incarco.

Chi la gran mole assetta e chi la gira

dov’è più piano e più spedito il varco.

Chi con la man la spinge e chi la tira

o con la benda o col cordon del’arco.

L’orgoglioso fanciul guida la torma,

tanto che con quell’asse un carro forma.

Pon quasi trionfal carro lucente                                 207

del sovrano campion lo scudo in opra

e per seggio sublime ed eminente

alto v’acconcia il morion di sopra.

Quivi s’asside Amor, quivi sedente

trionfa del gran dio che l’armi adopra.

Traendo intanto il van di loco in loco

invece di destrier lo Scherzo e’l Gioco.

Acclama, applaude con le voci e i gesti                                 208

l’insana turba degli arcier seguaci;

dicean per onta e per dispregio: – È questi

l’invitto duce, il domator de’ Traci?

lo stupor de’ mortali e de’ celesti?

il terror de’ tremendi e degli audaci?

Chi vuol saver, chi vuol veder s’è quegli

deh! vengalo a mirar pria che si svegli.

Ecco i fasti e i trionfi illustri ed alti,                            209

ecco gli allori, ecco le palme e i fregi.

Più non si vanti omai, più non s’essalti

per tanti suoi sì gloriosi pregi.

Quant’ebbe unqua vittorie in mille assalti

soggiaccion tutte ai nostri fatti egregi.

Scrivasi questa impresa in bianchi marmi:

Vincan, vincan gli amori e cedan l’armi! –

A quel gridar dal sonno che l’aggrava                                   210

Marte si scote e Citerea si desta

e poiché gli occhi si forbisce e lava

le sparse spoglie a rivestir s’appresta.

Adon, che lo spettacolo mirava,

non seppe contener la lingua mesta;

né potendo sfogar la doglia in pianto,

fu costretto addolcirla almen col canto.

Amor (cantò) nel più felice stato                            211

m’alzò che mai godesse alma terrena

e’n sì nobile ardor mi beato,

ché la gloria del mal temprò la pena.

Or col ricordo del piacer passato

dogliosi oggetti a risguardar mi mena

dove in quel bel sen che fu mio seggio

altrui gradito e me tradito io veggio.

La dea che dal mar nacque e da cui nacque                          212

il crudo arcier che m’arde e mi saetta,

si compiacque di me, né le dispiacque

a mortale amator farsi soggetta.

O più del mar volubil, che tra l’acque

pur fermi scogli e stabili ricetta;

ma’n te nata dal mare, ohimé, s’asconde

un cor più variabile del’onde.

Io, per serbar l’antico foco intatto,                            213

soffersi in ria prigion miserie tante,

né perché lieve augello ancor sia fatto,

fatto ancor lieve augel, son men costante.

E tu sì tosto il giuramento e’l patto

ingrata! hai rotto e disleale amante?

Ahi stolto è ben chi trovar più mai crede,

poiché’n ciel non si trova, in terra fede. –

Qui tacque e quel cantar, benché da Marte                           214

fusse o non ben udito o mal inteso,

l’indusse pure a sospettare in parte

del suo rivale e ne restò sospeso;

e temendo d’Amor l’inganno e l’arte

e bramando d’averlo o morto o preso,

a Mercurio il mostrò, che quivi giunto

con Amor ragionando era in quel punto.

Il peregrino augel subito allora                                  215

fugge dal vicin ramo e si dilegua

e’l messaggio divin non fa dimora

pur come sol per ritenerlo il segua.

Ma poiché son di quel boschetto fora

del fugace il seguace il volo adegua

e dove più folta è la corona

de’ mirti ombrosi il ferma e gli ragiona:

– O meschinel che per quest’aere aperto                              216

su le penne non tue ramingo vai,

di tanto mal senza ragion sofferto

fuorché testesso ad incolpar non hai,

ch’essendo pur del’altrui fraude certo,

dar volesti materia ai propri guai.

Non però desperar, poich’a ciascuno

fu l’aiuto del ciel sempre oportuno.

Già dela stella a te cruda e nemica                            217

cessan gl’influssi omai maligni e tristi.

Ma pria che’nun con la figura antica

la tua perduta ancor gemma racquisti,

durar ti converrà doppia fatica,

tornando al loco onde primier partisti

e lavarti ben ben nela fontana

possente a riformar la forma umana.

Del’acqua ove la fata entra a bagnarsi                                  218

quando depon la serpentina spoglia,

poich’avrai sette volte i membri sparsi

fia che la larva magica si scioglia.

Tornato al’esser tuo, vanne ove starsi

in guardia troverai di ricca soglia

mostro il più stravagante, il più diverso

che si scorgesse mai nel’universo.

Ha fattezze di sfinge e tien confuse                            219

quattr’orecchi, quattr’occhi, altrettantali.

Due luci ha sempre aperte, altre due chiuse

e le piume e l’orecchie ancor son tali.

Lunghe l’orecchie a’ bei discorsi ottuse

non cedono d’Arcadia agli animali.

La sua faccia si muta e si trasforma,

quasi camaleonte, in ogni forma.

Vario sempre il color lascia e ripiglia                         220

né mai certa sembianza in sé ritenne.

Come veggiam la cresta e la bargiglia

del gallo altier che d’India in prima venne,

bianca a un punto apparir, verde e vermiglia

qualor gonfio d’orgoglio apre le penne,

così sua qualità cangia sovente

secondo quelche mira e quelche sente.

La vesta ha parte d’or, parte di squarci                                221

divisata a quartieri e fatta a spicchi,

quindi di cenci logorati e marci,

quinci di drappi preziosi e ricchi.

Non aspetti chi va per contrastarci

che nele vene il dente ei gli conficchi,

però che morso ha di mignatta e d’angue

che non straccia la carne e sugge il sangue.

Tagliente, aguzza ed uncinata ha l’ugna                                 222

e diritto il piè manco e zoppo il destro.

Ma nel corso però non è chi’l giugna

ed è d’ogni arte perfida maestro.

Son l’armi sue con cui combatte e pugna

in mano un raffio, a cintola un capestro.

Tira con l’un le genti e le soggioga,

con l’altro poi le strangola e l’affoga.

Non si cura d’amor questi ch’io dico,                                   223

altro che l’util proprio ama di rado;

e ne’ guadagni suoi sempre mendico

sta sempre intento a custodir quel guado.

Sol per disegno applaude anco al nemico,

conosce amistàparentado.

L’amicizia, le leggi e le promesse

tutte son rotte alfin dal’Interesse.

Interesse s’appella il mostro avaro                            224

dele ricchezze e del tesor custode,

del tesoro ove chiuso è l’anel raro,

non risguarda virtù, ragion non ode.

Tien ei le chiavi del’albergo caro

vale ad ingannarlo astuzia o frode.

E perché vegghia ognor con occhi attenti

vuolsi modo trovar che l’addormenti.

Per indurlo a dormir del’armonia                              225

l’arte, ond’Argo delusi, in uso porre

vanità fora inutile e follia,

ch’ogni cosa gentile odia ed aborre,

e di qual pregio il suono e’l canto sia

non conosce, non cura e non discorre,

come colui che stupido ed inetto

d’asino ha inun l’udito e l’intelletto.

A far però ch’ebro del tutto e cieco                          226

di sonno profondissimo trabocchi

basterà che’l baston ch’io porto meco

un tratto sol ben leggiermente il tocchi.

Farò né più né men nel cavo speco

al serpente incantato appannar gli occhi,

accioché fuor di que’ dubbiosi passi

senza intoppo securo andar ti lassi;

e mia cura sarà far poi dormire                                 227

le guardiane ancor degli aurei frutti,

perché non ti difendano al’uscire

la porta che vietar sogliono a tutti.

Giunto al’empia magion, mille apparire

aspetti vi vedrai squallidi e brutti.

Vedrai la donna rea con altra faccia

a che sciagura misera soggiaccia.

Entra allor nel’erario e quindi presto                         228

prendi il gioiel che dela dea fu dono,

ma null’altro toccar di tutto il resto

benchapparenza in vista abbia di buono.

Quante cose v’ha dentro, io ti protesto,

contagiose e sfortunate sono

e ciascuna con seco avien che porte

augurio tristo di ruina o morte.

Uscito alfin dela gran pianta, averti,                           229

poich’una noce d’or colta n’avrai,

fa ch’appo te ne’ tuoi viaggi incerti

la rechi ognor senza lasciarla mai.

Perché valloni sterili e deserti

passar convienti inabitati assai,

dove, stanco da sì lunghi errori,

penuria avrai di cibi e di licori.

Il guscio aprendo allor del’aurea noce,                                 230

vedrai novo miracolo inudito.

Vedrai repente comparir veloce

sovra mensa real lauto convito.

Da ministri incorporei e senza voce,

senza saver da cui, sarai servito.

mancherà dintorno in copia grande

apparato di vini e di vivande. –

Con questi ultimi detti il corrier divo                          231

de’ numi eterni il suo parlar conchiuse

e tornato ove lasciò Gradivo,

la bugia colorì d’argute scuse.

Ma poi con Citerea cheto e furtivo

lungamente in disparte ei si diffuse

e le narrò dopo la ria prigione

il caso miserabile d’Adone.

Instrutto Adon dal consiglier divino                           232

per le due volte già varcate vie

non tardò punto a prendere il camino

verso le case scelerate e rie.

Era quand’egli entrò nel bel giardino

tra’l fin l’alba e’l cominciar del die.

Già s’apriva del ciel l’occhio diurno

ed era apunto il sacro a Saturno.

Ode intanto sonar tutto il palagio                              233

di lamenti che van fino ale stelle,

quasi infelice ed orrido presagio

di dolorose e tragiche novelle.

Ed ecco vede poi lo stuol malvagio

sbigottir, scolorir dele donzelle

e quasi di cadavere ogni guancia

di vermiglia tornar livida e rancia.

Vedele orribilmente ad una ad una                            234

vestir di sozza squama il corpo vago

e d’alcun verme putrido ciascuna

prender difforme e spaventosa imago.

Vede tra lor con non miglior fortuna

la fata istessa trasformarsi in drago

e’n fogge formidabili e lugubri

tutte alfin divenir bisce e colubri.

Mira Adone e stupisce e su per l’erba                                  235

l’immondo seno a strascinar le lassa

e poich’umiliar quella superba

in tal guisa ha veduta, al fonte passa;

e perché l’alto aviso in mente serba

per purgarsi nel’acque i vanni abbassa.

Sette volte s’attuffa e si rimonda

e ciò ch’egli ha d’augel lascia nel’onda.

Ritolto dunque apien l’essere antiquo                                    236

volge al tesor di Falsirena il passo

e ritrova su l’uscio il mostro iniquo

dormirfortemente a capo basso

che par mirato col suo sguardo obliquo

l’abbia Medusa e convertito in sasso,

onde pria che si rompa il sonno grave,

non senza alcun timor, gli toe la chiave.

Quand’egli ha ben quelle sembianze scorte,                          237

quando il crudo rampin gli mira a piedi

e quando il tocca non ha il corforte

che non gli tremi dal’interne sedi.

Pur, la chiave sciogliendo, apre le porte

dela conserva de’ più ricchi arredi.

Era grande la stanza oltre misura

e di gemme avea’l suolo e d’or le mura.

Di lampe in vece e di doppieri accesi                        238

sfavillanti piropi ardono intorno,

ch’a mezza notte a l’auree travi appesi

fanno l’ufficio del rettor del giorno.

Dodici segni ed altrettanti mesi

rendono il loco illustremente adorno,

statue scolpite di finissimoro

che per ordine stan ne’ nicchi loro.

Havvi ancora i pianeti e gli elementi,                          239

tre provincie del mondo e quattro etati,

rilievi pur d’artefici eccellenti,

del metallo medesimo intagliati.

Parte poi di bisanti e di talenti,

di medaglie e di stampe havvi dai lati,

parte di zolle cariche e di masse

ampi forzieri e ben capaci casse.

Tra forziero e forzier v’ha tavolini                             240

d’estranie pietre e gabbinetti molti

che di vezzi di perle e di rubini

tengon gran mucchi e cumuli raccolti.

Altri lapilli generosi e fini

in più groppi vi son legati e sciolti.

Scettri e corone v’ha, branchigli e rose

e catene e cinture ed altre cose.

Vi conobbe tra mille il bel diamante                          241

Adon che già la maga empia gli tolse.

O dio con quanti baci, o dio con quante

affettuose lagrime il raccolse!

Ma quando poi col fido specchio avante

gli occhi al’amata imagine rivolse,

traboccò di letizia in tanto eccesso

che nel’imaginar resta inespresso.

Sorge in mezzo ala sala aureo colosso                                  242

maggior degli altri assai, tutto d’un pezzo,

d’un pezzo sol, ma sì massiccio e grosso

che non è fabro a fabricarne avezzo.

Di Fortuna ha l’effigie e tiene addosso

tante gemme e nel sen che non han prezzo.

Tal’è la rota ancor, tal’è la palla,

tale il delfin che la sostiene in spalla.

A piè di questa un letturin d’argento                          243

riccamente legato un libro regge

e vergata ogni linea ed ogni accento

in idioma arabico si legge.

Delo stranio volume al’ornamento

ornamento non è che si paregge.

La covertura in ogni parte è tutta

di fin topazio e lucido costrutta.

Son le fibbie ala spoglia ancor simili,                         244

di zaffiri composte e di giacinti.

Son d’or battuto in lamine sottili

i fogli in bei caratteri distinti.

Ha di fregi ogni foglio e di profili

d’azzurro e minio i margini dipinti

e figurata di grottesche antiche

le maiuscole tutte e le rubriche.

Quanti ha tesori il mondo a parte a parte,                             245

ciò che la terra ha in sen di prezioso,

opra sia di natura o lavor d’arte,

in miniere diffuso o in arche ascoso,

tutto scritto e notato in quelle carte

mostra l’indice pieno e copioso.

I propri siti insegna e i lor custodi

e per trovargli i contrasegni e i modi.

Gira Adon gli occhi e’n questa parte e’n quella,                                246

scorge diverse e’nsu diverse basi

ricche reliquie e’n rotolo o in tabella

dele memorie lor descritti i casi.

V’ha dela pioggia in cui per Danae bella

scese Giove dal ciel colmi gran vasi.

E verghe v’ha di traboccante pondo

che dal tatto di Mida ebbero il biondo.

V’ha laurea pelle che d’aver si vanta                         247

rapita a Colco il nobile Argonauta.

E v’ha le poma del’esperia pianta

ond’Alcide portò predalauta.

Le palle v’ha che vinsero Atalanta

pur troppo il corso ad arrestarvi incauta.

Ed havvi il ramo che sterpar dal piano

la vecchia di Cuma al pio Troiano.

Vide fra l’altre pompe in un pilastro                          248

pendere un fascio di selvaggi arnesi.

V’ha la faretra con sottile incastro

di perle riccamata e di turchesi.

V’ha gli strali per man d’egregio mastro

di fin or lavorati insieme appesi.

N’avria, credo, non ch’altri invidia Apollo,

so se tale Amor la porta al collo.

L’arco non men dela faretra adorno                          249

d’oro e seta ha la corda attorta insieme,

di nervo il busto e di forbito corno

di questo capo e quel le punte estreme.

Brama Adon quelle spoglie aver intorno,

ma di Mercurio il duro annunzio teme.

Vede che dela scritta esplicatrice

«armi di Meleagro» il breve dice.

Di tutto ciò ch’ivi raccolto ei vede                             250

nessuna punto avidità l’invoglia,

sì che di tante e sì pregiate prede

pur una, ancorché minima ne toglia.

Questa sola desia, perché la crede

per lui ben propria e necessaria spoglia;

ed essendo senz’arco e senza strali

aver non spera altronde armi mai tali.

Adon che fai? deh qual follia ti tira                            251

armi a toccar d’infernal tosco infette?

Ahi trascurato, ahi forsennato, mira

chi quell’arco adoprò, quelle saette.

V’è di Diana ancor nascosta l’ira,

son fatalmente infauste e maledette.

Da che la fera sua fu da lor morta

infelici l’ha fatte a chi le porta.

Egli ch’a ciò non pensa o ciò non cura,                                 252

la faretra dispicca e prende l’arco

e di questa e di quel tiensi a ventura

render l’omero cinto e’l fianco carco.

Poi per la via più breve e più secura

del tronco d’or si riconduce al varco,

trova a corre il frutto impaccio o noia

col favor di Mercurio e dela gioia.

Tutto quel giorno che fra gli altri sette                                   253

è di riposo ed ultimo si conta,

convertita in dragon, la maga stette

poco possente a vendicar quell’onta.

Nacquer le fate a tal destin soggette

che, da che sorge il sol finché tramonta

e dal porre al levar, la brutta scorza

ogni settimo prendono a forza.

Or qual doglia la punse e la trafisse                           254

poiché spuntar del’altra luce i raggi?

Quanto allor si turbò? quanto s’afflisse

quando s’accorse de’ suoi novi oltraggi?

– Ma vanne ingrato pur, vattene (disse)

che la vendetta mia teco ne traggi. –

Tacque ed a sé chiamò con fiera voce

dele sue guardie un caporal feroce.

Orgoglio ha nome, altri l’appella Orgonte,                            255

dela Superbia e del Furore è figlio.

In bocca sempre ha le minacce e l’onte,

traverso il guardo e nubiloso il ciglio.

Due gran corna di toro ha su la fronte,

d’orso la branca e di leon l’artiglio.

Ha zanne di mastino, occhi di drago:

figurar non si può più sozza imago.

Grossa e rauca la voce e la statura,                           256

emula dele torri, ha di gigante

e del membruto corpo ala misura

lo smisurato spirto è ben sembiante.

Pietà, ragion, religion non cura,

perverso, inessorabile, arrogante,

bruno il viso, irto il crine, il pelo irsuto,

temerario così come temuto.

Poich’a costui narrate ha Falsirena                            257

l’ingiurie sue con pianti e con querele,

udita ei la cagion di tanta pena

sorride d’un sorriso aspro e crudele

e nela faccia e nela bocca piena

d’amaro assenzio gli verdeggia il fiele;

e’l parlar ch’egli face ala donzella

è muggito e ruggito e non favella.

Mandami tra le sfingi e tra i pitoni,                         258

v’andrò (dicea) senza mestier d’aiuto.

Mandami tra i centauri e i lestrigoni,

dov’ogni altro valor resti perduto.

Pommi pur tra i Procusti e i Gerioni,

tutto ardisco per te, nulla rifiuto.

Darti in pezzi smembrato un vil fanciullo

fora di questa man scherzo e trastullo.

Impommi cose pur ch’altri non possa,                                  259

dimmi ch’io domi il domator d’Anteo,

che d’un calcio sol, d’una percossa

Polifemo t’abbatta e Briareo.

Vuoi ch’io ponga sossovra Olimpo ed Ossa?

strozzi Efialte e strangoli Tifeo?

Vuoi che sbrani ad un cenno e che divori

del giardino di Colco i draghi e i tori?

Ch’io scacci di laggiù l’empie sorelle?                                   260

ch’io snidi di lassù la luna e’l sole?

I denti svellerò dale mascelle

al rabbioso mastin dale tre gole.

Catenato trarrò giù dale stelle

lo dio ch’essere invitto in guerra suole.

Facil mi fia, se punto ira mi move,

tor l’inferno a Plutone, il cielo a Giove.

Porterò sovra il tergo e su la fronte                           261

soma maggior d’Atlante e maggior pondo.

Del Nil sol con un sorso il vasto fonte

asciugherò, quand’ha più cupo il fondo;

se venisse a cader novo Fetonte,

se minacciasse pur ruina il mondo,

meglio di chi l’ha fatto e stabilito

a forza il sosterrei con un sol dito.

I poli sgangherar del’asse eterno,                              262

purché’n grado ti sia, mi parrà poco.

Il gran globo terren vo con un perno

a guisa di paleo librar per gioco.

Il fulmine passar del re superno

al corso e di vigor vincere il foco

e stracciar a due man l’istesso cielo

né più né men come se fusse un velo. –

Le bravure del’un l’altra ascoltando                          263

si divora di stizza e di tormento.

Tempo (dice) non è d’andar gittando

l’ore, o mio fido, e le parole al vento.

Malagevoli imprese io non dimando,

noto m’è troppo il tuo sommo ardimento.

So le tue forze, il tuo valor ben veggio,

ma molto men di quanto hai detto io cheggio.

Prendimi sol quel fuggitivo ingrato.                            264

perfido, disleale e traditore.

Prendilo e trallo vivo a me legato,

ch’io sfoghi a senno mio l’ira e’l dolore.

Vivo dammi il crudel che m’ha rubato...–

disse «il tesor» ma volse dire «il core».

– Oltre via, farò pur (soggiunse Orgoglio)

quelche vuoi, quelche deggio e quelche soglio. –

Non molto sta dopo tai detti a bada                          265

e s’accinge a partir l’anima altera.

Prende un scelto drappel di sua masnada,

gente simile a lui malvagia e fera.

Seguendo il van per non battuta strada

il Disprezzo e’l Dispetto in una schiera.

Lo Scherno è seco e seco ha per viaggio

l’Insolenza, il Terror, l’Onta e l’Oltraggio.

Trascorre i campi e si raggira ed erra,                                   266

spiando del garzon la traccia invano.

Porta ovunque egli va tempesta e guerra,

fa tremar d’ognintorno il monte e’l piano.

L’elci robuste e i grossi faggi atterra

e pela i boschi con la sconcia mano.

Col soffio sol par ch’ammorzar presuma

la gran lampa del ciel che’l mondo alluma.

 




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