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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 14

Gli ERRORI. Il travestirsi d’Adone in arnesi da donna vuole avertirci l’abito molle della gioventù effeminata. L’esser preso da’ ladroni, il fuggire, il poi di nuovo incappare, il dar nelle mani del selvaggio ed alla fine l’esser fatto un’altra volta prigioniero, può dimostrarci le difficoltà ed i pericoli che si attraversano al godimento della umana contentezza. La morte di Malagorre ucciso da Orgonte ci avisa il giudicio della divina giustizia, che molte volte a punire i malvagi suol servirsi del mezzo degl’istessi malvagi. La caduta d’Orgonte ci dinota il fine dove va a parar la superbia, laqual quanto più arrogantemente presume d’opprimere altrui, tanto più profondamente viene a precipitare. Il caso di Filauro e di Filora, che infin dal nascimento sono accompagnati dalle sciagure, ci disegna la vita travagliata di quegl’infelici orfani, che nascono alle tribulazioni ed alle miserie. L’avvenimento di Sidonio e di Dorisbe, le cui tragiche fortune vanno a terminarsi in allegrezze, ci rappresenta il ritratto d’un vero e leale amore, che, quando non ha per semplice fine la libidine, ma è guidato dalla prudenza e regolato dalla temperanza e dalla modestia, spesso sortisce buon successo. La severità d’Argene, laqual pure al compassionevole oggetto de’ loro amorosi accidenti alla fine si placa e muove a pietà, ci significa il rigore del divino sdegno, ilqual non può fare di non intenetirsi quando vede patire per bontà l’innocenza o dolersi d’aver peccato per debolezza la fragilità.

 

Canto, argomento 14

Ascolta di Sidonio i tristi amori

più volte preso e liberato Adone;

condotto a Pafo e dal gentil barone

difeso poi, ritorna ai primi errori.

 

Canto 14

Deh come fatta è vile a’ giorni nostri                         1

la milizia ch’un tempo eradegna.

Non manca già chi ben cavalchi e giostri

né chi con leggiadria l’asta sostegna.

Non vi manca guerrier ch’armato mostri

sovravesta superba e ricca insegna,

non già per acquistar nel mondo fama

ma sol per farsi noto a colei ch’ama.

Vie più si studia in cittadina piazza                            2

tra lieti palchi e ben ornate schiere

a far dove si scherza e si sollazza

fregi e divise al popolo vedere,

che sotto grave e ruvida corazza

in campo ad assalir squadre guerriere

e dimostrarsi in alcun gran conflitto

più con ardir che con vaghezza invitto.

Son forbiti gli usberghi e risplendenti,                        3

tersi gli scudi e gli elmi luminosi.

Perché non sono ancor chiari e lucenti

coloro che ne van così pomposi?

Poveri di riccami e d’ornamenti,

anzi rotti, smagliati e sanguinosi

da gran colpi di stocchi e di quadrella,

quanto o quanto farian vista più bella!

Quanto fora il miglior spada o bipenne                                  4

trattar ne’ duri assalti, o cavalieri,

che per gioco spezzar fragili antenne

stancando al corso i barbari e gli iberi?

Che val gli augelli impoverir di penne

per dispiegar al vento alti cimieri,

s’onor mercando infra’l nemico stuolo

non impennate a’ vostri nomi il volo?

Vuolsi più tosto con qualch’atto egregio                               5

onorar l’armi ed illustrar gli arnesi,

ch’aver con procacciar da quelle il pregio

da rugin di viltà gli animi offesi.

Far devrebbe non men corona e fregio

a color ch’han di gloria i cori accesi

con non men bella ed onorata salma

che l’acciaio e che’l ferro, alloro e palma.

Oggi pochi ha tra noi veri soldati                               6

che per vero valor vestan lorica.

Calzan più per fuggir sproni dorati

che per seguir talor l’oste nemica.

E con abuso tal son tralignati

dala virtù, dala prodezza antica

che, sol rubando e violando, al fine

son le guerre per lor fatte rapine.

Tai forse esser devran gli empi villani                        7

che far al nostro Adon vogliono oltraggio.

Non già tal è il campion che dale mani

lo scampa poi del predator selvaggio.

Iva per monti Adone, iva per piani

continovando il misero viaggio,

poiché fuor de’ ritegni onde fu chiuso

dela fata ogni inganno ebbe deluso.

Ma perché dala fame è spinto a forza                                   8

e dala sete a desiar ristoro,

tosto del’aurea noce apre la scorza

e credenza gli appar d’alto lavoro

e la sete e la fame inun gli ammorza

vasellamento di cristallo e d’oro,

pien di quanto la terra e’l mar dispensa,

e non v’ha servi ed è servito a mensa.

Non molto dopo, giunto ala marina,                          9

vide che pur allor per rinfrescarsi

sceso nel’acqua chiara e cristallina

stormo di villanelle era a lavarsi.

Ciascuna avea di lor nela vicina

sponda lasciati i vestimenti sparsi;

e tutte a scherzi ed a trastulli intente,

ai panni ed al garzon non ponean mente.

Ei, sospettando pur che Falsirena                             10

dietro gli manderà gente ala pesta,

pensa che se tra lor Fortuna il mena

potrà meglio celarsi in altra vesta.

Prende un abito allor da quell’arena

e perché’l crin gli è già cresciuto in testa

sovra il farsetto postasi la gonna,

in ogni parte sua rassembra donna.

Ala spoglia, ala chioma, al’atto, al viso,                                11

al’andar, al parlar fallace e finto

chiunque il vede ha di vedere aviso

vaga ninfa di Menalo o di Cinto.

Nela selva ricovra e quivi assiso

in un pratel di mille fior dipinto

prende la gemma che nel ricco incastro

fu già legata da sì dotto mastro.

Mira nel sacro anel la cara imago                              12

di lei ch’ancor per lui tragge sospiri

e dietro al’occhio ingordo il pensier vago

fermando in esso, inganna i suoi desiri.

Resta in parte però contento e pago

degli amorosi suoi lunghi martiri,

veggendo almen che pur da lei si parte

per girne altrove il furioso Marte.

Non gli lascia serrar gli occhi dolenti                         13

il folto stuol dele noiose cure;

e volgendo tra sé gli aspri accidenti

dele passate sue disaventure,

la desperazion dele presenti

e l’aspettazion dele future,

per trovar al suo mal qualche consiglio

scaccia ogni requie dalo stanco ciglio.

Pur da’ travagli del’afflitta mente                               14

e del corpo affannato e faticoso

vinto, a forza convien che finalmente

ubbidisca a natura il cor doglioso.

Così malvolentier cede e consente

ala necessità d’alcun riposo,

né più difender gli occhi egri si ponno

dal dolce assalto d’un piacevol sonno.

Mentre giace dormendo, ecco il circonda                             15

turba di masnadieri e di ladroni,

gente scherana, errante e vagabonda,

son forse trenta e son tutti pedoni.

Alcuni di lontan rotan la fionda,

molti soglion dapresso usar spuntoni.

Troppo si tien chi di metallo armato

porta in braccio il brocchier, lo stocco a lato.

Del’armi e del’armar son vari i modi,                        16

han camicie di maglia ed han corazze,

adunchi raffi e pali acuti e sodi

adusti in cima e cappelline ed azze.

Tempestate di punte, irte di chiodi,

adopran parte e mazzafrusti e mazze,

ghiaverine e lanciotti e curve e larghe

le storte a’ fianchi, a’ gomiti le targhe.

Viene a tutti davante il capitano,                               17

capo conforme a compagnia sì fatta.

Malagorre s’appella; è rodiano

di nazione e di non bassa schiatta.

Più d’una volta in guerra armò la mano

ch’a nobilopre, a grand’imprese eratta;

ma di vendette cupido e di prede

al’indegno mestier poscia si diede.

Nera e folta la barba, il viso ha bruno,                                  18

occhio schizzato e piccolino e rosso,

monca la manca e senza dito alcuno,

fregiato il naso ove s’incurva l’osso.

Asciugator di tazze e del digiuno

mortal nemico, uompesante e grosso

ch’apena il cape il ruginoso usbergo,

né può portarlo alcun destrier su’l tergo.

La destra tien di lungo spiedo armata,                                   19

di cuoio cotto al’altro una rotella.

Una testa di lupo ha per celata,

celata insieme e spaventosa e bella,

che la bocca sbarrando ampia e dentata,

le fauci formidabili smascella.

L’ispide orecchie, ch’irte in alto stanno,

in loco di cimier cresta le fanno.

Appressati costoro al giovinetto                                20

che dagli occhi dal sonno ancor sopiti

spirava un dolce e languido diletto,

stupefatti restaro e sbigottiti,

quasi ala vista di quel primo aspetto

da repentino folgore feriti.

Del’armi intanto al suon che tocche e mosse

facean strepito insieme, ei si riscosse.

Non s’atterrì, ché vago era di morte,                        21

in mirar genteferoce e cruda.

– Venite (disse) e con l’estrema sorte

la mia favola lunga omai si chiuda. –

Il bargel dela squadra, acceso forte

di beltà tanta, alzò la destra ignuda

e confortollo e che si drizzasse,

poi pian pian prigionier dietro sel trasse.

Di strada usciro e quindi or alto, or basso                             22

tra l’erte più difficili d’un monte

giunser, torcendo il calle, a piè d’un sasso

che d’alte querce ombrosa avea la fronte.

Torre in cima sorgea, cui dava il passo

sovra doppie catene angusto ponte.

Quest’era de’ ladron la cova e’l nido,

questo il refugio lor secreto e fido.

D’altri ladri abitanti in questa torre                            23

numerosa famiglia anco s’accoglie

che cura han del’albergo e di riporre

dal capitan le riportate spoglie.

Ognun l’onora, incontro ognun gli corre,

sicome a proprio re, fuor dele soglie;

ed essaltando il duce e la donzella,

lodan di forte l’un, l’altra di bella.

Entrato Malagor disse: – Compagni,                         24

dach’io Rodo cangiai con questo bosco,

uom che non m’ami o che di me si lagni

tra voi fin qui non veggio e non conosco.

Sapete ch’ogni parte ho de’ guadagni

sempregualmente accommunata vosco.

Dividendo prigion, vesti o danari,

sempre trattati v’ho meco delpari.

Che quando elessi una tal vita e quando                                25

io declinai de’ miei l’alte vestigia,

non tanto a gir fuor dela patria in bando

del’or mi mosse l’avida ingordigia,

quanto con atto illustre e memorando

de’ nemici mandati al’onda stigia

da fronte a fronte e sol per valor d’armi,

generoso desio di vendicarmi.

Or, senon son di mercé tanta indegno,                                  26

vi cheggio in cortesia sola costei.

Ben per la potestà di cui già degno

mi giudicaste, torlami potrei;

ma tolga il ciel ch’io nulla aver con sdegno

voglia giamai de’ familiari miei.

Da voi terrolla e sotto i vostri auspici,

quando vi piaccia, io vene prego, amici. –

Tutti d’un voto acconsentiro a lui                              27

e gradir molto il ragionar cortese.

Ei, rivolto a colei ch’era colui,

parlolle affabilmente e la richiese

a dargli parte de’ successi sui,

delo stato, del nome e del paese.

Adon, che vuol celarsi al’empie genti,

copre con pianti veri i falsi accenti.

Dissegli che’l suo nome era Licasta,                          28

natia del vago e peregrino Alfeo

che frequentava con la dea più casta

del Partenio le selve e del Liceo;

e che, l’onda solcando orrida e vasta

per girne a Delo del profondo Egeo,

l’avea di quella spiaggia insu la costa

tempestosa procella a forza esposta.

Fu messo in compagnia libero e sciolto                                 29

d’una fanciulla Adone e d’un donzello

che nel bosco vicin, non era molto,

fur presi e tratti a quel medesmo ostello.

Non sì tosto il donzel mirò quel volto

unico e senza pari in esser bello,

ch’avido d’involarne i rai leggiadri,

prese con gli occhi ad imitare i ladri.

Ladri son gli occhi ed a rubare arditi,                        30

van per le strade publiche d’amore

e tutti i furti ala beltà rapiti

per nascondergli ben, portano al core.

Il cor, poiché gli ha presi e custoditi

fa che d’essi il desio scelga il migliore;

ma quantunque al desio la scelta tocchi,

contento e il cor se si contentan gli occhi.

Il fanciul che non sa ciò che nasconde                                   31

di vero e di viril gonna bugiarda,

or i bei lumi, or l’auree chiome bionde

fiso contempla e cupido risguarda.

Ma quanto mira più, più si confonde

e più convien che senaccenda ed arda.

Così sviata dietro al cor che fugge

l’alma si perde ed egli invan si strugge.

Mentre cerca or con gesti, or con parole                              32

scoprirgli di qual piaga ha il core offeso,

Adon ben senaccorge e ben si dole

di sua follia che’l sesso in cambio ha preso.

Pur seninfinge e de’ begli occhi il sole

gli volge per temprar quel foco acceso,

ch’a sconsolato cor che vive in guai

anco i finti favor son cari assai.

Ma così scarso è il refrigerio e breve                         33

che tante fiamme a mitigar non vale,

anzi quel van piacer che ne riceve

è mantice al’ardor, cote alo strale.

Or, mentr’ei langue e si disfà qual neve

a sole estivo o pur a vento australe,

chi sia colei, qual egli siasi e donde

Adon dimanda e’l giovane risponde.

– È proverbio vulgar ch’aver consorti                                   34

nele miserie, ai miseri pur giova.

Ma veri non sent’io questi conforti,

ché’l mio mal per l’altrui pace non trova.

Anzi veggendo ch’agli antichi torti

Fortuna aggiunge ognor materia nova,

mentre me piango e inun di te m’incresce,

nel tuo dolore il mio dolor s’accresce.

E se non temess’io che nel tuo petto                         35

la doglia e la pietà degli altrui danni

farebbon forse ancor l’istesso effetto,

parte ti conterei de’ nostri affanni.

Noioso è troppo e tragico il suggetto,

e d’assai gl’infortuni eccedon gli anni;

ma pur tacere almen non si conviene

chi siamo e gual cagion qui ne ritiene.

Abbiamo ala squadriglia infame e ria                         36

la verità sott’altro velo involta

che, benché falsa e mentitrice sia,

lecita è la menzogna anco talvolta,

quando giova a chi mente il dir bugia

e non noce il mentire a chi l’ascolta.

Poria, s’ella del ver fusse avertita,

per occultar il mal, torne la vita.

Oranta che d’Armenia ebbe il governo,                                37

suora fu di Morasto il re d’Egitto

che’n compagnia morì di Galiferno,

già di lei sposo, in un mortal conflitto.

Nel marital eccidio e nel fraterno

le fu da tanta doglia il cor trafitto

che gravida disperse ed abortivi

partorì duo gemelli intempestivi.

Intempestivo il parto ed improviso                            38

per affanno l’assalse innanzi l’ora,

perché subito giunto il duro aviso,

i duo teneri infanti espose fora.

E per l’amor del gran marito ucciso

chiamò Filauro l’un, l’altra Filora,

figli di madre afflitta e padre essangue,

prodotti nel dolor, nati tra’l sangue.

Questi fummo noi duo che, come roti                                   39

l’instabil dea del mondo agitatrice,

provato abbiam dal che tra’ suoi moti

aprimmo gli occhi al sol, coppia infelice.

Argene poi, di cui noi siam nipoti,

in vece n’allevò di genitrice,

però che quella insu l’angosce estreme

l’anima avea col parto espressa insieme.

Non è gran tempo che per bando espresso                           40

Cipro intorno mandò publici gridi,

ch’a torre il regno al più bell’uom promesso

venga chiunque in sua beltà confidi.

La nostra zia, ch’ha pretendenza in esso,

da Menfi tragitto a questi lidi,

e stimandoci ancor tra’l popol greco

degni di comparir, ne menò seco.

L’altr’ier, però che qui nostro costume                                 41

era sovente essercitar le cacce,

per un cervo seguir, ch’entrò nel fiume

spaventato da gridi e da minacce,

perdemmo insieme col diurno lume

dela fera e de’ nostri inun le tracce.

Così smarriti, in altri lacci tesi

fummo di cacciator cacciati e presi. –

Tacque e volendo dir ch’altra prigione                                  42

tenea le voglie sue strette e legate,

sospirò sì che ne sorrise Adone

e parte di quel male ebbe pietate

ché, già dotto in amor, di ciò cagione

ben conobbe esser sol la sua beltate:

beltà, principio e fin d’un gran tormento,

vista, amata e perduta in un momento.

Già dal’ombrose sue riposte cave                             43

dela Notte compagno, aprendo l’ali,

con lento e grato furto il Sonno grave

togliea la luce ai pigri occhi mortali

e con dolce tirannide e soave,

sparse le tempie altrui d’acque letali,

i tranquilli riposi e lusinghieri

s’insignorian de’ sensi e de’ pensieri,

quando le lor parole al mezzo rotte                           44

repente fur da subito tumulto:

fracassi d’arme e strepiti di botte

ferivan l’aere d’un romore occulto.

Confusa dal timore e dala notte

va la casa sossovra al novo insulto;

ed ecco allor di quel drappel protervo

viene anelante ala lor volta un servo.

Furcillo è questi, un giovane epirota,                         45

ben degno imitator del buon maestro,

che già sei volte almeno è dala rota

per gran sorte scampato e dal capestro.

Segnato tien con indelebil nota

dela bolla real l’omero destro.

Barro di carte e ficcator di dadi,

tutti d’ogni bell’arte ha scorsi i gradi.

Di Filora la bella e più de’ suoi                                 46

ricchi ornamenti avea l’alma invaghita.

Venia per violarla e torle poi

con le misere spoglie anco la vita.

Va il mondo a sangue (ei disse) e qui sol voi

seggendo, al mal commun non date aita.

Parlo a te bel garzon, che pur mi sembri

di forte core e di robusti membri.

Gente comparsa al’improviso, espugna                                 47

con terribile assedio il nostro muro.

Non lunge, udite, si combatte e pugna

e si fa la battaglia a cielo oscuro.

Tuttavia cresce la dubbiosa pugna

né per voi questo loco è ben securo.

Già fuor con gli altri tutti è Malagorre

dela vita a difesa e dela torre. –

Seben solea Furcillo esser mendace                          48

ciò che narrava allor tutt’era vero.

N’era Orgonte l’autor, d’Adon seguace

ch’avea di lui tracciato ogni sentiero.

Ch’ei fusse in preda alo squadron rapace

non so come sapesse il caso intero.

Di quanto ei fatto avea né più né meno

daché partissi, era informato apieno.

Di passando, ove il medesmo die                          49

vestiti avea’l fanciul drappi donneschi,

intese il tutto e da sagaci spie

gli giungean d’ora in ora avisi freschi.

Qual cacciator che per diverse vie

cerca com’augel vago al ramo inveschi,

tenendo sempre insoliti camini,

pervenne ala magion degli assassini.

Non era il ponticel levato in alto,                               50

onde con sua brigata entrar vi volle,

ma da’ ladroni opposti al fiero assalto

fu per forza respinto a mezzo il colle.

Incominciò di sanguinoso smalto

l’erba a farsi vermiglia e’l terren molle;

e i foschi orrori al’orrido scompiglio,

come il servo dicea, crescean periglio.

– Or più tempo non è da far dimora                          51

 (soggiunse il ladro) ognun pensi a sestesso.

Esseguir mi convien l’ordine or ora

che di salvar costei mi fu commesso. –

Così disse e per man prese Filora

che fu costretta a forza irne con esso.

Pianse e gridò, ma pose freno alquanto

lo spavento del ferro al grido, al pianto.

Filauro in cui per l’acerbetta etade                            52

eran gli spirti ancor debili e infermi,

oltreché fra tant’aste e tante spade

le forze avea d’ogni difesa inermi,

contro quel fier nemico di pietade

fu mal possente a far ripari o schermi,

seppe altro il meschin che con querele

seguir la vergin mesta e l’uom crudele.

Tal rondine talor che veggia l’angue                          53

guastarle il nido e divorar la prole

e le viscere care e’l caro sangue

crudelmente lambir, s’afflige e dole,

tra paura e dolor paventa e langue,

teme accostarsi e dipartir non vole,

e con pietoso gemito dolente

l’orecchie assedia a chi pietà non sente.

Veduto Adon fra tanti casi aversi                              54

in quel punto Fortuna essergli destra

sì, ch’essendo i ladron tutti dispersi,

rimanea solo in quella casa alpestra,

pigro non fu del tempo a prevalersi

e salse ove s’apriva alta finestra.

Quindi affacciossi a risguardar nel monte

e vide in vive fiamme ardere il ponte.

Avean gli assalitori in quella parte,                            55

dove il legno s’incurva insu la fossa,

che moltacque oziose intorno sparte

raccoglie e forma una palude grossa,

acceso il foco, onde Vulcano e Marte

la fer tosto apparir fervida e rossa.

Ardea la torre e delo stuol rapace

le rapine rapia fiamma predace.

Sorge in groppi di fumo il foco al cielo                                  56

confuso e scorre in queste parti e’n quelle,

poi rompendo del’aria il fosco velo

s’allarga e snoda in lucide fiammelle.

Ricovra Cinzia al cerchio suo di gelo,

agli epicicli lor fuggon le stelle,

che quella teme inaridir gli umori,

queste disfarsi a sì vicini ardori.

Per mille bocche e con ben mille e mille                                57

lingue stridendo e mormorando svampa.

Con acque ardenti ed umide faville

bolle lo stagno e’l margin tutto avampa.

Quivi si pugna e di sanguigne stille

spruzzata ador ador cresce la vampa,

che spranghe ed asse ed ogni altr’esca secca

divora e i sassi morde e l’onde lecca.

Chi dal’orlo del ponte ingiù trabocca,                                   58

chi dala ripa e nel fossato affonda;

altri dal ferro che’l persegue e tocca,

fugge e nel foco inciampa o muor nel’onda.

Di su la vetta del’eccelsa rocca,

da cui discopre Adon tutta la sponda,

chiaro il tutto gli mostra al’aria bruna

lo splendor del’incendio e dela luna.

La chioma che, cresciuta, il feminile                          59

uso imitando, infin al sen gli scende,

disciolta allor, con rozzo ferro e vile

tronca quell’or che sovra l’or risplende;

poi degli stami del bel crin sottile

treccia forte e tenente attorce e stende

quasi lubrica fune in linea lunga,

tanto che dal balcone a terra giunga.

Ma Malagor che’n que’ mortali ardori                                  60

la nova fiamma sua serba ancor viva,

né tra l’armi e le furie oblia gli amori,

ripensando ala vergine cattiva,

per salvarla ove salva i suoi tesori

lascia la zuffa ed al’albergo arriva

apunto allor che per l’aurata scala

vede che sdrucciolando ingiù si cala.

Adon che’n preda del’iniquo duce                            61

si trova pur, del fier destin si lagna.

Per mano il prende e sotto dubbia luce

ala valle vicina ei l’accompagna.

In una occulta grotta indi il conduce

che le viscere fora ala montagna,

dentro i cui penetrali ermi e riposti

i bottini più ricchi ei tien nascosti.

Opra non di Natura è questa grotta,                         62

qual del’altre esser suol la maggior parte,

ma la man de’ ladroni esperta e dotta

pur come natural cavolla ad arte.

È stretta, obliqua e diroccata e rotta

e nel mezzo in due parti si diparte.

Scende la prima entrata oscura e bassa

fin dove al’antro interior si passa.

Tra gli spazi del primo e del secondo                        63

un sasso s’interpon quasi parete,

acconcio in guisa ch’è leggiero il pondo

purché note altrui sien le vie secrete;

ma delo speco par l’ultimo fondo

a chi trova il confin di quelle mete,

e quest’uscio di sterpi è così folto

che tra le spine ognor giace sepolto.

Nela soglia e nel’arco è di tal sorte                           64

quel riparo commesso e fitto in terra

che non sembra la tana aver due porte

e s’apre agevolmente e si riserra.

Da indi in per strade anguste e torte

quasi meandro si ravolge ed erra,

e poiché molti giri intrica e mesce

nela costa del poggio alfin riesce.

Riesce insu la balza alpestre ed erta                          65

d’alni infecondi fertile e di faggi,

colà dove la pietra alquanto aperta,

ma riturata d’arbori selvaggi,

riceve pur dal ciel di luce incerta

per un breve spiraglio ombrosi raggi

e dal’un fesso al’altro il suo gran seno

tiene un miglio di tratto o poco meno.

Fu dentro questa inospita caverna                             66

non so se pur depositata io dica

nela maggior profonditate interna

o sepolta da lui l’amata amica.

Quivi baci e parole insieme alterna

e molto a consolarla ei s’affatica;

e poich’ha lo sportel chiuso comarmi

lascia i trastulli e fa ritorno al’armi.

Filauro intanto ilqual nel’istessora                            67

la sorella e la donna ha inun perdute,

del nome di Licasta e di Filora

fa l’ombre risonar tacite e mute.

Del’una la beltà sospira e plora,

del’altra l’onestate e la salute;

e fa dentro il suo cor fiero duello

l’amor del sangue con l’amor del bello.

Impronta di suggel tenera cera                                  68

salda in sé non serba e non ritiene

come un cor giovenil dela primiera

beltà l’effigie ov’a scontrar si viene.

Costui del primo amor la viva e vera

sembianza impressa ha nel pensierbene

che non val del bel foco, ond’egli avampa,

altro accidente a cancellar la stampa.

Mentre che per la selva erra e s’imbosca                              69

desperato e dolente in questa guisa,

incontro a sé venir per l’ombra fosca

vede persona che non ben ravisa;

e possibil non è ch’ei la conosca

seben intento assai l’occhio v’affisa,

che lontano è l’oggetto e l’aria oscura,

ma per femina pur la raffigura.

L’attese e poiché donna esser s’accorse,                              70

con cor tremante avicinossi a quella.

Se sia l’una o sia l’altra è ancora in forse

alfin conosce pur ch’è la sorella.

Con qual affetto ad abbracciarla corse,

con quai segni d’amor l’accolse anch’ella,

con quai baci iterati e con quai sensi

chi può dirlo e pensarlo il dica e’l pensi.

La giovane al fratel conta piangendo,                        71

poich’ha l’anima alquanto in sé raccolta,

come fu tratta entro il burrone orrendo

d’una foresta desviata e folta,

dove seco il mascalzon volendo

trarsi la voglia scelerata e stolta,

gli fu per non pensata alta ventura

interrotto il piacer dala paura.

Perché di genti e d’armi intanto udissi                                   72

repentino romor giù per la valle,

onde villanamente egli fuggissi

ed a loro ed a lei volse le spalle;

e ch’ella, poi che il traditor partissi,

per lo più destro e men segnato calle,

timida di duo rischi, infretta diede

la chioma al vento ed ala fuga il piede.

L’egro garzon ch’occultamente avea                         73

d’amorosa ferita il sen piagato

e già l’orme del cor seguir volea

che dietro a chi ferillo era volato,

disse: – Di questa gente infame e rea

arde la casa e’l bosco è tutto armato;

né ben securi siam di novo inciampo

se non si studia a procacciar lo scampo.

Buon sarà dunque alcun riposto loco                        74

cercar tra queste piante e questi sassi,

dov’io, finch’a spiar vada del foco

e del ferro i successi, almen ti lassi.

Tu m’attenderai, ch’a te fra poco

ritornerò con ben veloci passi. –

Mentre parla così, vede non lunge

la spelonca de’ ladri, onde soggiunge:

– Questa mi par per breve spazio stanza                               75

commoda ed oportuna al tuo soggiorno.

Cara suora, se m’ami, abbi costanza

infino al venir mio ch’io parto e torno. –

Così le dice ed ella, ogni baldanza

perdendo e scolorando il viso adorno,

stupida resta e conturbata tanto

che risponder non sa senon col pianto.

Pur rivolgendo in lui gli umidi rai,                               76

lo stringe con dolcissime ragioni.

Frate (dicea la misera) tu vai

e tra fere mi lasci e tra ladroni

e mi predice il cor che più giamai

non t’ho da riveder se m’abbandoni.

Se non senti pietà del mio dolore

murato hai ben di rigidalpe il core. –

Con lo sprone e col fren fan lite in lui                        77

natura, amor, desire e tenerezza.

Ma convien che costei ceda a colui

che di ragione ogni ritegno spezza;

cura aver dela sorella altrui

può, chi la propria madre anco disprezza.

Sì dopo molte alfin lagrime sparte

al ciel la raccomanda e si diparte.

Come, s’allor che più spedito corre                          78

per l’olimpica polve o per l’elea,

tra via carro si schioda e viensi a sciorre

una dele due rote onde correa,

arresta il moto e vedesi scomporre

la gemina union che’l sostenea,

gemono gli assi e sotto il duro intoppo

va serpendo il timon spezzato e zoppo,

così rimase allor senza l’aita                          79

del buon german che sene gia ramingo,

pallida, lagrimosa e sbigottita

la verginella in quell’orror solingo.

La scaramuzza intanto era inasprita

e Malagor tornato al fiero arringo

tra’ suoi si mise e diede in apparire

vergogna ai vili, agli animosi ardire.

Nel cominciar dela battaglia, un pezzo                                  80

vantaggio ebbero ai bravi i farinelli,

de’ quai ciascuno era gran tempo avezzo

in quel sito ove gli altri eran novelli;

e le vite vendendo a caro prezzo

si difendean da questi assalti e quelli.

Saltando or macchie, or fossi, or pruni, or selci,

scudo si fean de’ frassini e del’elci.

Il signor dela ciurma alza la spada                             81

e comincia a ferir colpiduri

che la rupe ne trema e la contrada

e temon d’appressarlo i più securi.

Fere Armonte il primier, che non vi bada,

qual uom ch’altrove intenda o poco il curi.

Ma mentre al suon del ferro il volto ei volse,

tra la fronte e le ciglia il colpo il colse.

La fibbia gli tagliò che dele ciglia                               82

con gli squamosi muscoli confina,

onde ferì la fronte, o meraviglia!

e la luce ammorzò ch’era vicina.

Tronca del destro gomito a Scarmiglia

la chiave e’l braccio ingiù mozzo ruina.

E dala spalla in un medesmo instante

ala forca del petto apre Mimante.

L’elmo e’l capo a Tricosso inun divide                                 83

e di vita e d’orgoglio inun l’ha privo.

E per la schiena Dragonetto uccide

mentre corre anelante e fuggitivo.

Il ferro poi che lampeggiando stride

dov’è l’uom più palpitante e vivo

cacciando a Bricco entro la poppa manca,

le latebre del’anima spalanca.

Nela noce del collo ha d’un riverso                           84

colto Squarcon con furia e forza tale,

che quinci il busto al suol cade converso,

quindi il teschio per l’aria in alto sale.

Di fendente a Creuso è per traverso

presa del cinto la misura eguale,

siché ben mostra altrui qual’ira n’abbia

tra le viscere aperte il fiel ch’arrabbia.

Trovavasi di qua poco lontano                                  85

Armillo il cacciatore, Armillo il bello,

ciprioto non già ma soriano,

Ganimede secondo, Adon novello.

Mentr’ei con l’arco e le saette in mano

questo guerrier va provocando e quello,

al’armi, agli atti, al viso ed ale membra,

tranne la benda e l’ali, Amor rassembra.

Avealo il gran tiranno di Soria                                   86

mandato in don pur dianzi al re d’Ormusse

perché l’alta beltà che’n lui fioria

del serraglio real delizia fusse,

ma rotti e morti i condottier tra via,

lo stormo predator seco il condusse.

Tratto ei poi dal’amor del vil guadagno

s’era lor di prigion fatto compagno.

Vaghezza pueril, sicome è l’uso                                87

de’ fanciulli inesperti, in pugna il mena.

Non avea questi il quarto spazio chiuso

dela stagion più fresca e più serena,

peroch’avea del debil filo al fuso

Cloto sedici giri attorti apena;

né gli segnava ancor poco né molto

vestigio pur di nova piuma il volto.

Semplicetto credea tra le schiere,                          88

dove l’ira e’l furor fere e minaccia

quel trastullo trovarsi e quel piacere

che per le selve avea trovato in caccia;

e che’l seguir dele fugaci fere,

cocani a lato e’l dardo in man la traccia

non fusse ardir men coraggioso e forte

che’l girne in campo ad affrontar la morte.

Il fianco e’l tergo ha senz’altr’armi armati                              89

d’una pelle di lince oscura e bianca.

Gli è cuffia il teschio e pendon d’ambo i lati

con l’unghie intere e l’una e l’altra branca.

Duo di fiero cinghial denti lunati,

un dala destra parte un dala manca,

gli escono innanzi e con due fibbie stretto

gli fan vago fermaglio in mezzo al petto.

A que’ sembianti angelici diventa                              90

qual più rigido cor molle e cortese.

Trattiene i colpi e con man lieve e lenta

schermo si fa dal’innocenti offese.

Mal garzon più s’inaspra e più s’aventa

tra le più dubbie e men secure imprese;

e chi gli cede irrita e di chi’l mira

contro sestesso e sua beltà s’adira.

Melanto nato al freddo Tronto in riva                                   91

tra l’Alpe picena e la peligna,

suo curator, suo difensor veniva

e seco inun facea l’erba sanguigna.

Per la calca maggior questi il seguiva

e, fermando talor l’asta ferrigna,

volgeasi a rimirar quai più mortali

del’occhio o dela man fusser gli strali.

Or davante, or da tergo ed or da’ fianchi                              92

gli lasciava i guerrier feriti e vinti,

perché gli avanzi suoi storditi e stanchi

fusser da lui con minor rischio estinti.

In cotal guisa ove i più fieri e franchi

segnalarsi vedea di sangue tinti,

le fatiche scemando al bel fanciullo

di spianargli la strada avea trastullo.

Così strozziero al’aghiron talora,                               93

spuntando il lungo rostro e i curvi artigli,

al falcon giovinetto e non ancora

uso ale cacce agevola i perigli.

Così leon, traendo al bosco fora

del’aspra cova i non chiomati figli,

caprio o torel cui di branar disdegna

lor mezzo ucciso a divorare insegna.

Va tra’ nemici Armillo e l’arco tende                        94

ch’è di fin’or pomposamente adorno

e’l cordone ha di seta e tutto splende

di sottil minio e di lucente corno.

Con la manca nel mezzo il nervo prende

ed al dritto del’occhio il gira intorno,

con l’altra il laccio tira e fuor del legno

fa guizzar l’asta ed accertar nel segno.

Or chi può dir quanti da te fur morti,                         95

baldanzoso donzel, prodi guerrieri?

Ferracozzo fu il primo, un de’ più forti

partigiani d’Orgonte e de’ più fieri;

e ben volgea, se non volgeacorti

i suoi stami la parca, alti pensieri,

ma gli passò crudel saetta ed empia

tutto il cervel dal’una al’altra tempia.

Poi vide Orcan, che la sua fame ingorda                               96

pascea di strage e facea prove eccelse

e d’ostil sangue distillante e lorda

la scimitarra avea fin sovra l’else;

tosto per porlo insu la tesa corda

e commetterlo al’aure un strale ei scelse

e torcendo il gagliardo arco leggiero

d’una luna scema un cerchio intero.

Volea gli accenti allor trar dela gola                          97

l’altro e scior contro lui la lingua irata,

quando in aprir la bocca, ecco che vola

a chiuderla al meschin la morte alata,

e la vita in un punto e la parola

per mezzo il gorgozzuol gli fu troncata.

La voce intanto infra le fauci mozza

gorgogliava bestemmie entro la strozza.

Volto a Bravier, con quanta forza ei pote                              98

lo stral pungente insu la noce incocca,

poi la fune a sé trae fin su le gote,

scaglia la canna e sovra’l braccio il tocca.

Nel pesce apunto il calamo il percote,

col pasmo a terra il poverel trabocca.

Egli nol cura e palpitante il lassa,

indi sovra Cerauno ardito passa.

Aveva allor allor spogliato e scarco                          99

d’alma e d’armi in un punto e Vespa e Grillo,

quando segnollo e, come fera al varco,

l’attese e giunse il faretrato Armillo.

Con l’arco in pugno e con lo stral su l’arco

di traverso nel fianco egli ferillo;

quei cadde ingiù rivolto e la saetta

scrivea note di sangue insu l’erbetta.

Sovragiunge a Guizzirro un altro strale                                  100

ed apre, aprendo al caldo umor l’uscita,

nela guardia del cor, viva e vitale

officina del sangue, ampia ferita.

Passa la manca costa oltra quell’ale

che ministran col moto aura ala vita

e nel centro del petto a fermar viensi

dove il trono han gli spirti, il fonte i sensi.

Furiasso il gran guercio infra lo stuolo                                   101

più d’un bandito a piè si tenea morto.

E non avea costui ch’un occhio solo

e questo ancora il volgea torvo e torto.

Piega l’arme bicorne e manda a volo

anco una freccia il sagittario accorto,

freccia ch’eguale al fulmine congiunte

in sé torte ed aguzze avea tre punte.

Dal tridente mortal che per la cava                            102

conca del’occhio oltre la coppa il fiede,

colui del lume onde la fronte ornava,

orbo rimane intutto e più non vede.

Pur mentre il sangue il volto e’l sen gli lava,

drizza ver dondusciol colpo il piede

e corre e grida e porta in man due spade

ma in un’asta caduta inciampa e cade.

Saetta il fier garzon dopo costoro                             103

Lupardo il nero e Serpentano il brutto

e Tigrane il crudele aggiunge loro

ch’avea de’ buon gran numero distrutto.

Piovono a mille le quadrella d’oro,

scompigliato ne sona il bosco tutto;

né qui s’affrena ancor l’animo audace

riposa la man né l’arco tace.

Già la faretra omai di dardi ha vota                           104

e’l braccio quasi indebolito e lasso,

quand’ecco il fiero Orgonte, eccol che rota

la spada a cerchio e s’apre intorno il passo.

Fermo l’aspetta e con lo sguardo il nota,

poi trae l’ultimo stral fuor del turcasso

ed accelera il piede ovempia sorte

il fa quasi volar contro la morte.

Presto, ovunqu’egli vada, al suo soccorso                            105

Melanto il segue pur né l’abbandona

e, come il vede in sì gran rischio, il corso

colà subito volge e gli ragiona:

Raccogli omai, fanciul malcauto, il morso

al’ardir che tropp’oltre oggi ti sprona.

Orme fin qui del tuo valor lasciasti

fra’ nemici assai chiare, or tanto basti. –

E quegli a lui: – Deh! quest’altier che tanto                            106

spaventa altrui consenti almen ch’assaglia.

Non mi disdir ch’io’l provi e provi quanto,

poiché in vista è sì fiero, in fatti ei vaglia;

di ciò ti prego sol, caro Melanto,

non cheggio dopo questa altra battaglia.

Se vincerò, tu, mio fedel custode,

n’avrai l’armi e le spoglie ed io la lode. –

Ciò detto il lascia e per l’orribil mischia                                 107

dove Orgonte combatte infretta giunge

ed aventa lo stral che stride e fischia

ma’l bersaglio, ove va, punto non punge.

Contro il meschin ch’oltre l’età s’arrischia,

la vista gira e guatalo da lunge,

indi s’accosta e con sorriso acerbo

così’l motteggia il barbaro superbo:

– Deh! fino a quando esser potrà che tardi                           108

al’incontrar ciò che’l tuo cor desia

sichuom la morte, che d’aver tant’ardi,

fanciulletto importuno, alfin ti dia?

Or io non vo che più gli altrui riguardi

facciano insolentir tanta follia.

So che per te miglior fora la sferza,

ma la mia spada ancor talvolta scherza. –

Tacque e con lui si strinse e quei smarrito                             109

quando mirò la spaventosa fronte

volse fuggir, ma nel sanguigno sito

smucciò col piede e sdrucciolò dal monte.

Sovra gli va di rabbia infellonito

e già di sangue innebriato Orgonte.

Melanto il vede ed al garzon caduto

corre per dar nel gran periglio aiuto.

Ma perché quel crudel mostro inumano                                110

già l’ha giunto in un salto e già gli ha presa

la chioma d’or con la sinistra mano

e l’altra per ferirlo alzata e stesa,

ed ei non può, per esserne lontano

a tempo ritrovarsi ala difesa,

gitta la spada e di piglio al’arco

e già l’ha teso in un momento e carco.

O la fretta soverchia, o il caso rio                             111

dala mira lo stral travolse e torse

siché del fido amico il colpo pio

del fier nemico il colpo empio precorse,

del nemico, che pur s’intenerio

ed era di ferirlo ancora in forse

e forse, più dapresso avendo scorto

quel bel viso gentil, non l’avria morto.

Passa il cuoio macchiato a nero e bianco                              112

spinto dal braccio dell’arcier gagliardo

e fiede al caro Armillo il miglior fianco

il disleale e dispietato dardo.

Quei la man bella insu’l costato manco

si pone e dice all’uccisor col guardo:

– Io moro, ahi crudo! ma la tua saetta

porta insieme l’offesa e la vendetta. –

Come fonte talor limpido e puro                               113

dove il piè sozzo il zappator si lavi

o come bel giardin cui l’aspro e duro

rastro del’arator fieda ed aggravi,

così del volto pallido ed oscuro,

così de’ torbidetti occhi soavi

e secchi e spenti da’ mortali oltraggi

languiro i fiori e s’offuscaro i raggi.

Sospende il ferro e volgesi a Melanto                                   114

pien di disdegno Orgonte e di fierezza

e vede che’l gran duol gli ha tolto il pianto

alo sparir di quell’alta bellezza

e dela piaga involontaria intanto

l’arco ingrato ministro a terra spezza,

la destra errante, al suo diletto infida,

si morde e brama pur ch’altri l’uccida.

In un punto al meschino ardono il petto                                 115

due fiamme, anzi due furie, amore ed ira.

Quello il move a pietà del giovinetto,

questa in sestesso a vendicarlo il tira.

Ma mentre la sua mente un doppio affetto

or quinci or quindi irrisoluta aggira,

dal busto il capo Orgonte ecco gli scioglie

e dal dubbio e dal mondo insieme il toglie.

Chi descriver poria l’insana rabbia                            116

di quel prodigio orribil di Natura

tra quanti mai la terra armati n’abbia

mostruoso di forze e di statura?

Fumo le nari fuor, schiuma le labbia

gittan che’l ciel seren turba ed oscura

e quell’alito ardente ed arrabbiato

è foco, è fiamma, è folgore, non fiato.

Quasi vento il crudel va furiando                               117

e piovendo di sangue aspre tempeste.

Fioccano i colpi ovunqu’ei vien passando,

grandinan d’ognintorno e braccia e teste.

Tuona col grido e fulmina col brando,

sono i fulmini suoi piaghe funeste

e freme e stride e soffia e sbuffa e spira

procelle di furor, turbini d’ira.

Cinta d’un mar vermiglio in alto sorge                                   118

del corpo giganteo l’isola viva.

Volpino il mira e perché ben s’accorge

di ciò che fia se quella man l’arriva,

cacciasi in fuga; ei che fuggir lo scorge

ratto il prende a seguir lungo la riva

e minacciando il va con questi detti:

Mal se mi fuggi e peggio se m’aspetti. –

Tra le piante più folte e colà dove                             119

lo stuol de’ fidi amici era più spesso

per campar dala morte il passo move,

ma la spada crudel gli è molto appresso;

quand’ecco il ferro che calava altrove

l’incauto Truffarel prende in sestesso,

Truffarel, ch’illustrò col nascimento

per infamia immortal Crati e Basento.

Questi in pace vie più che per battaglie                                 120

con man sottil e di rapina ingorde

sa meglio ch’adoprar spade e zagaglie,

trattar chiavi e trivelle e scale e corde;

porta ognor seco, ovunque va, tanaglie,

grimaldelli, acque forti e lime sorde;

e di rubar con sua destrezza tanta

le stelle al ciel, la luce al sol si vanta.

Iva pur troppo in sua malizia sciocco                        121

spogliando i morti ond’era pieno il fosso

e per torre a Giaffer la banda e’l fiocco,

ch’eran di seta e d’or, s’era già mosso,

quando dal fiero inaspettato stocco

irreparabilmente ei fu percosso.

Ladron, (gli disse Orgonte) io non t’incolpo:

vantati pur che mi rubasti il colpo. –

Torna a seguir Volpino e non si stanca                                  122

tanto che’l giunge e per le reni il passa;

fende a Ronciglio la mascella manca,

l’ascella destra a Rampicon fracassa;

a Cavicchio, a Fregusso il seno e l’anca,

l’un quasi estinto e l’altro estinto lassa.

Folchetto atterra poi, che cade e langue

mordendo il suolo e vomitando il sangue.

Duo germani eran qui, Trinco e Trifemo,                               123

dala Natura l’un l’altro dal Caso,

privo già quei del posolino estremo,

questi del destro sole orbo rimaso.

Tronca egli il naso a quelche l’occhio ha scemo,

e scema l’occhio a quelch’ha tronco il naso.

Così sa, così suol con egual sorte

ogni disagguaglianza agguagliar Morte.

Rotte, malconce, dissipate e sparse                          124

di Malagorre omai le genti sono,

onde pian pian cominciano a ritrarse

e poi prendon la fuga in abbandono.

Volgete il viso! – ei che di sdegno n’arse,

gridò con fiero e minaccevol suono;

né pertanto a fuggir son già men tardi

però che’l tergo è il viso de’ codardi.

Quando il feroce alfin mira que’ pochi                                  125

dele reliquie sue sgombrar le piagge

e’ncenerite da’ nemici fuochi

le sì superbe già case selvagge

e che gli aiuti suoi son scarsi e fiochi

e che l’impeto altrui seco nel tragge,

va bestemmiando in suon rabbioso e rio

il cielo e’l sole e la Natura e Dio.

Fugge il ladron, ma la terribil faccia                           126

volge e sì del suo piè la fuga è lenta

che fa spesso fuggir chi’l segue e caccia

e per forza mortal non si sgomenta;

ancor cedendo il fier pugna e minaccia

e spaventato in vista altrui spaventa

e fugace e seguito e combattuto

è tal che’l suo timore anco è temuto.

Gli entra un pensier pur tuttavia fuggendo                              127

barbaro nela mente e desperato.

Di perder certo né soffrir potendo

ch’altri abbia a posseder l’acquisto amato,

punto da gelosia, torna correndo

ala grotta ove dianzi ei l’ha lasciato

e viene insu la bocca allora allora

ad incontrar la misera Filora.

Filora insu l’entrar del cavo speco                            128

guidollo a ritrovar crudo destino

e dal’ombre abbagliato e fatto cieco

dal furor dela rabbia e più del vino,

del vin, che tolto a un navigante greco

bebbe quel soverchio il malandrino,

prestando fede al femminil arnese,

in cambio di Licasta egli la prese.

Senz’altro dire allor la spada strinse                          129

e nel bel seno il perfido l’ascose

e’l vivo latte arrubinando tinse

di calde porporette e rugiadose.

Degli occhi il lume in un balen s’estinse

e dele guance impallidir le rose.

Ella giacque gemendo e senza moto

lasciò l’anima ignuda il corpo voto.

Ciò fatto qual pietoso angue d’Egitto                        130

ch’uccide altrui poi si lamenta e dole,

tra sestesso piangendo e forte afflitto

del suo ecclissato e tramontato sole,

in un vicin sepolcro il vel trafitto,

già de’ regi di Cipro antica mole,

prestamente trasporta e quivi il serra,

poi con rabbia maggior ritorna in guerra.

Torna di pieno corso ove distrutta                            131

vede sua gente e ratto oltre si spinge.

Trova Orgonte che’n vista orrida e brutta

di quel sangue villan la terra tinge,

e dal pome ala punta ha rossa tutta

quella ch’al fianco s’attraversa e cinge,

laqual tra i foschi orror rassembra quella

che vibra in ciel la procellosa stella.

Trovata avea pur dianzi al muro appesa                                132

de’ capelli d’Adon l’aurea catena

e’n pegno di vendetta al’alta offesa

per un messo mandata a Falsirena.

Or seguitando l’ostinata impresa

vien per la via ch’ala spelonca il mena

lascia in pago de’ suoi molti estinti

d’insuperbir, d’incrudelir ne’ vinti.

Ed ecco in Malagor quivi s’abbatte                           133

che’l piè rivolge dal’infausta buca

e ben di quelle squadre omai disfatte

chiaramente comprende essere il duca.

Quei gli s’aventa allor di fianco e’l batte

d’un gagliardo mandritto insu la nuca,

ma la tempra del’elmo adamantina,

manda in pezzi la spada ancorché fina.

Spezzato, il ferro al suol cade, e reciso,                                134

e sol l’impugnatura in man gli resta.

Ride il gigante, ma somiglia il riso

di cometa crudel luce funesta:

un Mongibello ha di faville in viso;

alza la sua, poi nel ferir l’arresta

e dice: – Or or di noi vedrem la prova

chi con polso migliore il braccio mova.

Ma pria che’n polve ben minuta e trita                                  135

io mandi l’ossa e dia la polve al vento,

se mi dirai dov’è colei fuggita

ch’io son più giorni a seguitare intento,

esser potrà ch’a toglierti di vita

alquanto il furor mio caggia più lento. –

Malagorre a quel dir contro la guancia

del brando rotto il manico gli lancia.

Ed oltracciò fra l’indice e’l mezzano                          136

per beffa il primo dito in mezzo accolto,

stendendo verso lui la destra mano,

gli dice: – Or togli! – e sputagli insu’l volto.

Per torre indi un forcon si cala al piano

e perché teme intanto esserne colto,

solleva il moncherin dela sinistra

dele difese sue debil ministra,

che’ncontro a quel furor tremendo e crudo                           137

schermo non è ch’a ricoprire il vaglia,

né gli varria s’avesse anco per scudo

di triplicato bronzo ampia muraglia.

Già piombando d’Orgonte il ferro ignudo

tutto per mezzo l’osso il braccio taglia;

rotto l’arnese poi che lo ripara

sovra l’omero scende e’n due lo spara.

Non bel concerto di dentato ingegno                        138

misurator del tempo unqua si vide

mentre il girar con infallibil segno

e del’ore e del sol mostra e divide,

se talvolta gli stami ond’han sostegno

i suoi pesi piombati altri recide,

del volubile ordigno a un punto immote

fermarratto le correnti rote,

come, poich’al fellon tronco e repente                                  139

dal ferro il filo a cui la vita attiensi,

perdon la forza i nervi immantenente,

mancano al core i moti, al corpo i sensi,

lasciano estinta ogni virtù vivente

del’estremo dolor gli eccessi immensi,

caggion le membra e l’alma si dissolve

e i languidocchi ombra mortale involve.

Morto il ladron, la cavernosa pietra                          140

ricerca Orgonte e nulla entro vi scerne.

Non però dal’inchiesta il passo arretra

e innanzi va per qualch’indizio averne.

Passa il primo sogliar, ma non penetra

nela seconda dele due caverne

ch’oltre il gran muro che’l cammin gli chiude

un’altro inganno il suo pensier delude.

Il buon motor dela seconda stella                              141

che sa ben dove il giovane si cela,

per sottrarlo al gran rischio, Aracne appella,

ch’ordisce in un momento estrania tela

e con meravigliosa arte novella

s attraversa per mezzo e’l varco vela,

e’l vel sì dense ha le sue fila industri

che par tessuto già di molti lustri.

Orgonte che’l lavor ritrova intero                              142

sa l’aguato del’occulta via

creder può ch’alcun per quel sentiero

senza stracciar le reti entrato sia,

del’antro fuor fuliginoso e nero

ritorna indietro e pur ricerca e spia.

Lo circonda, lo squadra e lo misura

fin dove a sboccar va l’altra fessura.

Una misera vecchia appo il forame                           143

ch’esce a quest’altra banda in terra siede,

dove d’api selvagge un folto essame

ronzando intorno ir e tornar si vede.

A costei, che’l ritratto è dela fame,

del fugace garzon novelle chiede;

a costei, ch’è sì scarna e contrafatta

che di radici d’arbori par fatta.

Trema e con un parlar confuso e roco                                  144

non rende per timor chiara risposta,

senon ch’al fiero Orgonte addita il loco

dov’è sbucata la sassosa costa,

la cui bocca di fuor si scorge poco,

tutta fra bronchi e lappole nascosta.

Quegli allor la rincalza e minacciando

dritto le pone insu la vista il brando.

Ella il cui spirto languido e meschino                         145

debilmente reggea le membra lasse,

apena il ferro folgorar vicino

vide, che senza pur ch’ei la toccasse,

dal’insolito lampo e repentino

mortalmente atterrita, un grido trasse

e fuor del petto essangue e spaventato

di subito essalò l’ultimo fiato.

Per farne scherno allora, un con la ronca                              146

d’umano sangue ancor macchiata e sporca

d’una rovere annosa il ramo tronca

sich’a guisa d’uncin s’incurvi e torca

e ben acconcia a lato ala spelonca

col suo groppo corrente e fune e forca

v’appende e pender lascia, orrido pondo,

dela povera vecchia il corpo immondo.

Tien certo che dentro Adon s’appiatti                               147

Orgonte e pensa pur come lo scopra,

vassene al buco ove gran tempo fatti

han l’api industri i casamenti sopra.

Fa che ciascun de’ suoi la zappa tratti

e chi la pala e chi la marra adopra,

stromenti che quel , dopo i lavori,

quivi lasciati avean gli agricoltori.

Le pecchie allor ch’a lavorare il favo                         148

stavano travagliando entro i covili,

quando picchiar sentiro il sasso cavo

da vomeri, da vanghe e da badili,

s’aventaro alo stuol perverso e pravo

con spine acute e stimuli sottili

e con tal furia e tanta stizza usciro

che n’uccisero molti e ne feriro.

Ma quantunque salvatiche e superbe                         149

trafigessero lor le mani e’l volto,

il mal però dele punture acerbe

appo il danno maggior non parve molto.

Sparsesi il mel che di pestifererbe

e di fior velenosi era raccolto

e quei che da’ ladron non fur distrutti,

gustando quel licor, moriron tutti.

Orgonte sol, vie più che mai feroce,                          150

passa ove l’erba il gran pertugio occupa

e fa d’orrenda e formidabil voce

la voragin sonar profonda e cupa.

Ma giunto al guado occulto entro la foce

del ruinoso baratro dirupa

e con scoppio terribile e rimbombo

vien d’alto ingiù precipitando a piombo.

Non la bombarda, eccesso de’ tormenti,                              151

non il monton cozzante e furibondo,

non il furor de’ più crucciosi venti,

non il fragor del’ocean profondo,

non il fulmin terror degli elementi,

non il tremoto scotitor del mondo,

non d’Etna o d’Ischia il fremito e’l fracasso,

si pareggia al romor che quel sasso.

Cadde, e con tal subbisso in giù portollo                               152

il grave peso dele membra vaste,

che fiaccandosi in pezzi il capo e’l collo,

l’ossa tutte lasciò lacere e guaste.

Ditelo voi, se vi crollaste al crollo,

selve, e voi, fere, se’l covil lasciaste,

se lasciaste per tema augelli il nido

al suon dela caduta, al tuon del grido.

Parve tuono il suo grido e parve telo                         153

e con strepito tal l’aure percosse

che sparso il cor di timoroso gelo

dal suo gran seggio il gran motor si mosse,

temendo pur non dala terra il cielo

fuor d’ogni usanza fulminato fosse.

Tremaro i poli al’impeto soverchio

né stette saldo il semprimmobil cerchio.

Ed ecco alfine il fin, prendete essempio                                 154

temerari superbi! a cui soggiace

l’alterigia mortal, che giusto scempio

dal ciel aspetta, e l’insolenza audace.

Cadde e caduto ancor mostrò quest’empio

segni d’ira arrogante e pertinace:

con atti di furor, non di cordoglio,

minacciando spirò l’ultimo orgoglio.

Adon fra questo mezzo era assai prima                                 155

campato fuor del periglioso varco

perché, veggendo scintillar dal’ima

parte le stelle ove s’apria quell’arco,

asceso dela volta insu la cima,

il passo si spedì leggiero e scarco

e, malgrado de’ rubi e del’ortiche,

al termine arrivò dele fatiche.

Uscito fuor di tenebre e di grotte,                             156

mosse ai passi dubbiosi i piè tremanti,

né molto andò per quelle balze rotte

che sentì gente caminarsi avanti

e vide, perché chiara era la notte,

per la strada medesma andar tre fanti

e’l primo innanzi ai duo, sicome duce,

portava in cavo ferro ascosa luce.

Furcillo era costui, che posto cura                            157

quando da Malagor sepolta fue,

venia Filora a trar del’urna oscura

per cupidigia dele spoglie sue.

Or tosto ch’ad aprir la sepoltura

fu giunto il ladroncel con gli altri due,

la lapida levar che la copria

e’l cadavere suo ne portar via.

Per mirar meglio Adon ciò che n’avegna,                              158

ritratto in parte a’ suoi nemici ignota,

nel’arca istessa ascondersi disegna

che restò mezzo aperta e tutta vota.

Ma mentre che nel marmo entrar s’ingegna

fa che caggia il coverchio e’l suol percota;

a quel romor color ch’innanzi vanno,

lascian la preda ed a fuggir si danno.

Tempo è via da scampar, gente vien dietro,                                   159

marcia Scatizzo, sbrigati Brigante! –

Con questo dire il misero feretro

gittando a terra, accelerar le piante.

Vassene scorto allor per l’aer tetro

dala candida face e lampeggiante

e trova Adon la sventurata donna

sanguinosa, trafitta e senza gonna.

Un de’ ladron, da troppo ingorda voglia                               160

spinto, quando posò le belle some,

fuorché l’ultimo lino ogni altra spoglia

tolta in fretta l’avea, non so dir come.

Ben ei conosce, e n’ha pietate e doglia,

ale fattezze, al viso ed ale chiome

Filora esser colei, né sa in che guisa

o chi sia quel crudel che l’abbia uccisa.

Dal freddo cerchio dela dea di Cinto                        161

una corda di luce in terra scende

e dritto dov’è il bel corpo estinto

quasi linea d’argento il tratto stende;

onde, d’atro livore il ciglio tinto,

veder ben può, sì chiaro il lume splende,

e nel volto già candido e vermiglio

solo fiorir senza la rosa il giglio.

Vorria pietoso Adon del duro caso                           162

risepelir quelle bellezze spente,

ma da portarle entro’l marmoreo vaso

forze non ha, né’l tempo anco il consente.

Non vuol però ch’ignudo ivi rimaso

il corpo dela giovane innocente,

poiché cibo ale fere in terra il lassa,

sia scherno ancora al peregrin che passa;

e perch’omai che raccorciato ha il crine,                               163

vano stima il celarsi in altra veste,

depon le spoglie lunghe e peregrine

e la vergin real copre di queste.

Dopo l’ufficio pio, partendo alfine

e stillando dal cor lagrime meste,

poich’onorarla allor non può di fossa,

prega requie alo spirto e pace al’ossa.

Partito apena Adon, Ciaffo v’arriva,                         164

un de’ più bravi e più temuti cani

che mai d’Irlanda insu l’algente riva

prodotto fusse o pur tra i monti Ircani.

Lo scelse Malagor, che lo nutriva

tra ben cento molossi e cento alani

e ne’ suoi ladronecci empi e malvagi

ale morti avezzollo ed ale stragi.

L’avea già contro al’aversaria schiera                                   165

con intrepido ardir quel seguito

e riportò dala battaglia fiera

di due punte di spiedo il sen ferito.

Nel sangue umano era incarnato ed era

rabbiosissimamente inferocito

ed or venia con queruli ululati

cercando il suo signor per tutti i lati.

Tosto, che stesa al pian, col volto in suso,                             166

vide giacer la misera donzella,

sbarrando i ringhi e distendendo il muso,

inchinossi a lambir la faccia bella;

e come a tai vivande assai ben uso

il capo tutto divorò di quella

e poiché l’ebbe a pien mangiato e guasto

la bocca sollevò dal fiero pasto.

Mentre nel bianco vel forbisce e netta                                   167

l’orrenda lingua e la spietata zanna,

ecco su la sbranata giovinetta

giunge Filauro e per error s’inganna.

L’orme seguendo dela sua diletta

trova il crudo mastin che la tracanna.

Così pensò schernito dala vesta

e dal tronco che scema avea la testa.

Imaginò senz’alcun dubbio al mondo                        168

Licasta esser colei ch’era Filora,

onde rivolto al’animale immondo

trangugiator dela beltà ch’adora

e rapito dal’impeto iracondo,

un stiletto ch’avea traendo fora,

strozzollo e con mortal colpo improviso

il cader sovra l’uccisa, ucciso.

Stringendo tuttavia l’acuto stile                                 169

il bel busto stracciato ei tolse in braccio:

– Deh! s’ancor per quest’aere, ombra gentile,

voli sciolta (dicea) dal caro laccio,

gradisci il sacrificio, ancorché vile,

ch’oggi col core e con la man ti faccio;

ecco ad offrir due vittime ti vegno,

l’una offerta è d’amor, l’altra di sdegno.

L’una è del sozzo can, che’l fior m’invola                             170

di beltà tanta in sua stagion più fresca,

il sangue sparso e la scannata gola,

divoratrice di sì nobil esca.

L’altra è l’anima mia ch’a te sen vola:

deh! di teco raccorla or non t’incresca;

accetta il don di questa fragil salma,

mira i pianti, odi i preghi e prendi l’alma. –

Disse, e con questo dir nel proprio fianco                             171

sospinse il ferro al suo signor malfido

e’l varco aprendo al’egro spirto e stanco

gli ruppe il nodo e lo scacciò dal nido.

Cadde su la ferita e freddo e bianco

languì, dal cor traendo un debil grido,

gual suole in piaggia aprica o in valle ombrosa

languir pampino in vite o foglia in rosa.

Tal fu di questi duo l’acerba sorte,                            172

nati insieme ed estinti in sì verdanni.

Infelici gemelli a cui dier morte

duo trascurati e dispietati inganni;

ambo delpar da destin crudo e forte

per colpa uccisi di fallaci panni.

Ingannò quella altrui, sestesso questi,

e l’una e l’altro alfin tradir le vesti.

Adone, il primo autor di tanti mali,                            173

lunge intanto di qua sen va securo.

Stese in alto la notte ha le grand’ali

e fregia il ciel d’un bel sereno oscuro,

quand’ei, già stanco alfin, le membra frali

si risolve a gittar su’l terren duro

e presso l’orlo d’un erboso fonte

vassene afflitto ad appoggiar la fronte.

Apena in grembo al suol verde e fiorito                                 174

alquanto ha per posar china la testa,

ch’ode fra pianta e pianta alto nitrito

e voce mormorar flebile e mesta.

Ecco estranio guerriero a brun guernito

da manca attraversar l’ampia foresta

e’l può chiaro veder, ché chiaro intorno

Cinzia già trae fuor dele nubi il corno.

Destro vie più di qual più destro augello                                175

preme un destrier l’incognito campione,

moro di stirpe e di color morello,

fiamma al moto somiglia, al pel carbone,

Io non credo che foschi a par di quello

nela quadriga sua gli abbia Plutone.

Sol picciol fregio il bruno capo inalba:

ha nel manto la notte, in fronte l’alba.

Ben s’agguaglia al cavallo il cavaliero                                    176

che gli preme la sella e regge il freno.

Veste sovrarmi nere, abito nero

che di stelle dorate è sparso e pieno.

Sembra lo scudo fin d’acciaio intero

pur brunito e stellato un ciel sereno.

dove un breve appar scritto di fore:

«Assai più che gli arnesi ho nero il core».

Su l’elmo, somigliante al’altre spoglie,                                   177

di dilicata e nobile scultura

sorge d’un’olmo vedovo di foglie,

schiantato i rami, la divisa oscura,

che, mentre amica vite in braccio accoglie

con vicende d’appoggio e di verdura,

fulmine irato il bel nodo recide

e i suoi dolci imenei rompe e divide.

Va per l’ombroso e solitario bosco,                          178

loco al’oscura mente assai conforme,

tutto dentro e di fuor dolente e fosco

de’ suoi vaghi pensier seguendo l’orme.

Posto ha l’ira il cinghial, l’aspido il tosco,

il pastor col mastino o tace o dorme;

sol l’afflitto guerrier sveglia ogni belva

per l’ombre dela notte e dela selva.

Scioglie in languidi accenti il freno accolto                             179

ai desperati suoi gravi dolori,

ed al’agil corsier non men l’ha sciolto

che vagando sen va per mille errori.

Sotto il seren, per entro il cupo e’l folto,

e de’ notturni e de’ selvaggi orrori,

il corsier via sel porta ed ei che’l regge

da chi legge ha da lui prende la legge.

Stanco alfin presso il fonte, ove la frasca                               180

è più densa e frondosa, il passo affrena.

Dismonta a terra e pria che’l rinasca

vuol dar ristoro al’affannata lena.

Lascia ch’a suo diletto a piè gli pasca

libero il corridor senza catena,

ché la nova stagion, quantunque acerba,

gli fa stalla la selva e biada l’erba.

Tiranno empio e crudel, come n’alletti                               181

 (cominciò poi) con dolci inganni e frodi?

Pace, piacer, felicità prometti

e dai guerre e miserie e lacci e nodi.

Tieni i tuoi servi in forte giogo stretti

e vuoi che prigionier sieno in più modi;

ed ai corpi ed al’anime non doni

altro alfin che legami e che prigioni.

Dura prigion che mi contendi e serri                          182

quel sol, che l’altro sol vince d’assai,

ahi quanto è vano il tuo rigor, quant’erri

s’offuscar pensi i suoi lucenti rai.

Fosti oscura spelonca; orche i tuoi ferri

lucebella indora, un ciel sarai;

e fora un ciel, se’n quell’orrore eterno

penetrasse un suo lampo, anco l’inferno.

Voi che chiudete in cavernoso tetto                          183

il mio dolce tesoro, o chiavi avare,

aprite, prego, e poi m’aprite il petto,

quell’uscio sordo ale mie voci amare:

ond’egli riveder l’amato oggetto

torni del sole, io dele luci care,

luci che più di voi fide e soavi

son del mio core e carceriere e chiavi.

Ferri spietati che que’ lumi belli                                 184

sotto tenebre indegne avete ascosi

per cancellar con rigidi cancelli

di celeste beltà raggi amorosi,

s’ai fedeli d’amor siete rubelli,

se sdegnate ascoltar preghi amorosi,

crudel quella fucina e quel terreno

che vi temprò, che vi raccolse in seno.

Che non cedete omai libero il loco                            185

di chi vi prega al fervido desio?

O come a tanto e sì cocente foco

ancora intenerir non vi vegg’io?

Concedetemi almen che pur un poco

possa l’esca appressar del’ardor mio.

Poi di voi faccia, io son contento, Amore

e catena al mio piede e spada al core. –

Qui tacque e risalir volse in arcione                           186

l’aventurier dal’armatura bruna,

perché vide non lunge il vago Adone

al balenar dela sorgente luna;

e stretto il ferro avea contro il garzone

la cui vista gli fu troppo importuna

e si sdegnò che lamentar l’udisse:

senon ch’egli il prevenne e così disse:

Uopo qui non vi fia di brando o d’asta                               187

signor, giostra non vo, guerra non cheggio;

cheggio pace e pietà che ben mi basta

se con Fortuna e con Amor guerreggio.

Chi con Fortuna e con Amor contrasta,

che può da Marte mai temer di peggio?

Lasso, che con altr’armi e d’altra sorte

per man d’altra guerrera ebbi la morte.

Egli m’ha ben di sì pietosa cura                                 188

vostro dolce languire il core impresso,

ch’io saprei volentier di questa dura

amorosa tragedia ogni successo.

Qual talento, qual forza o qual ventura

vi desvia dale genti e da voi stesso?

Ch’io, che non son da simil laccio sciolto,

gli affanni altrui non senz’affanno ascolto.

E tanto più del’ascoltate pene                                   189

forte a pietà m’intenerisco e movo

che’l nostro stato si confàbene

ch’udendo i vostri, i dolor miei rinovo.

Di ceppi e ferri e carceri e catene

 (s’io ben comprendo) a ragionar vi trovo.

Ed anch’io tra prigioni e sepolture

di loco in loco ognor cangio sciagure.

Questo amarvi non solo e reverirvi                            190

mi fa, quantunque incognito e straniero,

ma la persona istessa anco offerirvi

quando pur non abbiate altro scudiero.

Saprò con pronto affetto almen servirvi,

tenervi l’armi anch’io, darvi il destriero.

Chi porta ognor tante saette al fianco

una lancia portar potrà ben anco. –

A questo favellar cortese e pio,                                191

a quella egregia e signoril presenza,

il guerrier placò l’ira e ne stupio

mirando di beltà tanta eccellenza;

men ch’egli di lui, venne in desio

d’averne a pien contezza e conoscenza

e gli occhi intento ne’ begli occhi affisse

pensando pur chi fusse, onde venisse.

L’armi depose e gli rispose: – Amico,                                   192

poiché tanto ti preme il mio lamento,

non vo tacerlo, ancorché quant’io dico

tempri no, ma rinfreschi il mal ch’io sento,

con la membranza del diletto antico,

dissi diletto e devea dir tormento,

ché non ha doglia il misero maggiore

che ricordar la gioia entro il dolore.

Gir così solo e sconsolato errando                            193

dura del ciel necessità mi face;

degli altri lunge e da mestesso in bando

non vo però senza conforto e pace.

Son discepol d’Amore, e contemplando

filosofar co’ miei pensier mi piace

ch’a chiunque d’amor s’afflige e lagna

l’istessa solitudine è compagna.

Ma se l’istoria amara e lagrimosa                              194

pur d’intender ti cal, conta ti fia

e stupir ti farà quanto vuol cosa

ch’altrui pietate e meraviglia dia.

Finché’l sia vicin, meco riposa,

poi sorgeremo e parlerem per via,

ché, benchuopo al mio affar non sia d’aiuto,

compagniacortesia rifiuto. –

Ciò detto, in riva al fonte ambo posaro,                                195

l’un si seggio un tronco e l’altro un sasso

e quei verso il donzel che gli era al paro

levato alquanto il viso umido e basso,

dopo la tratta d’un sospiro amaro

che’l profondo dolor ruppe in – ahi lasso! –,

finalmente allargò per lungo corso

in questa guisa ala favella il morso:

– Sul mar d’Assiria infra duo porti siede                               196

Sidon, la terra ov’io mi nacqui in prima.

Il mio gran genitor tutto possiede

tra Cilicia e Panfilia il fertil clima.

Sidonio, de’ Fenici unico erede

son io, che salsi ala gran rota in cima;

ma caddi in breve e i fior del mio gioire,

misero, si seccaro insu l’aprire.

Giuntera il festo di quando tra noi                            197

l’idol crudel si riverisce e cole,

quando non pur con gli abitanti suoi

onorar sì gran festa Egitto suole,

ma Siria e Saba e dagli estremi Eoi

vien l’indo e’l perso ala città del sole;

città vera del sol, tra le cui mura

abitava quel sol che’l sole oscura.

A celebrar quel memorabil giorno                             198

peregrin sconosciuto anch’io ne venni;

nel ricco tempio e di bei fregi adorno,

fra le turbe confuso, il piè ritenni.

Ed ecco, fuor del suo real soggiorno

Argene uscir con pompe alte e sollenni,

movendo a visitar, com’è costume,

da gran popol seguita, il fiero nume.

Era Argene di Cinira sorella                          199

che fu già di quest’isola signore.

Costei, poiché del bando udì novella

che chiamava alo scettro il successore,

precorse ogni altro e qua sen venne anch’ella

ambizïosa del reale onore;

ma, pria ch’uscisse il generale editto,

nel tempo ch’io ti dico, era in Egitto.

Fu maritata al principe Morasto,                               200

udito ricordar l’avrai talvolta.

Ma la cara union del letto casto

fu poi per morte in breve spazio sciolta.

Pianse il nodo gentil reciso e guasto

vedova acerba in brune spoglie avolta,

né di lui le restò fuorché sol una

pargoletta real, progenie alcuna.

Leggiadra è la fanciulla a meraviglia                          201

e vie più ch’altri imaginar non pote,

siché l’esser erede unica e figlia

d’un sì gran rege è la minor sua dote:

vergin di bianco sen, di brune ciglia,

di bionde chiome e di purpuree gote;

mira la fronte, ivi tien corte Onore,

volgiti agli occhi, ivi trionfa Amore.

La novella infelice a lei pervenne,                              202

ch’ucciso in campo il re fu di mia mano.

Lungo a dir fora in qual battaglia avenne

l’orribil caso onde mi dolsi invano:

no’l conobb’io, ché sott’altr’armi venne

e guerrier lo stimai privato e strano.

Ma sempre in guerra e tra l’armate schiere

lice, comunque sia, ferir chi fere.

Prese da indi in poi sempre che l’anno                                  203

rinova il dela memoria mesta

in testimonio d’un sì grave danno,

quasi insegna terribile e funesta,

a dispiegar publicamente un panno

ch’è del re morto la sanguigna vesta,

per irritar ancor la giovinetta

con quel drappo vermiglio ala vendetta.

Deve il gran tempio forse esserti noto,                                  204

ala Vendetta edificato e sacro,

dove suol venerar con cor devoto

dela dea sanguinosa il simulacro.

Su i negri altari ha quel stesso in voto,

sparger di sangue uman largo lavacro;

e i vassalli miei cari, i servi miei

son l’ostie che sacrifica costei.

Così fin da quel giurato avea                                 205

che del re sposo suo la morte intese;

così promise al’implacabil dea

per l’oltraggio emendar di chi l’offese;

né questa legge rigorosa e rea

fra giamai cancellata in quel paese,

finché di farlo alfin le sia concesso

col sangue ancor del’omicida istesso.

L’altera donna, accioch’ognun si mova                                 206

tratto dal’esca de’ soavi inviti,

la figlia ch’è sì bella e che si trova

su la verdura ancor de’ fioriti,

benché cento di lei bramino aprova

potentissimi regi esser mariti,

promise in guiderdon solo a chi questa

mi troncherà dal busto odiata testa.

Venne al delubro dispietato e crudo                          207

la cruda Argene e scese entro la soglia.

Sostenea nela destra un ferro ignudo,

nera e spruzzata a rosso avea la spoglia.

Seco era quella per cui tremo e sudo,

Dorisbe, la cagion d’ogni mia doglia,

che seguia pur del barbaro olocausto

l’apparecchio inumano e’l culto infausto.

Deh! perché la cagion de’ primi pianti                                   208

rammento? e sveglio pur gl’incendi miei?

Poco destra fortuna ai riti santi

in forte punto, oimé, trasse costei.

Vinti da’ fiati allor, dolce spiranti

furo i fumi odoriferi sabei

e presso ai lampi dele vive stelle

tramortiro le lampe e le facelle.

Al folgorar del rapido splendore                               209

arsi e rimasi abbarbagliato e cieco.

Pur cieco io vidi in quel bel viso Amore

ed avea l’arco e le quadrella seco.

«Fuggi, gridar volea, fuggi, o mio core»,

ma m’avidi che’l cor non era meco,

ch’era volato, ahi pensier vani e sciocchi!

a farsi prigionier dentro i begli occhi.

Or qual securo asilo o qual magione                         210

fia che vaglia a sottrarne ai lacci tui,

se fin ne’ sacri alberghi, Amor fellone,

persegui i cori ed incateni altrui?

Quindi da’ tuoi ministri a ria prigione,

sacrilego crudel, condotto io fui,

né dal tuo nodo ingiurioso ed empio

valse allor punto ad affidarmi il tempio.

Erano già le cerimonie in punto,                                211

il coltello e l’incendio in ordin messo

e l’ministerio abominabil giunto

al’altar funeral molto dapresso;

lavorato l’altare era e trapunto

d’un drappo bruno a tronchi di cipresso;

grand’urna alabastrina eravi suso

che tenea di Morasto il cener chiuso.

In cima al’ara con sembianze orrende,                                  212

tutto armato d’acciar, d’acciar scolpito

dela Vendetta il simulacro splende,

stringe un pugnale e sì si morde il dito.

Vermiglia fiamma il lucidelmo accende,

fiero leon le giace a piè ferito,

ch’ala ferita ov’è confitto il dardo

fiso rivolge e minaccioso il guardo.

La reverente e supplice reina                        213

colà dove la statua in alto appare

le luci alzata e le ginocchia china

umilmente spargea lagrime amare;

io, fatto intanto ala beltà divina

del bell’idolo amato il core altare,

fuor del foco traea de’ miei desiri,

quasi incensi fumanti, alti sospiri.

Mentre che tutto al sacro ufficio inteso                                  214

fiero tributo ala severa diva

il sacerdote entro il gran rogo acceso

la sviscerata vittima offeriva,

io, di ben mille strali il petto offeso,

sbranato il core ed arso in fiamma viva,

idolatra fedele, ala mia dea

sacrificio del’anima facea.

Poiché l’impure fiamme il sangue estinse                               215

che dale vene un sventurato aperse,

coltolo in vasel d’or, la man v’intinse

Argene e’l marital cener n’asperse.

Poi, chiamandolo a nome, il brando strinse

e l’estremo del ferro entro v’immerse.

Confermò’l voto e pianse; alfin di lei

cessaro i pianti e cominciaro i miei.

D’Eliopoli a Menfi, ov’è la sede                               216

principal dela reggia e’l maggior trono,

riede la corte e la reina riede:

io l’accompagno e mai non l’abbandono.

Seguo colei che, come il core, il piede

tragge a sua voglia, onde più mio non sono.

Patria non curo e, fatto egizzio anch’io,

per la fenice mia Fenicia oblio.

La fama intanto a dissipar si viene                             217

che crear qui si deve il re novello,

onde d’Egitto alfin si parte Argene

e con seco ne trae l’idol mio bello

e passa a Cipro e’n Pafo si trattiene;

quivi dimora entro il real castello;

ed a gran volo di spalmato legno

tosto a Cipro ed a Pafo anch’io ne vegno.

D’un guardo almen, d’un detto (altro non cheggio)                           218

cheggio appagar l’innamorate voglie.

Volgo mille pensier; ma che far deggio

se parlarle e mirarla il ciel mi toglie?

Modo trovar non so, mezzo non veggio

da dar picciol conforto a tante doglie

o come a conseguirne il fin bramato

recar mi possa agevolezza il fato.

Lasso, ad amar la mia nemica istessa                        219

quella ch’a morte m’odia, io son costretto,

quella che’n virtù dee di sua promessa

il mio capo pagar col proprio letto.

Grande è il periglio; ahi! che farò? Con essa

di scoprirmi non oso e’ndarno aspetto.

Se conosciuto son, non spero aita

e la speranza inun perdo e la vita.

Del ben vietato il disiderio cresce                              220

tra i difficili intoppi assai più grave

ch’Argene, in cui dipar s’accoppia e mesce

accortezza e rigore, in cura l’have.

Chiusa la tien, siché giamai non esce,

sotto secreta e ben fidata chiave,

né, se non seco sol, mai le concede

libero trar del regio albergo il piede.

Come la spica incoronar l’ariste,                               221

come soglion la rosa armar le spine,

così a Dorisbe intorno in guardia assiste

schiere di donne illustri e peregrine

ch’involata la tengono ale viste,

nonché de’ vagheggianti ale rapine.

Pensa s’altro io potea che con lamenti

fastidir l’aure e con sospir cocenti.

Amor, ma che non tenta? o che non osa?                             222

Amor, che tutto regge e tutto move,

m’inspirò nel pensier froda ingegnosa,

arti insegnommi inusitate e nove;

Amor, ch’ad onta della dea gelosa

cangiar seppe in più forme il sommo Giove,

Amor stato, sembianza, abito e nome

a mutar mi costrinse e dirò come.

Giardin che di frondose ombre verdeggia,                             223

le falde infiora al gran palagio augusto,

, dove unico varco al’alta reggia

apre in solingo calle un uscio angusto.

Ma cautamente il guarda e signoreggia

il fido Erbosco, un vecchiarel robusto,

del bel verziero, ov’altri entra di raro,

sollecito cultor, custode avaro.

Scender assai sovente ivi a diporto                           224

le donzelle di corte hanno per uso,

però che intorno intorno il nobil orto

d’insuperabil muro è tutto chiuso.

Qui da stella benigna a caso scorto,

qui di stupor, qui di piacer confuso

passando un , mentre il villan n’uscia,

io vidi spaziar l’anima mia.

Soviemmi tosto un amoroso inganno,                                    225

sembiante e qualità trasformo e fingo:

di rotta spoglia e di mendico panno,

fatto vil contadin, mi vesto e cingo;

scingo la spada e, sicom’essi fanno,

grossa e ruvida pala in man mi stringo;

ai rozzi arnesi, al rozzo andar che vede

povero zappador ciascun mi crede.

Sotto un cappel di paglia il capo appiatto                              226

ch’ha di vago fagian penna dipinta;

d’aspre lane ho la gonna, aspro sovatto

ricucito in più parti è la mia cinta;

malpolita la fibbia innanzi adatto

che con curvo puntal la tiene avinta;

calzo sordide cuoia e sotto il braccio

con vil corda a traverso un zanio allaccio.

Porto di marche d’oro il zanio pieno                         227

con cui velar l’ardita astuzia intendo;

di gemmate vasella ancor non meno

e di vezzi di perle un groppo prendo;

soletto poi con queste cose in seno

l’aprir del’uscio insu la soglia attendo;

ed ecco in breve uscir quindi vegg’io

il giardinier del paradiso mio.

Fommigli incontro e dico: «Ascolta quanto                            228

a commun pro per ragionar ti vegno

ed a queste parole, ond’io mi vanto

gran ventura ottener, volgi l’ingegno.

Miser, tu sudi a procacciarti intanto

ala vita cadente alcun sostegno,

e’l ben non sai, né curi, onde trar puoi

fortunata quiete agli anni tuoi.

Tu dei saver che colaggiù sotterra                             229

nel’orticel ch’a coltivar t’è dato

prezioso tesor s’asconde e serra,

ma da forza invisibile guardato.

Temendo il fin d’una dubbiosa guerra,

dove poi giacque ala campagna armato,

le sue più scelte e più pregiate cose

un’antico re vostro ivi ripose.

Rivelato han gli spirti a un indovino                           230

che di rilievo d’or v’ha dentro chiuse,

inghirlandate di smeraldo fino

intorno al saggio dio tutte le Muse,

col cavallo che trae dal caballino

acque d’argento in bel ruscel diffuse,

ed elle di mirabili ornamenti

han gli abiti fregiati e gli stromenti.

E che Demogorgon v’è con le fate                            231

sovra un dragon che non ha prezzo al mondo

pur di massiccio intaglio effigiate

di quel metal ch’è più pesante e biondo,

di gran serti di perle i colli ornate,

da diligente man ridotte in tondo;

e tutte compassati han di gioielli

branchigli al seno ed ale dita anelli.

Tengo di tutto ciò minuto conto                                232

perochél negromante esperto e saggio

ch’a Cipro a questo fin venia di Ponto

a caso riparò nel mio villaggio;

e pago d’un voler cortese e pronto,

mentre infermo giacea dal gran viaggio,

lasciollo in scritto e, miser peregrino,

pose meta ala vita ed al camino.

Io poi le note incantatrici e l’arti                                233

del gran secreto ho dal suo libro apprese

e qua ne vengo da remote parti

per porlo in opra e farlo a te palese.

Se di statobasso ami levarti,

s’hai punto ad arricchir le voglie intese,

meco, credimi pur, farti prometto

felice possessor di quanto ho detto.

Prendi nel crin l’Occasion. Ben sai                            234

la fortuna servil quanto è molesta.

Lieto e fuor di disagio almen vivrai

l’ultima età che da varcar ti resta.

Nel giardino real dove tu stai,

altro non voglio, l’adito mi presta

e nol voglio però senon sol quanto

d’uopo mi fia per esseguir l’incanto».

dissi e dissi il ver, ché’l mio tesoro                        235

vero e la vera mia somma ricchezza

era sol di colei ch’io sola adoro

l’infinita ineffabile bellezza.

I zaffiri, i rubin, le perle e l’oro

conquistar del bel volto avea vaghezza

e vie più ch’altro di quel cor costante

spetrar l’impenetrabile diamante.

Con crespa fronte e curve ciglia immote                               236

stupido, al mio parlar diede l’orecchio,

gli atti osservando e le fattezze ignote

il semplice e d’aver cupido vecchio.

«Quando veraci sien queste tue note

 (rispose) a compiacerti io m’apparecchio;

vo’ ch’indugi ad esservi introdotto

se non sol quanto a Grifa io ne fo motto».

Era costei la sua consorte antica,                              237

rigida, inessorabile e ritrosa,

di gentilezza e di pietà nemica,

perfida quanto cauta e dispettosa.

Questa fu la gragnuola insu la spica,

questa la spina fu sotto la rosa,

la Medea, la Medusa e la Megera

che nel’alba al mio portò la sera.

Parla al’iniqua moglie e seco piglia                            238

partito d’abbracciarricca sorte.

La vecchia a ciò lo stimula e consiglia,

l’ingordigia del’or l’alletta forte

e, di Fortuna avara ignuda figlia

Povertà, fa ch’alfin m’apra le porte.

Così di por le piante entro le mura

del loco aventuroso ebbi ventura.

Cloridoro pastor chiamar mi volli,                             239

e d’Erbosco figliuol fingermi elessi

che da’ campi d’Arabia aprici e molli,

dove pasciuti i regi armenti avessi,

ale case paterne, ai patrii colli

dopo molti e moltanni il piè volgessi.

Ne fan festa i duo vecchi e lieto il ciglio

mostrano altrui del ritornato figlio.

Ma qual ne’ petti lor poscia s’aduna                         240

vero piacer quand’amboduo presenti

dentrampio cerchio insu la notte bruna

comincio a sussurrar magici accenti.

Alzo gli occhi ale stelle ed ala luna,

poi mi raggiro a tutti quattro i venti

e vibrando con man verga di legno

caratteri e figure in terra io segno.

Segni efficaci no; Colco o Tessaglia                          241

nel’infernal magia non mi dotto.

Fui sol da Amor, cui nessun mago agguaglia,

vani scongiuri a mormorar condotto.

Gran coppa d’oro, il cui splendore abbaglia,

da me dianzi celata era sotto.

Questa donata ai vecchi aurea mercede

fu degl’incanti miei la prima fede.

«Questa (diss’io) se’l ciel mi mostra il vero                           242

del’occulto tesoro è poca parte,

peroch’a poco a poco e non intero

quinci a trarlo in più volte insegna l’arte.

Conviemmi a far perfetto il magistero

intanto osservar punti e volger carte.

Di più lune è mestier pria che si scopra».

E ciò dicea sol per dar tempo al’opra.

Non molto va ch’al dilettoso parco                           243

Dorisbe bella a passeggiar ritorna

e rende d’aurei pomi il grembo carco

e d’intrecciati fior le trecce adorna.

Io giuro per lo stral, giuro per l’arco

di que’ begli occhi dov’Amor soggiorna,

ch’io vidi ad infiorar l’orme amorose

non so per qual virtù nascer le rose.

Ala beltà ch’è senza pari al mondo,                          244

il finto genitor mi rappresenta.

La man le bacio e in un sospir profondo

vien l’alma fuor, ma poi d’uscir paventa.

Molto mi chiede e molto le rispondo,

salvo sol la cagion che mi tormenta,

ch’oltre il gran rischio ilqual mel vieta e nega

colui che lega il cor, la lingua lega.

Spesso le luci in lei con dolce affetto                         245

furtivamente innamorate giro

e tal, quantunque breve, è quel diletto

che mi fa non curar lungo martiro;

anzi il bramato e sospirato oggetto

più desio di mirar quanto più miro;

giamai torno a rimirarla ch’ella

non paia agli occhi miei sempre più bella.

Non già serici arazzi ornan le mura                            246

del bel giardin né d’or cortine altere,

ma tapezzate d’immortal verdura

veston d’aranci e cedri alte spalliere,

le cui cime intrecciando era mia cura

bizzarie fabricar di più maniere

e di fronde e di foglie e frutti e fiori

componea di mia man cento lavori.

Talor lungo l’alee degli orti aprici                              247

rete tessea di mirto o di ginestra

e l’Industria, ch’è scorta agl’infelici,

in tal necessità m’era maestra.

Ma che valeami in sì fatti artifici

per minor doglia essercitar la destra,

s’ovunque d’ognintorno io mi volgessi

m’apparian di dolor sembianti espressi?

S’al’erbe, ai fior volgea quest’occhi lassi,                             248

il numero vedea de’ miei dolori.

Se la vista girava ai tronchi, ai sassi,

scorgea del duro cor gli aspri rigori.

Se per l’ombrose vie drizzava i passi,

riconoscea del’alma i ciechi errori.

Se mormorar sentia tra’ rami i venti,

mi sovenia de’ miei sospiri ardenti.

Se per bagnar i fior ne’ caldi estivi                            249

solea, con studio ala cultura intento,

tirar divise in canaletti e rivi

dal bel fonte vicin righe d’argento,

i torrenti profondi, i fiumi vivi

che scaturian dal mar del mio tormento

le torbid’onde de’ perpetui pianti

che pioveano dal cor m’erano avanti.

S’ad inocchiar quell’arboscel con questo                              250

movea l’accorta e diligente mano

per copular sotto ingegnoso innesto

a virgulto gentil germe villano,

mi parlava il pensier languido e mesto

e mi dicea: «Lo tuo sperar fia vano,

che non fa frutto amor se non s’incalma

sen con sen, cor con core, alma con alma».

Se poi con zappa in man curva e pesante                              251

dala terra talor tenace e molle,

assai miglior ch’agricoltore amante,

sudava a volger glebe, a franger zolle,

la Diffidenza in orrido sembiante

veniami incontro e mi gridava: «Ahi folle,

e qual messe corrai di tua fatica

se dinanzi ala man fugge la spica

Vie più che prima insu l’erboso smalto                                  252

Dorisbe a trastullarsi il scendea.

Io fender l’aria con spedito salto

or imitando i satiri solea,

or ben vibrato e ben lanciato in alto

con man leggiera il grave pal movea,

or su i sonori calami forati

per allettarla articolava i fiati.

Conobbi intanto a mille segni e mille,                         253

ed espresso il notai più d’una volta,

che s’io l’ardor versava in calde stille

ed avea l’alma in duro laccio avolta,

non era anco il suo cor senza faville

punto ella però sen gia disciolta;

e vidi ch’egual cambio alfin ne rende

amor che’n gentil cor ratto s’apprende.

Nela stagion che’n ciel s’accende d’ira                                 254

il fier leone e scalda il piano e’l monte,

quando per dritto fil le linee tira

Febo dala metà del’orizzonte,

sitibonda per bere il passo gira

al margin fresco del tranquillo fonte.

Ed ecco l’ortolan le reca innanzi

l’aureo vasel ch’io gli donai pur dianzi.

Il vaso è d’oro e in una ombrosa fratta                                 255

d’un bel ruscel su le fiorite sponde

Diana v’ha col suo pastor ritratta

e son rubini i fior, diamanti l’onde.

Di smalti e perle la faretra è fatta,

son di smeraldo fin l’erbe e le fronde.

Duo veltri che dal’orlo il capo tranno,

manico estrano ala bell’urna fanno.

Prendo il nappo leggiadro e prima inchino                             256

l’alta mia dea, poi reverente assorgo.

Corro e del fonte terso e cristallino

l’attuffo una e due volte al chiaro gorgo,

indi di molle argento empio l’or fino

e palpitante ala man bella il porgo.

Le porgo il vaso e le presento il core,

acqua le dono e ne ritraggo ardore.

Sento in quelche la coppa in man riceve                                257

premermi il dito, il dito anch’io le premo,

ma quasi nel toccar la viva neve

spando a terra l’umor, così ne tremo.

Da’ dolci lumi in me, mentr’ella beve,

raggi saetta di conforto estremo.

Levando alfin le rugiadose labbia

dimanda Erbosco onde’l bel vaso egli abbia.

Rispondo: «Io fui che’n dono ottenni il vase                          258

dal gran signor del’odorata messe,

quando Fauno al cantar vinto rimase,

giudice il re, che vincitor m’elesse,

e’l crin di lauro entro le regie case

cinsemi ancor con le sue mani istesse.

E questo il canto fu, s’io ben rammento

ogni numero apunto ed ogni accento:

Non son non son pastor, perché mi veggia                            259

sotto manto villan ninfa gentile

premer il latte e pascolar la greggia,

tonder la lana ed abitar l’ovile.

Lasciai per umil mandra eccelsa reggia,

copre pensieri illustri abito vile.

Amor m’ha chiuso in questa rozza spoglia,

ma se cangio vestir non cangio voglia».

Con queste note al’unica bellezza                             260

di rossor virginal la guancia sparsi.

Turbar la vidi e vidila gran pezza

tutta sovrapensier sospesa starsi.

Dal mirarmi più spesso, allor certezza

presi e da quel sì subito cambiarsi,

che di quelchera a dubitar s’indusse

e di quelche bramava anco che fusse.

Che quei che fece il genitor morire                            261

quei mi fuss’io, sospezion non ebbe.

Persuadersi un così stolto ardire

potuto in modo alcun mai non avrebbe;

né tal secreto io poi le volsi aprire,

ch’uomo in donna fidar tanto non debbe.

Credeami ben sott’abito vulgare

cavalier di gran guisa e d’alto affare.

Erbosco a ciò non ponea mente a cui                                   262

or pendente, or monil recando a tempo,

la malizia senil tentava in lui

ciecar con l’oro ed aspettava il tempo.

In me diletto ed utile in altrui

l’amorosa magia nutriro un tempo.

Alfin di quell’amore, ond’era incerto,

argomento maggior mi venne aperto.

Mentre, quando più l’aria è d’ombre mista,                          263

sotto color d’incanti a pianger riedo

ed al chiaro oriente alzo la vista

del’amato balcone e qui mi siedo;

odo di voce dolorosa e trista

flebil lamento e poi Dorisbe vedo;

Dorisbe mia, che del ginocchio al nodo

tien le mani intrecciate io veggio ed odo.

Uscita sola ala frescaura estiva,                               264

abbandonate le compagne e’l letto,

stavasi assisa in una pietra viva

al rezzo del domestico boschetto

e dimostrava ben, mentre languiva,

dal sasso istesso indifferente aspetto.

Sotto il velo del’ombre allor nascosto

presso mi faccio e per udir m’accosto.

«Datemi tanta pace infra l’oscure                              265

ombre (dicea) di questo fido orrore,

famelici pensier, mordaci cure,

che mi rodete e mi pungete il core,

ch’io possa almen le fiamme acerbe e dure

sfogar col ciel del mio malnato ardore

e dal petto essalar qualche sospiro,

tacito accusator del mio martiro.

Che mi val dominar popoli e regni                             266

se di crudo signor serva languisco

e posseduta da desiri indegni

tra le regie ricchezze impoverisco?

Poiché’l tuo giogo, Amor, soffrir m’insegni,

ecco al’empia tirannide ubbidisco

e, soggiacendo al duol che mi tormenta,

vivo reina sì, ma non contenta.

O ombre, o sogni, o fumi, o d’ariderba                               267

vie più vili e più frali, onori e fasti,

o di mortale ambizion superba

abissi senza fin voraci e vasti,

s’alcun rispetto Amor vosco non serba

a che più nel mio cor fate contrasti?

Povera signoria, mendiche pompe,

se’l corso al bel desio per voi si rompe.

Dorisbe, e che ragioni? Insana voglia                        268

come offusca ala mente il lume intutto?

Qual diletto aver può vergin che coglia

d’illeggittimo amor furtivo frutto?

Sai le leggi d’Egitto. Ah! non discioglia

l’anima il freno a desir folle e brutto,

onde tu deggia poi tardi pentita

perder a un punto ed onestate e vita.

E vorrai dunque tu che fosti in sorte                          269

a degno eroe per degna sposa eletta,

gir poverella e misera consorte

a pastor rozzo in rozza cappannetta.

Dal palagio al tugurio? ed usa in corte

ad esser donna, a farti altrui soggetta,

celebrando colà tra gli orni e i faggi

nozze palustri ed imenei selvaggi

Qui dal pianto il parlar l’è tronco a forza                               270

e le parole e i gemiti confonde.

«Ma chi sa, (dice poi) se’n tale scorza

alcun famoso principe s’asconde?

Forsama e teme e di celar si sforza

le piaghe ch’ha nel cor cupe e profonde.

Così certo pens’io, che chi troppama

creder suol volentier ciò che più brama.

Non uom di selva o cittadin di villa                            271

mostranlo altrui le sue maniere e l’opre;

mercenario sudor la fronte stilla,

ma fra stenti e disagi altro si copre.

Qual sol fra lente nubi arde e sfavilla

o per vetro sottil gemma si copre,

tal dela nobil aria in lui la luce

per entro panni laceri traluce.

Non villano l’andar, non è villano                              272

il parlar pien di grazia e cortesia;

né quella bianca e dilicata mano

tal, se tal egli fusse, esser devria;

né quel cantar misterioso e strano

senso contien che signoril non sia;

guadagnato in rustiche contese

quel suo bel vaso è pastorale arnese.

Ma che cur’io che quelch’altri non crede                              273

involto stia tra boscherecci panni,

se pur malgrado lor l’anima vede

aperto il core e’l core è senza inganni?

Sconosciuto è il fedel, nota la fede,

mente condizion, non mente affanni.

Gli affanni interni in que’ begli occhi io veggo

e i secreti pensier scritti vi leggo.

Ciò nella bella fronte impresso e sculto                                 274

visibilmente, Amor, tu mi riveli.

Può ben stato real, talora occulto,

celarsi in altri manti, in altri veli,

ma sotto larva di vestire inculto

esser non può giamai ch’Amor si celi,

ché, chiuso in casa il foco, in grembo l’angue

si manifesta alfin con pianto e sangue».

E così detto al suol l’umide ciglia                              275

china alquanto e s’arresta e pensa e tace,

poi le leva e l’asciuga, indi ripiglia:

«Che far poss’io s’Amor mi sforza e sface?

È pastor. Siasi pur. Qual meraviglia

se pastore o bifolco anco mi piace?

Amaro ancora in rustica fortuna

Venere Anchise, Endimion la Luna.

Come valor non sia né vero pregio                           276

se di porpora e d’oro altri nol segna,

o come altrui non sia tesoro e fregio

virtù per cui si signoreggia e regna.

Spesso alberga umil servo animo regio,

chiude principe eccelso anima indegna.

Perché piacer non dee nobil sembianza

s’oltre l’ufficio il merito s’avanza?

Guidar gli armenti a più vil gente or lassi,                               277

che quantunque l’adombri ignobil veste,

maestà mostran gli atti, i guardi, i passi,

degna più di città che di foreste.

La verga imperial meglio confassi

che la selvaggia a quella man celeste.

Corona a quel bel crin, ch’amo ed adoro,

come l’ha di beltà, conviensi d’oro.

Pastor gentil, non dee chi frena e regge                                 278

personaggio real qual’io mi sono,

trattar gli aratri e governar le gregge,

ma stringer scettro e comandare in trono.

Se puoi tu solo a’ miei pensier dar legge,

il regno accetta e la reina in dono;

e s’aversa Fortuna a ciò contrasta

quel che possiedi in questo cor ti basta.

Sì sì, poco mi cal, che può ne segua,                         279

ne verrò teco in solitaria balza.

Ogni disagguaglianza Amor adegua,

ei del natal l’indignitate inalza.

Se si nega al mio mal tanto di tregua

ch’io ti possa seguir discinta e scalza,

lassa, chi fia che tempri il dolor mio?»

Ed io, ch’era vicin, le rispos’«io».

Io, ch’agitato da pensier diversi,                               280

udito il tutto avea fra stelo e stelo

pien d’un timido ardir mi discoversi

tremando al foco ed avampando al gelo.

Quivi il cor l’apers’io, ma non l’apersi

di mia fortuna in ogni parte il velo.

Le dissi ben che nobile e reale

era lo stato mio, ma non già quale.

Chiamo voi testimoni amici orrori,                             281

fuste voi secretarie amiche piante,

s’altro involai da’ miei modesti amori

che quanto lice a non lascivo amante.

Potea rapire i frutti e colsi i fiori,

ardea di voglia e mi mostrai costante;

e s’ai vaghi desiri il morso sciolsi

del bel volto i confin passar non volsi.

Avev’io già per uno e duo scudieri                            282

con note ardenti e di man propria espresse

esposti al re mio padre i casi interi,

presago, oimé, di quel ch’indi successe,

perché di lei con lettre e messaggieri

la pace marital m’intercedesse;

ma col mio ben, cred’io, con la mia speme

per più mai non tornar, partiro insieme.

Io per farle talor più chiara mostra                            283

del’esser mio, di lucidarmi adorno,

uscire in piazza e comparire in giostra

con pompose livree soleva il giorno.

La notte poi dentro la regia chiostra

ale paci d’amor facea ritorno;

né che fuss’io, sì sempre io mi celai,

altri, trattane lei, seppe giamai.

D’Argene ancor, che seco era sovente,                                284

la conoscenza in questo mezzo io presi

ed un che tra’ fior vipera ardente

venia con fauci aperte e lumi accesi

per trafiggerle il piè col crudo dente,

col nodoso bastone io la difesi.

La serpe uccisi e l’obligo che m’ebbe

molto di lei l’affezion m’accrebbe.

Spesso da indi in poi tacito e cheto                           285

venia le notti a consumar con ella,

parte ebbe giamai di tal secreto,

fuorché la fida Arsenia, altra donzella;

così l’ore passai felice e lieto

sotto destro favor d’amica stella,

finché venne a mischiar la vecchia astuta

tra le dolcezze mie, fiele e cicuta.

O degli orti d’Amor cani custodi,                              286

vigilanti nel mal, garrule vecchie,

tra’ più leggiadri fior tenaci nodi,

nel più soave mel pungenti pecchie!

Non ha tante la volpe insidie e frodi,

tante luci il Sospetto e tante orecchie,

quante per danno altrui sempre n’ordite,

deh vi fulmini il cieli, quante n’aprite.

Dele mense amorose arpie nocenti,                           287

al riposo mortal larve moleste.

La vita è un prato e voi siete i serpenti,

voi sol d’ogni piacer siete la peste.

Senza turbini il cielo e senza venti,

senza procelle il mar, senza tempeste,

quanto più lieto fora e più giocondo

e senza morte e senza vecchie il mondo?

Furie crude e proterve, onde gli amanti                                 288

van dele gioie lor vedovi ed orbi;

fantasmi vivi e notomie spiranti,

sepolcri aperti, ombre di morte e morbi.

Perché d’abisso infra gli eterni pianti

terra omai non le chiudi e non l’assorbi?

L’Invidia, credo, sol del’altrui bene

le nutrisce, le move e le sostiene.

Grifa, del buon villan l’empia mogliera,                                 289

venne fra i nostri amori ad interporsi.

Questa malvagia intolerabil fera

di me s’accese ed io ben menaccorsi,

peroch’a tutte l’ore intorno m’era

or con scherzi noiosi, or con discorsi.

Ridea talora e mi mostrava il riso

voto di denti e pien di crespe il viso.

Crespa è la guancia e dal visaggio asciutto                            290

si staccan quasi l’aride mascelle;

grinze ha le membra e nel suo corpo tutto

informata dal’ossa appar la pelle.

Stan nel centro del capo orrido e brutto

fitte degli occhi le profonde celle;

occhi che biechi e lividi e sanguigni

aventano in altrui sguardi maligni.

Le giunture ha snodate e mal congiunte,                                291

adunco il naso che’n su’l labro scende;

sporgon le secche coste in fuor le punte,

sgonfio su le ginocchia il ventre pende;

ciascuna delle poppe arsiccie e smunte

fin al bellico il bottoncin distende;

nela gola il gavocciolo e nel mento

porta la barba di filato argento.

Ha chiome irsute, ispido ciglio e folto,                                   292

bavose labra, obliqua bocca e grossa,

squallida fronte e disparuto volto

e’n somma altro non è ch’anima ed ossa.

Sembra orrendo cadavere insepolto

che fuggito pur or sia dala fossa;

sembra mummia animata, e’n tutto sgombra

d’umana effigie, una palpabil ombra.

Pensa tu s’io devea per così fatte                              293

fattezze e per sì laido e sozzo mostro

lasciar colei ch’oscura il minio e’l latte

e vince al paragon l’avorio e l’ostro.

Ella con vezzi ognor più mi combatte,

io con repulse mi difendo e giostro.

Cangia l’amore alfin, poiché si mira,

nonché sprezzata abominata, in ira.

Fusse qualch’atto il non ben nascosto                               294

che le svegliò la mente e la riscosse

o pur sotterra il cumulo riposto

di cotant’or ch’a sospettar la mosse

o del’animo perfido più tosto

la natural malignità si fosse,

per ispiar ciò ch’io facessi, avenne

ch’una notte pian pian dietro mi tenne.

Tennemi dietro e non so in qual maniera                                295

nel folto del giardin l’insidia tese.

L’ombre splendean, perché la diva arciera

era nel colmo del suo mezzo mese

e’l ricco tempio del’ottava sfera

tutte avea già l’auree sue lampe accese.

Qual meraviglia allor se non potei

occultar dal’aguato i falli miei?

La vecchia ala reina il fatto accusa,                           296

io repente al mio ben son colto in braccio,

e di vergogna e di timor confusa,

fatta il volto di foco e’l cor di ghiaccio,

condur Dorisbe mia legata e chiusa

veggio in altra prigion con altro laccio.

Ma grazie al ciel, che ne’ miei furti audaci

visto non fui rapire altro che baci.

«Uccidetemi (dissi) e qual mi fora                             297

più bel morir s’avien che’n un mi tocchi,

quando sia pur che per costei mi mora,

lo stral di morte e’l raggio de’ begli occhi?

Ma non è alcun de’ rei sergenti allora

che’n me spada pur vibri o dardo scocchi.

Crudel pietà, ch’uccidermi non volse

e pur la vita e l’anima mi tolse!

Non tanto il proprio mal m’afflige e noce,                             298

seben d’ogni mio ben privo rimango,

quanto il mal di Dorisbe il cor mi coce,

ch’io per me senza lei son fumo e fango.

Te, Dorisbe mia cara, ahi con qual voce

chiamo e sospiro? e con qual occhi piango?

Son queste, oimé, le pompe? oimé, son queste

dele tue nozze le sperate feste?

Così dunque cangiar sinistra sorte                             299

può maniglie in manette? anella in nodi?

gli aurei monili in ruvide ritorte?

i fidi servi in rigidi custodi?

Invece d’imeneo ti fia la morte?

ti fiano i pianti epitalami e lodi?

ti fian, rivolta ogni allegrezza in duolo,

camera la prigion, talamo il suolo

Havvi un’irrevocabile statuto                         300

che tra gli ordini antichi osserva Egitto

e ch’a’ preghi d’Argene ha poi voluto

Cipro che qui per legge anco sia scritto.

Trovarsi in fallo un cavalier caduto

con vergin donna è capital delitto;

e’l foco tra lor duo purga l’errore

di chi fu primo a discoprir l’amore.

Dico che chi de’ duo fu prima ardito                         301

di chieder refrigerio al chiuso foco,

convien che sia col foco anco punito,

che’n ciò favore o nobiltà val poco.

E s’avien che l’autor del primo invito

preso ad un tempo in un medesmo loco

sia dubbio e che dal’un l’altro discordi,

Marte tra lor le differenze accordi.

Se fia che’n pugna al’un l’altro prevaglia,                              302

è sottratto ale fiamme il vincitore.

Se nel tempo prefisso ala battaglia

manca a questo ed a quella il difensore,

il supplicio del’un l’altro ragguaglia,

l’un come l’altro incenerito more.

Se l’una parte l’ha, l’altra n’è priva,

convien pur che l’un pera e l’altro viva.

Or chi di noi baldanza ebbe primiero                        303

d’aprir le labra agl’interdetti accenti,

dal deputato giudice severo

con minacce richiesti e con spaventi,

possibil non fu mai ritrarne il vero

per terror di martiri e di tormenti,

ch’appropriando a sé la colpa altrui

dicea ciascuno aprova, «io sono, io fui».

O nobil gara, or chi mai vide o scrisse                                  304

per sì degna cagion, sì degna lite?

chi d’amor, non d’onor, fu mai ch’udisse

più belle o più magnanime mentite?

Dolci contese e generose risse,

ch’aman le morti e sprezzano le vite,

ne’ cui contrasti divenir s’è visto

vantaggio il danno e perdita l’acquisto.

Stupisce il magistrato a tal tenzone,                           305

la crucciosa reina ambo rampogna,

ma vie più lei, che’ntrepida pospone

ala salute mia la sua vergogna.

Ben comprende ch’amor n’è sol cagione

e che commune è il fallo e la menzogna.

La patria chiede e le fortune mie

ed io compongo allor nove bugie.

Veggendo pur la pertinacia Argene                           306

dela coppia in amor costante e fida,

ch’ad usurparsi le non proprie pene

gareggia e ch’ella invan minaccia e grida,

al’usato costume allor s’attiene

che’l ferro alfin la question decida,

ch’un campion quinci e quindi in campo vegna

e d’otto giorni il termine n’assegna.

Nel basso fondo d’una torre oscura                          307

sepolto io fui, dal castellan guardata.

Ma di guardar la giovane dier cura

ala vecchia rabbiosa e scelerata.

Imaginar ben puoi se la sciagura

condotta ha in buone man la sventurata,

se seco dee con ogni strazio indegno

quell’empia ad onta mia sfogar lo sdegno.

Già sette volte chiaro e sette oscuro                          308

s’è fatto da quel l’orto e l’occaso.

Diman si compie il tempo ed io procuro

terminar con la morte il fiero caso.

S’io campion m’abbia o no, né socuro,

ch’io son senza morir morto rimaso.

Convien che sol di lei cura mi prenda,

che non ha chi l’aiti o la difenda.

«Or non è il meglio (a me medesmo io dissi)                         309

se tanto il ciel di suo favor ti dona,

che tu campando fuor di questi abissi

cerchi di sprigionar chi t’imprigiona?

Se per la vita tua di vita uscissi,

non fora il tuo morir palma e corona?

Vattene omai, s’andar ti fia permesso,

a combatter per lei contro testesso.

Se guerrier non appar dala tua parte,                        310

la tua donna s’assolve e tu morrai.

S’alcun forse ne vien per liberarte,

tu di Dorisbe il protettor sarai.

S’egli t’uccide entro l’agon di Marte,

chi morì più di te felice mai?

S’egli ucciso è da te, felice ancora,

fia che chi visse ardendo, ardendo mora».

L’inumano torrier, che pur sovente                           311

compianse al pianger mio, tentai con preghi.

E qual core è di sasso o di serpente,

cui supplice amator non mova o pieghi?

L’oro però fu più ch’amor possente,

l’oro a cui giamai nulla è che si neghi.

Tratto l’avanzo fuor del mio tesoro

dai ferri alfin mi liberai con l’oro.

Con l’oro ebbi il destriero e, d’armi cinto,                            312

attendo che sia in ciel l’alba risorta,

ch’io non vo già, se per amor fui vinto,

esser vinto in amore; Amor m’è scorta.

O ch’io sia inuna o in altra guisa estinto

che che n’avegna pur poco m’importa,

perché soffrir non può morte più ria,

che non morir chi di morir desia.

Non stiam dunque d’andar, ch’agghiaccio ed ardo                           313

tanto ch’al’alta impresa io m’avicini.

Troppo noce l’indugio e s’io ben guardo

par già la notte al’occidente inchini.

Ecco il pianeta inferiore e tardo

che tien degli emisperi ambo i confini.

Vedrai se movi a seguitarmi il piede

prova d’ardire e paragon di fede. –

Così parlava il cavalier dal nero                                314

e poich’ebbe ala lingua il fren raccolto,

dissegli Adon: – Pietosa istoria invero,

signor narrate, e con pietà v’ascolto.

Però fate buon cor, ché, com’io spero,

la gran rota a girar non andrà molto.

Figlie son del dolor le gioie estreme

e del frutto del riso il pianto è seme.

Grande l’ardir, ma degno è di clemenza                                315

e s’è fallo amoroso, il fallo è lieve,

perché l’istesso error fassi innocenza

qualor la volontà forza riceve.

Argene, se’n sé punto ha di prudenza,

leggiadra union scioglier non deve.

Vuolsi in prima pregar; poi quella strada

ch’è chiusa ala ragion, s’apra la spada.

Lasciate pur ch’io sol senza conforto                        316

mi dolga ognor di mia crudele stella. –

Così diss’egli e fu il suo dire absorto

dal dolce pianto e ruppe la favella.

Ma già Sidonio intanto e in piè risorto

dal prato erboso e risalito in sella.

Adone il segue e col parlar diffalca

la noia del camin mentre cavalca.

D’amor i torti e del suo proprio male                        317

parte gli prende a raccontar tra via

e come di fortissimo rivale

fugge l’ira, il furor, la gelosia.

Tace i nomi però, né scopre quale

o la sua donna o il suo nemico sia

e dubitando pur d’alcun’oltraggio

palesar non ardisce il suo legnaggio.

Già da’ termini eoi spunta l’aurora,                           318

già la caligin manca e’l lume cresce.

Non è più notte e non è giorno ancora,

col chiaro il buio si confonde e mesce.

Non tutto è sorto il sol del’onde fora,

ma si solleva a poco a poco ed esce

ché, sebene il suo raggio il ciel disgombra,

vi resta pur qualche reliquia d’ombra,

quando passando per l’orribil tana                            319

che fu già de’ ladroni alloggiamento,

veggiono ad una quercia non lontana

un cadaver ch’appeso agita il vento.

Guarda Sidonio la figura estrana

ch’ha di femina il viso e’l vestimento

e perch’è l’aria ancor tra chiara e fosca

dubbio è tra’l sì e’l no se la conosca.

Più gli par quanto più le s’avicina                              320

Grifa, la falsa vecchia; e certo è dessa,

che del’ingiuria fatta ala reina

e del’ira ch’avea contro sestessa,

che nata fussemortal ruina

per la gran tradigion da lei commessa,

desperata d’amor, nonché pentita,

di Pafo occultamente era partita.

E giunta presso ala solinga cava                                321

ch’Adon già travestito in grembo accolse,

mentre la turba ria la minacciava

che colà per cercarlo il piè rivolse,

dal’antica prigion che la serrava,

sorpresa dal timor, l’anima sciolse

ed a quel tronco poi fu per diletto

impiccata da lor, come s’è detto.

Apena agli occhi suoi Sidonio crede                         322

e s’accosta ben ben sotto la pianta,

alfin ringrazia il ciel che gli concede

d’un tanto danno una vendetta tanta

e, consolato assai di quel che vede,

prorompe: – O cara, o benedetta, o santa,

quell’arbor, quella mano e quella corda

che dal mondo smorbò pestelorda.

Rimanti ad infettar questi deserti,                              323

gioco ai venti, esca ai corvi, empia e nefanda,

benché se conoscessero i tuoi merti

aborririanfetida vivanda.

La terra non potea più sostenerti,

però nel’aria ad alloggiar ti manda.

Or più non curo i propri mali e godo

ch’i nostri nodi almen vendichi un nodo. –

Tace e poc’oltre van per quel camino                                   324

ch’altro orrendo spettacolo gli arresta.

Ecco un corpo trafitto a cui vicino

eccone un’altro ancor ch’è senza testa;

e da lor non lontano ecco un mastino

sviscerato giacer nela foresta.

Adon s’accosta e ben conosce apieno

quelch’è più guasto e si conosce meno.

Ch’è Filora il sa ben; ma chi reciso                           325

dopo la sua partita il capo l’abbia

pensar non sa, benché dal cane ucciso

che di vermiglio ancor tinte ha le labbia

trar può chiaro argomento e certo aviso

che cibo ei fu dela canina rabbia.

Volgesi al’altro, affisa il guardo in esso

e per Filauro il riconosce espresso.

Compatisce e stupisce e già per questo                                326

come la cosa stia non ben intende

né che quell’accidente empio e funesto

seguito sia per sua cagion comprende.

Udito il caso doloroso e mesto

per chiarirsi del ver, Sidonio scende.

Quando chi sien coloro Adon gli conta

ferma il cavallo e dal’arcion dismonta.

Le lor persone e conosciute e viste                           327

nela corte di Menfi avea più volte

onde, quando di polve e sangue miste

le vide e lacerate ed insepolte,

forte gli spiacque e dale luci triste

ne versò per pietà lagrime molte

e disse: – Ah! ben contro ragion si toglie

l’onor devuto a queste belle spoglie.

Spoglie belle e reali, ahi quanto a torto                                 328

giacete esposte ale ferine brame.

Ma s’ale vostre vite, ancorché corto,

un sol fuso commun filò lo stame

e questo e quello ha generato e morto

un ventre illustre ed una mano infame,

dritto è che l’ossa anco un sepolcro asconda

e l’un e l’altro cenere confonda. –

Così dicendo, acconcio il peso e messo                                329

sovr’una bara d’intrecciati steli,

nela tomba ch’eretta era presso

depositaro i duo squarciati veli;

ciò fatto, il cavalier col sangue istesso

ch’uscì dele lor piaghe aspre e crudeli

nel sasso del’avel scrisse di fora:

«Reliquie di Filauro e di Filora».

Adon, nel sepelir la coppia estinta                             330

sì del mal d’amboduo s’afflisse e dolse

che conservar, benché di sangue tinta,

de’ fregi lor qualche memoria volse;

onde di smalto a lui tolse una cinta,

a lei d’or riccamato un velo ei tolse.

Poco accorto pensier, sciocco consiglio,

che gli fu poi cagion d’alto periglio.

L’opra apena fornita, odon le fronde                        331

scrosciar dapresso e scotersi le piante,

ed ecco uscir dale vicine sponde

uom che quasi statura ha di gigante.

Io non so come in sì bel loco e donde

venne sì sconcio e barbaro abitante.

Ama le cacce e per caverne e selve,

belva molto peggior, segue le belve.

Lunga la capegliaia e lunga e nera                             332

la barba e’l vello ha l’animal feroce.

Mente umana non ha né forma vera

ed esprimer non sa distinta voce.

Al’altre fere insidiosa fera,

per nutrirsi di lor, danneggia e noce.

Gli uomini ingoia e quand’ei può pigliarne

ingordo è più dela più nobil carne.

Vivea solingo in sotterraneo albergo,                        333

ispido il corpo e setoloso tutto.

Veniva armato d’un estraneo usbergo

che di pelle di tigre era costrutto.

Uscian le braccia dai confin del tergo

per due bocche di drago orrido e brutto;

e pur di serpe entro una scorza cava

molte quadrella al’omero portava.

Tenea ferrato in man un baston crudo,                                  334

duro, pesante e noderoso e grosso.

D’una conca di pesce avea lo scudo

ben forte e saldo e’n testa un zuccon d’osso.

Tuttoquanto del resto andava ignudo

e senza piastre e senza maglie addosso,

vestiva altre spoglie al caldo, al gelo,

senon quanto il copriva il folto pelo.

Scherma non ha, non ha ragion di Marte,                              335

ma di forza e destrezza ogni altro avanza

e dove manca esperienza ed arte

l’agilità supplisce e la possanza.

Venne costui gridando a quella parte

dov’avea di venir sovente usanza

e, mezzo ancor tra strangolato e vivo,

un suo daino lanciò nel primo arrivo.

Un daino a prima giunta il fier selvaggio                                336

ch’avea pur dianzi in quelle macchie preso

scagliò contro Sidonio, ilqual fu saggio

di quel colpo a schivar l’impeto e’l peso,

che trasse il tronco d’un robusto faggio

quasi fulmin celeste a terra steso.

Il mostro allor, più rapido che vento,

gli aventò tre saette in un momento.

Due ne volano a voto e la corazza                            337

dal terzo strale il cavalier difende.

I dardi lascia ed a due man la mazza,

senza indugio, il peloso intanto prende.

Occorre l’altro a quella furia pazza

e’l brando oppon contro il baston che scende

e per mezzo gliel taglia; in questo mentre

tira di punta e lo ferisce al ventre.

La rozza bestia, che non mai creduto                        338

in lui trovar tanta difesa avria,

visto che contro il ferro il cuoio irsuto

non giova, Adone afferra e’l porta via.

Si dibatte il fanciullo e chiede aiuto,

ma invan, che già colui l’ha in sua balia,

ond’a sdegno e pietà mosso il guerriero

prestamente rimonta insu’l destriero.

Per dar al mesto giovane soccorso                           339

nela foresta a tutta briglia il caccia,

ma di stender apien spedito il corso

la spessura degli arbori l’impaccia.

L’insolente fellon senza discorso,

ch’Adone impaurito ha tra le braccia,

quando giunto si vede, a terra il getta,

poi si rimbosca ed a fuggir s’affretta.

Volgesi alfine e d’un grand’olmo antico                                340

per spiccarne un troncon le cime abbassa,

ma tronche intanto il feritor nemico

su’l ramo istesso ambe le man gli lassa.

Raddoppia il colpo e in men ch’io nol ridico

un’occhio imbrocca e’l cerebro gli passa,

ond’a cader sen va con fier muggito

il difforme salvatico ferito.

Per una ripa che dal’orlo al fondo                             341

trecento braccia ha dirupato il sasso,

Sidonio allor lo smisurato pondo

spinge col piede e lo trabocca al basso.

Cerca Adon poscia indarno e perché’l mondo

già si rischiara, alfin ritira il passo

e quindi esce al’aperto in largo piano

che da Pafo non è molto lontano.

Il buon destrier per le spedite strade                         342

sollecitò con importuni sproni,

ma pur quand’egli entrò nela cittade

eran del’alto pieni i balconi.

Scorre di qua, di , borghi e contrade

e giunge ala gran piazza insu gli arcioni,

dove un teatro spazioso e novo

coronato è di sbarre in forma d’ovo.

Vede gran rogo acceso in un de’ lati                         343

ed a soffiarlo il fier ministro intento:

per entro i cavi mantici agitati

l’aure comporre e concepirvi il vento,

poi partorire incitatori i fiati

dal gonfio sen del gravido stromento,

lo cui spirto vivace a poco a poco

licenza ale fiamme, anima al foco.

Dala più agiata e più sublime vista                             344

del bel palagio che lo spazio serra,

Argene, in atto assai turbata e trista,

china, guardando il campo, i lumi a terra;

e gran truppa di donne è seco mista

che stan tremanti ad aspettar la guerra,

la guerra in cui de’ duo prigioni in breve

l’alto giudicio diffinir si deve.

Pende da tetti intorno e da cornici,                            345

come a mirar si suol giostra o torneo,

di curiose turbe spettatrici

innumerabil numero plebeo.

Apresi il passo il duca de’ Fenici

non conosciuto, inun campione e reo,

e trova a passeggiar per lo steccato

tutto soletto un cavaliero armato.

Picca un corsier, tra le pruine e’l gelo                                   346

nato del Reno insu la fredda riva,

tutto tutto ermellino e bianco il pelo

sovra l’istessa sua neve nativa.

Gli fa sugli occhi il crin candido velo,

candida ancor la coda al piè gli arriva;

ma con spoglia nevosa e patria algente

sfavilla in lui però spirito ardente.

Bianco il destrier, bianco l’usbergo e bianco                         347

di bianchi fregi ha il guernimento adorno

e di penne di cigno il cimier anco

canuto ondeggia e si rincrespa intorno.

Lo scudo che sostien col braccio manco

al’argento purissimo fa scorno,

e porta nela lancia onde combatte

un pennoncel pur del color del latte.

Oltre la piuma, in cima ala celata,                              348

amoroso mistero è sculto e finto:

havvi vaga colomba innargentata

che piagne il caro maschio in rete avinto

e batte l’ali e mesta e scompagnata

mostra nel’atto il gemito distinto.

Un motto in lettre d’or l’è scritto al piede:

«Pari al candor del’armi è la mia fede».

La nobil portatura e la sembianza                              349

del’ignoto guerrier ciascun commenda.

Ma Sidonio in quel mezzo oltre s’avanza

per saver chi sia questi e cui difenda

e si caccia tra’l vulgo, ov’ha speranza

che meglio di tal fatto il ver s’intenda,

ed ode dognintorno ove si giri

fremer singulti e mormorar sospiri:

– Deh! con l’eterna man, Giove, saetta                                 350

dale porte del ciel celeste lampo

ch’apporti al’innocente giovinetta,

che tal creder si dee, difesa e scampo.

Fia dunque a perder sua ragion costretta

per non aver chi la sostenga in campo?

Fia che tanta beltà su’l fior degli anni

ad infame patibulo si danni?

S’indegno di perdon, di mille pene                            351

degno, un vile stranier campion ritrova

ed uom che’n sangue o in amistà gli attiene

per lui s’espone a perigliosa prova,

innocenza real, deh! come aviene

ch’oggi a pietate alcun de’ suoi non mova?

come consente Amor di restar vinto?

e che sia’l suo per altro incendio estinto? –

Questi in languido suon sommessi accenti                             352

con guance smorte e luci lagrimose

bisbigliando pertutto ivan le genti

di spettacoltragico pietose.

Comprende ei dal tenor di que’ lamenti

e da molt’altre investigate cose,

che per lui quel guerrier la pugna piglia,

onde sdegno n’ha insieme e meraviglia.

Imaginar non sa chi sia costui,                                   353

sì d’amor seco o d’obligo congiunto,

che’n periglio mortal d’entrar per lui

espresso ha preso e volontario assunto.

Sia pur chi vuol, né di tutela altrui

né di sua propria vita ei cura punto,

e già s’accosta al’aversario estrano

con l’elmo in testa e con la lancia in mano.

– Tu, che de’ casi altrui briga ti prendi,                                 354

dimmi (gli disse) o cavalier chi sei?

per qual cortesia sciocca difendi,

comprator di litigi, i falli e i rei?

Meco, forse nol sai, meco contendi

onde celarmi il nome tuo non dei;

e se’l tuo nome pur vorrai celarmi,

scoprimi qual cagion ti move al’armi.

Veder non so perché sì dubbia impresa                                355

temerario intraprendi ed armi tratti

senza frutto sperar di tua contesa

o saper la ragion per cui combatti.

A Sidonio non cal di tua difesa,

rifiuta la pena a’ suoi misfatti.

Follia fa l’uom, qualor querela cerca

da cui premio non miete, onor non merca.

E che tu sia mallevador de’ torti                                356

oltre che per più capi è manifesto,

a farne intutto i circostanti accorti

per mia stima bastar devria sol questo,

ch’a discolpar un reo di mille morti

non chiamato ne vieni e non richiesto.

Ciò che ti val, se di sua bocca istessa

d’aver peccato il peccator confessa? –

Così parlava il brun, né senza orgoglio                                  357

dal bianco cavalier gli fu risposto:

Publicar chi mi sia di rado io soglio,

ché studio a mio poter girne nascosto.

Teco in belle ragion garrir non voglio,

vienne con l’armi a disputar più tosto,

che con lingua di ferro io ti rispondo

miglior guerrier che dicitor facondo.

Ma chi se’ tu che dela ria donzella                            358

onestar vuoi la causa e più l’accusi?

Dichiara pur di propria bocca anch’ella

l’amoroso delitto e tu lo scusi;

e come al’alta legge avendo quella

già trasgredita, or d’ubbidir ricusi,

a sostener per lei quelche sostieni,

non chiamato o richiesto ancor ne vieni.

Me difensor di torti a torto chiami,                            359

perché vergin bennata e nata ai regni,

no che viver non dee di fregi infami

macchiata il nome e di sua stirpe indegni.

Offendi più quelche difender brami,

discopri più quelche coprir t’ingegni,

ché, chi scusar l’error vuol con menzogna,

veste sestesso del’altrui vergogna.

Or veder se schermir testesso sai                              360

più ch’altrui spaventar molto mi tarda

e mi tarda provar s’abbi, com’hai

oltraggioso parlar, destra gagliarda.

Se per Dorisbe tu battaglia fai,

per Sidonio son io, da me ti guarda;

e sappi che mi fra cara e gradita

vie più la morte tua che la mia vita. –

Volgon ciò detto i freni e nele mani                           361

per arrestarle stringonsi le lance,

e diviso dagli arbitri sovrani

il sole ad amboduo con giusta lance,

poich’un tratto di stral son già lontani,

ai veloci destrier pungon le pance

e con le briglie abbandonate al morso

vengono ad incontrarsi a mezzo il corso.

Il bianco o per la fretta o per la stizza                                   362

errò l’incontro e corse l’asta in fallo.

L’altro nela visiera il colpo drizza

dove breve fessura apre il metallo

e con duro tracollo insu la lizza

fuor per la groppa il trae giù da cavallo,

e cade sì che più non è risorto

né ben si sa s’è tramortito o morto.

Sidonio che malconcio in terra il mira                                    363

risentirsi pur dela caduta,

per veder se’l conosce e s’ancor spira,

smonta di sella e gli alza la barbuta,

e ritrova esser donna, e senadira,

colei che di sua man giace abbattuta.

Per accertarsi più, l’elmo le slaccia

e di Dorisbe sua scopre la faccia.

Vede ch’ella è Dorisbe ed: – Ahi! crudele,                           364

crudele o me, me più d’ogni altro infido!

Or guarda opra (gridò) d’alma fedele,

vengo a salvarti e di mia man t’uccido! –

Volea più lunghe far le sue querele,

ma gli fu da dolor sospeso il grido

né ben sapea, tanto stupor l’oppresse,

s’egli il falso sognasse o il ver vedesse.

Scaglia il tronco infelice incontro al suolo                              365

e’ncontro al suol lo scudo e l’elmo gitta.

Poi dolcemente amareggiando il duolo,

bacia colei che crede aver trafitta.

V’accorre allor con numeroso stuolo

di quel popol dolente Argene afflitta

ed assalita è ben da nove angosce

quando i duo prigionier mira e conosce.

Ferme e di foco e sangue accese ed ebre                             366

nela figlia le luci un pezzo tenne;

e quando, tinta di color funebre

la vide, infino agli occhi il pianto venne;

ma lo sdegno real su le palpebre

le già cadenti lagrime sostenne,

stimando di vulgar troppumil gente

bassezza il lagrimar publicamente.

Stupisce inun, sospira e freme e langue,                                367

ch’ancor non sa di ciò l’istoria vera.

Negar non può pertanto al proprio sangue

la devuta pietà, benché severa.

Intanto al gran romor la bella essangue,

la vergin per amor fatta guerrera,

già si riscote e cangia in rose i gigli

rendendo al volto i suoi color vermigli.

Quando Dorisbe il desiato amante,                           368

che credea prigionier, presso si scorge

e ch’egli è quei che qual nemico innante

sfidò con l’armi, attonita risorge.

La madre, ancorché mostri altro sembiante,

ben magnanimo l’atto esser s’accorge.

Intender nondimen vuol di lor bocca

come fuggiti sien fuor dela rocca.

Narra Dorisbe pria che quando accorta                                369

si fu Grifa deltutto esser partita,

l’abbandonata e malguardata porta

tosto da sé l’agevolò l’uscita,

e d’un servo fedel sotto la scorta

che le prestò secretamente aita,

avea per esseguir l’alto pensiero

accattate quell’armi e quel destriero.

Soggiunge indi Sidonio: – Amor mi porse,                            370

Amor figlio d’un fabro, arte ed ingegno,

ond’apersi i serrami; ei mi soccorse

nel’operazion del bel disegno.

Non crediate però ch’io brami forse

di fuggir morte, anzi a morir ne vegno;

ma pria ch’io mora almen, la ragion mia,

poi di me si disponga, udita sia.

Piacciavi tanto sol, donna reale,                                371

del’alterato cor sospender l’ire,

che con clemenza ala giustizia eguale

si pieghi ad ascoltar quant’io vo dire:

fate i giudici vostri al tribunale

vosco, vi prego, e i principi venire,

ch’io vo di tutti lor l’alta presenza

a proferir di me giusta sentenza. –

Membrando Argene che costui da morte                              372

campolla già quando la serpe uccise,

non seppe in suoi rigori esser sì forte

che ciò negasse e per udir s’assise.

Ei, raccolta che fu tutta la corte,

a piè del trono inginocchion si mise;

tratta la spada poi dela vagina

a lei la porse e cominciò: – Reina,

sovenir ben vi dee del sacro patto                             373

giurato ala gran dea vendicatrice,

che colui degno sol fia d’esser fatto

dela mia donna possessor felice,

ch’al regio sangue avrà pria sodisfatto

col capo del figliuol del re fenice,

quel nemico mortal, che già diè morte

al vostro glorioso alto consorte.

Or a voi si conviene il giuramento                             374

meco adempir, com’io v’adempio il dono.

Ecco che di Sidonio io vi presento

il capo e’l ferro inun; Sidonio io sono.

Son d’ubbidir, son di morir contento,

quando indegno appo voi sia di perdono,

che s’egli avien che di tal mano io mora,

la gloria del morir il mal ristora.

Son vinto e prigionier, non mi difendo,                                  375

la spada in man, la testa in grembo avete.

Fate ciò che v’è bello; e pur volendo

pascer del sangue mio la vostra sete,

per lasciarla troncar, l’armi vi rendo,

sfogar l’odio omai tutto in me potete,

se merita però tanta vendetta

error che per errore altri commetta. –

Nel sen di lei con umil gesto e pio                             376

inchinò la cervice intanto e tacque.

A quel parlar nel cor di chi l’udio

con gran pietà gran meraviglia nacque.

Occhio non fu sì barbaro ch’un rio

non versasse d’amare e tepidacque.

Ma di Sidonio Argene udito il nome

dale piante tremò fino ale chiome.

Turbossi tutta e variando il volto                               377

pallido pria, poi più che fiamma rosso,

data in preda al furor rapido e stolto,

forte sel’ebbe ad ambe man percosso.

Pur raccogliendo al’ira il fren disciolto

da qualche tenerezza il cor commosso,

sedò quel moto e dilagati in fiumi

al cielo alzò con queste voci i lumi.

– O stelle, o dei, deh! qual vi move a queste                         378

cose qui consentir furore o sdegno?

Di marito e di re lasciar voleste

vedova la consorte, orfano il regno.

Morir di ferro a torto anco il faceste

né di lui mi rimase altro ch’un pegno

pupilla miserabile, costei,

che pupilla era pur degli occhi miei.

E questa ancor mia cara unica prole                          379

veggio delusa con perverso inganno

e per forte destin che così vole

a brutta morte io stessa or la condanno.

E quel che vie più ch’altro assai mi dole,

prender vuol per signore e per tiranno,

dimenticata del’oltraggio antico,

perfido amante, il suo maggior nemico.

Dunque con chi del padre aprì le vene                                  380

vivrà Dorisbe gloriosa e lieta?

or che farà la sfortunata Argene?

dee crudel dimostrarsi o mansueta?

Benignità real l’un non sostene,

obligo marital l’altro mi vieta.

Misera, a qual partito omai m’appiglio,

s’ovabonda ragion, manca consiglio?

S’avien che’l dritto e’l debito mi mova                                  381

quel sangue a vendicar che sangue grida,

un che già preso in mio poter si trova,

senz’alcuna pietà convien ch’uccida;

un che di mia virtù viene a far prova

ed umilmente in mia bontà confida;

un che pentito e supplice mi chiede

d’involontario error grazia e mercede.

S’essaudisco il pregar di chi mi prega                                   382

e’l gran castigo a perdonar m’abbasso,

al cener degno il suo dever si nega

e l’alta ingiuria invendicata io lasso.

Oimé, chi mi ritiene? e chi mi lega

siché intradue rimango immobil sasso?

Punir devrei l’offesa onde mi doglio,

ma divenir carnefice non voglio.

Deh! come tanto cor Sidonio avesti                          383

de’ tuoi nemici a crederti in balia?

Come celarti poi sì ben sapesti

che t’ebbi in man né ti conobbi pria?

Ed or che ti conosco, a che volesti

pormi in necessità d’esserti pia?

Perché mi sforzi a far, lassa, al re morto

ed ala mia grandezza un sì gran torto?

O mie schernite e disprezzate leggi,                           384

ale leggi d’Amor ciò si condoni.

Amor, a te che l’universo reggi,

non a pietà cotal pietà si doni.

Scusi l’alma gentil dagli alti seggi

l’atto e questo perdono a me perdoni,

ché meglio è di mestessa aver vittoria

che di vinto nemico acquistar gloria. –

Non era giunta al fin di questo detto,                         385

non avea freno ancor posto ala voce,

quando Dorisbe, il cui confuso petto

era steccato di conflitto atroce,

dov’Amore ed Onore, Odio e Dispetto

facean guerra tra lor cruda e feroce,

aventossi ala spada e gliela tolse,

indi in questo parlar la lingua sciolse:

– Poco a lui, meno a me si dee pietate,                                 386

anzi a lui si perdoni, a me non mai.

Io sol le leggi ho rotte e violate,

morir sola degg’io che sola errai.

E vomorir per trar fra le malnate

la più malnata e misera di guai;

e questo è il premio alfin che malaccorta

dal’amor del nemico ella riporta.

Ebbi di sciocco amore i desir vaghi,                          387

la sciocchezza purgar deggio col ferro.

Al’amante l’amor giust’è ch’io paghi

se’n credendolo amante ancor non erro.

Quando averrà ch’io questo petto impiaghi,

vedrà quanto nel cor nascondo e serro

e ch’ancor vive entro’l più nobil loco

il mal acceso e malnutrito foco.

Non vacilla la destra, il cor non teme,                                   388

farà due gran vendette una ferita.

Vendicherò con un sol colpo insieme

il padre ucciso e l’onestà tradita.

Voglio uccider mestessa e con la speme

d’ogni conforto abbandonar la vita,

per uccider l’amor ch’ingiustamente

porto al crudo uccisor dela mia gente.

Ferro fedel, già del’amato fianco                              389

famoso onore ed onorato pondo,

per man del tuo signore invitto e franco

del mio sangue reale ancora immondo,

fra quante imprese di pugnar non stanco

fec’egli mai più gloriose al mondo,

questa fra la più degna e nobil palma

dal’indegna prigion scioglier quest’alma.

In questo cor malvagio apri la strada                         390

origine e cagion de’ falli miei,

accioché come sempre, o cara spada,

compagna a buoni e fida amica sei,

così ti dica ognun qual’or t’accada

punir il male, aspra aversaria ai rei.

Ben di giusta t’usurpi il nome invano

s’impunita ti tocca iniqua mano.

Ricevi, ombra paterna, anima chiara,                        391

la morte mia dela tua vita invece

e ben quell’ira omai di sangue avara

col proprio sangue tuo placar ti lece,

ch’offerta ti sarà forse più cara

di quante mai questa crudel ne fece.

Darò con far tre alme a un punto liete

a me fama, a lei gioia, a te quiete. –

Così dice e tremante il braccio stende,                                  392

slunga la spada e volge al cor la punta;

ma Sidonio la man forte le prende

ed a tempo la madre anco v’è giunta

a cui largo dagli occhi il pianto scende

già d’amor tutta e di pietà compunta

e’l morir disturbando al’infelice

la riconforta umanamente e dice:

Pon giù figlia la spada insieme e l’ira,                                 393

il pentimento ogni gran biasmo scolpa.

Morì Morasto e se dal ciel ne mira

forse non tanto i nostri errori incolpa,

perché se dritto al vero occhio si gira

non fu l’altrui fallir senza sua colpa,

consolandosi almen che non successe

fallo mai tal che tanta emenda avesse.

Poich’al passato mal non è riparo                             394

ed io deposti ho già gli antichi sdegni,

vivi contenta, affrena il pianto amaro

e del prim’odio ogni favilla spegni.

Abbi di te pietate e del tuo caro

ch’oggi mostri ha d’amorchiari segni,

degno teco d’unirsi ad egual giogo

e degno d’altro laccio e d’altro rogo. –

Dopo questo parlar dolce l’abbraccia,                                  395

dolcemente la stringe al sen materno

e baciandole or gli occhi ed or la faccia,

scopre gli effetti del’affetto interno.

Poi con Dorisbe sua Sidonio allaccia

in nodo indissolubile ed eterno,

dandogli a pien quanto più dar gli pote,

la persona in consorte e’l regno in dote.

Del re suo padre sovragiunti a questi                         396

rischi dal giorno innanzi erano i messi,

ma taciturni e sbigottiti e mesti

stavano a così miseri successi.

Tosto che i casi lor fur manifesti,

il proprio affar manifestaro anch’essi,

e con parlar facondo ed efficace

n’impetrar meglio e parentela e pace.

Ma qual mai si trovò gioia compita                           397

cui non fusse il dolor sempre consorte?

O quando il dolce del’umana vita

lasciò giamai d’avelenar la morte?

Ecco mentre la festa è stabilita,

novo scompiglio intorbida la corte,

perch’ad Argene inaspettati avisi

recati son de’ duo nipoti uccisi.

Di Filauro e Filora i servi erranti,                               398

poiché più giorni senz’alcuno effetto

cercaro i lor signor con doglie e pianti,

tornando riscontrarono un valletto,

ilqual traeano ala reina avanti

tra cento nodi incatenato e stretto,

ch’a più d’un segno e d’un indizio aperto

ch’ei fusse l’uccisor tenner per certo.

Quando fu quivi il giovane condotto                          399

finale stelle si levar le strida,

ch’al cinto, al velo insanguinato e rotto

tosto il conobbe ognun per omicida;

tempo avea’l meschin pur da far motto

né da dir sua ragion fra tante grida.

Sidonio il vide e vide esser colui

ch’accontato quel di s’era con lui.

Quest’era Adon che poich’a terra spinto                              400

fu dall’uom inuman, diede in costoro.

Contando a tutti il caso allor distinto

il prence e com’al bosco insieme foro,

innocente il dichiara ancorche’l cinto

il contrario dimostri e’l drappo d’oro;

relazion lunga e diffusa

di quanto già cantò la nostra musa.

In questo tempo il giusto ciel ch’offeso                                 401

non nega ai falli mai devuta pena,

coduo complici suoi legato e preso

quivi Furcillo il ladro a tempo mena.

Allor meglio è da tutti il fatto inteso,

che n’han dal bell’Adon notizia piena,

ed a forza di strazi e di tormenti

già confessano il vero i delinquenti.

Quanto ala donna pria, narra Furcillo,                                   402

ch’egli da Malagor vide svenarla,

perché con gli altri di lontan seguillo

e poi la disterrò per disporgliarla,

ma’l garzon come cadde e chi ferillo

nulla dice saperne e più non parla.

aspra è la tortura e sì gli dole

che la vita vi lascia e le parole.

Posciachalfine il giudice s’avede                              403

ch’egli il degno castigo ha prevenuto

e che’n van più l’afflige, invano il fiede,

che lo spirito e’l senso ha già perduto,

dagli altri duo la verità richiede

che tornano a ridir quelch’ha saputo.

Ma rei d’altri delitti e malefici

son pur dannati agli ultimi supplici.

Mentre costoro la funesta tromba                             404

ala croce accompagna ed ala fune,

vassi con pompa ala selvaggia tomba,

albergo a duo cadaveri commune.

Di voci il bosco e fremiti rimbomba,

piagne ciascun l’indegne lor fortune;

e con essequie illustri ed onorate

trasferiscon que’ corpi ala cittate.

Libero apena Adon, per mano il piglia                                  405

Mercurio e seco il trae fuor dele mura,

e’n parlar che’l consola e che’l consiglia

gli di presto ben speme secura.

Ragionando così non va due miglia

che giunge ove più densa è la verdura.

Qui gli mostra il camin che vuol ch’ei segua

e ciò detto sparisce e si dilegua.

Molto innanzi ei non va che’l piede infermo                           406

s’indebolisce a poco a poco e stanca

e per quel bosco abbandonato ed ermo

al vigor giovenil la forza manca.

Apre il guscio dorato, ilqual gli è schermo

contro la fame e sua virtù rinfranca.

La stanchezza e’l digiuno inun restaura,

poi s’addormenta al sussurar del’aura.

E già del centro dela rota appare                              407

ben lunge il sol che’l nostro mondo lassa

e le sue rote folgoranti e chiare

già verso Calpe avicinato abbassa.

Quindi l’argento suo tremulo il mare

trasforma in lucid’or mentre ch’ei passa;

e quinci fuor dele cimerie grotte

dal’ocean precipita la notte.

 




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