Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giovan Battista Marino
Adone

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

Canto, allegoria 15

Il RITORNO. Adone che, dopo i disturbi di molte persecuzioni, si riconduce finalmente a Venere, ci dichiara che l’uomo abituato nel peccato, ancorché talvolta per alcun tempo impedito da qualche travaglio si distorni dal male, facilmente per ogni picciola tentazione ritorna all’antica consuetudine. Il giuoco degli scacchi ci fa conoscere i passatempi e le dilettazioni con cui lo va trattenendo la voluttà per desviarlo dal bene, lequali nondimeno non sono altro che combattimenti e battaglie. La trasformazione di Galania in tartaruga ci rappresenta la natura di questo animale, ch’è molto venereo.

 

Canto, argomento 15

Scopre al suo vago con astuto ingegno

Cipria i passati casi; il mena al loco

de’ primi amori, indi a Galania in gioco

muta la forma, a lui promette il regno.

 

Canto 15

In quest’Egeo, dov’ha Fortuna il regno,                                1

di procelle guerriere instabil campo,

benché non scopra il combattuto legno

di pacifica stella amico lampo,

non diffidi giamai costante ingegno

d’agitato nocchier di trovar scampo,

ma speri pur da destra luce scorto

di prender terra e ricovrarsi in porto.

La calma ala tempesta alfin succede,                         2

cedono alfin le nevi ale viole,

segue la notte il chiaro giorno e riede

dopo le nubi e le tempeste il sole.

Spesso del pianto è la letizia erede,

così stato quaggiù mutar si suole;

con tai leggi natura altrui governa

e le vicende sue nel mondo alterna.

Dopo molto girar, mobil compasso                           3

chiude al punto le linee e le congiunge.

Da lungo corso affaticato e lasso

il destriero anelando al pallio giunge.

Arriva al fonte con veloce passo

cerva, cui stral acuto il fianco punge.

E vien tra noi dal’africano lido

rondine vaga a ricomporre il nido.

Dal duro essilio suo contenta e lieta                          4

torna al’orbe natio la fiamma lieve.

Torna da’ giri suoi l’onda inquieta

nel gran ventre del mar che la riceve.

Ritorna al centro ove’l suo moto ha meta

a gran fretta correndo il sasso greve.

Ed ala patria ove’l suo cor soggiorna,

d’errar già stanco, il peregrin ritorna.

Alcun non sia però ch’unqua si vanti                         5

d’aver tanta a sentir gioia nel core,

che passi quella de’ fedeli amanti

quando talor gli ricongiunge amore,

e nebbie e pioggie di sospiri e pianti

sgombrando col seren del suo splendore,

di lontana beltà guida e conduce

anima cieca a riveder la luce.

Con quell’affetto e’n quella stessa guisa                                6

che dietro al maggior cerchio il ciel si gira,

o che di serpe suol parte recisa

unirsi al capo che la move e tira,

con quel desio sen corre alma divisa

al dolce oggetto ond’ella vive e spira,

che calamita a polo ha per costume,

augello ad esca o farfalletta a lume.

Tempo fia dunque in braccio al caro bene,                            7

o bell’Adon, da ricondurti omai,

che l’un e l’altro fra tormenti e pene

ha sospirato, ha lagrimato assai.

Prepara i vezzi, ecco ch’a te se’n viene,

rasciuga, o dea d’amor, gli umidi rai.

Chi dirà che fruttar possano i semi

degli estremi dolor diletti estremi?

Del palagio del ciel ricco e lucente                            8

chiuse l’auree finestre eran già tutte,

salvo quella ch’aperta in oriente

rimane infin che sien l’ombre distrutte;

dove le bionde chiome al nascente,

ancor non ben dela rugiada asciutte,

Vener bella s’acconcia e restar suole

indietro alquanto a gareggiar col sole,

quando dala dolcissima canzone                               9

svegliato alfin del rossignuol selvaggio,

che lieto al rimbambir dela stagione

salutava d’Apollo il primo raggio,

le pompe a vagheggiar si pose Adone

del novello e del novello maggio,

or quinci or quindi a contemplar rapito

il terreno stellato e’l ciel fiorito.

Erano già per man di primavera                                10

d’odorate ricchezze i campi adorni,

allor che’n tauro la maggior lumiera

men brevi adduce e più sereni i giorni;

progne, e tu del bel tempo messaggiera

le dolci case a far tra noi ritorni,

e’l cristallino piè ch’a’ fiumi avea

Borea legato, Zefiro sciogliea.

Fuggon per l’erba liberi i ruscelli                               11

poiche’l sol torna a delivrare il gelo.

Van tra i folti querceti i vaghi augelli

disputando d’amor di stelo in stelo.

Treman l’ombre leggiere ai venticelli

ch’empion d’odori il disvelato cielo

e scotendo e’ncrespando i rami e l’onde

si trastullan con l’acque e con le fronde.

Di naturali arazzi intapezzato                         12

riveste ogni giardin spoglie superbe,

né d’un sol verde si colora il prato

ma diverso così come son l’erbe.

A bei fiorami il verde riccamato

lava e polisce le sue gemme acerbe,

ch’ala brina ed al sol formano apunto

quasi di Lidia un serico trapunto.

Apre le sbarre e’l caro armento mena                                   13

il bifolco a tosar l’erba novella.

Scinta e scalza cantando a suon d’avena

sta con l’oche a filar la villanella.

Scherzando col torel per l’ombra amena

va la giovenca e col monton l’agnella.

Su per lo pian che Flora ingemma e smalta

con la damma fugace il danio salta.

Langue anch’egli d’amor l’angue feroce                                14

e, deposta tra’ fior la scorza antica,

dov’amor più che’l sol lo scalda e coce

ondeggia e guizza per la piaggia aprica.

I fischi e i fiati onde spaventa e noce

cangia in sospir per la squamosa amica,

l’acuta lingua e la mordace bocca

in saetta d’amor che baci scocca.

Ma vie più ch’altri Adon, possente e fiero,                            15

sente l’ardor ch’a vaneggiar l’induce;

e mentr’è il cielo ancor candido e nero

tra i confini del’ombra e dela luce,

tenendo al’idol suo fiso il pensiero

volge l’occhio a colui che’l conduce

e, quasi in specchio, con lo sguardo vago

raffigura nel sol l’amata imago.

Quindi dal duolo ador ador spezzati                          16

incomincia a sgroppar flebili accenti,

né de’ caldi sospiri innamorati

gli escon del cor con minor forza i venti

che del mantice uscir sogliano i fiati

a dar vigore ale fornaci ardenti,

anzi par che sfogando i suoi gran mali

l’anima istessa cosospiri essali.

– Ahi! che mi val (dicea) che’l mondo infiori                         17

la bella primogenita del’anno?

o che spuntin dal cielo i lieti albori,

se per me non rinasce altro ch’affanno?

ridano i prati e cantino i pastori,

me di lagrime pasce un fier tiranno,

e fan verno perpetuo i miei tormenti

d’amare pioggie e d’angosciosi venti.

Il sol che porta a’ miei tristocchi il giorno                             18

non è già questo che levarsi or veggio,

seben nel volto suo di luce adorno

d’altra luce maggior l’ombra vagheggio.

Parta, o partito poi faccia ritorno,

ben altro lume ale mie notti io cheggio.

Chi crederia che più lucente e bella

m’è del’alba e del sol sol una stella?

Sorgi stella d’amor, fiamma mia cara,                                   19

dolce vaghezza mia, dolce sospiro.

L’ombre del’orizzonte omai rischiara,

ma più quelle ov’io cieco ognor m’aggiro.

Sarai sì di pietate in terra avara

come larga di luce in ciel ti miro?

Miri tu la mia pena e’l mio dolore?

o da me, come l’occhio, hai lunge il core?

Deh! perché le bell’ore indarno spendi                                 20

per governar d’un’aureo carro il freno?

Che ti giova il piacer che’n ciel ti prendi

d’errar per lo notturno aere sereno?

Lascia le vane tue fatiche e scendi

omai tra queste braccia, in questo seno.

Vedrai ch’al tuo venir quest’antri foschi

fieno orienti e paradisi i boschi.

Boschi, d’amor ricoveri frondosi,                              21

de’ miei pensieri secretari fidi,

taciturni silenzi, orrori ombrosi

e di fere e d’augei caverne e nidi,

con voi mi doglio e tra voi, prego, ascosi

restin questi sospiri e questi gridi;

fia ch’alcun di lor quel ciel percota,

che lieto del mio mal, credo, si rota.

Fontane vive, che di tepid’onde                                22

largo tributo da quest’occhi avete

e voi, ch’altere insu le verdi sponde

mercé de’ pianti miei, piante crescete,

seben l’acque asciugar, seccar le fronde

a tante, ch’ho nel cor, fiamme solete,

voi sol de’ miei dolor, mentre mi doglio,

ascoltatrici e spettatrici io voglio.

E tu ch’afflitto degli afflitti amico,                              23

solitario augellin, sì dolce piagni,

o che la doglia del tuo strazio antico

languir ti faccia o che d’amor ti lagni,

ferma pietoso il volo a quant’io dico

sdegnar che nel duolo io t’accompagni,

che se’l mio stato al tuo conforme è tanto

ragion è ben che sia commune il pianto. –

Più oltre ancor de’ suoi lamenti il corso                                 24

l’innamorato giovane seguia

ch’un marmo, un ghiaccio, un cor di tigre e d’orso

intenerito, incenerito avria.

Ma pose il duolo ala sua lingua il morso

ché, sgorgando dal cor per altra via,

mentre ala lingua il pose, agli occhi il tolse

e’n desperate lagrime lo sciolse.

Or, perché’l sol già poggia e i poggi inaura,                          25

lascia i riposi del’erboso letto

e prende a passeggiar per la frescaura

del rezzo mattutin tutto soletto.

Di nova speme, allor che lo restaura,

un certo non so che sentesi al petto,

quasi un balen di tenerezza dolce

gli scende al cor che lo rinfranca e molce.

dove il vago passo o fermi o mova                                  26

ogni erba ride, ogni arboscel s’indora;

ringermoglia la terra e si rinova

e quanto può le care piante onora;

spunta di rose amorosette a prova

schiera lasciva e le bell’orme infiora

e’l piè fregiato di celeste lume

corre a baciargli e ne trae fiamme il fiume.

Se vibrando il seren de’ duo zaffiri                            27

ch’innamorano il ciel, volge la fronte,

prendendo qualità da’ dolci giri,

lascia il bosco l’orror, la nebbia il monte.

Par che Favonio n’arda e ne sospiri,

par che ne pianga di dolcezza il fonte

e per dolcezza in copiosi rivi

stillan le querce mel, nettar gli olivi.

Ovunque o in valle ombrosa o in balza aprica                                   28

sedendo affreni i faticosi errori,

piega i rami ogni pianta e l’ombra amica

gli offre e di pomi il sen gli empie e di fiori,

per render forse a quel che la nutrica

terreno sole i tributari onori,

poich’ogni tronco prende ed ogni stelo

vigor dagli occhi suoi più che dal cielo.

In una croce che’l sentier divide                                29

e fa di molte vie quasi una stella,

per mezzo il bosco alfin pervenne e vide

quivi al’ombra posarsi una donzella.

Stanca tra fiori e languida s’asside,

brunetta sì, ma sovr’ogni altra bella;

ed al’abito estrano ed ale membra

del’egizzie vaganti una rassembra.

Senz’alcun taglio un pavonazzo in pelo,                                30

che di verde e d’azzur le trame ha miste,

la veste, come veste iride in cielo,

d’un cangiante ingannevole ale viste.

Disovra un manto, anzi più tosto un velo,

ha di satì vergato a varie liste,

ch’ad un botton di variato oppalla

le s’attien per traverso insu la spalla.

La portatura dele chiome belle                                  31

s’increspa acconcia in barbareschi modi.

Quinci e quindi è distinta in due rotelle,

ond’escon molte sferze in mezzi nodi.

Sembran tele d’aragne e in mezzo a quelle

son d’acuto rubin fissi duo chiodi,

poi dele ciocche in cima al capo aggiunte

su le rote a passar tornan le punte.

Fanno ombroso diadema ai crini aurati                                 32

che’n largo cerchio intorno si sospende,

pur di bei veli, a più color listati,

con spessi avolgimenti attorte bende.

Si divide la treccia e per duo lati

quasi in due lunghe corna al tergo scende.

E fregiata la cuffia è d’un lavoro

a rosette d’argento e stelle d’oro.

Giacea su’l piumacciuol d’un violeto                         33

lungo un ruscel freschetto e cristallino,

corcato quasi in morbido tapeto

un pargoletto e tenero bambino,

nela cui frontegiocondo e lieto

vedeasi scintillar lume divino,

che, benché il sonno gli occupasse il ciglio,

parea di madre tal ben degno figlio.

Era costei d’Amor la bella dea                                 34

che del suo caro Adon tracciava l’orme

e’l bel fanciul che di dormir fingea

era quei ch’a suoi danni unqua non dorme.

Sconosciuta scherzar seco volea

sotto straniere e peregrine forme,

perché fusse il piacer dopo il dolore

quanto improviso più, tanto maggiore.

In arrivando Adon, dal capo al piede                                    35

la discorre con gli occhi a parte a parte

e l’aria signoril che’n essa vede

loda e de’ ricchi arnesi ammira l’arte.

Poi la saluta e la cagion le chiede

che l’ha condotta in sì remota parte.

Ed ella seco a riposar l’invita

dove ingiunca il suol l’erba fiorita.

– Son di Menfi nativa (indi risponde)                        36

barbara donna e per costume errante.

Filomanta m’appello e dale sponde

partii del Nil con quest’amato infante

perch’ir mi convenia, varcando l’onde,

alcun’erbe a raccor di sacre piante

e credea per lo torbido Ellesponto

passar a Colco e poi da Colco a Ponto.

Ma de’ suoi flutti il tempestoso orgoglio                                37

tragittommi pur dianzi a questo lido

e poiché’l ciel m’ha qui guidata, io voglio

solver un voto ala gran dea di Gnido.

Piacemi intanto nel suo sacro scoglio,

poiché trovato v’ho scampofido,

tra queste verdi ombrette affrenar lasso

peregrinante e vagabonda il passo. –

– O (disse Adon) quant’ebbi sempre o quanto                                 38

voglie di ragionar bramose e vaghe

con alcuna di voi, ch’avete tanto

celebre nome di famose maghe.

Odo che porta Egitto il primo vanto

dele più dotte femine presaghe,

che d’ogni caso altrui chiaro ed intero

san su la mano indovinare il vero.

Deh! se ne’ patri tetti a prender posa                                    39

le tue piante raminghe il ciel raccoglia,

pregoti, aventuriera aventurosa,

che le venture mie spiegar mi voglia.

Né mi tacer qualunque infausta cosa,

benché sia per recarmi affanno e doglia.

Son sì avezzo a languir, che poco deggio

o nulla più temer quasi di peggio.

Fu chi mi disse astrologando ch’io                            40

ho le fila vitali inferme e corte

e trovò ch’è prefisso al viver mio

su’l fior degli anni un duro fine in sorte

e che per violenza un mostro rio,

una fera crudel mi darà morte.

Vedrò s’a que’ pronostici malvagi

si conformano ancora i tuoi presagi. –

Dela chiromanzia l’alta scienza                               41

 (la bellissima zingara rispose)

tien con l’astrologia gran conferenza,

perfetta armonia l’arti compose

per la scambievol lega e rispondenza

ch’han le terrene e le celesti cose,

e per la simpatia bella che passa

tra la sovrana machina e la bassa.

Ma perché i suoi principi ha più vicini,                                  42

del’altra i suoi giudici anco ha più certi,

procedendo da’ prossimi confini

del corpo istesso umano i segni aperti,

onde d’investigar gli altrui destini

prendon notizia i chiromanti esperti.

L’esperienza poi con lunga cura

del’osservazion l’arte assecura.

Sette monti ha la man, ciascun de’ quali                                43

d’un pianeta del ciel l’imago esprime.

Ha quattro linee illustri e principali

corrispondenti a quattro membra prime.

In due la qualità de’ genitali

e del fonte del sangue a pien s’imprime.

Dimostran l’altre due come costrutte

sien del capo e del cor le parti tutte.

Quindi altri poi considerar ben pote                          44

d’ogni complessione e d’ogni ingegno

le tempre interne e le nature ignote,

infortuni e fortune a più d’un segno.

creda alcun che così fatte note

sien poste a caso in animaldegno,

perché natura e’l gran motor sovrano

nulla giamai nel mondo oprano invano.

Or al’opra son presta, e grata e lieve                        45

mi fia per compiacerti ogni gran salma.

Porgi dunque la destra (ala cui neve,

disse seco pian piano, arde quest’alma)

e seben sempre essaminar si deve

in ciascun uomo e l’una e l’altra palma,

ala manca però l’altra prevale,

s’è diurno, qual credo, il tuo natale. –

A questo dir la bianca man le stende                         46

vago d’udir più oltre il giovinetto.

Con un sospir tremante ella la prende

e prende nel toccarla alto diletto

e quel pungente stral che’l cor l’offende

sente scotersi intanto in mezzo al petto,

l’altro con ciglia tese e labra aperte

gli occhi da lei pendenti a lei converte.

Lavar la mano (ella gli dice) è stile                         47

perch’ogn’impression meglio si veggia.

A me però la tua pargentile

che non fia che di bagno uopo aver deggia.

Di cinque perle un ordine sottile

vi scorgo, il cui candor dolce rosseggia;

proporzion ch’altrui mostra palese

nobile spirto ed animo cortese.

Quelle tre righe poi che verso il sito                          48

dove l’indice siede a dritto stanno

e del più grosso tuo maestro dito

nele radici a terminar si vanno,

tal qual apunto sei, vago e polito

e dilicato e morbido ti fanno,

ai diletti inclinato ed agli amori,

legator d’alme e feritor di cuori.

A quanto del’astrologo dicesti                                  49

rispondo che non mal deltutto avisa,

che certo è di caratteri funesti

la tua linea vital molto intercisa,

da grossi solchi e ben profondi, e questi

scendon dal primo articolo, divisa,

breve, debile, torta e disunita,

indizi ch’accorciar devrian la vita.

Oltre ch’ala mensal s’unisce e lega                            50

quella di vita e quella di natura

e colà dove il pollice si piega

tra l’una e l’altra sua doppia giuntura,

stranio contesto l’intervallo sega

che molti semicircoli figura

e’l monte delo dio bravo e feroce

è cancellato da più d’una croce;

tutti per mio parer segni evidenti                               51

d’aver tosto a passar grave periglio

e fuor de’ dritti termini correnti

del camin natural chiudere il ciglio.

Ma questi formidabili accidenti

si ponno anco fuggir col buon consiglio;

l’istesso ciel gl’influssi suoi cattivi

scrisse al’uom su la man perché gli schivi.

Linea v’ha poi ch’obliqua e mal disposta                              52

dala percussione in alto ascende

e sì di Giove appo i confin s’accosta

che’l cavo dela man per mezzo fende.

Aggiungi ancor, ch’ove la mensa è posta,

sovra il quadro un triangolo si stende,

onde da bestia rea ti si minaccia

rischio mortal, se seguirai la caccia.

Ma lasciam quelche seguir deve appresso                             53

ch’è troppo a specolar dubbio ed oscuro

e ne’ casi avenire io ti confesso

ch’ogni nostro giudicio è mal securo.

Toccherò del passato alcun successo

onde potrai comprendere il futuro,

che s’avverrà ch’io sia verace in questo,

devrai fede prestarmi anco nel resto.

E poiché del destin crudo e nemico                           54

da me narrato alcun effetto sai,

intorno a questo più non m’affatico,

a più prospere cose io vengo omai.

Scorgo la bianca striscia e sì ti dico

che sei per altro aventurato assai;

sempre del latte l’onorata via

importa alta fortuna, ovunque sia.

L’altra linea sottil, lunga e profonda                          55

che dal dito minuto innanzi corre

e’l vicino tubercolo circonda

finch’al monte del sol si viene a porre

e presso ala mensal, che la seconda,

non interrotta mai quasi trascorre,

rende ancor grati e cari i tuoi costumi

a sommi regi, anzi a celesti numi.

E se dal’arte mia non son delusa,                              56

havvi una donna, anzi una dea che t’ama,

ogni altro amante, ogni altro amor ricusa,

altra che gli occhi tuoi, luce non brama.

E come pur l’istessa man m’accusa,

al sole, al’ombra, ti sospira e chiama,

per te sol trae de’ giorni e dele notti

le vigilie inquiete e i sonni rotti.

Non so se d’esser stato unqua sovienti                                 57

preso dal sonno in alcun prato erboso,

dove t’abbian sospir forse e lamenti

d’una ninfa gentil rotto il riposo.

Ancor non so di più, se ti rammenti

d’aver seco passato atto amoroso

e ch’ella poi tra dolci nodi involto

in palagio real t’abbia raccolto.

E che’n vago giardin tra liete schiere                         58

di fanciulli e donzelle andasti seco,

seco entrasti nel bagno e’n tal piacere

ella finché’l ciel volse, albergò teco.

Parmi fra que’ diporti anco vedere

un verde, ombroso e solitario speco,

che fu comuti suoi secreti orrori

testimonio fedel de’ vostri amori.

E fosti ad un bel fonte un guidato                          59

a sentir verseggiar candidi augelli;

poi ti condusse sovra un carro alato

in un paese bello oltre i più belli,

dove se per più fosti beato,

tu’l sai, soverchio fia ch’io ne favelli

e s’accolte vedesti in varie squadre

quante furo o saran donne leggiadre.

Quindi a seguir ti richiamò Fortuna                            60

di vaghe fere le vestigia sparte.

La tua fedel però sempre importuna

ti consigliava a tralasciar quell’arte. –

E seguitò narrando ad una ad una

di que’ commerci ogni minuta parte

e del’occulte lor passate cose,

senza mentir parola, il tutto espose.

– Quanto dico (soggiunse) e quanto intendi,                          61

tutto dala tua man raccoglier parmi;

trovo di più ch’agli amorosi incendi

sei fatt’esca ancor tu, bersaglio al’armi

e d’amor per amor cambio le rendi,

infin tu l’ami e ciò non puoi negarmi.

S’ami quant’ella, io non so dirti apieno,

so ben che l’ami o che l’amasti almeno.

E ti so dir ch’a dignità suprema                                 62

ti fia dato aspirar sol per costei

e ch’ad onor di scettro e di diadema

la sua mercé predestinato sei.

Qualunque tua necessitate estrema

protettrice non ebbe altra che lei

e ti fu sempre in ogni tuo successo

o fortunato o fortunoso appresso. –

Stupisce Adone e sbigottisce e quasi                        63

di languidezza e di desir trabocca

e gli occhi abbassa e non gli son rimasi

colori in facciaparole in bocca;

e rimembrando i suoi passati casi,

fiera passion l’alma gli tocca

e sì fatti sospir ne svelle fore,

che par che fatto pezzi abbia del core.

Veramente gli è ver (poscia risponde)                                64

son preso ed ardo e mene glorio e godo

poiché giamai più degno incendio altronde

non nacque e non fu mai più nobil nodo.

Ma la beltà ch’avaro ciel m’asconde,

lasso e chi può lodarla? apien non lodo.

Lodala, Amor, ch’ivi nascesti ed ivi

regni sempre, trionfi e voli e vivi.

Quando quest’occhi in prima Amor rivolse                           65

a mirar la beltà ch’ogni altra eccede

l’alma le porte aperse e la raccolse

dela sua reggia ala più eccelsa sede;

quindi a me di mestesso il regno tolse

ed a colei, che l’avrà sempre, il diede,

nascondendo il mio cor nel sen di lei

e la bellezza sua negli occhi miei.

Altro da indi in qua non seppi poi                             66

ch’ale leggi ubbidir del cieco dio

e tutti ricevendo i dardi suoi

gli servì di faretra il petto mio.

Quanto più crebbe amor poscia tra noi

più crebbe in me timor, crebbe desio

e sempre in vera stabile e saldo

arsi, lasso, al giel freddo, alsi al ciel caldo.

Già del mio bene entro le braccia accolto                             67

vissi un tempo e godei felice amante.

Ma l’iniqua Fortuna, altrui più molto

larga in donar che’n conservar costante,

meco non mutò già, mutando volto,

la sua natura lubrica e rotante,

anzi tante miserie ha in me versate

che n’avria ancor la Crudeltà pietate.

Misero, e che mi val tra doglie e pene                                   68

agli andati piacer volger la mente,

se la memoria del’antico bene

raddoppia il novo mal che m’è presente?

A queste luci ognor di pianto piene,

dela notte natal par l’oriente

ed amo l’ombra assai più che la luce

poiché’n sogno il mio sole almen m’adduce.

O memorando o miserando essempio                                   69

del’amaro d’amor dolce veleno,

qual’egli mai più dispietato scempio

di questo ch’io soffro in altro seno?

Dal’una al’altra aurora ingombro ed empio

d’affannati sospir l’aere sereno,

sol, né stella, ove ch’io vada intanto,

sparger giamai mi vede altro che pianto.

S’io non deggio veder più que’ begli occhi,                           70

per cui languir, per cui morir mi piace,

serrinsi i miei per sempre e non mi tocchi

raggio più mai dela diurna face. –

Qui, come Morte in lui lo strale scocchi,

s’abbandona d’angoscia e geme e tace

e dal’interno foco onde sfavilla

liquefatto per gli occhi il cor distilla.

Oblio risana ogni dolor profondo                           71

 (l’amorosa indovina allor ripiglia);

poiché tanto t’affligi, io ti rispondo

che devresti ascoltar chi ben consiglia.

Ponla in non cale, altre n’ha forse il mondo

di non men belle guance e belle ciglia. –

Volea seguir, ma nela bocca bella,

occupata dal pianto è la favella.

– No no, (replica Adon) prima vedrassi                                72

deporre Atlante il suo stellato peso,

neri avrà Febo i crini e tardi i passi,

gelati i raggi ond’è il suo lume acceso,

andran le fiamme al chino, in alto i sassi,

ch’io sia d’altra beltà soggetto e preso.

La prima del mio cor dolce ferita

sarà l’ultima ancor dela mia vita.

E seben dala vita io lunge vivo                                  73

in stato tal che più sperar non spero,

mostrami il caro oggetto onde son privo,

l’occhio del’alma, il peregrin pensiero.

Spesso con questo a visitarla arrivo,

questo è de’ miei sospir fido corriero.

O vada o stiami addormentato o desto,

mai né pensosogno altro che questo.

Non mi duol del mio duol poich’ala doglia                            74

la cagion del dolor porge conforto

e per desio di trionfale spoglia

è gloria in nobil guerra il restar morto.

Non m’essortar ti prego a cangiar voglia,

s’aggiunger non vuoi male al mal ch’io porto;

per lei meglio morire amo in tormento

che per altra giamai viver contento. –

Volse baciar la bella bocca allora                             75

la dea d’Amor, ma di dolcezza svenne.

Fu per scoprirgli il ver senza dimora

e d’abbracciarlo apena si contenne.

Volea spuntar la lagrimetta fora

senon ch’ella negli occhi la sostenne,

perch’amor con que’ detti a poco a poco

aggiunse esca ala fiamma e fiamma al foco.

S’asciuga i lumi e gli solleva e dice:                           76

Ceder convienti a forza al ciel perverso.

Vuolsi goder mentre si pote e lice,

ma che giova cozzar col fato averso?

Questa virgula qui che la radice

dela linea vital parte a traverso

e su’l monte di Venere si spande,

scopre un nemico assai possente e grande.

Eccoti la cagion ch’essule afflitto                               77

fuor del bel nido a tapinar ti mosse.

Un rival forte, un aversario invitto

che ti spinse a fuggir credo che fosse.

Vedi per la rascetta a passo dritto

due paralelle andar non molto grosse;

sembran compagne ed accoppiate in biga,

montano insù con geminata riga.

E dal’infima parte ove la mano                                  78

s’annoda al braccio, con misura eguale

verso il superior dito mezzano

l’una e l’altra delpari in alto sale

e taglian l’altre due, poste insu’l piano

del tondo ch’è tra’l polso e la vitale,

ma sono anch’elle da diverse botte

tronche per mezzo in molte parti e rotte.

Que’ ramoscelli poi che dala vita                              79

procedon dov’è di Marte il trono,

si conformano a queste e la partita

voglion pur dinotar di cui ragiono.

Fuor dela patria una furtiva uscita,

fughe ed essili espressi entro vi sono

e di paterni beni e di retaggi

perdite gravi e poveri viaggi.

Tacer anco non deggio e’l dirò pure,                        80

quelle croci colà picciole e spesse

che con infauste e tragiche figure

su la mensa vegg’io sparse ed impresse,

non son fuorché travagli e che sciagure,

strazi e dolor significati in esse,

e disegnano un cumulo d’affanni

apunto in su’l fiorir de’ più verdanni.

E per venire ad un parlar distinto,                             81

dico, per quanto il mio saver n’attigne,

che fosti in ceppi ed in catene avinto

sol per cagion di femine maligne,

perché veggio di stelle un labirinto

che la linea del core intorno cigne

e veggio la mensal, che’n due disgiunta,

verso l’indice e’l mezzo i rami appunta.

Strega malvagia, anzi infernal megera                        82

perché degli occhi tuoi molto invaghissi

d’una prigion caliginosa e nera

vivo ti sepelì sotto gli abissi.

Ma quel penoso carcere non era

il cordoglio maggior che tu sentissi.

Sol con la gelosia fuor di speranza,

t’affligea del tuo sol la lontananza.

Né perché con minacce e con martiri                                    83

la scelerata incantatrice infame

di torcer si sforzasse i tuoi desiri

a sciorre il primo lor dolce legame,

né per offrirti quanto il vulgo ammiri

e quanto appaghi l’essecrabil fame,

valse a far che volesse unqua il tuo core

falsar la fede o magagnar l’amore.

Nulla dico a macchiar la limpidezza                           84

dela tua lealtà giamai le valse,

senon ch’a frodi ed a perfidie avezza

ricorse ad arti ingannatrici e false.

Sotto la finta imagine e bellezza

di colei che tant’ami ella t’assalse;

e senon era il ciel che pietà n’ebbe,

vinto con armi tali alfin t’avrebbe.

E però che le stelle ivi raccolte                                  85

fuor dela linea son, convien ch’io dica

che rotti i ceppi e le catene sciolte

n’uscisti, non però senza fatica.

Ti diè favore e t’aiutò più volte

la tua pietosa e sviscerata amica,

onde puoi dir per cosa certa e vera

che ti diè libertà la prigioniera.

Costei dele malie che t’avean guasta                         86

l’umana effigie con velen possente,

disfece i groppi onde t’è poi rimasta

d’ogn’insano pensier sana la mente.

E tanto aver di ciò detto mi basta,

meglio a testesso è noto il rimanente.

E sai per quanti soli e quante lune

quante incontrasti poi dure fortune. –

Tutto in sestesso a rimirarla fiso                                87

recossi Adon da quel parlar commosso.

Tocco da un sovrasalto al’improviso

divenne in volto del color del bosso.

Ma dal dolce balen d’un bel sorriso

fu ferito in un punto e fu riscosso.

La speme sfavillò dentro il timore

e gli si sollevar l’ali del core.

– O qual che tu ti sia, la cui dottrina                          88

 (prorompe poi) sa penetrar ne’ petti,

come giovane bella e peregrina

può di tanto avanzar gli altri intelletti,

che con sovramortal luce divina

s’apra la strada ai più riposti affetti?

Deh! non più ti celar se donna sei,

ma già donna non sembri agli occhi miei. –

Donna (risponde) io son. Che quanto chiudi                                  89

nel profondo del’alma io ti palesi

e scorga i tuoi pensier svelati e nudi

stupir non dei; ciò da’ prim’anni appresi.

Cotanto ponno i curiosi studi

in cui lungo travaglio e tempo spesi.

Quinci il tutto conosco e vie più assai

so degli affari tuoi che tu non sai.

Ma che dirai se fia ch’io ti discopra                          90

dov’or si trova il tuo dolce tesoro?

E che molto vicin ti pende sopra

fato miglior, d’ogni tuo mal ristoro?

Qual premio avrò? già per mercé del’opra

gemme non vo, non curo argento ed oro.

Ma che sola una rosa a coglier abbia

di quelle che sì fresche hai nele labbia. –

Così dicendo il cupido garzone                                 91

trattiene e tuttavia la man gli stringe.

A tal dimanda ed a tal atto Adone

di punico vermiglio il viso tinge

e fa seco tra sé dubbia tenzone:

l’un pensier lo ritien, l’altro lo spinge.

Ciò che la donna dice intender brama,

né vuol romper la fede a chi tant’ama.

Sorrise allor quella bellezza rara,                               92

volsi dir come rosa o come stella,

ma non ha stella il chiaro cielchiara

né fu mai rosa in bel giardinbella.

Il vel ch’asconde la sembianza cara

si squarcia intanto e più non sembra quella.

Scorge Adon di colei che’l cor gli ha tolto,

sbendato il lume e smascherato il volto.

Sicome lampo suol nele tempeste                             93

lacerar dele nubi il fosco velo,

o come pur col suo splendor celeste

la lampa serenissima di Delo

sgombra ed alluma in quelle parti e’n queste

le notturni caligini del cielo;

così quand’ella il ver gli discoverse

tutte de’ suoi pensier le nebbie aperse.

Sta pur in forse Adon di quelche vede,                                 94

il piacer lo confonde e lo stupore

e’n su’l primo apparir, perché non crede

un tanto ben che gli presenta amore,

al’occhio lusinghier non ben fede,

ché cerca spesso d’adulare al core;

suol talvolta ingannato il vago sguardo

in ciò ch’altri più brama esser bugiardo.

Ma rinfrancato da quel primo assalto,                                   95

poiché conobbe il desiato aspetto,

brillar per gioia con festivo salto

sentissi il core e scintillar nel petto.

Tutto dentro di foco e fuor di smalto,

rapito alfin da traboccante affetto

e stillando per gli occhi allegra vena,

tese le braccia e le ne catena.

L’incatenata ed infocata diva                        96

i nodi raddoppiò saldi e tenaci.

Svegliossi Amor che non lontan dormiva

e d’amor si svegliaro anco le faci.

L’accesa coppia in su la fresca riva

i vezzi favoria con mille baci.

Gioiva Adone e de’ passati affanni

campo avea ben da risarcire i danni.

De’ perduti e del ritorno tardo                              97

ristora il tempo entro’l bel grembo assiso.

Dolce pria l’arse il lampeggiar del guardo,

dolce ferillo il folgorar del riso,

ma dolcemente da più dolce dardo

al saettar del bacio ei giacque ucciso.

Languiano l’alme e d’egual colpo tocca

gravida di due lingue era ogni bocca.

Non fu per man di duo maestri saggi                         98

concordia, credo, mai di duo stromenti

che raddoppiasse con sì bei passaggi

differenze di suoni e di concenti,

come di vero amor dolci messaggi

alternavan tra lor sospiri ardenti

e tra que’ baci armonici parlando

garriano aprova e discorrean baciando.

– O mia dorata ed adorata dea,                                99

pria ch’io la gloria tua scorgessi apieno,

giuro a te per testessa (egli dicea)

ch’oggi mi palpitava il cor nel seno,

peroché non gli parve e non potea

esser il lume tuo lume terreno.

Un raggio sol che del mio sol mi tocchi

conosciuto è dal cor pria che dagli occhi.

Anima del mio cor, giunta è pur l’ora                        100

che si chiuda in piacer lungo tormento.

Degno di rimirarti anzi ch’io mora

son pur la tua mercé fatto contento.

Dela divinità l’aura ch’odora

e del petto che bolle il foco sento.

So che’n mostrarmi il ver senza menzogna

non travede lo sguardo e’l cor non sogna. –

– O sospirato in tante aspre procelle                         101

 (rispondea l’altra) e non sperato porto,

tra le tue braccia alfin, che son pur quelle

che bramai sì, lo stanco legno ho scorto.

A dispetto del cielo e dele stelle

meco ho pur la mia vita, il mio conforto,

orché quel fiero Trace ingelosito,

dio di ferro e di sangue, altrove è gito.

Centro de’ miei desir, questa che vedi                                  102

è colei che t’adora e più non fingo.

S’al tuo veder, s’al mio parlar non credi,

ecco ti bacio, ecco t’abbraccio e stringo.

S’altra prova più certa anco ne chiedi

che i vezzi e i nodi onde t’accolgo e cingo,

puoi dal mio stesso cor saperne il vero

ch’entro i begli occhi tuoi sta prigioniero. –

Così diceano e i fauni al mormorio                            103

de’ baci che s’udian ben di lontano,

dal diletto rapiti e dal desio,

giù da’ monti vicin calaro al piano.

Fuor dela verde sua spelonca uscio

il tutor de’ confin, padre Silvano,

e di tanta beltà le meraviglie

a mirar, a lodar, chiamò le figlie:

Ninfe (dicea) di questi ombrosi chiostri,                             104

fate dolce sonar l’aure dintorno

e con gemma eritrea negli antri vostri

segnate in bianco il fortunato giorno.

Mirate di che divini mostri

d’amorose bellezze è il bosco adorno. –

E qui taceasi e poi con balli e canti

tutti applaudeano ai duo felici amanti.

Tirato intanto da duo bianchi augelli                          105

stranio carro s’offerse al partir loro.

Né di ciclopi mai lime o martelli

opra fornir di più sottil lavoro.

I seggi ha di zaffir capaci e belli

e le rote d’argento e i raggi d’oro.

Avorio è l’orbe e ben massicci e sodi

son diamante e rubin le fasce e i chiodi.

Partono. Auriga Amor siede al governo                                106

sul bel soglio falcato e l’aureo morso

per via serena, Autumedonte eterno,

con redine di rose allenta al corso.

Verso gli alberghi del giardin materno

va flagellando ai vaghi cigni il dorso.

Auretta amica con suoi molli fiati

seconda il volo de’ canori alati.

Ma stimulata da desiri ardenti                                   107

d’indugio accusa i volator leggieri

la coppia bella e le parrebbon lenti

del rettor dela luce anco i destrieri.

Fa le rote strisciar lievi e correnti

lubrico il carro a que’ divini imperi,

il carro, che nel grembo accoglie e serra

le bellezze del cielo e dela terra.

In occidente il sol già si calava                                  108

sferzando i corridor verso le stalle,

né più dritto su’l capo i rai vibrava,

ma per traverso altrui feria le spalle;

e già la Notte gelida tornava

dagli antri fuor dela cimeria valle

le campagne del ciel serene e belle

con negra mano a seminar di stelle,

quando andaro a sfogar nel letto usato                                  109

del’usata magion gli accesi cori,

che spirar si sentia per ogni lato

del’antiche dolcezze ancor gli odori.

Quivi iterando poi lo stil passato,

tornaro ai primi scherzi, ai primi amori.

L’un senza l’altro ad altra cura intento

movea passo, né traea momento.

Un sotto la loggia, ove sovente                             110

dispensan l’ore insieme e le parole,

Venere, che giamai l’occhio o la mente

non allontana dal’amato sole,

vedelo in un pensier profondamente

immerso e più tacer ch’egli non suole,

poiché l’amiche ninfe assise al fresco

han del bianco mantil spogliato il desco.

Onde per torgli dala mente ogni ombra,                                111

in tai detti ala lingua il nodo ha sciolto:

Adone, occhio mio caro, omai deh sgombra

tutte dal cor le tenebre e dal volto.

Qual gran pensier quella bellezza ingombra

che di mestessa ogni pensier m’ha tolto,

per cui non curo il ciel, né più mi cale

dela beatitudine immortale?

Sprezzo per te la mia celeste reggia,                         112

tu sei solo mio ciel, mio paradiso,

che s’una stella nel mio ciel lampeggia

due più chiare ne gira il tuo bel viso.

E qualor nele rose, onde rosseggia

la purpurea tua guancia, il guardo affiso

e come, oimé! non sospirar poss’io

se scorgo nel tuo volto il sangue mio?

Or se la vista sol dela tua faccia                                113

è d’ogni mio desir bersaglio e meta,

rasserenarla omai tanto ti piaccia

ch’io la possa mirar contenta e lieta.

E perché’l gioco i rei pensier discaccia

e d’ogni anima trista il duolo acqueta,

per desviar dal’altre cure il core

vo’ che’nsieme giocando inganniam l’ore.

Se lieve pila in singolar steccato                                114

con curva rete in mano ami colpire

o se di cavo faggio il braccio armato

vuoi globo d’aure gravido ferire,

se stretto infra le pugne il maglio astato

batter palla con palla hai pur desire

o se ti fia gittando i punti a grado

far le corna guizzar del mobil dado;

o se le brevi e figurate carte                          115

volger ti piace o che trattar le voglia

finché quattro diverse insieme sparte

siché rompa l’invito alcun ne toglia,

o dove preval la sorte al’arte

far che l’un dopo’l trenta il gioco scioglia,

o trionfar con quella che si lassa

nela confusa ed agitata massa;

o se di trentasei brami in sei volte                              116

dodici torne ed altrettante darne

e l’ultime lasciando in monte accolte

otto l’un, quattro l’altro, indi scambiarne

e di quelle che’n man ciascuno ha tolte

scoprir il punto e’l numero contarne

o riversar la sorte del compagno

facendo dela perdita guadagno;

di qual più ti talenta, insomma, puoi                           117

essercizio ozioso aver piacere.

Ma peroché’n ciascun, qualunque vuoi

hanno il caso e la fraude assai potere

e perché mostri ne’ sembianti tuoi

nobile ingegno e generoso avere,

un proporronne in cui non abbia alcuna

possanza inganno o signoria fortuna.

In tal guisa però pria si patteggi                                 118

che’l vinto al vincitore un premio dia,

onde se vincerai con queste leggi

pieno arbitrio di me dato ti fia.

Ma s’egli avien che tu non mi pareggi

siché venga la palma ad esser mia,

com’esser tua perdendo uopo mi fora,

voglio dele tue voglie esser signora. –

Fermo tra lor con quest’accordo il patto,                              119

ecco d’astuto ingegno e pronta mano

garzon che sempre scherza e vola ratto:

Gioco s’appella ed è d’Amor germano.

Questi su l’ampia tavola in un tratto

a recar venne un tavoliero estrano,

che di fin oro ha la cornice e’l resto

tutto d’avorio e d’ebeno è contesto.

Sessantaquattro case in forma quadra                                   120

inquartate per dritto e per traverso

dispon per otto vie serie leggiadra

ed otto ne contien per ciascun verso.

Ciascuna casa in ordine si squadra

di spazio egual, ma di color diverso,

ch’alternamente a bianco e brun distinto

qual tergo di dragon tutto è dipinto.

Scambievolmente al bianco quadro il nero                            121

succede e varia il campo in ogni parte.

– Or qui potrai, quasi in agon guerriero

 (disse la dea) veder quanto può l’arte,

dico di guerra un simulacro vero

ed una bella imagine di Marte,

mover assalti e stratagemi ordire

e due genti or combattere, or fuggire.

A spettacoldolce esser presente                           122

anco il gran padre mio talor non sdegna,

quando alleggiar la faticosa mente

vuol del’incarco onde governa e regna.

Questo gioco il rettor del gran tridente

con le nereidi essercitar s’ingegna

per dar a Giove alcun piacer qualora

del’amico ocean le mense onora. –

Ciò detto, versa da bell’urna aurata                          123

su’l tavolier di calcoli due schiere,

che di tornite gemme effigiata

mostran l’umana forma in più maniere.

L’una e l’altra falange è divisata

di candide insegne e qui di nere.

Son di numero pari e di possanza,

differenti di nome e di sembianza.

Sedici sono e sedici e sicome                                   124

vario è tra loro il color bianco e’l bruno

e varia han la sembianza e vario il nome,

così l’ufficio ancor non è tutt’uno.

Havvi regi e reine ed ha le chiome

di corona real cinta ciascuno.

V’ha sagittari e cavalieri e fanti

e, di gran rocche onusti, alti elefanti.

Ecco son già gli esserciti disposti,                             125

già ne’ siti sovrani e già negl’imi

son divisi i quartier, partiti i posti.

Stan nel’ultima linea i re sublimi,

e quinci e quindi entrambo a fronte opposti,

la quarta sede ad occupar van primi,

ma’l canuto signor, ch’è l’un di loro,

preme l’oscura e tien l’eburnea il moro.

La regia sposa ha ciascun re vicina,                          126

un l’ha dal destro lato, un l’ha dal manco.

Tien campo a sé conforme ogni reina,

la fosca il fosco tien, la bianca il bianco.

Nela fila medesima confina

gemino arcier da questo e da quel fianco.

Questi la rissa a provocar sen vanno

e dela real coppia in guardia stanno.

Non lontani a cavallo han duo campioni                                127

in pugna aperta a guerreggiar accorti

e nel’estremità de’ duo squadroni

l’indiche fere gli angoli fan forti.

Otto contr’otto assiston di pedoni

in ordinanza poi doppie coorti,

ch’ai primi rischi dela guerra avanti

portano i petti intrepidi e costanti.

Così se con l’etiope a far battaglia                            128

talor di Gallia il popolo s’abbatte,

par che stormo di corvi i cigni assaglia,

vengono al paragon la pece e’l latte.

Vedesi l’un che di candore agguaglia

del’Alpi sue natie le nevi intatte,

porta l’altro di lor, però che molto

al’aurora è vicin, la notte in volto.

Volge a Cillenio in questo tempo i preghi                              129

Ciprigna bella e con que’ dolci vezzi

a cui voglia non è che non si pieghi,

anzi marmo non è che non si spezzi,

chiede che’l modo al bell’Adon dispieghi

di dar regola al gioco e moto ai pezzi.

E quei, fra mille Amor che stanno attenti,

ammaestrando il va con questi accenti:

Pugnasi a corpo a corpo e fuor di stuolo                            130

quasi in steccato ogni guerrier procede,

s’un bianco esce di schiera, ecco ch’a volo

dala contraria uscir l’altro si vede.

Ma con legge però che più d’un solo

mover non possa in una volta il piede.

E van tutti ad un fine, in stretto loco

con la prigion del re, chiudere il gioco.

E perch’egli più tosto a terra vada,                           131

tutti col ferro in man s’aprono i passi.

Chi di qua, chi di , sgombra la strada,

pian pian men folta la campagna fassi;

al’uccisor, s’avien ch’alcun ne cada,

del caduto aversario il loco dassi.

Ma campato il periglio, ecetto al fante,

lice indietro a ciascun ritrar le piante.

Del marciar, del pugnar, nel bel conflitto                               132

pari in tutti non è l’arte e la norma.

Varca una cella sol sempre per dritto

contro il nemico la pedestre torma;

senon che quando alcun ne vien trafitto

si feriscon per lato e cangian forma;

e ponno nel tentar del primo assalto

passar duo gradi e raddoppiare il salto.

Può da tergo e da fronte andar la torre,                                133

porta a destra ed a manca il grave incarco,

ma sempre per diametro trascorre

sa mai per canton torcere il varco.

Sol per sentiero obliquo il corso sciorre

è dato a quel ch’ha le saette e l’arco;

fiancheggiando si move e mentre scocca

l’un e l’altro confin del campo tocca.

Il cavallo leggier, per dritta lista                                 134

come gli altri l’arringo unqua non fende,

ma la lizza attraversa e fiero in vista

curvo in giro e lunato il salto stende,

e sempre nel saltar due case acquista,

quel colore abbandona e questo prende.

Ma la donna real, vie più superba,

ne’suoi liberi error legge non serba.

Per tutto erra costei, lunge e da presso                                 135

e può di tutti sostener la vice,

salvo che’n cerchio andar non l’è permesso,

saltellar, volteggiar le si disdice;

privilegio al destrier solo concesso,

corvettando aggirarsi altrui non lice.

Nel resto poi, se non ha intoppo al corso,

non trova al suo vagar metamorso.

Move l’armi più cauto il re sovrano,                          136

in cui del campo la speranza è tutta,

ché, s’egli prigionier trabocca al piano,

l’oste dal canto suo riman distrutta.

Quinci per lui ciascuno arma la mano,

per lui s’espone a perigliosa lutta;

ed egli spettator dela contesa

cinto di guardia tal, non teme offesa.

Poco intende a ferire e per l’aperto                           137

in publica tenzon raro contrasta,

non è questo il suo fin, ma ben coverto

dal’insidie schermirsi assai gli basta.

Pur se contro gli vien duce inesperto,

sa ben anco trattar la spada e l’asta;

colpisce e noce e poiché’l seggio lassa

di più d’un quadro il termine non passa.

Queste le leggi son ch’io ti racconto                          138

del bel certame e rompersi non denno.

Ma perché l’uso lor ti sia più conto

potrai pria dala prova apprender senno. –

Così dic’egli e lo scacchier, ch’è pronto,

si reca innanzi, indi ala dea fa cenno.

A dirimpetto suo fa che s’assida

e siede anch’egli ed a giocar la sfida.

Viensi a giornata. A muoversi è primiero                               139

il bianco stuol che Citerea conduce.

Ella, sospesa alquanto insu’l pensiero,

il pedon dela donna in campo adduce.

Quel s’avanza duo gradi e non men fiero

un gliene mette a fronte il negro duce.

Scontransi ambo nel mezzo, e destro e scaltro

studia l’un con vantaggio opprimer l’altro.

Quinci e quindi a favor di questo e quello                              140

d’armati innanzi un numero si spinge.

Scherza tuttavia Marte e l’un drappello

con l’altro ancor non si confonde o stringe.

Ma de’ duo fanti in singolar duello

già nel candido il bruno il ferro tinge;

gli usurpa il loco, ahi misero, né vede

il nemico vicin che’ntanto il fiede.

Cade sovra’l caduto. Il rege oscuro                          141

va dal mezzo al’estremo e muta sito,

dove tra i fidi suoi tratto in securo

inespugnabilmente è custodito.

Ed ecco allor con aspro incontro e duro

e con rapide rote a guerra uscito,

l’un e l’altro destrier del manco corno

empie di strage la pianura intorno.

Ma mentre che la figlia alma di Giove                                   142

ala turba pedestre è tutta intenta,

Mercurio, inteso a più sagaci prove,

furtivi aguati insidioso tenta.

Il sinistro corsier tra i fanti move

che sfrenato pertutto erra e s’aventa,

s’incurva e gira e con sottile inganno

procura al re malcauto occulto danno.

Eccolo giunto ove minaccia insieme                          143

l’ultimo eccidio ala suprema reggia

ed al destro canton del’ali estreme

dov’un de’ propugnacoli torreggia.

La bella dea d’Adon sospira e geme

che non sa dove pria soccorrer deggia.

Campar non può in un punto e quello e questo

pur la vita del re prepone al resto.

Tira il rege in disparte ed indifeso                              144

l’elefante meschino è spinto a terra,

ma’l fiero corridor ch’al pian l’ha steso

non pertanto impunito esce di guerra.

Tenta il rischio fuggir, ma gli è conteso

dala gente da piè che’ntorno il serra.

Ucciso intanto dala vergin forte

termina il viver suo con bella morte.

Qual tauro, s’egli avien che perdut’abbia                              145

pugnando un corno, inferocisce e mugge

e’nsanguinando la minuta sabbia

l’armi incontra col petto e non le fugge,

tal con minor consiglio e maggior rabbia

per sì notabil perdita si strugge,

brama di vendicarsi e l’armi ultrici

irrita Citerea contro i nemici.

Volontaria a sbaraglio espone i suoi                          146

cura che più d’un n’esca di vita

purché dato le sia di veder poi

col proprio mal l’altrui ruina unita.

L’arguto messo de’ celesti eroi

con miglior senno i suoi disegni aita;

prevede i colpi e con ragion matura

dela preda superbo il tutto cura.

Tacito va tra sé volgendo spesso                              147

mortal essizio ala reina bianca.

Già poiché’l destro arciero egli l’ha messo

celatamente appo la costa manca,

malguardato pedon le spinge appresso,

poi traendo un sospir si batte l’anca,

quasi pentito, e con astuti modi

fingendo error, dissimula le frodi.

Tosto ch’offrir l’occasion si scorge                           148

pensa Vener nel crin prender la sorte,

corre ingorda ala preda e non s’accorge

che scopre il fianco ala real consorte.

Al nemico pedon ch’oltre si sporge

va già per dar col suo pedon la morte,

quando di tanto mal pietoso il figlio

cenno le fece e l’avertì col ciglio.

Sostiene allor la mano e’l colpo arresta                                 149

la dea che’l gran periglio aperto mira

e’l pedon, che pur dianzi ardita e presta

cacciava innanzi a suo squadron, ritira.

L’araldo degli dei querulo in questa

di gridi empie il teatro e freme d’ira.

Conquistata l’amazzone e delusa

sua ragion chiama e Citerea si scusa.

– Chi nega (dice) al giocator che mossa                                150

la destra errante a trascurato tratto,

in meglio poi correggerla non possa

se nol vieta tra noi leggepatto?

Or che da tanto rischio io l’ho riscossa,

decreto inviolabile sia fatto:

qual fia del’un de’ duo tocco primiero,

quello a forza ne vada, o bianco o nero. –

Questa giusta sentenza a tutti piacque                                   151

e s apprestaro a risguardarne il fine.

Il divin nunzio affrenò l’ira e tacque

trafitto il petto di mordaci spine

e secreto pensier nel cor gli nacque

di pugnar con inganni e con rapine.

Vigila ale calunnie e molto importa

ala madre d’Amor l’esser accorta.

Spesso nel moto le veloci dita                                   152

trafuga e scambia e non so come implica

e duo corpi e duo colpi in una uscita

sospinge a danneggiar l’oste nemica.

Già già con manrapida e spedita

che la può seguitar l’occhio a fatica,

un faretrato suo manda al’assalto

e fa che del cavallo imiti il salto.

Quel balza in mezzo e con mentita insegna                            153

di destrier contrafatto il passo stampa;

vibra sestesso e d’atterrar s’ingegna

la vergin bianca a cui vicin s’accampa.

Aspramente sorride e sì si sdegna

Venere allor, che’n vivo foco avampa:

– Ben sei de’ furti autor (disse) e maestro,

ma vuolsi nel celargli esser più destro. –

Rise de’ circostanti a pieno coro                               154

la turba, a vista de’ palesi inganni

e tutto rimbombò l’atrio sonoro

di man battute e di battuti vanni.

Vergognoso e confuso al rider loro

sorse Mercurio dai dorati scanni

e succeder Adon volse in suo loco

a terminar l’incominciato gioco.

Di Giove in questo mezzo il messaggiero                               155

e l’alato fanciullo, infra lor dui

l’un contro l’altro insieme accordo fero

d’attraversar nela partita altrui.

Per lei parteggia il faretrato arciero,

il celeste orator la tien per lui,

e già vengono entrambo astuti ingegni

ad ingaggiar dela scommessa i pegni.

Vuol Mercurio, se vince, un’aurea rete                                 156

di filato diamante i nodi intesta,

ch’a far secure ognor prede secrete

spera ch’assai giovar gli deggia questa.

Se vince Amor, vuol il baston che’n Lete

può repente attuffar la gente desta,

per poter poi nele notturne frodi

addormentare i vigili custodi.

Movesi il vago Adon con cauto aviso                                   157

provido al’armi e non le tratta in fallo;

mentre al suo re, nel maggior trono assiso,

vien per dar caccia il candido cavallo,

un con l’arco l’uccide e questi ucciso

cade per un pedon senza intervallo,

quel per un altro; ecco ogni arcier concorre,

ogni destrier si move ed ogni torre.

Sorge la pugna e si condensa e mesce                                  158

alternando le veci e gli accidenti,

come quando l’Ionio ondeggia e cresce

agitato talor da vari venti.

Ma l’amazzone bianca arriva ed esce

per mezzo l’ali dele negre genti

e nel’andar e nel tornar, mentr’erra,

un sagittario, un elefante atterra.

Passa tra l’armi ostili e fulminante,                             159

fende la mischia qual saetta o lampo;

restano addietro e le fan piazza avante

le squadre averse, ognun le cede il campo.

Ella fidando nele lievi piante

onde può sempre agevolar lo scampo,

de’ penetrali interni a corso sciolto

spia l’occulto, apre il chiuso e spiana il folto.

Emulo allora in scaramuzza appella                           160

la sua guerriera il principe de’ neri,

ed ecco aprova infuriata anch’ella

precipitosamente apre i sentieri.

Caggion dispersi in questa parte e’n quella

elefanti e destrier, fanti ed arcieri.

Chi narrar può le stragi e le ruine

che fan le due magnanime reine?

Si fronteggian del pari e parimente                            161

eguale han forza ed armatura eguale.

Già già la bianca il calamo pungente

vibra e da tergo l’aversaria assale.

Ma se l’una ne muor, l’altra repente

non con fato miglior pere di strale

e quinci e quindi con mortal caduta

acquistata è la spoglia e non goduta.

Dele due donne i vedovi mariti                                  162

cercano allora in salvo ambo ritrarsi,

del gran flagello timidi e smarriti

che guerrier tanti ha dissipati e sparsi.

Pur non d’ogni lor forza impoveriti

possono ancor difendersi e guardarsi.

Tre pedoni, un arciero e torreggiante

ha la bella Ciprigna un elefante;

altrettanti n’hai tu, leggiadro Adone,                          163

tranne la belva che’l castello porta,

laqual pur dianzi nel funesto agone

per man d’un fier saettator fu morta.

Tutto il resto involò l’aspra tenzone,

tempesta orrenda ha l’altra gente absorta;

mesta a vedere e lagrimosa scena,

desolata di popoli l’arena.

Soli i duo capi e senza spose a’ fianchi                                 164

stansene avolti in dolorose spoglie.

Ma pur, da rea fortuna afflitti e stanchi,

ai secondi imenei piegan le voglie.

Invita prima il regnator de’ bianchi

le fide ancelle del’antica moglie

al consorzio real, ma si compiace

provar pria di ciascuna il core audace.

Le conforta a varcar gli argini ostili                            165

e le manda a tentar l’ultima meta

per veder qual più spirti abbia virili

e sia più franca e generosa atleta.

Nozze reali a femine servili

sperar per legge espressa il gioco vieta,

salvo a quell’una sol ch’invitta e prima

del’altro limitar tocchi la cima.

Troncan gli indugi le ministre elette,                           166

la proposta mercé fa piano il guado.

Ma l’altre a quella pur cedon costrette,

che tien del destro corno il terzo grado.

L’ali ale piante ambizion le mette,

tanto ch’oltre sen vola altrui malgrado

e mal può dela gloria il bel sentiero

interdirle il rettor del popol nero.

Onde al’onor che le nemiche alletta,                         167

aprova anco le sue stimula e punge

e la quarta da manca al segno affretta,

ma più tarda d’un passo ancor n’è lunge.

La bianca intanto ad occupar soletta

il bel talamo voto, ecco pur giunge

e del’eredità che le perviene

con applauso de’ suoi lo scettro ottiene.

Del diadema novel la donna allegra                           168

allenta al corso impetuosa il freno

e possedendo la campagna integra

l’alte ruine risarcisce apieno.

Cade trafitta la guerriera negra

su’l confin dela meta, un grado meno.

Fuggon l’altre reliquie e’l re confuso

da duro assedio è circondato e chiuso.

Di Maia il figlio che vicin gli siede                              169

compatisce d’Adon la doglia intensa

e, novarti volgendo, osserva e vede

che la dea degli Amori ad altro pensa,

perché’ntesa a tentar col piede il piede

del’amato garzon sotto la mensa

null’altro cura e, di sestessa fore,

vince misera il gioco e perde il core.

Il tempo coglie e nel’aurato e bello                           170

bossolo ch’ai cadaveri cattivi

de’ vinti in guerra è carcere ed avello,

stende gli artigli taciti e furtivi.

Un arcier bruno ed un destrier morello

ne tragge ed a pugnar gli torna vivi,

ma perché gli atti e i movimenti sui

ciascun risguarda, adopra il mezzo altrui.

La fraude ad esseguir Galania essorta.                                  171

Di Venere una ninfa è così detta,

non men destra di man, d’ingegno accorta

che di volto leggiadra e giovinetta.

Quando tutta d’Adon la squadra è morta

i duo freschi guerrier costei vi getta,

onde l’un tende l’arco e l’altro in zuffa

zappa, ringhia, nitrisce e freme e sbuffa.

La bella dea del mirto e della rosa                            172

che novo scorge e non pensato aiuto

sovragiunto al nemico, e strana cosa

stima com’avea vinto aver perduto;

lo sguardo alzando stupida e dubbiosa,

sorrider vede il messaggiero astuto,

onde il tratto compreso: – Or tanto basta

 (dice) e’l gioco con man confonde e guasta.

E dal loco levata overa assisa,                                 173

spinta dal’ira che nel petto accoglie,

corre a Galania e la percote in guisa

che con quel colpo ogni beltà le toglie.

Ahi! quanto è folle, ahi! quanto mal s’avisa

chi tenta opporsi ale divine voglie.

Fu sì’l capo ala misera percosso

con lo scacchier, che le rimase adosso.

Da Citerea con tanta furia e forza                             174

è battuta la ninfa afflitta e mesta,

che’ncurvato e cangiato in cava scorza

sovra le spalle il tavolier le resta.

La luce de’ begli occhi allor s’ammorza,

sparisce l’oro dela bionda testa,

la cervice, che’n sé rientra ed esce,

quasi un mezzo divien tra serpe e pesce.

S’accorcia il corpo e fin sovra la nuca                                  175

nela macchiata spoglia ascoso stassi;

con quattro piè convien che si conduca

che con gran tardità mutano i passi.

Trasformata di ninfa in tartaruca,

tra spelonche profonde a celar vassi;

e’l grave incarco del nativo albergo

sempre dovunque va, porta su’l tergo.

Prendi d’ardirsciocco il premio degno                           176

 (disse la dea con iracondo aspetto)

ad irritar de’ sommi dei lo sdegno

impara ed a turbar l’altrui diletto.

Quel tuo sì pronto e sì spedito ingegno,

più ch’altro or diverrà tardo ed inetto.

Quelle man, già sì preste a far inganno,

pigre altrettanto e stupide saranno.

Del tuo vivo sepolcro abitatrice,                               177

in effigie di bestia insieme e d’angue

animato cadavere infelice,

senza viscere vanne e senza sangue.

Severa stella del tuo fallo ultrice,

colà ti scorga ove si torpe e langue

tra granchi e talpe e chiocciole e lumache

in caverne palustri e’n valli opache.

Dal peso che cagion fu de’ tuoi mali                          178

in ogni tempo avrai l’omero oppresso;

e quando fra lo stuol degli animali

ricercata sarai da Giove istesso,

innanzi a’ suoi divini occhi immortali

a te sola venir non fia concesso,

scusandoti con dir d’esser rimasa

a custodir la tua dipinta casa.

Voglio di più, che quando a quel dolce atto                          179

che da me vien, ti stimula natura,

poiché’l fin del desir n’avrà ritratto,

il maschio più di te non prenda cura;

e tu per pena allor del tuo misfatto

ti rimarrai del’aquila pastura,

rivolta al ciel la pancia, al suol la schiena,

senza poter drizzarti insu l’arena.

Onde malgrado del piacer che sente                         180

d’amorosa saetta un cor ferito,

temprata la libidine cocente,

la salute anteposta all’appetito,

sarai costretta ad esser continente

ed a fuggire il tuo crudel marito,

benchocculta virtù d’erba efficace

ti farà pur piacer quelch’altrui piace. –

Così la maledisse ed adirata                          181

ritrasse altrove il piè Ciprigna bella.

Mercurio che’n testudine mutata

vide, sua colpa, la gentil donzella,

pietà ne prese e d’auree corde armata

lira canora edificò di quella,

indi lieto inventor di sì bel suono,

fenne al gran dio de’ versi altero dono.

Poiché dal gioco si levò la dea,                                 182

tra Mercurio ed Amor gran lite sorse.

Amor che seco attraversato avea,

quando anch’ei dela fraude alfin s’accorse,

dela traversa il pregio a lui chiedea

con gridi al cui romor la madre corse.

Venere con Adon tutta sospesa

dimanda la cagion di tal contesa.

Giudice fatta poi dela disputa,                                   183

pria del cieco fanciullo ode l’accusa,

che dice esser la verga a lui devuta

e ch’a torto pagar l’altro ricusa.

Ella, che sa del’altro ogni arte astuta,

intender vuol da lui come si scusa

e perché nega al figlio il caduceo

che dee di chi l’ha vinto esser trofeo.

– Quand’io pur or non vi conchiuda (ei disse)                                   184

ch’a nessun di voi duo la palma tocca,

s’a mio favor nele presenti risse

la sentenza non vien di vostra bocca,

se Giove istesso, ancorché’n ciel l’udisse,

non dirà tal querela ingiusta e sciocca;

mio sarà il danno e la ragion ch’io porto

voconfessar che sia calunnia e torto. –

– Stiamo pur ad udire, io vo, por mente                                185

 (sorridendo rispose il nudo arciero)

se cosofismi tuoi, bencheloquente,

saprai darne a veder bianco per nero.

Da’ miei detti (ei soggiunse) apertamente

fra conosciuto e manifesto il vero;

e perch’altro che’l ver non v’abbia loco,

non vopartir dela ragion del gioco.

Del gioco la ragion vuole e richiede                           186

ed al dever del giocator s’aspetta,

ch’altri prenda a giocar quelche possiede

e che’l suo, non l’altrui, nel campo metta.

Qualora il gioco in altro stil procede,

l’usanza del giocar non è perfetta.

Tanto meno a chi gioca è poi concesso

giocarsi quel del’aversario istesso.

Convien che sia da questo e da quel canto                            187

tra due parti il partito e’l rischio eguale.

Se modo non ha l’un da perder quanto

perder può l’altro, il suo giocar non vale,

portar può di vincitore il vanto

quegli a cui manca un fondamento tale.

vincendo talor, pretender debbe

dal perditor quelch’egli in sé non ebbe.

Or veggiam, bella dea, s’a proprio costo                              188

giocasti e s’egli è tuo quel ch’hai giocato

e se da te su’l tavolier fu posto

quanto ha costui giocando aventurato.

Così del figlio tuo sarà poi tosto

sopito ancor per conseguenza il piato.

Tu stessa in premio esposta ala tenzone

promettesti, perdendo, esser d’Adone.

Ed io testessa in testimonio invoco,                           189

invoco teco in testimonio Amore.

Quante volte dicesti al tuo bel foco

ch’egli a pieno è di te fatto signore?

Come può semedesma esporre al gioco

chi non ha in sé né libertàcore?

Chi non ha semedesma in sua balia,

né cosa al mondo che d’altrui non sia?

Se tua non sei, ma di costui ch’io dico,                                 190

del’altrui dunque e non del tuo giocasti,

posto avendo quanto il nemico

non ti si deve quelche guadagnasti;

onde se tu confermi il dono antico,

se rivocar non vuoi quelche donasti

o se pur non mentì la lingua tua,

ei non perde sestesso e tu sei sua.

Ecco che’n somma o dichiarar bisogna                                 191

ch’egli vinto non è, com’io ragiono,

o d’inganno accusarti e di menzogna

se fu da scherzo e non da senno il dono.

Ed io, quando ciò fusse, avrei vergogna

d’amar chi mi schernì, qualunque io sono,

perché non dee leal amante ch’arda

di vero amore, amar donna bugiarda. –

– Quest’argomento è debile e fallace                        192

 (ripiglia Amor) né tua ragion difende.

Ciò si tacque al principio e quei che tace

tacitamente acconsentir s’intende. –

– Io son d’Adone ed esser sua mi piace,

sovra questo tra noi non si contende

 (disse la dea); quand’io pur fussi sciolta

vorrei farmi soggetta un’altra volta.

Ma com’è pur tra giocatori usanza                            193

quando manca talor l’oro e l’argento,

che l’un l’altro del suo danno in prestanza

e supplisce la fede al mancamento,

sebene in me di me nulla m’avanza

di prestarmi a mestessa ei fu contento,

e’l mio stato servil, mentre che tacque,

a giocar seco abilitar gli piacque. –

E’l divin messo a lei: – Non mancan mai                               194

a restio pagator scuse e parole.

Ma conceder ti vo’, come tu’l fai,

l’uso che’n gioco essercitar si suole.

Finito il gioco, or qual refugio avrai?

Quanto prestato fu, render si vole.

Rendi testessa al tuo cortese amante

e così sarai sua com’eri avante. –

– Se valesse il tuo dir (disse il fanciullo)                                195

cadrebbe anco in Adon simil difetto.

Anch’egli a lei donossi e per trastullo

di non esser più suo talvolta ha detto. –

– Dunque (replicò quegli) il gioco è nullo;

mancando la cagion, manca l’effetto.

Altri quelche non ha giocar non pote,

né si gioca giamai con le man vote. –

Aprendo allora il bell’Adon le labbia                         196

disse, rivolto al nunzio degli dei:

– A che garrir tra voi con tanta rabbia?

Non oggi è il primo ch’io mi perdei.

Perduto ho io, ma quando ancor vint’abbia,

io la vittoria mia cedo a costei.

D’un tal perder mi glorio e non m’attristo

che la perdita mia può dirsi acquisto. –

– Or facciam (disse Amor) che vano intutto                          197

fusse il gioco tra lor, come tu vuoi.

Vano non fia però né senza frutto

il gioco che di fuor seguì tra noi.

Di fuor giocammo ed ha ciascuno addutto

un pegno proprio degli arnesi suoi.

Il nostro è nostro e qui né tu né io

dir possiam ch’io sia tuo, che tu sia mio. –

E l’altro: – È forza, poiché insieme vanno,                             198

se cessa il principal che’l minor cessi.

Ha vinto Adon, seben con qualche inganno,

onde dir non si può ch’io non vincessi.

S’altri v’ebbe la colpa, abbiane il danno.

La rete è mia, tai furo i patti espressi.

Sempre il vincere è bel, sempre si loda,

o per sorte si vinca over per froda. –

Mentre una coppia in guisa tal contrasta,                              199

l’altra per accordarla s’affatiga.

Prega quel, prega questa e pur non basta

ad acquetar la fanciullesca briga.

Se la racconcia l’un, l’altro la guasta,

tanta è la stizza che di par gl’instiga.

Perché la question non vada innanzi,

Vener lo sdegno oblia ch’ebbe pur dianzi.

A Mercurio dicea: – Tu cerchi invano                                   200

la rete aver che per mio mal fu fatta,

se l’arte non apprendi di Vulcano

o non t’insegna Amor come s’adatta.

Non vaglion l’armi sue fuor di sua mano,

forza alcuna non han s’ei non le tratta.

Senza lui credi a me ti giova poco

quando ancor abbi e la faretra e’l foco. –

Dicea poscia al figliuol: – Figliuol perverso,                           201

che vuoi tu far di quella inutil verga?

La brami forse acciocché’l mondo asperso

di dolce oblio nel sonno si sommerga?

Quasi in mortal letargo ognor sommerso,

per te non sia senza ch’oblio l’asperga.

Soverchio è ciò, se ponno i tuoi furori,

qualor ti piace, innebriare i cori. –

Travagliò molto con accorti accenti                           202

Citerea per comporre ambe le parti,

finchalfin si placar gli sdegni ardenti

e i tumulti cessaro intorno sparti.

Con tal convenzion restan contenti

lo dio del’alme e l’inventor del’arti

che la verga e la rete e quegli e questi

qualvolta uopo ne fra l’un l’altro presti.

Venere, poich’alquanto ebbe deposta                                  203

l’ira ch’al bell’Adon pose spavento,

in più solinga parte e più riposta

volta al’autor del suo dolce tormento:

Dela condizion tra noi proposta,

debitrice (gli disse) a te mi sento.

Seben a torto ho mia ragion perduta,.

t’è pur del gioco la mercé devuta. –

Per lo passeggio poi dela verdura                             204

con parlar più distinto ella gli dice:

Cara parte del cor, cara mia cura,

dolce d’ogni mio ben fonte e radice,

seben la bella e desiata arsura

che mi strugge per te, mi fa felice,

contenta non sarò ch’io non ti veggia

nel natio regno e nela patria reggia.

La reggia antica del ciprigno stato                             205

vota ancor serba la real sua sede,

al cui dominio il mio tiranno amato

 (chi si sia questi io nol dirò) succede,

come di quella originato e nato

per genitore e genitrice erede.

Or ala signoria ch’a te s’aspetta

piacciati consentir ch’io ti rimetta.

Senza capo e signor che’l freni e regga                                 206

erra ed inciampa il popolo confuso,

qual greggia a cui s’avien che non provegga

pastor, licenziosa esce del chiuso.

Per sì fatta cagion, che re s’elegga

il senato di Cipro ha già conchiuso,

e di chi deggia al soglio esser assunto

dimane il tempo è stabilito apunto.

Poiché’l tuo nobil ceppo andò sotterra                                 207

senza succession di germe alcuno,

nacque lite nel regno e sorse guerra

ché d’usurparlo pretendea più d’uno.

Chi di qua, chi di l’orfana terra

diessi con l’armi ad occupar ciascuno,

e ciascuno aspirando al sommo seggio

contendean fra sestessi il bel maneggio.

Ma per fuggir le sanguinose risse                              208

ebbero al tempio mio ricorso allora,

dove: «Poich’è pur ver (l’oracol disse)

che’l più bel nume il bel paese adora,

se sì importante elezzion seguisse

in suggetto non bel, giusto non fora.

Eleggete il più bello!» E qui concordi

quetaro in un parer l’ire discordi.

Ma poi qual per beltà fusse il più degno                                209

perché gran disparer venne fra tutti

e chiedeano da me pur qualche segno

per conoscere il bel dagli altri brutti,

dal’oracolo istesso a por del regno

la corona in mia man furono instrutti:

«Colui che di mia man potrà levarla

dee poi, come più bello, anco portarla

Io risposi così veggendo questa                                210

la miglior via che ritrovar si possa,

per far che sola allor sia la tua testa

ala corona vedova promossa;

laqual nel dela sollenne festa

per altra man di man non mi fia scossa

che per la tua che, se mi tolse l’alma,

ben le si dee d’ogni altro onor la palma.

Or tutti uniti in assemblea si sono                              211

quei che’l sovrano arbitrio hanno in balia

per essaltar colui solo al gran trono

che’l più bello da lor stimato sia.

Pubblicato ha di ciò la Fama il suono,

già di Persia vi tragge e di Soria

gioventù concorrente, e del’editto

il mattino che segue è il prescritto.

Diman su’l primo albor, tosto che spunta,                             212

vivo sol di quest’occhi, il sol novello,

vo’ che tu tene vada in Amantunta

dove s’aduna l’elettor drappello.

Abbagliata e confusa ala tua giunta

cederà la beltà d’ogni altro bello,

in quella guisa pur che ceder suole

lo splendor dele stelle ai rai del sole.

Soletto senza corteggio intorno                             213

tenandrai pien d’una sprezzata asprezza.

Altri conduca entro’l real soggiorno

pompa di servi e d’abiti ricchezza.

Vattene tu non d’altri fregi adorno

che di tua propria e natural bellezza,

che rozzezza, incultura o povertate

non si trova giamai dov’è beltate.

Anch’io, non ti turbar, celeste guida                          214

teco verronne e compagnia divina

pertutto e sempre ufficiosa e fida,

o tu vada o tu stia, m’avrai vicina.

Non pensar ch’io da te mai mi divida

voglimi cacciatrice o peregrina;

che seben ne languisco e ne sospiro

diletta apar di te cosa non miro.

Del’impero paterno il bel possesso                           215

ch’a te perviene e di ragion si deve,

senza contrasto alcun ti fia concesso:

così prometto e vo’ che’l veggia in breve.

Il mio favor che ti fia sempre appresso

ogn’intoppo farà facile e lieve,

siché sarai per successor del regno

riconosciuto ad infallibil segno.

E finché s’apra la prigione oscura                             216

che tra’ suoi ceppi l’anima incatena,

onde volando fuor renda a natura

la spoglia corrottibile e terrena,

vivrai, più ch’altro re, lieta e secura

nel bel reame tuo vita serena.

Poi le cose non nate a durar sempre

non ti meravigliar se cangian tempre.

Stagion verrà ch’ai greci re fia tolto                           217

questo terren da’ Tolomei d’Egitto;

ma loro il ritorrà non dapoi molto

dela donna del Tebro il braccio invitto.

E benchAntonio in dolci nodi involto

e di strale amoroso il cor trafitto,

a Cleopatra sua fia che’l conceda,

tornerà quindi apoco a Roma in preda.

Ma quando poi la monarchia cadente                                   218

tramonterà del gran valor latino,

sotto il presidio loro in oriente

l’avranno i successor di Costantino;

infinché d’armi e di guerrier possente

con numeroso essercito marino

ad espugnar ne venga il bel paese

il disgiunto dal mondo estremo inglese.

Né d’anni correrà lungo intervallo                             219

che l’acquisto occupato e posseduto

da Riccardo il Brittanno a Guido il Gallo

per un titol real sarà ceduto.

Con quiete maggior questi terrallo

e così fia da’ suoi sempre tenuto,

finché’l crudo german l’armi non stringa

e del sangue fraterno il ferro tinga.

Ma punito dal ciel questo spietato                             220

darà le pene del malvagio eccesso,

quando movendo il suo navilio armato

l’avrà Liguria in fiera pugna oppresso,

onde sarà del vincitor senato

prigionier prima e tributario appresso,

fatto ala pompa del trionfo ostile

miserabil trofeo, spoglia servile.

Veggio, quasi ruscel di questo fonte,                         221

sorger d’un figlio ancor prole novella,

che dala terra delo dio bifronte,

dove nato sarà, Giano s’appella.

Questi con debil forze e voglie pronte

tenta opporsi al furor del fier Melchella,

ma poiché vinto e preso altro non pote,

con oro alfin la libertà riscote.

Ecco poscia Giovanni in maritaggio                           222

ad Elena la bella io veggio unito;

Elena, nata del real legnaggio

che’n Bizanzio lo scettro ha stabilito.

Ecco Ciarlotta sua che fa passaggio

a nove nozze ed a miglior marito:

poiché la parca il primo nodo allenta,

di Lodovico il zio sposa diventa.

E Lodovico con guerriera mano                                223

ne scaccia fuor l’usurpator bastardo,

loqual poi dal poter del gran soldano,

quasi risorto Anteo, fatto gagliardo,

tornando al nido, onde fuggì lontano,

fuga, rompe, sconfige il savoiardo

e’l regno intero a racquistar ne viene

ch’al dominio ligustico s’attiene.

Per confermarsi con più stabil sorte                          224

lo scettro in mano e la corona in testa,

d’Adria prende costui nobil consorte,

ma non molto però gode di questa.

Ella, dal giogo suo sciolta per morte,

vedova insieme gravida ne resta

e partorisce intempestivo pegno

ond’a Venezia poi ricade il regno.

Con strage alfin cui non fia pari alcuna                                  225

lo spietato Ottomano a forza il prende.

Vedi quanto alternar sotto la luna

così lo stato uman varia vicende.

Solo per te non girerà Fortuna,

Fortuna, ch’altrui dona e toglie e rende,

ch’Amor con l’aureo stral per farla immota

inchioderà la sua volubil rota. –

Risponde Adone e fise intanto tiene                          226

in lei le luci affettuose e pie:

– O dea, gloria immortal dele mie pene

e pena eterna dele glorie mie,

orgoglio tal da tua beltà mi viene

che non cerco regnar per altre vie.

Fortunato è pur troppo il mio pensiero

che di tanta ricchezza è tesoriero.

Più non presumo, i miei desir desio                           227

d’altrui signoreggiar non signoreggia.

Ambizion non nutre il petto mio,

sìché per grado insuperbir ne deggia.

Finchessali lo spirito vogl’io

che solo il grembo tuo sia la mia reggia.

Se’l regno di quel cor che mi donasti

conservato mi fia, tanto mi basti.

Altri con l’armi pur seguendo vada                           228

schiere nemiche e pace unqua non aggia.

A me l’arco e lo stral più che la spada

giova e mostri cacciar di piaggia in piaggia.

Più che la reggia il bosco e più m’aggrada

che l’ombrella real, l’ombra selvaggia.

Se vuoi servi e vassalli, ecco qui tante

suddite fere e tributarie piante.

Per questa vita, e credimi, ti giuro,                            229

nulla mi cal di porpore o tesori.

Sazio del poco mio, sprezzo e non curo

l’oro adorato e gl’indorati onori.

vo’, solché di te viva securo,

altre gemme più fine, altr’ostri, altr’ori,

di quegli ori e quegli ostri e que’ rubini

onde ingemmi le labra, indori i crini.

È bello sì, non può negarsi invero,                             230

dell’impero e del regno il nome e’l pregio,

ma l’incarco del regno e del’impero

l’onor ragguaglia imperiale e regio.

Tra catene gemmate è prigioniero

chi di scettro e diadema ha pompa e fregio;

giogo che dolce in vista, aspro e protervo

rende il suo possessor publico servo.

Quell’altezza real, quel seggio augusto                                  231

di molle seta e di purpureo panno,

che’n magion ricca e spaziosa ingiusto

preme sovente e tumido tiranno,

è di più rischi e più flagelli onusto

che di povero tetto ignudo scanno,

e quelch’agli occhi altrui par sommo bene

è l’infelicità di chi l’ottiene.

Pungono il dubbio cor di chi governa                        232

di perpetuo timor spinose cure;

e benché rida l’apparenza esterna

non son le gioie sue sincere e pure.

Passa i chiari in un’angoscia eterna,

vegghia in lunghi pensier le notti oscure.

Sempre tra piume molli e mense liete

o la fame gli è rotta o la quiete.

False relazion, dubbi consigli,                                   233

insidie occulte, immoderate spese,

di popoli incostanti ire e scompigli,

di domestici servi odi ed offese,

risarcir danni, riparar perigli,

contrattar paci, essercitar contese,

questi son d’ogni principe sublime

gli acuti tarli e le mordaci lime.

Quanto s’inalza più, più d’alto scende                                   234

la fortuna de’ grandi ala caduta;

e regnando talora anco si prende

in tazza d’or mortifera cicuta.

L’anima mia, cui miglior brama accende,

sorbir altro velen sdegna e rifiuta

di quel dolce e vital, che senza inganno

i tuoi lumi innocenti a ber mi danno.

Quant’or tra le lucenti e bionde arene                                   235

volge in India, in Iberia il Gange, il Tago,

quanto n’accoglie Scizia entro le vene,

quanto Mida ne cupido e vago,

non mi torrà di braccio unqua al mio bene,

sì di modesto aver l’animo appago.

Rapir non mi potrà tanto tesoro

giamai fame d’onor, né sete d’oro.

Pur voler mi convien ciò ch’a te piace,                                  236

moderatrice d’ogni mio pensiero.

Guardimi il ciel ch’io di disdirti audace

ti neghi nel mio cor libero impero. –

Così favella e la ribacia e tace

il fanciul lusingato e lusinghiero

e s’apparecchia insu la prima uscita

del mattutino raggio ala partita.

Fornito intanto il suo camin ritondo,                          237

Febo nel mar d’Esperia il carro immerse.

Sorse fosca la notte e’l pigro mondo

sotto l’ali pacifiche coverse.

Chiuse sonno tranquillo, oblio profondo

millocchi in terra e mille in ciel n’aperse;

forse fur di que’ duo le luci belle

che, spento il sole, illuminar le stelle.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

IntraText® (V89) Copyright 1996-2007 EuloTech SRL