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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 17

La DIPARTITA. Per la dolorosa separazione d’Adone e di Venere dassi altrui a divedere con quanta pena e difficoltà si priva la carne del suo godimento sensibile. Per Tritone, mostro marino che, cavalcato da Venere ed allettato dalla promessa del premio amoroso, di qua e di con larghe ruote trascorre il mare, si figura l’uomo sensuale, mezzo bestia quanto alla parte inferiore, ilqual posseduto e signoreggiato dalla volontà che gli promette piaceri e dolcezze, immerso dentro il pelago di questo mondo, va per esso delcontinovo senza alcun riposo con tortuosi errori vagando. Per Glauco, che in virtù d’un’erba mirabile, lavato da cento fiumi, di pescatore diventa dio, si disegna lo stato di colui ch’entrando nel gusto della vera sapienza e con l’acque della vera penitenza purgandosi delle macchie del senso, prende forma e qualità divina ed acquista la beatitudine e l’immortalità. Per la festa degl’iddii e delle ninfe del mare, ch’arridono al passaggio della dea, si ombreggia la salsedine essere amica alla generazione, come quella che per lo suo calore ed acrimonia è provocatrice della lussuria.

 

Canto, argomento 17

Dal caro suo con lagrime e sospiri

prende congedo Venere dolente;

poi di Triton su’l tergo alteramente

solca tranquilli i liquidi zaffiri.

 

Canto 17

Quando due alme innamorate e fide                          1

si scompagnan talor per dura sorte,

mortal angoscia ambe le vite uccide

né proprio è la partita altro che morte.

E s’è gran doglia allor che si divide

l’alma dal corpo suo dolce consorte,

che fia qualor ad alma alma s’invola,

anzi in due si diparte un’alma sola?

O se potesse in un medesmo punto                           2

quando coppia che s’ama Amor diparte,

aver ciascun due vite, onde disgiunto

dala di sé più cara e miglior parte

ed al’amato sen sempre congiunto,

senza giamai partir girne in disparte,

più lieta l’alma al dolce oggetto unita

dov’ama vivria che dove ha vita.

Deh! come volentier torrebbe un core                                  3

farsi baleno o divenir saetta

purché dal’arco poi che scocca Amore

fusse aventato ove il suo ben l’aspetta.

O quanto invidia al sol l’aureo splendore

che va scorrendo il ciel con tanta fretta

per poter con un raggio ardente e vivo

visitar l’altro sole ond’egli è privo.

Felici augelli e fortunati venti                         4

cui penne da volar diede Natura;

beati fiumi e rivoli correnti

che di vagar pertutto hanno ventura;

aventurose voi, stelle lucenti,

ch’ardete in fiamma dilettosa e pura,

e, se cangiate pur siti e ricetti,

vi vagheggiate almen con lieti aspetti.

Misero quegli a cui per alcun modo                          5

convenga abbandonar delizia antica,

che, come o schiantar ramo o sveller chiodo

non si può senza strepito e fatica,

così spezzar l’indissolubil nodo

d’un vero amante e d’una vera amica,

se l’un dal’altro si distacca e scioglie,

non si può senza pianti e senza doglie.

Ed egli a lei sospira ed ella a lui                                 6

risponde con sospir tronchi e tremanti.

E così accorda gli stromenti sui

Amor con tuono egual fra sé sonanti.

Tai son le lingue mutole con cui

favellano tra lor l’anime amanti.

Con queste care epistole furtive

pria che giunga il partir, l’un l’altro scrive.

Qual affanno credete e qual martoro                         7

di Ciprigna e d’Adon nel cor s’aduna

mentre per ecclissar le gioie loro

oscura s’interpon nube importuna?

Chi lontano talor dal suo tesoro

fu costretto a provar simil fortuna,

potrà ben misurar con l’argomento

del suo proprio dolor l’altrui tormento.

Gravida già di luce, il vago seno                                8

apria l’Aurora e partoriva il Giorno.

Erano al parto lucido e sereno

e l’Aure e l’Ore allevadrici intorno.

Teti in conca d’argento un bagno pieno

gli avea di perle e di zaffiri adorno;

e fasce d’oro il Sole e l’Oriente

porgea cuna di rose al nascente.

I fidi amanti che tra’ bianchi lini                                 9

smarriti nel color dele viole

avean fin presso agli ultimi confini

spesa in vezzi la notte ed in parole,

al dolce suon de’ baci mattutini

destar gli augelli e risvegliaro il sole.

Sorgendo poi dale rosate piume

apriro gli occhi e gli prestaro il lume.

Ella ch’al rito degli usati giuochi                                10

deve apunto quel girne a Citera,

dove ne van da’ circostanti luochi

i suoi devoti ogni anno in lunga schiera

e di vittime sacre e sacri fuochi

onoran lei che’n quelle parti impera,

parlar non osa e non s’arrischia a dire,

o parola mortal! che vuol partire.

Come se vuol talor putrido dente                              11

sveller con destra man maestro accorto,

non su le fauci a por subitamente

va del tenace can l’artiglio torto,

ma con stil dilicato e diligente

lo scalza in prima e porge al mal conforto,

così Venere bella il bell’Adone,

preparando l’affetto, al duol dispone.

Più volte si sforzò, ma non sapea                              12

come né donde incominciar devesse.

Egli è ben ver che quanto a dire avea

negli occhi scritto e negli sguardi espresse;

e dal fanciul che quanto ella tacea

pur con l’occhio e col guardo intese e lesse

in quella dura e rigida partenza

chiedea con vive lagrime licenza.

Conviemmi (dice, e sciolto il freno al pianto                                   13

gli fa monil d’ambe le braccia al collo)

conviemmi pur (né di baciarlo intanto

può l’ingordo desio render satollo)

conviemmi ahi lassa, e con qual duolo e quanto

e con che lingua e con che cor dirollo?

conviemmi oggi da te far dipartita,

idoletto gentil di questa vita.

Per celebrare il pomposo e festo                           14

passo a Citera e ne vien meco Amore.

De’ solenni apparecchi il tempo è questo

onde fassi al mio gran nume onore.

Io parto sì, ma seben parto io resto

e mi si parte insu’l partire il core.

Quest’assenzia, ben mio, fiera e crudele

altro per me non fia ch’assenzio e fiele.

Breve l’indugio fia, breve il soggiorno,                                  15

che sai ben tu ch’io senza te non vivo,

né più in la differir voglio il ritorno

senon quanto si chiuda il festivo.

Tu, che movi cacciando i passi intorno

dela solita scorta intanto privo,

deh non andar dove l’audacia, figlia

dela follia, ti guida e ti consiglia. –

Adon par ch’a quel dir gemendo voglia                                16

a favilla a favilla il cor disciorre.

Risponder vuol, ma l’importuna doglia

non lascia ala ragion note comporre;

e s’alfin pur la lingua avien che scioglia,

il duolo è che per lui parla e discorre.

Forma rotti sospiri, accenti mozzi

e sommerge la voce entro i singhiozzi.

– Dunque (dicea) dunque è pur ver che vuoi                         17

peregrina da me torcere i passi?

dimmi, e come abbandonar mi puoi

romito abitator d’antri e di sassi?

Perché privarmi, o dio, degli occhi tuoi?

o dio! perché ten vai? perché mi lassi?

e mi lassi soletto senon quanto

mi faran compagnia la doglia e’l pianto.

Cara la vita mia, deh dimmi, è vero?                         18

non più scherzar, qual fato or ne disgiunge?

Ch’io né da scherzo ancor pur col pensiero

posso o voglio da te vedermi lunge.

Che farai? che rispondi? Io temo, io spero.

Ah che pietà di me non ti compunge!

Vedi volti quest’occhi in fonti amari,

che pur giurar solevi esserti cari.

Veggio or ben io che dal tuo figlio avaro                               19

qualche breve talor gioia s’ottiene

sol perché cresca alfin lo strazio amaro

e si raddoppi il mal, perdendo il bene.

Lasso, ei m’aperse un sol felice e chiaro

per poi lasciarmi in tenebre ed in pene;

prese il crudele a sollevarmi in alto

per far maggior del precipizio il salto.

Se di votivi onori hai pur desio                                  20

ed agli altari tuoi cotanto pensi,

non è forse tuo tempio il petto mio?

non son voti i pensier, vittime i sensi?

Se vuoi dal popol tuo fedele e pio

fiamme lucenti e peregrini incensi,

non son vive faville i miei desiri?

non son fumi odorati i miei sospiri? –

Ed ella a lui: – Chi detto avrebbe mai                                    21

che chi dal volto tuo bear si sente

sentir devesse poi tormenti e guai

sol per mirarti ed esserti presente?

E chi pensato avria che que’ bei rai

mi devesser mirar pietosamente

e non rasserenar sol con la vista

qual tempesta maggior del’alma trista?

Vedi vedi se strana è la mia sorte,                             22

ch’oggi la mia salute è per mio peggio.

Le tue luci leggiadre eran mie scorte,

or mi sento morir perché le veggio.

Onde per non mirar la propria morte

bench’altr’alma che te non ho né cheggio,

torrei di dar quest’alma e bramo almeno

per poter non partir, morirti in seno. –

Ed egli a lei: – Non so perché si lagni                                    23

chi procaccia a sestessa il suo tormento.

Per qual cagion da me ti discompagni

se’l non farlo è in balia del tuo talento?

Quel duro cor, che mentre parli e piagni

formamesto e querulo lamento,

sicome s’ammollisce a lagrimarmi,

non potrebbe ammollirsi a non lasciarmi?

A che mostrarti afflitta e lagrimosa?                          24

Non più pianger omai ché’l pianto è vano.

Non sente passion molto penosa

né molto il senso e l’intelletto ha sano,

chiunque piagne per dolor di cosa

cui rimedio è del suo arbitrio in mano.

Perdona, o dea, se troppo ardir mi prendo

e se per troppo amor forse t’offendo. –

Ed ella: – Adon, s’egli mi piace o dole                                  25

cangiando nido e variando loco

l’allontanarmi dal mio vivo sole,

quantunque io sappia ben che fia per poco,

comprenderlo ben puoi dale parole

che dal centro del cor m’escon di foco.

Chiedilo, se nol credi, a questi lumi

già ricetti di fiamme, or fatti fiumi.

Ma che poss’io se mi rapisce e move                                   26

violenza fatal di legge eterna?

Decreto incontrastabile di Giove

regge il mio moto e’l mio voler governa.

Piacesse al ciel che, per non girne dove

oggi m’obliga a gir forza superna,

stesse nela mia man questa partita

sicome nela tua sta la mia vita. –

Ed egli: – Or come sai, s’amor n’è senza,                             27

formar ragioni a’ danni miei sì belle?

Non è buon segno aver tanta eloquenza

quando di dov’ama un cor si svelle.

Chi sa del ben amato ala presenza

trovar discolpe e queste scuse e quelle,

animo ancor avrà ben a bastanza

da soffrir volentier la lontananza.

Vanne vattene pur. Del mar tranquillo                                   28

assai meglio potrai valicar l’onde

se puoi sì di leggier queste ch’io stillo

passar, quantunque torbide e profonde.

Conceda il cielo al foco, ond’io sfavillo,

acque piane pertutto, aure seconde.

Abbia di te Fortuna ovunque vai

cura maggior che tu di me non hai.

Oimé, spiegar ciò ch’io spiegar vorrei                                   29

mi contende il martir che m’addolora.

Poiché d’andar deliberata sei,

del tuo fedel sovengati talora

ed almen quantoprima agli occhi miei

riporta il chiaro sol che gl’innamora.

O ti riveggian pur pria che la cruda

morte con mortal sonno a me gli chiuda.

Io so ben io, poiché del dolce e caro                        30

cibo divin che l’anima nutriva

Amor ingiusto, ingiusto Fato avaro

per legge crudelissima mi priva,

né vuol ch’io pur d’un raggio ardente e chiaro

de’ begli occhi sereni almen mi viva,

so ch’io morrommi; e fia beata sorte

se per te, vita mia, corro ala morte.

Ma poiché nulla il mio tormento acerbo                                31

può con sì caldi e sviscerati preghi

il rigor di quell’animo superbo

intenerir, sì ch’a pietà si pieghi

ed al duol che nel’alma io chiudo e serbo

Amor vuol che d’amor premio si neghi,

vita del morir mio, piacciati almeno

darmi loco nel cor, senon nel seno.

Non cancelli o disperda onda d’oblio                                   32

d’un sì bel foco in te la rimembranza;

ma come vive il ver nel petto mio,

ancor nel tuo ne viva ombra e sembianza.

Questo picciol ristoro al gran desio,

questa poca mercé solo m’avanza:

quando albergo miglior mi sia disdetto

nela cara memoria aver ricetto.

Se’l giorno uscir vedrai dal’oriente                            33

che la gente consola afflitta ed egra,

stando lunge da me, torniti a mente

che tu sol sei quel sol che mi rallegra.

Se spiegar dopo’l chiaro e lucente

vedrai la notte la sua benda negra,

ricordati che tale anco m’ingombra

senza te nebbia e gelo, orrore ed ombra.

Se fior vermiglio in prato o verdeggiante                               34

miri in vago giardino erbetta o foglia,

teco allor: «Nel mio fedele amante

alto e nobil desio così germoglia».

S’incontri per camin fiume sonante,

facciati rammentar dela mia doglia,

pensando pur che più profondi e vivi

versan per te quest’occhi e fonti e rivi.

Se di perle e rubin ricco monile                                 35

o bel diamante intorno a te lampeggia,

ti rappresenti la mia fede umile

cui gemma oriental non si pareggia.

E se’n cristallo limpido e gentile

si specchia il tuo bel volto e si vagheggia,

imagina ch’ognor l’imagin cara

nel mezzo del mio cor splende più chiara.

Così pertutto, ovunque andrai dintorno,                                36

di me mai sempre il simulacro finto

di color vivi in vive forme adorno

dal cortese pensier ti fia dipinto.

Felice me, se quando poscia il giorno

cede al’ombre notturne e cade estinto,

ti stampasse dormendo il sonno vago

la mia vagante e fuggitiva imago.

Ma ciò non spero. Esser non può giamai                              37

che’l sonno, il sonno freddo, il sonno cieco

accostarsi presuma a sì bei rai

e venga tante fiamme a portar seco.

Soffrirò dunque e mi fia pur assai

ch’io del proprio dolor mi doglia meco

e con lo spirto errante e peregrino

possa sempre al mio ben farmi vicino. –

Qui tace e poi soggiunge: – Ahi! che serpendo                                 38

mi va per entro il petto un freddo ghiaccio.

Temo non tu, da me sazia fuggendo,

al caro Marte tuo ne torni in braccio.

Se questo è ver, di propria mano intendo

scior del’amore e dela vita il laccio.

Crudel, se non ti move il mio cordoglio,

ben sei figlia del mar, nata di scoglio. –

Risponde l’altra allor: – Raro vien solo                                 39

un mal, per aspro e per mortal che sia.

Il separarmi con fugace volo

dala tua vista e dala vita mia,

sappi, ch’egli non m’è sì grave duolo

né mi pena tanto acerba e ria,

quanto il vederti piangere e sentire

profondo dolor del mio partire.

Ma l’udirmi incolpar di poco fida,                             40

ciò più m’afflige. E credi, anima ingrata,

ch’io con lo dio guerriero ed omicida

cangiar mai deggia la mia pace amata?

In lui spavento, in te beltà s’annida;

ei tutto ferro e tu con chioma aurata;

egli con fiere e sanguinose palme

uccide i corpi e tu dai vita al’alme. –

Poi segue: – Se giamai porrò in oblio                        41

del mio costante amor l’alta fermezza,

il ciel di me si scordi; o se pur io

rimembrar giamai deggio altra bellezza,

destin mi faccia ingiurioso e rio

scontar con mille affanni una dolcezza.

Facciami acerba e dispietata sorte

pianger la vita mia nela tua morte. –

Ed egli: – S’altro stral giamai mi fiede                                   42

di quel ch’uscio de’ tuoi begli occhi ardenti,

per questi prati, ovunque poso il piede,

secchin l’erbette verdi e i fior ridenti.

Semai rivolgo dal’antica fede

ad altro oggetto i miei pensieri intenti,

traggami iniqua stella inerme e stanco

dove mostro crudel mi squarci il fianco. –

Con la man bella, a questo dir, la bocca                               43

leggiermente da lei gli fu percossa:

– Or quai (gli disse) la tua lingua sciocca

bestemmie infauste a proferir s’è mossa?

Sovra chiunque un sol capel ti tocca

cader più tosto il rio presagio possa.

Taci, né più ciò dir quando tu giuri;

lunge da te così malvagi auguri. –

Ciò detto, con pietoso e languidatto                        44

la coppia alquanto il favellar ritenne

e versando per gli occhi il cor disfatto

pur da capo l’un l’altro a baciar venne,

come fermar col pianto e far il patto

volesser con le lagrime sollenne

e consolando l’anime dolenti

suggellar con le labra i giuramenti.

Così le gioie e le memorie estreme                            45

con soavi accoglienze in vari modi

vanno alternando ed iterando insieme

e restringon più forte i cari nodi.

Lo sconsolato Adon lagrima e geme

risaettato il cor d’acuti chiodi;

Vener con roca e languida favella

– Non pianger – dice e seco piange anch’ella.

Poiché i vezzi d’amor così su’l letto                          46

replicati tra lor molto si sono,

ecco che pur s’arrischia il giovinetto,

pria ch’ella parta, a dimandarle un dono.

E con tanti sospir, con tale affetto

forma de’ detti e dele voci il suono,

ch’ella tutta a quel dir s’intenerisce,

arde d’amore e di pietà languisce.

Vedi pur quanto il sol col chiaro lume                                47

circonda e chiedi omai con franco ardire.

Giuro per Stige, inviolabil fiume,

nulla fia che si neghi al tuo desire.

potess’io del’immortal mio nume

l’alta immortalità teco partire,

ch’ognor non mi terria turbata e mesta

sollecito timor che mi molesta.

Lassa, perché mi vieta avaro fato,                             48

fato avaro e crudele ad ambo noi,

del mio divino spirito beato

poter parte innestar ne’ membri tuoi,

sì che di viver poi ne fusse dato

con un’anima sol commune a doi?

Che basterebbe al’un’e l’altra salma

di duo fedeli amanti una solalma. –

Così dic’ella e quegli allora il novo                            49

desio l’espon con fervide preghiere:

Sai ben che dopo quel che teco io provo

sommo ed incomparabile piacere,

altro trastul che travagliar non trovo

con l’arco in man le fuggitive fere.

Piacciati, prego, almen per un brevuso

di lasciarmi cacciar nel parco chiuso. –

Un parco in Cipro avea chiuso e secreto                              50

la dea d’Amor, pien di feroci belve.

Salvo a Diana sol, quivi è divieto

ch’altro pastore o cacciator s’inselve.

Umile animaletto e mansueto

raro v’appar come nel’altre selve.

Da mostri orrendi, eccetto entro quel muro,

tutto il resto del’isola è securo.

– Ah! (disse Citerea) quanto mi pesa                                    51

irrevocabilmente aver giurato. –

Tenta stornarlo dala folle impresa,

tenta mollirgli l’animo ostinato.

Ma può solo appagar la voglia accesa

la chiesta grazia del piacer vietato;

grazia ingrata a colei che la concede

e dannosa e mortale a chi la chiede.

E perch’ei scorge che la dea ritrosa                          52

a quel caldo pregar non ben consente,

vela i begli occhi d’una nebbia ombrosa

e vibra umido d’ira il raggio ardente.

– Poco curar degg’io fronte sdegnosa

 (diss’ella) e non mi cal d’occhio piangente

perché, cor mio, più volentier sopporto

di vederti colerico che morto.

Non voler, prego, ah, non voler, per dio!                              53

orme seguir di perigliosa traccia.

Se di caccia o di preda hai pur desio,

io sia la preda e sia d’amor la caccia.

Sien le tue reti e i lacci tuoi, ben mio,

quest’auree chiome e queste molli braccia;

tolgano il dolce ciglio e’l dolce sguardo

l’ufficio al’arco e’l ministerio al dardo. –

Tace e del vicin mal quasi presaga,                           54

non si sazia tenerlo in grembo stretto.

Sente da un certo che l’interna piaga

ritoccarsi aspramente in mezzo al petto

che par ch’al’alma innamorata e vaga

dica: – Tosto avrà fin tanto diletto. –

Onde dubbiosa ed impedita il mira

e di foco e di gel trema e sospira.

Dicele alfin: – Poiché sei fermo intutto                                   55

ch’io ti deggia attener quanto ho promesso

né teco il mio parlar porta alcun frutto,

non mi voglio ritor quelch’ho concesso.

Ma se non ami il mio perpetuo lutto

e se ti cal di me, cura testesso;

ed almen nel’esporti a tal periglio

con riguardo procedi e con consiglio.

Bastar pur ti devrian qui nel’aperto                           56

tante pianure e collinette e piagge

senza tentar per quel serraglio incerto

bestie inumane, indomite e selvagge.

Ma daché poco cauto e meno esperto

baldanza pueril colà ti tragge,

schiva fere voraci e non gir solo,

ma conduci di ninfe armato stuolo.

Timida damma o semplicetto cervo                           57

vattene pur cercando in piano o in monte,

ma d’alpestro animal crudo e protervo

guardati d’irritar le brame e l’onte,

cui né punta di stralteso nervo

faccia in fuga giamai volger la fronte.

Deh! non far, vita mia, che l’ardir tuo

uccidendone un sol n’uccida duo.

Fuggi s’irsuto ed ispido cinghiale                               58

vedi spumante di livor le labbia.

Mostro d’orgoglio e di fierezza eguale

fa pur pensier che l’Africa non abbia.

Schermo seco non giova, ardir non vale,

ché s’avanza in dispetto e cresce in rabbia;

dove le luci minacciose e torte

volga talor, presso è pianto e morte.

giovenil temerità ti spinga                        59

l’ira a provar del’implacabil orso,

come l’unghia nel sangue e’l dente tinga

rapito da furor senza discorso.

Lagrimosa beltà, prego o lusinga

al suo morso mortal non pone il morso,

pote altro giamai che strazio e strage

le sue voglie appagar crude e malvage.

Ancor d’Ircania ala superba fera                              60

studia a tutto poter sottrarti lunge.

Questa chi la persegue aspra guerrera,

schernitrice de’ rischi, opprime e punge.

Più del marito Zefiro leggiera

velocemente il fuggitivo aggiunge.

Sparge d’ira le macchie e furia e freme

ch’ognor de’ cari parti il furto teme.

men d’ogni altro l’animal che rugge                                 61

abbi sempre a schivar pronto l’ingegno.

Non teme no, non teme il fier, non fugge

asta, spiedo o spunton non gli è ritegno.

Ciò che’ncontro gli vien, lacera e strugge,

ogn’intoppo gli accresce esca alo sdegno.

Foco gli occhi al crudel, ferro gli artigli

arma e sprezza iracondo armi e perigli.

Deh! se pur senza me creder si denno                                  62

belle membra a sì dubbioso bosco,

fa, dolce anima mia, quant’io t’accenno,

campa di questi rei la rabbia e’l tosco,

ch’intelletto non han, mentesenno

da conoscere in te quelch’io conosco.

Non cura alcun di loro e non apprezza

gioventù, leggiadria, grazia o bellezza. –

Qual rosa oppressa da notturno gelo                        63

o di pioggia brumale il crin diffusa,

sovra le spine del materno stelo

impallidisce languida e socchiusa,

ma, se zefiro torna o l’alba in cielo,

fuor del verde cappel sue gemme accusa

e con bocca odorata e purpurina

sorride al sole, al’aura ed ala brina,

tal parve apunto Adone, e men cruccioso                             64

il ciglio serenò torbido e tristo,

onde folgoreggiar lampo amoroso

tra i nembi dele lagrime fu visto;

nel volto ancor, tra chiaro e nubiloso,

di riso e di pianto un dolce misto

e di duol vi dipinse e di diletto

confuso il core un indistinto affetto.

Ella il ribacia e perché già più rara                             65

vede l’ombra del ciel farsi in levante,

levasi per uscir con l’alba a gara

tutta di vezzi languida e cascante.

Mentre ch’è l’aria ancor tra bruna e chiara

sorge e sorger fa seco il caro amante,

le Grazie appella, i dolci nodi rompe

e chiede da vestir l’usate pompe.

Giovinette attrattive e verginelle                                66

son queste, ignude e’n sottil velo avolte,

sempre liete e ridenti e sempre belle,

sempre unite in amor né mai disciolte,

di pari età, di par beltà sorelle,

con palma a palma in caro groppo accolte,

somiglianti tra sé mostrano espresso

non diverso e non uno il volto istesso.

Dielle Eunomia ala luce e, già concette                                  67

del gran dio degli dei, nacquer divine.

Del’Acidalio, ancor che pure e nette,

lavansi ognor nel’acque cristalline.

E son tre sole al degno ufficio elette,

Talia la dotta, Aglaia ed Eufrosine,

bench’al numero lor poi Citerea

abbia ancor Pito aggiunta e Pasitea.

Un’altra anco di più, che’l pregio ha tolto                             68

d’ogni rara eccellenza a tutte queste,

aggregata ven’è, non è già molto,

e sempre di sua man la spoglia e veste.

Celia s’appella e ben del ciel nel volto

porta la luce e la beltà celeste;

ed oltre ancor che come il cielo è bella,

ha l’armonia del ciel nela favella.

O con abito pur che rappresenti                               69

ninfa selvaggia il suo pastore alletti,

o dolce esprima in amorosi accenti,

fatta donna civile, alti concetti,

o talor spieghi in tragici lamenti

reina illustre i suoi pietosi affetti,

cosospiri non men che con la laude

chi ne langue trafitto anco l’applaude.

Talia, ch’ha de’ teatri il sommo onore,                                  70

invida a costei cede il primo vanto,

onde veggendo pur la dea d’amore

che le Grazie di grazia avanza tanto,

non sol degna la fa del suo favore

fra l’altre tutte e del commercio santo,

ma per renderla intutto al cielo eguale

sempiterna l’ha fatta ed immortale.

Viene al suo cenno allor, sì come ha stile                              71

quando avien che dal sonno ella si scioglia,

il drappelletto nobile e gentile

dela camera sacra entro la soglia.

Reca di bisso candido e sottile

orlata d’oro e profumata spoglia;

di questa bianca e dilicata tela

il non men bianco sen circonda e vela.

Gonna di seta e porpora contesta,                            72

dele ninfe di Lidia opra e lavoro,

si stringe intorno in guisa di tempesta

seminata pertutto a rose d’oro.

Vesta ricca e real; ma non ha vesta

pari a tanta beltà l’arabo o il moro.

Degno fora a’ bei membri abito e velo

riccamato di stelle apena il cielo.

Sotto un’ombrosa ed odorata loggia                         73

de’ suoi rami intessuta ella sedea,

a cui di rose in sen purpurea pioggia

scherzando ador ador l’aura scotea.

Ed a comporle in peregrina foggia

la chioma che disciolta le cadea,

tutte tre da tre lati accorte e belle

intorno l’assistean l’idalie ancelle.

L’una a destra le siede e con la destra                                  74

lucido speglio le sostiene ed erge;

l’altra lo sparso crin dala sinestra

di finissimo nettare consperge;

la terza poi con man scaltra e maestra

le scarmigliate fila ordina e terge

e dale spalle con eburneo dente

ara le vie del crespo oro lucente.

Al’aura il crin, ch’al’auro il pregio toglie,                               75

si sparge e spande in mille giri avolto

e’l vel, ch’avaro in sua prigion l’accoglie,

fugge e licenzioso erra su’l volto.

Sestesso lega e poi sestesso scioglie,

ma legato non men lega che sciolto

e si gonfia e s’attorce e scherza e vola

per le guance serpente e per la gola.

Spesso ala fronte candida e serena                           76

qual corona dintorno aurea risplende;

or fa degli orbi suoi rete e catena,

or i suoi lunghi tratti a terra stende;

talor diffuso in preziosa piena

quasi largo torrente al sen le scende

e par, mentre si versa in ricco nembo,

Giove che piova ala sua Danae in grembo.

Ma quei liberi error frena e comparte                                   77

l’ingegnosa ministra e lor legge.

Molti ne lascia abbandonati ad arte,

molti con morso d’or doma e corregge;

parte ne chiude in reticella e parte

per ordir groppi e cerchi ella n’elegge;

e qual di lor per emular l’aurora

di fiori ingemma e qual di gemme infiora;

e mentre solca con dentato rastro                             78

per diritto intervallo i biondi crini

e dal sommo del candido alabastro

termina in spazio angusto i duo confini,

va tuttavia sovra leggiadro nastro

intrecciando gli stami eletti e fini,

dove con ami e calamistri accoglie

tremolanti cimier, piumaggi e foglie.

Le trecce alfin distingue e quella e questa                              79

stringe in due masse eguali e poi l’aduna

e forma in cima dela bionda testa

con due corna superbe aurata luna.

Del vulgo de’ capei che’ntorno resta,

parte non lascia inordinata alcuna,

ma ne fabrica e tesse in mille modi

anella ed archi e labirinti e nodi.

Poiché perfette ognuna esser comprende                              80

delo stranio lavor le meraviglie,

altra di rose a sovraporle intende

ghirlandette odorifere e vermiglie,

altra agli orecchi due lucenti appende

dele conche eritree cerulee figlie,

altra a l’eburnea gola affibbia in giro

con brocche d’oro un vezzo di zaffiro.

Sovra un letto di fior Venere assisa                           81

il piombato cristal si tiene avante;

quel lampeggia a’ suoi lampi in quella guisa

che suol d’Endimion la bianca amante;

e mentre ivi per entro i lumi affisa

pur come in fino orienta! diamante,

fa de’ fregi del collo e del’orecchio

giudice l’occhio e consiglier lo specchio.

Ma de’ piropi il tremulo splendore                            82

abbaglian del bel ciglio i dolci rai.

Può de’ rubini il folgorante ardore

ala bocca gentil cedere omai;

appo il candido dente il bel candore

dela doppia union perde d’assai;

e’l puro odor che nele spoglie è chiuso

da’ fiati soavissimi è confuso.

Or poich’ha tutt’in punto arnesi e vesti,                                 83

al bel viaggio indirizzando vassi

e nel’uscir covaghi occhi celesti

innamora gli sterpi, infiamma i sassi.

Move i sembianti Amor, Lascivia i gesti,

Grazia le piante e Maestate i passi.

Così pian pian si parte e s’incamina

con Adon lagrimoso ala marina.

Apena giunta insu la verde riva                                 84

fa per invidia dileguar le stelle.

Cedon gli orrori a quella luce viva,

fuggon le nebbie e fuggon le procelle.

Il ciel sorrise e’l sol, ch’allora usciva,

si specchiò nele luci ardenti e belle;

onde parea con gemino splendore

che duo fussero i soli e due l’aurore.

Come l’augel che le sue spoglie inferme                                85

dentro rogo odorifero consuma,

poiché’l risorto e giovinetto verme

ha rivestito di novella piuma,

prodigioso e redivivo germe

purpureo splendor l’Egitto alluma

e ritornando inver le patrie piaggie

lunga striscia d’augei dietro si tragge,

così dovunque il piede o l’occhio gira,                                  86

rendendo il suol fiorito, il ciel sereno,

mille Amori la dea seco si tira.

Qual sotto il lembo e qual le vola in seno

e l’aere ov’ella ride, ond’ella spira,

d’anime tutto amorosette è pieno,

ch’al vivo raggio ond’è più chiaro il giorno

sicomatomi al sol scherzano intorno.

Scherzale intorno lascivetto e folle                            87

in mille groppi un nuvolo d’Amori;

popolo ignudo, alata plebe e molle,

sagittari feroci e feritori.

Di palco in palco van, di colle in colle

altri cogliendo, altri versando fiori.

Parte l’oro pungente e’l piombo aguzza,

parte di vivo umor stille vi spruzza.

Qual di musico libro il grembo ha carco,                               88

qual va con cetra e qual con arpa in braccio;

chi fere affronta e chi l’attende al varco,

chi fiamme accende e chi vi mesce il ghiaccio;

un scocca la saetta, un tende l’arco,

un tesse un nodo, un altro ordisce un laccio,

questi su l’ali stassi e quei leggiero

d’un cigno o d’un pavon si fa destriero.

Quegli l’affrena e questi il fren gli allenta,                               89

l’un l’altro ingiuria, assale, urta e minaccia.

Questi il compagno importunando tenta

di trarlo a terra e quegli in fuga il caccia.

Altri mentre sestesso in alto aventa

ride cadendo, altri il caduto abbraccia.

Dele cadute lor l’atto è diverso,

chi boccon, chi supino e chi traverso.

Molti cercan ne’ faggi i nidi ascosi                            90

dove stanno a covar le tortorelle;

molti ne’ tronchi degli allori ombrosi

fabrican case e gabbinetti e celle;

v’ha chi di vinchi e vimini viscosi

implica l’amenissime mortelle;

manca chi gli augei caduti al visco

chiude in gabbie di giunco o di lentisco.

Altri intrecciate e’n lunga linea attorte                                   91

di molti archi ha le corde insieme avinte,

e poiché l’ha d’un elce a un ramo forte

sospese e l’armi d’or deposte e scinte,

quivi s’asside e più d’un suo consorte

agitando il va poi con mille spinte.

Si libra e vibra e mentre in aria sbalza

quasi in mobile culla or cala, or s’alza.

Alcun giocando con aurate poma                              92

le bacia e gitta ala contraria banda;

altri con pari e vicendevol soma

pur baciando le prende e le rimanda.

Sciolta ciascun di lor porta la chioma,

a cui l’istesso crin scusa ghirlanda.

E le faretre e le quadrella loro

parte sono indorate e parte d’oro.

Arman la man di facellette ardenti                             93

e spesso avien che l’un l’altro saetti;

ma senz’ira o dolor porgon ridenti

agli strali arrotati ignudi i petti.

Han qual d’ostro e qual d’or penne lucenti,

varie sicome apunto han gli augelletti.

Son vermiglie e cerulee e verdi e gialle

e d’altri più color fregian le spalle.

Figli son dele ninfe e son germani                              94

d’Amor, d’eguale età, d’aspetto eguale.

Sa ciascun d’essi ancor ne’ petti umani

vibrar la face ed aventar lo strale;

ma fuorchalme vulgari e cor villani

arder non suole e saettar non vale.

Solo il principe lor sdegna trofei

di cor selvaggi e d’animi plebei.

– Chi fia di voi, vaghi fanciulli e fidi,                          95

che trovar sappia ove Tritone alberga?

e prestamente a me l’adduca e guidi

perché quinci mi porti insu le terga?

Ite a cercarne i più riposti lidi,

o che per l’acque egee forse s’immerga

o che tonar con la sonora conca

faccia del mar di Libia ogni spelonca.

Premio fia degno a sì leggiadra impresa                                96

nobil faretra a nobil arco aggiunta.

Eccola , sovra quel mirto appesa,

di perle tutta e di rubin trapunta,

di canne armata a cui non val difesa,

canne guernite di dorata punta.

D’indico avorio e d’arabo lavoro

orli ha d’or, fibbie d’oro e lacci d’oro. –

Come al fischiar del comito supremo,                                   97

quando ala ciurma incatenata accenna

salpar il ferro ed afferrare il remo,

stender la vela e sollevar l’antenna,

vedesi il legno che con sforzo estremo

tosto l’ali per l’acque al volo impenna;

freme l’onda percossa, il lito stride,

mentre a voga arrancata il mar divide,

così tosto che sciolse in note tali                               98

Vener la lingua, i faretrati augelli

chi di qua, chi di , battendo l’ali,

si divisero aprova in più drappelli;

e sparsi intorno per gli ondosi sali,

questi confini investigando e quelli,

tutte del mar, quasi corrieri e spie,

ingombraro, esplorar l’umide vie.

Per lo Carpazio mar Triton la traccia                        99

di Cimotoe ritrosa allor seguiva.

Spesso la tocca il fier, spesso l’abbraccia

e si strugge tra l’acque in fiamma viva.

Ella l’orrenda e spaventosa faccia

del’ingordo seguace abborre e schiva

e timidetta cocapegli sparsi

va tra l’alghe più dense ad appiattarsi.

Fugge la ninfa e d’or in or le sembra                         100

che l’osceno amator le giunga sopra.

La nudità dele cerulee membra

cerca di scoglio in scoglio ove ricopra.

Ei che l’alta beltà fra sé rimembra,

sott’acqua a nuoto ogni suo studio adopra,

e con lubrico guizzo il molle argento

frange e rincrespa, ala gran preda intento.

– O (disse Amor) per entro i guadi algosi                             101

non han potuto e sotto il mar profondo

a me tenersi i vostri furti ascosi,

a me, che so quanto si fa nel mondo.

Vienne ed appresta gli omeri scagliosi

dela dea nostra a sostenere il pondo.

vil fia la mercé di tua fatica:

Cimotoe avrai di ribellante amica. –

Fuor del gorgo prorompe e in alto ascende                           102

il semipesce allor torvo e difforme.

In stranio innesto si commette e rende

la pistrice con l’uom misto biforme.

Vela d’ondoso crin le braccia e stende

con doppio corso biforcate l’orme.

Tre volte il petto move e lieve e ratto,

giunge in Cipro nuotando al quarto tratto.

Mentre il mostro squamoso approda al lido                          103

col vago stuol de’ pargoletti alati,

ecco si volge pur la dea di Gnido

sospirosetta ai dolci lumi amati

e prende alfin dal caro amante fido

gli ultimi baci e gli ultimi commiati.

Core a dio, vita a dio (l’un l’altro dice)

tu vanne in pace; e tu riman felice. –

Giace senz’onda il mar tranquillo in calma,                            104

brilla l’aria pacifica e serena,

onde Triton sestesso al corso spalma

dala fiorita e fortunata arena;

ed a sì dolce e dilettosa salma

sottopon volentier l’ispida schiena,

perché de’ suoi sospiri in tal maniera

coglier, solcando il flutto, il frutto spera.

Quasi ombrella la coda in alto inarca                         105

la marittima belva ambiziosa.

Squallido il tergo ove si preme e carca

ha di murice viva e fresca rosa.

Così Ciprigna il mar naviga e varca

quasi in morbido letto o in grotta ombrosa,

scorre i piani volubili a seconda

e col candido piè deliba l’onda.

Già s’ingorga per l’alto e già la diva                          106

quanto perde del suol, del’onda acquista.

Ma, qual cerva ferita e fuggitiva,

indietro ador ador gira la vista,

né dal’amata e sospirata riva

torce il guardo giamai pensosa e trista.

Vorria, né sa qual gelo il cor le tocchi,

come vi lascia il cor, lasciarvi gli occhi.

De’ promessi imenei lieto e gioioso                           107

e del’incarco suo Tritone altero,

non fende già del pelago spumoso

per dritto solco il liquido sentiero,

ma va con giri obliqui il campo ondoso

attraversando rapido e leggiero,

rapido sì, che suol con minor fretta

sdrucciolar saettia, volar saetta.

Arridon tutti al trapassar di lei                                   108

de’ regni ondosi i cittadini algenti.

Alcun non è de’ freddi umidi dei

che non senta d’amor faville ardenti.

Rinovella Alcion gli antichi omei,

ardon l’alghe, ardon l’aure, ardono i venti.

Umili i flutti e mansuete l’acque

riconoscon la dea che da lor nacque.

Sorge dal fondo cupo e cristallino                             109

cantando a salutarla ogni sirena.

Ciascuna ninfa e ciascun dio marino

alcun mostro del mar preme ed affrena;

cavalca altri di lor curvo delfino,

altri lubrica conca in giro mena;

e tutti fan da quella parte e questa

a sì gran passaggiera applauso e festa.

Nice, una tigre, orribil mostro e sozzo,                                  110

terror del’ocean, con alga imbriglia;

Ligia, un montone il cui feroce cozzo

le navi e i naviganti urta e scompiglia;

tien di verde giovenco avinto il gozzo

con molle giunco Panopea vermiglia;

Leucotoe bianca, con rosato morso

di cerulea leonza attiensi al dorso.

Regge Temisto a fren pigra lumaca,                          111

Cidippe un ceto con le fauci aperte.

Nele latebre d’una grotta opaca

margarite e zaffir coglie Nemerte

ed a quel sol che’l mar tranquilla e placa

ne fa votive e tributarie offerte.

Corrono in un drappel dal’onda eoa

Ippo, Euanne, Calipso, Acasta e Toa.

Sparge le chiome ai zefiri Anfitrite                             112

di ciottoli consparse e di coralli;

con le piante d’argento Egle e Melite

fendon spumanti i mobili cristalli;

Aci con Galatea varie partite

mena di vaghi e leggiadretti balli;

e seco le nereidi e le napee

vanno e cent’altre ninfe e cento dee.

Essaco Esperia va cercando a nuoto                         113

per le pianure liquide e tranquille;

Aretusa ed Alfeo, Prinno e Licoto

spruzzan le nubi di lucenti stille;

Climene e Spio, Cimodoce con Proto,

Leucippe e Deiopea con altre mille

del gran rettor del mar compagne e serve

cantan gli amori lor, nude caterve.

Nettuno fuor del cavernoso claustro                         114

con Venilia e Salacia e Dori e Teti,

gaiamente rotando il nero plaustro

sovra quattro delfin lascivi e lieti,

bando a borea, impon silenzio ad austro,

fa che placido i moti il flutto acqueti.

Di verde muschio e d’argentate brine

molle ha la barba e rugiadoso il crine.

Non men come reina e come dea                             115

la sua bella consorte ha soglio e scettro.

Da duo pescidestrier conca eritrea

tirata inalza un bel sedil d’elettro;

quivi anch’ella al passar di Citerea

canta le fiamme sue con aureo plettro;

tingon le pure guance ostri lucenti,

son coralli le labra e perle i denti.

L’abito suo, che come il mare ondeggia,                               116

di scintille d’argento un lume alluma;

bianco, ma’l bianco imbruna, il brun biancheggia,

talchimita al color l’onda e la spuma.

Sovra l’algosa chioma le lampeggia

di brilli adamantini estrania piuma

e treccia a treccia in bei volumi attorta,

quasi groppo di bisce, in testa porta.

Incorona di gemme alto diadema                              117

la fronte trasparente e cristallina,

a cui nel mezzo balenando trema

più che stella di ciel, stella marina.

Pende in duo globi dala parte estrema

d’ambe l’orecchie gemina turchina,

ed al collo, ale braccia in doppi giri

fan monili e maniglie ambre e zaffiri.

Segue Forba con Forco; e Nereo il primo                            118

che’ntreccia il bianco crin di verdi erbette,

per farle onor dal fondo oscuro ed imo

raguna ostriche fresche e perle elette;

Melicerta il fanciul tra l’alga e’l limo

bacche e viole tenere framette;

Ino l’abbraccia e mormorando insieme

Palemon con Portun rauco ne freme.

Chi giù s’attuffa e chi risorge a galla,                         119

chi balza in aria e chi nel mar si corca;

altri portato è da una foca in spalla,

altri da una pistrice, altri da un’orca;

qual sovra un bue marin trescando balla,

qual su le terga d’una orribil porca;

questi da un nicchio concavo è condotto

e quegli immane una balena ha sotto.

Ed ecco insu quel punto uscir di fianco                                 120

Proteo, del ciel del’acque umido nume,

Proteo, che’l gregge suo canuto e bianco

menar ai salsi paschi ha per costume,

Proteo, saggio indovin che talor anco

si cangia in sterpo, in sasso, in fonte, in fiume,

talor prende d’augel mentito volto,

talor sen fugge in fiamma o in aura sciolto.

Or con l’armento mansueto e vago                           121

pasce giovenco la materna mamma;

or salta orso brancuto, or serpe drago,

segnato il tergo di sanguigna squamma;

or veste di leon superba imago,

armando gli occhi di terribil fiamma;

or vien tigre, or cinghiale, or per le rupi

latra fra’ cani ed ulula fra’ lupi.

Questi qualor la notte il mondo adombra,                             122

mentre il vento riposa e l’onda e’l pesce,

i solchi azzurri con sue schiere ingombra

e i procellosi campi agita e mesce.

Ma tosto ch’a fugar l’orrore e l’ombra

di grembo a Teti, il sol si leva ed esce,

cercar, fuggendo il caldo, ha per usanza

in opaca spelonca ombrosa stanza.

Or la nova beltà ch’al sol fea scorno                         123

da’ cavi scogli a viva forza il trasse,

siché senza temer la luce e’l giorno

s’alzò dal’acque più profonde e basse

e, tre volte girato il carro intorno,

a Tritone accennò che si fermasse.

Stetter taciti i venti e l’onde immote

mentr’ei sciolse la lingua in queste note:

– O dea prole del mar, misera, e dove                                  124

malguidato pensier ti guida e mena?

Deh, qual vaghezza o qual follia ti move

a cercar altro lido ed altra arena?

O quanto meglio volgeresti altrove

il camin che t’adduce a nova pena!

Tu dal bell’idol tuo lunge ne vai

e di sua vita il termine non sai.

De’ giuochi citerei vai spettatrice                              125

dove accolta sarai con festa e canto,

ma tragedia funesta ed infelice

volgerà tosto ogni tua gioia in pianto.

Offrir vedrai, come il destin mi dice,

vittime elette al tuo gran nume santo;

ma vedrai poscia un sacrificio infausto

di chi ti del’anima olocausto.

Minaccia al bell’Adon mortal periglio                                   126

fero ciel, cruda stella, iniquo fato;

né molto andrà che’l sol del suo bel ciglio

fia d’eterna caligine velato;

e di quel volto candido e vermiglio

languirà secco l’un e l’altro prato;

giacerà sparsa al suol la chioma bionda,

di sangue e polve orribilmente immonda.

Già veder che l’assaglia e che l’uccida                                  127

il mostro formidabile m’aviso.

Da sacrilego dente ed omicida

veggiogli il corpo rotto, il fianco inciso.

Odo già le querele, odo le strida,

veggio squarciato il tuo bel crine e’l viso.

Il veggio o bella; al vaticinio credi,

se non ami il tuo danno, indietro riedi. –

Antivedendo il suo vicin tormento,                            128

Proteo con questo dir Ciprigna assalse.

Ella ascoltollo, ancorché l’onda e’l vento

fer che’l tutto distinto udir non valse.

Egli il ceruleo suo spumoso armento

sferzato allor per le campagne salse,

doglioso in atto sospirando tacque

e lievemente s’attuffò nel’acque.

Restò d’alto stupor pallida e muta                             129

e per le vene un freddo gel le corse,

Venere bella, e con puntura acuta

tarlo di novo dubbio il cor le morse;

onde tra’ suoi sospetti irrisoluta

fu d’indietro tornar più volte in forse,

dal timor, dal dolor confusa tanto

che non sapea senon disfarsi in pianto.

Il gran tenor dele parole intese                                  130

fu saetta mortal che la trafisse,

talché Triton ben vide e ben comprese

la cagion di quel duol che sì l’afflisse.

Quindi il corso tra via lento sospese

e’n pietosatto a lei si volse e disse:

– Deh! qual cura noiosa or la tua luce

conturba sì ch’a lagrimar t’induce?

A quella smorta e lagrimosa faccia,                           131

al sol di que’ begli occhi or fatto oscuro,

chiaro ben m’avegg’io quanto ti spiaccia

l’alto presagio del gran mal futuro,

ch’orribil morte al bell’Adon minaccia

pria che sia de’ verdanni il fior maturo.

Ma per cose giamai gioconde o meste

alterar non si deve alma celeste.

Del sovrano motor l’amata prole,                             132

di quanto amor governa alta reina,

che non farà? che non potrà, se vole?

qual legge astringer può forza divina?

Facile, o dea, ti fia s’al tuo bel sole

perpetua notte empio destin destina,

con quell’impero che lassù t’è dato,

vincer natura ed ingannare il fato.

Spesso per grazia al’uomo il ciel concede                             133

le sue tempre eternar caduche e frali.

Arianna non conto e Ganimede

ch’al’alte deità son fatti eguali

e per Bacco e per Giove ancor si vede

che tra le stelle vivono immortali.

L’essempio più vicin solo ti mostro

d’un noto cittadin del regno nostro.

Glauco che da Nettuno infra lo stuolo                                   134

ascritto fu dela marina classe,

pria ch’entrando nel mar, lasciando il suolo,

fatto scaglioso dio forma cangiasse,

era vil pescatore, avezzo solo

ale reti, ale canne ed ale nasse.

Ma per somma ventura ottenne in sorte,

benché mortal, di superar la morte.

Sovra la spiaggia un del mar beoto,                                  135

vestito ancor dela terrena spoglia,

d’un’erba estrana e di vigore ignoto

colse e gustò miracolosa foglia,

e nascersi nel cor di girne a nuoto

di subito sentì pensiero e voglia

e’ntutto uscito del’umana usanza

altra natura prese, altra sembianza;

mutò figura, il corpo si coperse                                 136

tutto di conche e divennalga il crine

ed apena in tal guisa ei si converse

che saltò dale sponde al mar vicine;

e poich’entro le viscere s’immerse

dele vaste e profonde acque marine,

purgato il velo uman da cento fiumi

s’assise a mensa alfin con gli altri numi.

Or il pianger che val? perché le ciglia                        137

non volgi omai di torbide in serene?

Ben lice a te, che del gran dio sei figlia,

da cui felice ogni influenzia viene,

con simil privilegio e meraviglia

sottraendo al gran rischio anco il tuo bene,

operar quel che fu talor concesso

nonch’al divin favore, al caso istesso.

Seben la falce ria troncar la vita                                138

disegna inbreve al giovinetto acerba,

dal debito commun puoi con l’aita

francarlo tu di quella incogniterba;

e torcendo al suo fil linea infinita

malgrado dela parca empia e superba

farlo passar, pria ch’ella abbia a ferire,

al’immortalità senza morire. –

La dea que’ detti ascolta e non risponde,                              139

ma tace alquanto e sta tra sé pensosa.

Pensando va come aver possa e donde

quella mirabil erba aventurosa,

dentro le cui bennate e sacre fronde

vive virtùsingolare ascosa,

ché ritrovar non sa via più spedita

d’assecurar la vita ala sua vita.

Rotto alfine il silenzio, ella gli chiede                          140

in qual parte abbia Glauco il suo soggiorno

e, se volendo ir a cercarlo ei crede,

di poterla condurre e far ritorno

tanto che possa poi, quand’egli riede,

a Citera arrivar l’istesso giorno,

perché convien che per la via men lunga

quella sera medesma ella vi giunga.

– Benché per tutto il mar (soggiunse allora                            141

il trombetta del’onde) abbia ricetto,

suol più ch’altrove in Ponto ei far dimora

e per questa cagion pontico è detto.

Ma se fia d’uopo, andar potrenvi ancora,

e volar per quest’acque io ti prometto.

S’avesse ancor nel’ocean l’albergo,

nel’ocean ti porterei su’l tergo.

Purché tu, da cui sol la piaga mia                              142

può salute sperar, mi prema il dorso,

purchaffrenato e governato io sia

da sì soave e sì felice morso,

oggi sfidar per la cerulea via

i destrieri del sole ardisco al corso

e vo’ del sol più presto e più leggiero

circondar dela terra il cerchio intero. –

Tace e rade pria Rodo, isola dove                            143

di Ciprigna e del Sol la figlia nacque,

e’n cui la saggia dea nata di Giove

i primi altari aver già si compiacque,

onde colui che l’universo move,

oro in grembo le sparse in vece d’acque;

ricca del gran colosso, immensa mole,

simulacro del sol ch’offusca il sole.

Quindi a Carpato passa e passa a Creta                               144

che per gran tratto entro’l suo mar si sporge

e di cento città pomposa e lieta

e del bosco di Giove altera sorge

e’l labirinto, onde l’uscir si vieta,

per infamia famoso, entro vi scorge

e’l monte Ideo che’l dittamo conserva,

fido refugio ala trafitta cerva.

Ad Egla poi, che fu poi detta Sime                            145

dala figlia d’Ialiso, ne viene.

E Telo incontra che le glorie prime

de’ fini unguenti dala fama ottiene.

Dele Calinne le frondose cime,

d’Astipalea le pescarecce arene

varca e pur degli amori amato nido,

di duo porti superba, addita Gnido.

Scopre Nisiro al cui pesante sasso                            146

Polibote soggiace e poscia vede

l’alto muro e’l castel d’Alicarnasso

de’ principi di Caria eccelsa sede,

e’l mausoleo che’n quel medesmo passo

dela d’Artemisia altrui fa fede,

e non lontano Salmace che’n doppia

forma duo sessi, osceno fonte, accoppia.

Indi gli appar la dilettosa Coo,                                  147

per Ippocrate chiara e per Apelle,

onde di stame e di lavoro eoo

vengon le vesti preziose e belle;

e’ngolfandosi apien nel mar Mirtoo,

terre discerne e region novelle

e senza intoppo alcun trascorre Claro,

Patmo e Leria in un punto, Amorgo e Paro.

Vie più lieve ch’augello o che baleno,                                   148

tosto di Delo al sacro lido arriva;

vede d’Ortigia, ove sgravata il seno

posò Latona, la felice oliva;

Nasso da bacche tempestata e Teno

costeggia e di Micon tocca la riva:

quella i figli di Borea in grembo chiude,

questa de’ suoi giganti ha l’ossa ignude.

Del vago corso al’impeto fugace                               149

forze raddoppia e Siro attigne e Rena:

l’una a morbo mortal mai non soggiace,

l’altra di busti e di sepolcri è piena.

Visita Citno d’ogni fior ferace

e Sifno che ferace è d’ogni vena

e fin presso a Serifo allarga il giro,

dove le rane garrule ammutiro.

I verdi dumi poi scorge di Cea,                                 150

ricca d’armenti e fertile isoletta;

tarda l’altra a discoprir ch’Eubea

dala prole d’Asopo ancora è detta.

Caristo a man a man che l’onda egea

vagheggia intorno a trapassar s’affretta,

ai cui bei marmi il frigio e l’africano

e Paro istessa si pareggia invano.

Scorre a Giaro, ov’han gli essuli il bando                              151

e’n cui de’ topi la vorace fame

rode l’acciar, de’ Cafarei lasciando

lontano alquanto il promontorio infame.

Volgesi ad Andro e vien forte vibrando

l’umide penne del’azzurre squame

e fa l’estremo del suo sforzo tutto

per superare il capriccioso flutto.

Fa senza indugio a Doliche tragitto,                           152

dico di Prannio ala vinosa valle,

e dovunque la via taglia per dritto

vedi di spuma innargentarsi il calle;

eccol già dove cadde Icaro afflitto,

ecco che Samo ha già dopo le spalle,

Efeso già si mostra e già comparso

il bel tempio s’ammira, ancor non arso.

Sorge incontro ad Arvisia e vede Chio                                 153

di generosi pampini feconda,

e Lesbo, che gli accenti estremi udio

dela fredda d’Orfeo lingua, circonda,

e di Tenedo, sacra al biondo Dio,

prende e poi lascia la malfida sponda

che l’oste greca ascose entro il suo porto

per far a Troia sua l’ultimo torto.

Trattien la bella dea su le ruine                                  154

d’Ilio le luci alquanto intente e fise

e sospirando del gran regno il fine

piagne gli errori del suo già caro Anchise.

Ma quando mira poi l’acque vicine

di Simoe ove il bel parto in terra mise

da cui dee propagarsi il suo legnaggio,

acqueta il duolo e seguita il viaggio.

Tant’oltre il nuoto suo spedito e pronto                                155

stende Tritone e tanto innanzi passa

che, nonché del’Egeo, del’Ellesponto

il vastissimo sen dietro dietro si lassa;

e già l’altero corno, onde col Ponto

cozza la Tracia, ad incontrar s’abbassa

e dele Cianee sprezza gli orgogli,

sassi guerrieri ed animati scogli.

Sbocca alfin nel’Eusin, ch’ai raggi vivi                                   156

fiammeggia dela dea del terzo lume.

Ed ella, pria ch’ala magione arrivi,

chiede novelle del ceruleo nume.

Ma da molte nereidi ode che quivi,

benché d’usar sovente abbia costume,

son molti di che più non vi soggiorna

e rade volte ad abitar vi torna;

e la cagion che’l tragge e l’allontana                          157

dal patrio loco, è la beltà di Scilla,

Scilla orgogliosa vergine sicana

per cui tra l’acque gelide sfavilla.

Ei, daché la privò d’effigie umana

magica forza e in mostro convertilla,

dove il faro in gran tempeste ondeggia

la visita ogni giorno e la corteggia.

Sinistro augurio allor Venere prende                         158

che sia la speme al suo pensier precisa.

Ma di trovarlo un tal desir l’accende

che risolve d’andarvi in ogni guisa.

Tritone intanto che’l disegno intende

di lei che tien su l’ampia groppa assisa,

volgesi indietro e si raggira e guizza

e ratto inver Sicilia il camin drizza.

La coda ch’egli in vece usa di briglia                         159

move il destrier del mare e’l mar ne sona

e’n poche ore a fornir vien molte miglia

sì l’amoroso stimulo lo sprona.

L’alto sentier del Bosforo ripiglia

e del’immenso Eusin l’acque abbandona

e rivede Bizanzio e non lontano

il Calcedone lascia a manca mano.

Corre verso Posidio e già sornuota                           160

la Bitinia e la Misia e già travalca

la Propontide tutta e scherza e rota

con stupor dela dea che lo cavalca.

Di Cizico e di Lampsaco, devota

al suo sozzo figliuol, la spiaggia calca

e di novo ripassa il varco infido

d’Elle che pianger Sesto ed Abido.

L’Egeo succede, entro il cui flutto insano                              161

Taso, ch’ha di fin or vene feconde,

e Lenno vede ove mantien Vulcano

officina di foco in mezzo al’onde

e Sciro ancor, ch’al greco astuto invano

tra sue false latebre Achille asconde

e dove colui che chiara tromba

e del’uno e del’altro ha poi la tomba.

Lasciasi a tergo Pagase ed Iolco                               162

e Pelio, onde materia ebbe il lavoro

del primo legno, che condusse a Colco

Argo rapace dela spoglia d’oro,

quando seppe Giason, traendo al solco

fertile d’armi l’indomabil toro

ed appannando al fier dragon le ciglia,

d’Ete incantar l’incantatrice figlia.

Qui negli angusti guadi entra del mare                                   163

che dal’Abante separa il Beoto;

Opunte in prima e Tebe indi gli appare,

dove i sassi dal canto ebbero il moto,

ed Aulide ov’i Greci insu l’altare

l’alta congiura confermar col voto;

e col rapido Euripo oltre sen fugge

al Sunio estremo ove’l mar latra e mugge.

Su la destra poi torna inverso Atene                         164

e d’Eaco ala gran reggia appresso giunge,

siché può di Corinto appo l’arene

l’istmo veder ch’i duo confin congiunge.

Spingesi ad Epidauro ed a Trezene

e Scilleo lascia e lascia Argo da lunge;

e quindi di Malea corre veloce

a declinar la perigliosa foce.

E lungo il mar lacon per le remote                             165

spelonche onde non senza alto spavento

da Tenaro a Pluton passar si pote,

a Messenia si cala in un momento

e si scaglia di fino ale Plote

che da’ duo figli del più freddo vento

quando seguir le tre sorelle rie

ebber il nome dele sozze arpie.

Di Zacinto al bel margine s’accosta                           166

che’n spessi boschi in mezzo al’onda è steso,

né molto da Melena si discosta

che da Cefalo poscia il nome ha preso.

D’Itaca schiva la sassosa costa,

picciolo scoglio e sterile e scosceso,

ma per Ulisse suo chiaro riluce:

così sola virtù gloria produce.

Resta Dulichio indietro e’ndietro resta                                  167

dela famosa Elea la piaggia bella,

ch’ai destrier vincitor la palma appresta

onde il lustro e poi l’anno Olimpia appella.

Indi per colà dove aspra tempesta

le rive ognor di Lepanto flagella

striscia, serpe, volteggia e nel ritorno

l’isole degli Echini aggira intorno.

Passando per l’Echinadi la dea                                 168

a quel tragico mar rivolse il ciglio

che del sangue latin prima devea

e del barbaro poi farsi vermiglio.

– O sacre al crudo Marte acque (dicea)

quant’ira, quant’orror, quanto scompiglio,

quai l’Europa da voi, quai l’Asia attende

sciagure e mali in due battaglie orrende?

Di due pugne famose e memorande                          169

sarai campo fatal, piaggia funesta.

Per l’una, celebrar Roma la grande

deve al suo vincitor trionfo e festa.

Per l’altra alte ruine e miserande

Bizanzio piangerà misera e mesta,

e per questa e per quella in mille lustri

Leucate fia ch’eterno grido illustri.

Questo, e sarà pur ver, ceruleo flutto                        170

che diè nel mio natal culla al gran parto

sepolcro diverrà sanguigno e brutto

del vinto egizzio e del fugace parto.

D’alghe invece e di pesci avrà pertutto

di cadaveri immondi il grembo sparto

e tutta coprirà l’onda crudele

di rotte antenne e di squarciate vele.

Piango i tuoi casi, Antonio, e duolmi forte                             171

che t’appresti Fortuna oltraggio e danno

poiché quei che t’induce a sì rea sorte

è pur l’autor del mio mortale affanno.

Ma chi potrà senon tormento e morte

sperar giamai dal perfido tiranno,

se’n più misero stato ed infelice

condanna anco a languir la genitrice?

Tu dal’armi di Cesare sconfitto                                 172

fuggi del Nilo ale dilette arene,

ma dala strage del naval conflitto

la bella fiamma tua teco ne viene.

Io, da quelle d’Amore il cor trafitto

porto e partendo, oimé, lascio il mio bene,

so se per destino unqua mi tocchi

che l’abbian più da riveder quest’occhi.

L’altro esterminio onde di por s’aspetta                                173

al turchesco furor morso e ritegno,

fia d’ingiuria immortal poca vendetta

contro il distruggitor del mio bel regno.

No no, fuggir non puoi malvagia setta

il castigo del ciel ben giusto e degno

d’aver guasti ad Amor gli orti suoi cari

e cangiate in meschite i nostri altari.

Vedrò pur la tua luna, empio idolatra,                                   174

nemico al sommo sol, mastin feroce,

pallida, fredda, sanguinosa ed atra

romper le corna in questa istessa foce.

Fremi, furia, minaccia, arrabbia e latra

contro l’invitta e trionfante croce;

vedrò con ogni tua squadra perversa

l’armata babilonica dispersa

grazie al valor del giovinetto ibero,                            175

difensor del’Italia e dela fede,

che del corsar per molte palme altero

fiaccherà i legni e spoglierà di prede,

spaventerà l’orientale impero,

farà di Costantin tremar la sede,

lasciando, Arabi e Sciti, i busti vostri

scherzo del’onde e pascolo de’ mostri. –

Qui tace, indi di perle inumidito                                 176

col vel s’asciuga de’ begli occhi il raggio

ché le sovien che’n quel medesmo lito

avrà l’essequie il maggior dio selvaggio

quando, arrestando a mezza notte udito

de’ naviganti stupidi il viaggio,

farà lunge sonar gli Acrocerauni

l’ululato de’ satiri e de’ fauni.

Mentre Venere bella in flebil atto                              177

del doloroso umor terge la guancia,

Tritone Azzio trascorre e da Naupatto

verso gli orti d’Alcinoo oltre si lancia.

Soffia e sbuffa anelando e per gran tratto

s’apre la via con la scagliosa pancia;

e tanto allarga le robuste braccia

ch’entro l’ionio sen tutto si caccia,

e dagli estremi termini d’Epiro                                  178

di Iapigia il confine ultimo afferra

scorrendo in lungo e spazioso giro

tutto il gran lembo che l’Italia serra,

fino a quel braccio da cui già partiro

l’onde crucciose la feconda terra,

quando con fier divorzio a forza spinta

restò da Reggio l’isola distinta.

Giunta in Trinacria alfin Ciprigna bella                                   179

di Peloro e di Zancle ala costiera,

colà dove la misera donzella

presa avea forma di rabbiosa fera,

Glauco cercando in questa riva e’n quella,

s’accorse in somma pur ch’egli non v’era;

e le compagne poi di Galatea

per certo ancor n’assecurar la dea.

– È ver (dicean) che da che Circe in scoglio                         180

mutata a questa ninfa ha la figura,

spesso a narrar ne viene il suo cordoglio

al’aspra selce che di lui non cura;

ma perché colma d’ostinato orgoglio

più tra l’onde de’ pianti ognor s’indura,

per medicar quell’amorosa piaga

ito è pur dianzi a ritrovar la maga.

Nela costa del Lazio ov’ella stassi,                           181

l’innamorato e desperato dio

molto non ha, con frettolosi passi

quinci a pregarla supplice sen gio,

o ch’almen per virtù d’erbe e di sassi

gli faccia il proprio mal porre in oblio,

o che, tornata ala sembianza antica,

render la voglia a’ suoi desiri amica. –

D’aver tanto travaglio invan perduto                         182

ala madre d’Amor forte rincrebbe

e del fiero pronostico temuto

l’infausto auspicio in lei sospetto accrebbe,

ma temendo che troppo oltre il devuto

tardi tornata a suo camin sarebbe,

per ritrovarsi ala gran festa a tempo

differì quell’affare a miglior tempo.

Impon che’l corso il più che può spedito                               183

volga a Citera al corridor guizzante,

ch’essendo posta insu l’estremo sito

del paese di Pelope a levante,

dal tempestoso e periglioso lito

di Sicilia non è molto distante.

Quegli ubbidisce e’n breve ecco ch’alfine

del bel loco le spiagge ha pur vicine.

Seben non pensò mai la dea d’Amore                                  184

di far per tante vie camintorto,

loda del mostro il dilettoso errore

poiché in men che non crede è giunta in porto

e con tanto paese in sì poche ore

l’arcipelago tutto ha scorso e scorto;

le Cicladi, le Sporadi e le rive

pelasghe, eolie ed attiche ed argive.

Per attuffarsi già nela marina                         185

l’auriga intanto lucido di Delo

precipitoso i corridori inchina

comorsi al’acqua e con le groppe al cielo.

Vede stillar dal crin pioggia di brina,

dale nari sbuffar nebbia di gelo,

ma veder del bel carro altri non pote

più che l’estremità del’auree rote.

In quell’ora ch’apunto avea Giunone                         186

dele faci notturne il lume acceso,

venne in Citera a disgravar Tritone

il curvo dorso del suo nobil peso.

E poiché dela coda il padiglione

stanco in lunghi volumi ebbe disteso,

con verde giunco insu l’algose piume

sen gio del petto ad asciugar le spume.

 




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