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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 19

La SEPOLTURA. Con la visita de’ quattro dei amici di Venere, iquali vengono a condolersi con essolei, si allude a quattro cose che concorrono a fomentar la lascivia. Per Cerere s’intende la crapula, per Bacco l’ebrietà, per Tetide l’umor salso e per Apollo il calor naturale. Le favole di Giacinto, di Pampino, d’Acide, di Carpo, di Leandro, d’Achille e d’Adone istesso, morti nella più fresca età per fortunosi accidenti e trasformati per lo più in fiori o in altre sostanze fragili, son poste o per significare naturalmente l’effetto e la qualità di quelle cose che son figurate in essi o per esprimere moralmente la vanità della gioventù e la brevità della bellezza.

 

Canto, argomento 19

Mentre Venere piagne e si lamenta

è visitata dagli amici dei;

sepolto in nobil tomba è poi da lei

il morto Adon, che vago fior diventa.

 

Canto 19

Umano ufficio è veramente il pianto                          1

e più proprio del’uom, forse, che’l riso,

poich’apena vestito il fragil manto,

in aprir gli occhi al sol ne bagna il viso.

Non si dia no di quest’affetto il vanto

l’animal che si duol su’l corpo ucciso;

formar non san, non san versar le fere

figlie dela ragion lagrime vere.

Pur quantunque a ciascun fin dala cuna                                 2

sempre quasi quaggiù pianger convegna,

dove tra mille ingiurie di Fortuna

fuorché doglia e miseria altro non regna,

se si trova cagion sotto la luna

da lagrimar che sia ben giusta e degna,

qualunque trista e miserabil sorte

merita più pietà, cede ala morte.

E seben chi per noi volse patire,                               3

le tolse l’ago e l’ha lasciato il mele,

onde sonno s’appella e non morire

quando in pace riposa un cor fedele,

pur senza inconsolabile martire

far non si può né senza aspre querele.

Quindi l’istessa ancor prole di Dio

sovra l’amico suo pianse e languio.

Veder che poca polve e sospir breve                                   4

tanti lumi e tesori ingombri e prema

grava altrui sì, che ben stimar si deve

dele cose terribili l’estrema.

Chi fia, che come al sol tenera neve,

non si stempri mirando e che non gema,

fatto d’alti pensier nidobello

seminario di vermi entro un avello?

E che fia poi, se’nsul vigor degli anni,                                  5

mentre de’ lieti l’april verdeggia,

giovane pianta e, per più gravi danni

bella ancora e gentil, svelta si veggia?

Ma gli acerbi cordogli e i duri affanni

ahi qual angoscia, ahi qual dolor pareggia

di chi sterpato ala stagion più verde

dele gioie sperate il frutto perde?

Quando per morte incenerito e spento                                  6

alma ch’avampa il suo bel foco vede,

e reciso quel nodo in un momento

che già strinserdolce Amore e Fede,

non s’agguagli tormento a quel tormento,

quest’è il dolor ch’ogni dolore eccede;

materia amara da sospiri e pianti

nonch’ai mortali, agl’immortali amanti.

Venere, poi che su la fredda spoglia                         7

sparse lung’ora invan lagrime e note,

deh! qual sentì nel cor novella doglia

al raggirar dele notturne rote,

quando, tornata ala deserta soglia

nele camere entrò vedove e vote?

e’l bel palagio pien d’orror funesto

vide senza il suo sol solingo e mesto?

Quella magion, che dal divino artista                         8

fabricata fu già con tanta cura,

le sembra, ahi quanto infausta ala sua vista,

desolata spelonca e tana oscura.

Sì la memoria del piacer l’attrista,

ch’odia l’oggetto del’amate mura

e’l ciel del’idol caro, orché n’è priva,

quasi inferno noioso, aborre e schiva.

Come pastor, che tardi il piè ritragge                        9

verso l’ovile a passi corti e lenti,

e trovalo da fere aspre e selvagge

tutto spogliato o da predaci genti,

per le selve vicine e per le piagge

chiama e richiama i suoi perduti armenti,

e, dale solitudini profonde,

nulla, fuorché la valle, altro risponde;

o come vacca, a cui di sen rapito                              10

abbia il picciol vitel dente inumano

o col maglio crudel rotto e ferito

apiè del sacro altar rigida mano,

di doloroso e querulo muggito

rimbombar fa dintorno il monte e’l piano,

ultima al prato, con dimesse corna,

esce di mandra ed ultima ritorna;

così, dapoi che’l caso empio successe                                  11

del’infelice Adon, la dea di Gnido,

baciando l’orme dal bel piede impresse,

trascorse il muto e solitario nido.

Nela stanza ch’Amore un tempo elesse,

de’ suoi dolci trastulli albergo fido,

guarda il letto diletto e, quivi afflitta,

geme, l’abbraccia e sovra lui si gitta.

Sola sovente al bel giardin sen riede,                         12

visita l’antro ombroso e’l poggio aprico,

dove l’erba stampata ancor si vede

dele vestigia del diletto antico.

Parla ale piante sconsolate e chiede

al sordo bosco il suo fedele amico.

Bagna di pianto i fiori ov’ei s’assise

e scherzò seco dolcemente e rise.

L’Aurora uscì, non già di lieti albori,                         13

ma di lagrime e d’ombre aspersa il volto,

né di vaghi portò purpurei fiori,

ma di brune viole il crine avolto.

Seguilla il Sol, ma non spuntò già fuori,

prigionier fra le nubi, anzi sepolto;

onde bendati di funesto velo

parean vedovo il Mondo e cieco il Cielo.

Ed ecco a consolar le doglie amare                           14

che le fan de’ begli occhi umidi i lampi,

vengon Febo dal ciel, Teti dal mare,

Bacco da’ colli e Cerere da’ campi,

e con detti soavi, onde già pare

che di pietà ciascun di lor n’avampi,

si sforzan d’addolcir quell’aspra pena

che’l cor le strugge in lagrimosa vena.

Scalza ne vien colei che di Triqueta                           15

l’isola regge e quasi è tutta ignuda,

senon ch’un drappo d’amariglia seta

cela quanto convien che celi e chiuda.

In cima al capo e’nsu la fronte lieta,

ch’ha le luci infocate e sempre suda,

serpe un serto di spiche e, in mezzo a loro,

fabricato torreggia un castel d’oro.

Piante d’argento e fronte ha di zaffiro                                   16

la dea di quell’umor che manca e cresce.

Cinge fregiata di ceruleo giro

scagliosa spoglia d’iperboreo pesce.

L’ondosa chioma poi d’ostri di Tiro

e di ciottoli e conche intreccia e mesce.

Il cristallino sen, che stilla gelo,

copre di talco un trasparente velo.

Non ha di piuma il mento ancor vestito                                 17

Cinzio e di schietto minio infiamma il volto.

Gli circonda il bel crin lauro fiorito,

il crine in bionda zazzera disciolto,

di fila d’oro il ricco manto ordito,

di raggi d’oro un cerchio in fronte accolto.

Con la manca sostien gemmata cetra

e gli pende dal tergo aurea faretra.

Nel viso di Lieo ride dipinto                          18

di fresca rosa un giovenil vermiglio.

Tien nela destra il tirso e d’edre avinto

e d’uve il crin che gli fannombra al ciglio.

Di caspia tigre attraversato e cinto,

che di fin oro ha l’un e l’altro artiglio,

porta il bel fianco e l’omero celeste,

rancio coturno il bianco piè gli veste.

Or mentre tutti in una loggia ombrosa                                   19

in cerchio assisi a trattener si stanno,

dela diva piangente e sospirosa

cercan di mitigar l’interno affanno,

e’ntenti ad acquetar l’alma dogliosa

con le miglior ragion che trovar sanno,

nel caso acerbo del fanciullo morto

tentano di recarle alcun conforto.

Fatto ala mesta guancia ella del braccio                                20

s’avea colonna e dela palma letto

e, con varie vicende, or foco, or ghiaccio,

or nel cor l’alternava, or nel’aspetto.

Romper parea volesse al’alma il laccio,

profondi sospir traea del petto,

quando Apollo il primiero a lei rivolse

gli occhi e la lingua ed a parlar la sciolse.

Quantunque fusse il gran pastor d’Ameto                             21

colui che spinse a tribularla il figlio,

onde di tanto mal contento e lieto

del’effetto godea del suo consiglio,

coprendo nondimen l’odio secreto

con finto zelo d’un affabil ciglio,

come i grandi tra lor sogliono spesso,

venne con gli altri a consolarla anch’esso.

La cagion dela rissa e del dispetto,                           22

onde la dea gli diventò nemica,

nota è pur troppo e, quelch’altrove ho detto,

uopo qui non mi par che si ridica.

Vols’ei però, celando altro nel petto,

dissimular la nemicizia antica

e, quasi scaltro adulator di corte,

compianger del garzon seco la morte.

– S’è vero (egli dicea) che nel tormento                                23

spesso è gran refrigerio aver compagni,

ascolta i casi miei ch’ogni momento

pianger devrei vie più che tu non piagni.

Forse, se la cagion del mio lamento

vuoi contraporre a quella onde ti lagni,

veggendo che’l mio mal fu maggior tanto,

darai pace al dolore o tregua al pianto.

Lasso! qual uomo in terra, in ciel qual dio,                            24

fu mai di me più sventurato amante?

Di Dafni non dirò che non morio,

ma vive ancor tra le mie sacre piante,

parlerò di Ciparisso mio,

che volse per follia morirmi avante;

conterò solo il mai da me commesso,

ch’omicida crudel fui di mestesso.

Io stesso, ahi quale allor sospinse e mosse                            25

la sciocca destra mia sinistra sorte?

con questa man che l’idol mio percosse

fui ministro d’un scempio orrendo e forte.

E bencherrore involontario fosse

e senza colpa il colpo ond’ebbe morte,

tanto fu di pietà più degno il caso

ch’addusse ala mia luce eterno occaso.

Una volta, dal ciel mentre la quarta                           26

rota girando, ingiù lo sguardo affiso

tra i verdi colli dell’antica Sparta,

veggio un fanciullo insu l’erbetta assiso.

Scultore in marmo o ver pittore in carta

di formar non si vanti un sì bel viso.

S’avesse la beltà corpo mortale,

credo che la beltà sarebbe tale.

Chi vuol l’oro ritrar de’ crespi crini                           27

dale Grazie filato e dagli Amori,

chi dele molli guance i duo giardini

dove nel maggior verno han vita i fiori,

chi dele dolci labra, i cui rubini

chiudon cerchi di perle, i bei tesori,

chi degli occhi ridenti il chiaro lume,

spiegar l’inesplicabile presume.

Giacinto insomma è tal, così s’appella,                                  28

che di grazia e vaghezza ogni altro avanza,

senon quanto gli fa l’età novella

superbo alquanto il gesto e la sembianza

e l’andar d’arco armato e di quadrella

al’orgoglio del cor cresce baldanza,

ond’è terror de’ mostri e dele belve

e piacer dele ninfe e dele selve.

L’alta bellezza del garzone altero                              29

subito, apena vista, il cor mi tolse;

mercé del figlio tuo, ch’iniquo e fiero

sempre, non so perché, meco la volse

e per mostrarsi più perfetto arciero

tanto alfin m’appostò che pur mi colse.

Ma benché d’altri strali ei mi ferisse,

questo fu il più crudel che mi trafisse.

Per quest’amor ch’odiar mi mestesso                               30

e per cui non avrò mai l’occhio asciutto,

io mi scordai del lauro e del cipresso,

piante per me funebri e senza frutto.

Leucotoe che languir mi spesso,

di mente per costui m’uscì deltutto;

Clizia, da cui già tanto amato fui,

a me volgeasi ed io volgeami a lui.

Per meglio vagheggiar quegli occhi cari                                 31

che m’abbagliaro e m’ingombrar di gelo,

sprezzai di Delfo gli odorati altari,

né più curai le vittime di Delo,

e’l fren de’ miei destrier fulgidi e chiari

lasciando l’Ore a governare in cielo,

rapito a forza da’ desiri accesi

corsi al’esca del bello e’n terra scesi.

E come già per pascolar gli armenti                           32

venni d’Anfriso ad abitar le sponde

e’l biondo crin, che di fiammelle ardenti

era cinto lassù, cinsi di fronde,

così, per far quest’occhi almen contenti,

volsi d’Eurota ancor frequentar l’onde

e quanto foco la mia sfera serra

portai tutto nel cor scendendo in terra.

Un sole, o chi mel crede? un altro sole                                  33

ch’avea duo soli in fronte io trovai quivi,

e vie più che’l mio lume in ciel non suole

raggi vibrava sfavillanti e vivi.

Insieme ne schermian le valli sole

dagli ardori amorosi e dagli estivi

e ne vider sovente in bei soggiorni

dissipar l’ore e lacerare i giorni.

Più d’una volta al giovane fu dato                             34

ad un de’ cigni miei montar su’l dorso.

Più d’una volta del cavallo alato

premer il tergo e moderare il morso;

e non sol di Laconia, overa nato,

l’ampie contrade visitar nel corso,

ma talora arrivar lieve e sublime

del bel Parnaso ale spedite cime.

Io solea spesse volte andarne seco                           35

del verde monte infra i più chiusi allori

e quivi, al’ombra del mio sacro speco,

tra le dotte fontane, in grembo ai fiori,

gran trastullo ei prendea di cantar meco

del nostro Giove i fanciulleschi amori

ed io, postogli in mano il mio stromento,

gl’insegnava a formar dolce concento.

Talora a tender l’arco ed a scoccarlo,                                   36

bench’assai ne sapesse il giovinetto,

io m’ingegnava meglio ammaestrarlo

contro le fere in qualche mio boschetto.

Ma fra tutti i piacer di cui ti parlo

il più continuo e principal diletto,

ahi! che solo in parlarne impallidisco,

era il giocar con la racchetta e’l disco.

Nela stagion che la cagnuola insana                          37

fa di rabbioso incendio arder l’estade,

quando l’agricoltor con la villana

stassi nell’aia a spigolar le biade,

nel’ora che quaggiù dala sovrana

parte del cielo a filo il raggio cade

e l’ombra che dal’indice discende

dritto ala sesta linea il tratto stende,

n’andammo un , finché’l mio carro il segno                         38

gisse a toccar dele diurne mete,

nel trincotto fatal giocando un pegno,

altre cacce a pigliar con altra rete;

con quella rete ch’entro il curvo legno

tesse in spessi cancelli attorte sete

e, dale tese e ben tirate fila,

fa percossa lontan balzar la pila.

Trattiensi in prima a palleggiar un poco,                                39

indi meco s’accorda ala partita

e, mutando lo scherzo in vero gioco,

proposto il premio, ala tenzon m’invita.

Incominciava ad avampar di foco

la guancia intanto accesa e colorita

e le sue vive e fervide faville

a seminar di rugiadose stille;

onde, deposto un suo leggier farsetto                                    40

di molle seta e tinta in ostro fino,

indosso si lasciò, semplice e schietto,

sol del’ultima spoglia il bianco lino

e mi scoprì del dilicato petto

il polito candore alabastrino;

ma del mio core assai più forte e greve

crescea la fiamma in risguardar la neve.

Le botte del suo braccio erano tali                            41

che quant’ei n’aumentava o scarse o piene,

tant’erano al mio cor piaghe mortali,

tante al’anima mia dure catene.

E ben da tender lacci e scoccar strali

per legar e ferir con doppie pene,

nele luci tenea serene e liete

vie più che nela man l’arco e la rete.

La rete che di corde ha la trecciera                           42

batte la pelle che di vento è pregna

e con la gamba e con la man leggiera

di seguirla e raccorla ognun s’ingegna.

Qual destra è dele due più destra arciera

vince e’l numero conta e’l loco segna.

S’avien che non l’investa o che la faccia

nela fune incontrar, perde la caccia.

Somiglia il gioco, ond’io con lui combatto,                            43

di due mastri da scherma accorto assalto.

Or va per dritto, or di rovescio il tratto,

or di posta or di balzo, or basso or alto.

Or il colpo, che vien rapido e ratto,

s’incontra in aria ed or s’aspetta il salto,

or si trincia la palla ed or caduta

tra gli angoli del muro è ribattuta.

Or quinci or quindi, ed or veloce or piano                             44

l’enfiato cuoio si saetta e scocca.

Per lo tetto talor vola lontano,

talor rade la corda e non la tocca

e, regolato da maestra mano,

serpe per lo suol né si rimbocca.

Tosto ch’urtato vien da quella banda

si rimette da questa e si rimanda.

Quasi in duello singolar di Marte                               45

l’un e l’altro la destra a tempo move.

L’un e l’altro egualmente aggiunge al’arte

astuzie e finte inaspettate e nove,

sichaccenna talvolta in una parte

e poi riesce al’improviso altrove

con tanta leggiadria che mai non falla

la flagellata e travagliata palla.

Già segnate ha due cacce ognun di noi,                                 46

onde, stando delpar, si cangia sito

finch’abbia il gioco alfin per l’un de’ doi

la vittoria o la perdita finito.

Ciascun si studia covantaggi suoi

schivar il fallo e guadagnar l’invito

ed a ben adoprar cauto procede

in un tempo con l’occhio il pugno e’l piede.

Più volte e più da quella parte e questa                                 47

gimmo e tornammo alla medesma guisa,

onde tra noi la palma in dubbio resta

a lance egual sospesa ed indivisa;

quand’ecco il crudo disco, oimé! s’appresta

a far che sia la pugna alfin decisa

ch’è di metallo ben massiccio e tondo

quasi un paleo di smisurato pondo.

Toglie il figlio d’Amicla il vasto peso                         48

che prima in alto poggia e poi ruina

ed, ogni sforzo ala gran prova inteso,

l’un e l’altro ginocchio allarga e china.

L’alza a fatica, alfin poiché l’ha preso,

con piè ben fermo e faccia al ciel supina,

le braccia allenta e’l turbine veloce

segue con la persona e con la voce.

Io, che veggio il suo lancio andarne a voto,                           49

che poco insu si leva e si dilunga

e che fatto più lubrico dal moto

gli cade a piè pria ch’a mezz’aria giunga,

mi provo anch’io, ma nol sollevo e roto,

benché del premio alto desir mi punga,

prima che’l guardi e’l tocchi, acciocché’l gitto

essendo il cuneo egual, vada più dritto.

Poiché dintorno ho ben squadrato il giro,                              50

tutto più volte lo misuro e libro

e per far meglio e trar più lunge il tiro,

la man su per l’arena io frego e cribro;

volgo in alto la fronte e’l ciel rimiro

e su le membra mi bilancio e vibro,

perché vo’ che con scoppio e con rimbombo

saglia ale nubi e poi trabocchi a piombo.

Sovra la mole del volubil ferro                                  51

m’inchino ed a scagliarlo alfin m’accingo,

infra la base e’l cuspite l’afferro

e fortemente ad ambe man lo stringo,

con gran prestezza il pugno indi disserro

e quel colpo funesto avento e spingo,

che, finché stian del ciel salde le tempre,

ha memorando e lagrimabil sempre.

Zefiro, il peggior vento e’l più fellone                        52

di quanti Eolo ne tien nel’antro orrendo,

era in amar anch’egli il bel garzone

già mio rivale e ne languiva ardendo;

ma sprezzato da lui per mia cagione,

schernir, me gradir sempre veggendo,

fiera gelosia nel petto accolse

che intutto in odio il prim’amor rivolse.

E stando il nostro gioco ivi a vedere                          53

su dal’alto Taigeta, il vicin monte,

mosso ad invidia del’altrui piacere

godea di fargli sol dispetti ed onte.

Or gli facea di testa i fior cadere,

or i capei gli scompigliava in fronte.

Talor la veste gli traea con rabbia

e talor gli spargea gli occhi di sabbia.

È ben ver che talvolta in mezzo al’ira,                                   54

benché crucciosa oltre suo stile e cruda,

lo spirito malvagio arde e sospira

in risguardando il bianco sen che suda

e, mentre freme intorno e si raggira

avido di baciar la neve ignuda,

dolce il lusinga e da’ bei membri amati

mitiga il gran calor con freschi fiati.

Ma visto il tempo acconcio ala vendetta,                              55

cangia in soffio crudel l’aura soave,

siché di , dove la mano il getta,

torce a forza e distorna il bronzo grave

e, più leggier che fulmine o saetta,

ch’alcun riparo al’impeto non have,

con tanta furia per traverso il lancia

che va dritto a ferirlo insu la guancia.

Sovra la manca guancia, ove tremante                                  56

palpita il polso entro la tempia cava,

il globo impetuoso e fulminante

percosse la beltà ch’io tanto amava.

Cade alo sconcio colpo e’l bel sembiante

scolora e sozzamente il macchia e lava

perché tosto ne spiccia insu l’arena

di tepidostro una vermiglia vena.

Qual papavere suol da falce o vento                         57

tronco il gambo, languir pallido e chino,

tal’era apunto; il solito ornamento

sparia dal volto e lo splendor divino.

Moria nel labro il bacio e giacea spento

in sepolcro di squallido rubino.

Gli occhi, già dele Grazie alberghi fidi,

rimanean cave fosse e voti nidi.

Tosto che quel bel viso io vidi tinto                           58

del sangue, oimé, dela crudel ferita,

corsi a recarmi in braccio il mio Giacinto

per dar con erbe ala gran piaga aita.

Ma poich’ogni opra alfin nel corpo estinto

fu vana a richiamar l’alma fuggita,

piansi così che dele stelle il duce

parea fonte di pianto e non di luce.

Giuro per la beltà che sì mi piacque                          59

e che portò d’ogni altra in terra il vanto,

che quando il mio Fetonte ucciso giacque

non mi dolsi così né piansi tanto.

E ben giusta cagione allor mi nacque

di sentir maggior duol, far maggior pianto,

ch’assai più forte e più mortale ardore

di quelchaccese il mondo arse il mio core.

Pindo sel sa s’io più cantairisi,                             60

sasselo il coro mio pudico e saggio.

Seben su’l carro d’or poscia m’assisi,

rotai gelato e ruginoso il raggio;

e passando di , dove l’uccisi,

nel mio sublime e sferico viaggio,

sempre cinto di nubi atre e maligne

sovra i campi versai piogge sanguigne.

Volsi per gloria sua, per mio conforto                                   61

lasciarne in terra una memoria bella.

Cangiai del gioco lo steccato in orto,

in aragna mutai la reticella

e feci un nobil fior dal corpo morto

pullular in virtù dela mia stella,

che con note di sangue ha su le foglie

scritte le sue sventure e le mie doglie.

Produssi ancor su le vicine rive                                 62

gemma di qualità simile al fiore,

in cui pur di Giacinto il nome vive

e di porpora e d’or serba il colore

e la forza del fulmine prescrive

e la peste discaccia e’l mal del core.

Ride ne’ ridenti e, per costume,

quand’io mi turbo in ciel, turba il suo lume. –

Qui conchiuse il parlar lo dio lucente                         63

quando colui ch’a premer l’uve insegna

– Questa (ricominciò) che veramente

merita gran pietà sciagura indegna

risovenir mi fa d’un accidente

peggior d’ogni altro che nel mondo avegna,

loqual, finché su i poli il ciel si giri,

sempre m’apporterà pianti e sospiri.

E sicome nel caso acerbo e reo                                64

non fur men gravi le ruine e i danni,

così non men d’Apollo ha Bassareo

dura cagion di dolorosi affanni;

perché nel’infortunio, onde cadeo

misero, insu l’april de’ più verdanni,

sicome anco in beltà non ne fu vinto,

così non cede Pampino a Giacinto.

Pampino, o bella dea, che sovra l’erme                                65

rive già nacque del mio bel Pattolo,

fu dela stirpe degli Amori un germe,

fior di vera bellezza in terra solo.

Se non andasse ignudo e fusse inerme,

porria rassomigliarlo il tuo figliolo.

S’egli non avea gli occhi ed avea l’ale,

potea parer Amor nato mortale.

La bella fronte gli adornò Natura                              66

di gentil maestà, d’aria celeste.

Dolce color di fragola matura

gli facea rosseggiar le guance oneste.

Nela bocca ridea la grana pura

tra schiette perle in doppio fil conteste;

quivi avea la rosa purpurina

prodotta ancor la sua dorata spina.

La notte tenebrosa, il ciel turbato                              67

si rischiarava de’ begli occhi al lume.

Il vago piede imporporava il prato,

la bianca mano innargentava il fiume.

Qualor lievaura con soave fiato

confondendogli il crin, scotea le piume,

parea sparso su’l collo il bel tesoro

sovra un colle d’avorio un bosco d’oro.

«Che veggio oimé! (diss’io quando ferito                              68

fui pria dalo splendor del chiaro raggio)

chi è costui? di qual contrada uscito?

Deh qual seme il produsse? o qual legnaggio?

Non già, benché tra selve ei sia nutrito,

di ninfa il partorì ventre selvaggio.

No no, non nacque mai nel terren nostro

dela schiatta de’ fauni un sì bel mostro.

Esser non può giamai che beltà tanta                         69

di così rozza origine proceda.

Mercurio è certo ala sembianza santa

o più tosto Imeneo, quant’io mi creda.

Ma dove son del’una e l’altra pianta

i pennuti talari? ov’è la teda?

poich’ha il crin d’oro, esser dee forse Apollo

senza faretra e senza cetra al collo.

O se il giudicio mio non è fallace,                              70

se non m’ingannan le fattezze rare,

sarà, benché non porti arcoface,

il figlio di colei che nacque in mare;

ma, scusimi la dea, sia con sua pace,

io dirò ch’impossibile mi pare

che membragentili e sì leggiadre

deggian Marte o Vulcano aver per padre.

Dimmi, vago fanciul, dimmi chi sei?                           71

Tua progenie dichiara e tua fortuna.

Sì sì, so che m’appongo e’l giurerei,

certo del Sol ti generò la Luna,

perch’assai ti vegg’io simile a lei

quand’è serena e senza nube alcuna,

e tal ti mostra ancor la fronte adorna

di due sì belle e giovinette corna.

Or, qualunque tu sia, bench’io sia dio,                                  72

per te mia deitate il ciel disprezza,

e te mortal far possessor vogl’io

di quanta ho colassù gloria e grandezza;

peroché se celeste è il sangue mio,

celeste è ancor la tua somma bellezza.

Privo di tanto ben, rifiuto e sdegno

l’eterne gioie del beato regno.

Non curo senza te, da te diviso,                                73

su le stelle abitar nume immortale,

perch’essilio mi fora il paradiso

e lontan dala luce ombra infernale.

Più d’un sol guardo tuo, più d’un sorriso

che del divino nettare mi cale.

Abbiami, o siasi in cielo o siasi altrove,

purché Pampino m’ami, in odio Giove».

Mentr’io così parlava, ei dela loda                            74

superbiva ridente e baldanzoso

e, dimenando la lasciva coda,

dava segno che’l cor n’era gioioso.

Or chi sarà che con pietà non m’oda?

o qual fia che non pianga occhio pietoso,

mentr’io racconto, ahi sfortunato! altrui

le delizie e i piacer ch’ebbi con lui?

Quando il meriggio col flagello ardente                                 75

sferza rabbioso la campagna aprica,

ne raccogliea, ne nascondea sovente

tra l’ombre dense una selvetta antica

e scorgeane amboduo piacevolmente

il corpo essercitar con la fatica,

lanciando il tirso over la pietra in alto

ala lotta, ala danza, al corso, al salto.

palme o lauri eran le spoglie e i pregi                               76

dela vittoria ai duo felici atleti,

ma ghirlande e sampogne e di bei fregi

ricchi coturni e zani e dardi e reti;

ed oltre questi ancor, quantunque egregi,

altri premi più dolci e più secreti.

Le pugne eran senz’ire e senza offese

ed era arbitro Amor dele contese.

Quelle bellezze rustiche ed incolte,                            77

quelle sue chiome scarmigliate e sparte,

assai più mi piacean di molte e molte

che polir suol lo studio, adornar l’arte.

Gli orsacchini cacciava anco ale volte

e i leoncini in questa e’n quella parte;

ed io per le foreste e per le tane

gli porgea l’arco e gli menava il cane.

Talor nel’onde placide e tranquille                            78

seco scendea del fiume amico e fido

e lavandoci insieme, alte faville

traea dal freddo umor l’arcier di Gnido.

Di gigli e rose e mille fiori e mille

si fregiava la ripa intorno al lido

e facea con frescherba in largo giro

corona di smeraldo al suo zaffiro.

Gli aspri egipani e i ruvidi sileni                                 79

rompeano anch’essi il cristallino gelo.

S’attuffavan nel gorgo i fauni osceni

col capo al’acqua e con le piante al cielo

e scoprivan di fuor, curvando i seni,

de’ rozzi dorsi il rabbuffato pelo,

poi de’ pesci dorati insu le sponde

traean le prede dale lucid’onde.

Altri lungo il bel rio ch’entro le vene                          80

preziose ricchezze avea celate

e diffondea su le purpuree arene

seminatrici d’oro acque gemmate,

le rilucenti pietre, ond’eran piene,

iva scegliendo e le conchiglie aurate;

ed io sempre ala pesca, al nuoto, al bagno

del vezzoso fanciullo era compagno.

Per qualunque di Lidia estrania riva                           81

sempre il seguia con piè spedito e presto.

Se cantava talor, lieto io l’udiva,

se poi taceasi, io n’era afflitto e mesto.

La notte in odio avea che mi rapiva

quel sol, senza il cui lume or cieco resto.

Così passai, mentr’ebbi i fati amici,

col satiretto mio l’ore felici.

Ma volse il ciel che da me lunge un giorno                            82

su’l tergo, oimé! d’un fiero tauro ascese;

di verdi foglie un guernimento adorno

per lo petto e per l’omero gli stese;

legato in fronte al’un e l’altro corno

un fiocco di papaveri gli appese;

ed ala bocca per frenarlo al corso

di pieghevol corimbo ei fece il morso.

Sovra la groppa di viole e rose                                 83

fabricogli le barde e le girelle.

Poi su le spalle floride e frondose,

com’ai destrier s’adattano le selle,

gli rassettò dintorno e gli compose

la sua dipinta e variata pelle;

e’nsieme attorto con purpureo nastro

si di giunchi e ferule un vincastro.

Poiché’l toro crudel, ch’orsi e leoni                           84

vinse di rabbia, acconcio ebbe in tai guise,

prese a montarlo e’nsu i fioriti arcioni

selvaggio cavalier, lieto s’assise,

ed a disdosso e senza staffe o sproni

a governarlo intrepido si mise.

Così per balze alpestri e per vie torte

sferzava il suo uccisor verso la morte.

Finché si fu nel prato apien pasciuto                          85

e nel ruscello abbeverato intanto,

come intelletto e senno avesse avuto

o stato fusse al suo pastore a canto,

soffrendo il peso, l’animal cornuto

cavalcar, maneggiar lasciossi alquanto,

onde Pampino mio parea per l’erba

altra Europa più bella e più superba.

Ma perché forse troppo egli sen gisse                                   86

di tanta gloria e di tal soma altero,

o perch’invida il vide e senafflisse

Cinzia ch’ha de’ giovenchi il sommo impero

e con acuto stimolo il trafisse,

di mansueto ei diventòfiero,

ch’incominciò per discoscesi calli

a saltar fossi ed a trascorrer valli.

Per l’erte cime dela rupe alpina                                 87

impetuosamente i guadi passa,

e con corna traverse e fronte china,

elci e roveri urtando, il capo abbassa

e porta nel’andar tanta ruina

che pietre spezza ed arbori fracassa.

Fiamme dagli occhi torvi aventa e scocca

ed orrendi bramiti ha nella bocca.

Vede il garzon ch’indomita e feroce                          88

la bestia a traboccar va per la balza

e con la man si sforza e con la voce

di placar quel furor; ma più l’incalza,

ché rinforza sbuffando il piè veloce,

apre le nari e l’irta corda inalza,

torce lo sguardo e, con oblique rote,

la schiena incurva e la cervice scote.

«Dove, dove ten corri? arresta i passi                                   89

toro perverso, inessorabil toro.

Non vedi oimé! che tra quest’aspri sassi

miseramente e senza colpa io moro?

Non far non far, che lacerata io lassi,

tra pruni e sterpi, questa chioma d’oro,

questa, ch’al mio fedel cotanto piace

e so ch’è del suo cor nodo tenace.

Io t’adornai le corna e di bei fiori                              90

le mani a coronarti ebbi sì pronte

e tu, nel fior de’ giorni miei migliori,

precipitar mi vuoi da questo monte.

Vedi che son anch’io simile ai tori?

come la tua, falcata è la mia fronte;

sei pur ministro a coltivar la spica

dela dea che di Bacco è tanto amica.

Ma se di me, che troppo incauto fui,                         91

pietà non hai, né curi un nume santo,

portami almeno al mio signor, da cui

forse avrò dopo morte onor di pianto.

Forma umana favella e narra a lui

l’empia mia sorte e miserabil tanto

e che più duolmi esser da lui diviso

che qui restarcrudelmente ucciso».

Questi esprimer piangendo ultimi accenti                               92

gli udir le ninfe de’ vicini colli,

le ninfe ch’a me poi meste e dolenti

vennerlo a referir con gli occhi molli.

Ma l’orgoglioso bue, che d’ire ardenti

avea gli spirti infuriati e folli,

non curando i suoi preghi o le mie doglie,

trasselo alfine ove lasciò le spoglie.

Scotendo il dorso con terribil crollo,                         93

poscia ch’ebbe un gran salto in aria preso,

da sé lunge lo spinse, indi lasciollo

sovra il duro terren battuto e steso,

onde su le vertigini del collo

cadendo del bel corpo il grave peso,

fiaccò la nuca e’n guisa il capo infranse

che la rigida selce anco ne pianse.

Lasso! con quai querele e quali accuse                                 94

io maledissi allor le stelle tutte?

Pensate voi, poiché le luci ei chiuse,

se rimaser le mie di pianto asciutte.

Piansi e, d’ambrosia dolcemente infuse

le fredde membra e di bel sangue brutte,

così stracciato in braccio io melaccolsi

e del suo fato e più del mio mi dolsi.

«Dimmi Pampino mio, deh! dimmi or quale                           95

t’uccise empio e crudel mostro iracondo,

per dar a Bacco tuo doglia immortale,

ch’esser solea per te sempre giocondo?

Se forse ti sbranò crudo cinghiale,

la ria progenie estirperò dal mondo,

senza lasciarne pur di tanto stuolo

ale saette di Diana un solo.

Se tigre accesa d’ira, ebra d’orgoglio,                                  96

del’amato mio ben fu l’omicida,

or or dal carro mio scacciar la voglio,

come rubella, al suo signore infida.

Se fier leone mi diè questo cordoglio,

a quanti in grembo l’Africa n’annida,

morte darò, né fia pur ch’ai leoni

dela gran madre Cibele perdoni.

Ma se perfido toro e maledetto                                97

de’ tuoi non maturi il filo ha mozzo

e con gloria sen va, come m’han detto,

del tuo sangue gentil macchiato e sozzo,

di mostrargli ben tosto io ti prometto

quanto il mio del suo corno ha miglior cozzo;

o il mio tirso farà ch’a lasciar abbia

sovra il tumulo tuo l’ultima rabbia.

Perché non seppi che calcar le spalle                        98

bramavi pur d’un tauro iniquo e reo?

chi destrier generosi e le cavalle

dal’armento pisano e dal’eleo

e da’ presepi antichi e dale stalle

t’avrei recati del gran monte ideo;

patria del bel fanciul, da Giove accorto

sottratto ala cagion che mi t’ha morto.

Se stati i miei pensier fusser presaghi                         99

che per un vano e giovenil piacere

erano i tuoi desir cupidi e vaghi

d’essercitar cavalli o domar fere,

t’avrei dato di Rea sferzar i draghi,

t’avrei dato affrenar le mie pantere,

fatto dela sua stessa aurea quadriga

t’avrebbe Apollo, a mia richiesta, auriga.

Ahi! l’orco sordo, ond’altri unqua non riede,                        100

mai non si placa e suo rigor non frange,

né mai rende Pluton le tolte prede

per ricco dono di chi prega e piange;

che s’accettar volesse aurea mercede,

quant’oro accoglie e quante gemme il Gange,

quante ricchezze han gl’Indi e gli Eritrei,

in cambio del mio Pampino darei.

Deh! che’l poter morir caro mi fora                          101

per unirmi al mio ben nel cieco regno.

Ma tu, spietato sol, che chiara ancora

porti la luce tua di segno in segno,

perché di far col tauro, oimé! dimora

negli alberghi del ciel non prendi a sdegno,

poich’ha sepolto un tauro empio d’inferno

un sì bel sole in occidente eterno?

Fuggano i fauni la funesta sponda,                             102

piangan le ninfe la crudel fortuna,

scolorisca ogni fior, secchi ogni fronda,

copra l’infausto ciel nebbia importuna,

rompa l’urna il Sangario e l’acqua bionda

del mio Pattolo omai diventi bruna,

abborra Dioneo con le baccanti

le liete mense e gli organi sonanti

Così doleami e’l rozzo stuol caprigno                                   103

seguiva, alto ululando, i miei lamenti.

Giaceva il busto squallido e sanguigno,

ma scintillavan pur gli occhi ridenti.

Ancora il volto amabile e benigno

rose fresche nutriva e fiamme ardenti,

dale labra smorte e scolorite

eran l’afflitte Grazie ancor partite.

Quand’ecco Atropo grida: «Il sommo Giove                        104

più non vuol, Bacco, omai che ti quereli.

Il fato al pianger tuo con grazie nove

dal’usato tenor distorna i cieli,

e’l gran decreto a cancellar si move

dele Parche implacabili e crudeli

onde, malgrado dele stelle ree,

non passerà’l tuo amor l’acque letee.

Vive Pampino vive e benché sembri                          105

spento de’ suoi begli occhi il lume chiaro,

vedrai tosto cangiati i vaghi membri

nel buon licor ch’altrui sarà sì caro.

Ti diè, so che con duol tene rimembri,

morendo aspra cagion di pianto amaro,

per dar al mondo tutto, orch’egli è morto,

cagion poi di letizia e di conforto».

Disse, e miracol novo allor m’apparse,                                 106

prese altra forma il giovane infelice.

Il cadavere essangue abbarbicarse

vidi ratto nel suol con la radice

e, fatto lungo stipite, consparse

vari rampolli poi dala cervice.

Le braccia germogliar tralci novelli,

divenner foglie i panni, uve i capelli.

Serpe la nova pianta e i rami ombrosi                                   107

piegando intorno l’incurvate cime,

serbano ancor ritorti e flessuosi

l’antica effigie dele corna prime.

Mutasi in vino il sangue e sanguinosi

gli acini sono, onde’l licor s’esprime

e quella spoglia, ch’insensata e priva

era intutto di vita, in vite viva.

Tosto ch’io vidi il trasformato busto                          108

vestir del vago autunno i verdi onori

e i tronchi ignudi del vicino arbusto

dela pompa arricchir de’ suoi tesori,

venni in desio d’assaporar col gusto

de’ bei racemi i generosi umori

e dal’estinto autor de’ miei tormenti

colsi i maturi grappoli pendenti.

Premuto il dolce frutto infra le mani,                          109

stille n’uscir melate e rugiadose

e scaturir dal gonfio seno i grani

acqua odorata e di color di rose.

Raccolser meco stupidi i silvani

quelle porpore belle e preziose

e con le labra e con le man vermiglie

del prodigio essaltar le meraviglie.

Ed io quando di manna umidi e gravi                         110

schiacciai col dente i turgidi rubini

e vie più dolci li trovai che i favi,

di pampini fregiar mi volsi i crini;

ed, «o Pampino (dissi) ancor soavi

sono i costumi tuoi più che divini;

fatto il bel corpo tuo frondoso e verde

le sue prime dolcezze ancor non perde.

Certo tu vivi e per pietà l’inferno                               111

rivocò la sentenza aspra e severa,

veder ti lasciò nel basso Averno

l’occhio fatal dela crudel Megera.

Non diè la terra al suo ornamento eterno

tomba commune ala vulgare schiera,

ma vergognossi, a cose vili avezza,

di nascondere in sen tanta bellezza.

Il mio gran padre in arboscel ferace                          112

cangiato t’ha per onorare il figlio

e del volto, che già fu sì vivace,

ti lascia ancora il bel color vermiglio

e fa che’l succo tuo dolce e mordace

tranquilli il petto e rassereni il ciglio

e sgombri dal pensier le nebbie oscure

dele noiose ed importune cure.

O delizia del mondo e de’ mortali,                            113

o del nettar celeste essempio in terra,

spiritosa bevanda, oblio de’ mali

e pace de’ dolor ch’altrui fan guerra,

quai fur mai forze o quai virtuti eguali

al’invitto valor che’n te si serra?

Ogni altro frutto omai per te s’aborra,

né teco in pregio altr’arbore concorra.

Qual più famosa pianta in selva alberga                                 114

convien che ceda al tuo ben nato stelo

e che, qual serva tua, curvi le terga

sotto quel peso ch’è sì caro al cielo.

Non fia giamai ch’a tanta gloria s’erga

il fico, il pruno, il melagrano, il melo;

la palma istessa ancor, che qual reina

sovra l’altre trionfa, a te s’inchina.

Ed a ragion la prima laude avrai                                115

da fauni, da pastori e da bifolci,

perché l’altre non dan, come tu dai,

diletti al sensosoavi e dolci.

Tu più d’ogni altra agli egri spirti assai

porgi ristoro e’l cor rallegri e molci;

languiscon di te privi e balli e canti,

né son mai senza te mense festanti.

Or non cur’io, purché tu meco viva,                          116

che sacra a Giove sia la quercia antica;

il ricco pioppo ad Ercole s’ascriva,

di Febo il dotto lauro esser si dica;

abbia Minerva pur la verde oliva,

abbia Cerere pur la bionda spica,

la bella rosa a Citerea si dia,

sola di Bacco tuo la vite sia».

Tacqui ciò detto e ben capace fossa                         117

cavar feci nel sasso e ben agiata

e’l fresco fior dela vendemmia rossa

riporvi dala rustica brigata,

onde da sé, non pesta e non percossa,

uscì la prima lagrima rosata.

Poi cominciai nell’apprestato bagno

col torchio a premer l’uve e col calcagno.

Ferve già l’opra e già viene a carpirsi                                    118

il nuovo parto de’ viticci opachi.

I coribanti insani e gli agatirsi

van quinci e quindi e i satiri imbriachi.

Chi sfronda i rami per ghirlande ordirsi,

chi svelle i raspi e chi ne spicca i vachi,

chi n’empie il grembo da quel lato e questo,

chi n’attende a colmar fescina o cesto.

Altri, come talor nel’aia stanno                                 119

dele biade sgusciate i monti integri,

nel cavo vaso raccogliendo vanno

i grani in mucchi e scegliono i più negri.

Altri, portando i palmiti che fanno

oltremodo brillar gli spirti allegri,

vien la gravida già madre del vino

con risi e canti a scaricar nel tino.

Parte poiché fornito ha di comporre                          120

il cumul tutto, onde la cava è piena,

l’uva che, già calcata, in rivi scorre

a vicenda copiè sviscera e svena.

Già spiccia il vino e già comincia a sciorre

i suoi vivi torrenti in larga vena

e fa bollir la violata spuma,

da cui grato vapore essala e fuma.

Mugghia la turba intorno ale bell’onde                                  121

che’l purpureo ruscel pertutto versa;

nel canal che ne piove e si diffonde

quei tien la man, questi la bocca immersa;

quei dele dolci stille e rubiconde

tutta ha dentro e di fuor la gola aspersa;

questi dapoi che’l ciottolo n’ha pieno,

v’attuffa il volto e seninnaffia il seno.

Chi stringe con le dita entro la tazza,                         122

di lieti fiori incoronata, il grappo;

chi di libarlo apena si sollazza

col sommo labro e chi tracanna il nappo.

Quel furor dolce e quella gioia pazza

fa che non curi alcun linodrappo,

onde fan rosseggiar l’uve bevute

l’ispide barbe e le mascelle irsute.

Alcun ven’ha che la vital rugiada                               123

con un corno di bue per bere attigne

e, gustata che l’ha, tanto gli aggrada

la sostanza del ciel data ale vigne,

che forza è poi che titubando cada

con luci enfiate e torbide e sanguigne

e, vinto da colui che mutò forma,

ebro vaneggi o tramortito dorma. –

Non ebbe forza l’inventor del mosto                         124

di più dir altro ai circostanti numi,

che l’amara memoria inondar tosto

gli le guance di duo caldi fiumi,

onde il sembiante in grave atto composto,

tacendo s’asciugò gli umidi lumi;

e poich’egli deltutto ebbe taciuto,

così parlò la socera di Pluto:

– Ne’ vostri casi, o Dei, non vi consolo,                               125

che di pianto son degni e di cordoglio;

ma chi langue d’amor non è mai solo:

anch’io d’Iasio rammentar mi soglio;

taccio quanto soffersi affanno e duolo,

ché l’antiche follie narrar non voglio;

narrerò d’un garzon tragedia tale

ch’io piansi più l’altrui che’l proprio male.

trovar si poria chi farne fede                               126

meglio di me, che’l vidi, unqua potesse,

perch’ove bagna ala mia reggia il piede

l’onda di Scilla, il caso empio successe.

Videlo ancor costei che tra noi siede

e’l vider seco le sue ninfe istesse

e v’accorse pietosa e sene dolse

e tra le braccia il misero raccolse.

Aci il gentile, un pastorel sicano,                               127

fu già di Galatea l’unico foco,

Galatea bella che seguita invano

era da Polifemo in ciascun loco.

Appo lui, quasi stilla al’oceano

era ogni altra bellezza o nulla o poco.

Onde ciascuna ninfa empiea d’amore

e ciascun uom d’invidia e di stupore.

Cedano i duo che qui lodato han tanto                                  128

di Semele il figliuolo e di Latona

o qual maggior beltà celebra il canto

dele dotte sorelle in Elicona.

Il suo puro candor toglieva il vanto

ale bianche colombe di Dodona;

il suo dolce rossor faceva oltraggio

ai color del’aurora, ai fior di maggio.

Una collina che risponde al mare                              129

Vertunno con Nettuno accoppia e mesce.

Per entro l’onde sue tranquille e chiare,

publico albergo al mal difeso pesce,

un pavimento lucido traspare,

loqual vaghezza al vago sito accresce,

di nicchi fini e di lapilli tersi,

tutti smaltati di color diversi.

Là’ve dal’erba tremula indistinto                               130

agitato dal flutto il giunco pende,

di vario musco il margine dipinto

molle di fresca arena un letto stende,

sì d’alti sassi incoronato e cinto

che soffio d’aquilon mai non l’offende.

Sol placidaura intorno al curvo grembo

gl’increspa l’orlo e gl’innargenta il lembo.

Tinta d’azzurro nele ripe estreme                              131

par la verdura e l’acqua è verdeggiante.

Ragionar ponno e salutarsi insieme

il cultor quinci e quindi e’l navigante.

Mentre l’un rade il lido e l’altro il preme

han communi tra lor l’alghe e le piante.

L’un può col remo cor l’uve dal tralce,

l’altro i coralli mieter con la falce.

Qui solea Galatea, lasciando il ballo                          132

del’altre ninfe e dele dee marine,

dal tergo d’un leggier pescecavallo

su l’asciutto smontar del bel confine.

Ed Aci dele membra di cristallo,

molli di perle ed umide di brine,

con mille caldi sospiretti e mille

gli rasciugava le cadenti stille.

Un giorno uscita pur, come solia,                              133

a scherzar per le liquide campagne,

venne il suo amor per la cerulea via

separata a trovar dale compagne

e, discesa ove fa l’isola mia

un promontorio sol di tre montagne,

senza sospetto alcun d’insidia altrui

stavasi sola a trattener con lui.

Di duo pendenti d’indici zaffiri                                  134

gli avea guernito il destro orecchio e’l manco

e circondato con minuti giri

di tre linee di perle il collo bianco.

Teneagli con sorrisi e con sospiri

l’una mano ala guancia e l’altra al fianco

e, dolce a sé stringendolo, nutriva

dentro il gelido sen la fiamma viva.

E, baciandol, dicea: «Chi fia che sciolga                                135

giamai questo, o mio ben, caro legame?

Pria che si rompa o ch’altri a me ti tolga,

vo’ che si rompa il mio perpetuo stame;

frema, scoppi, se sa, s’adiri e dolga

il terror di Sicilia, il mostro infame,

di cui più fiera e spaventosa belva

non vive in tana e non alberga in selva».

Fatto qui pausa ai vezzi e, senon tronche,                             136

lentate le dolcissime catene,

segnavan con le pietre e con le conche

dele gioie la somma e dele pene.

Su lo scoglio scolpian per le spelonche,

per la riva scrivean sovra al’arene,

suggellando i caratteri cobaci,

Aci di Galatea, Galatea d’Aci.

Or, mentre incauti e senza alcun pensiero,                             137

stanno in tal guisa a trastullarsi i due,

ecco viene il ciclopo orrido e fiero

a pascolar le pecorelle sue.

Sotto la manca ascella un cuoio intero

per zanio tien di ricucito bue.

Ben si scorge il crudel, quand’egli giunge,

isoleggiar su l’isola da lunge.

Non di lieve siringa o di sambuca,                             138

ma di massicci abeti ha cento canne,

cento buche ogni canna ed ogni buca,

misurato il suo giro, è cento spanne.

Questa suol, quand’avien ch’ei riconduca

la greggia al’erba fuor, porsi ale zanne

ed accordar con cento fiati e cento

de’ diseguali calami il concento.

«Ti reco, o Galatea, da quelle rupi                            139

due pargolette e leggiadrette damme,

purché gli ardor ti piaccia interni e cupi

alquanto mitigar dele mie fiamme.

A te le dono e le sottrassi ai lupi

che le toglieano ale materne mamme;

ma te, lupa crudel, non fia ch’io scolpi,

ch’assai peggio il mio cor divori e spolpi.

Non mi sprezzar, perch’io di questa roccia                           140

abiti l’aspra e ruvida latebra,

né perché’l lume mio, ch’a goccia a goccia

per te si stilla, appanni una palpebra.

Non mi schernir, né far che sì mi noccia

l’orgoglio onde ten vai tumida ed ebra.

S’io sempre a tuoi m’inchino e m’inginocchio

aborrir tu non devi il mio grand’occhio.

Bench’abbia un occhio solo, io non son orbo,                                  141

il mio sguardo e di lince e non di talpe;

ben ti scoprì l’altr’ier presso quel sorbo

il busto mio, ch’avanza Olimpo e Calpe,

col fanciul ch’io farò pasto del corbo,

ad onta mia scherzar sotto quest’alpe.

Ma s’altra volta il colgo, il mal fia doppio:

io ten farò sentir tosto lo scoppio».

Così cantava e volea più dir forse                             142

col guardo sempre intento ala marina,

quand’egli a caso inver la falda il torse

che terminava la gran balza alpina

e dela coppia misera s’accorse,

laqual non prevedea tanta ruina

e, d’amor tutta cieca e tutta ardente,

al periglio vicin non ponea mente.

«Ah! che ben ti vegg’io (colmo d’orgoglio)                           143

non fuggir Galatea (disse il gigante);

ti veggio e la vendetta omai non voglio

più differir di tante ingiurie e tante;

e vendicarmi vo’ con questo scoglio

ch’è del tuo duro cor vero sembiante

e la luce per te non troppo allegra

segnar di questo con pietra negra».

Detto e fatto, in un punto ecco un fracasso,                          144

ond’intorno il ciel freme e’l mar rimbomba

e d’alto inun precipitato a basso

mezzo il gran monte impetuoso piomba.

Sovra il miser garzon ruina il sasso

e gli porta in un punto e morte e tomba;

sotto la rupe che’l percote e pesta,

fulminato e sepolto insieme resta.

Io non so qual affetto al’improviso                            145

più nel cor dela ninfa allor s’avanzi;

l’ira contro il fellon, ch’abbia reciso

il bel nodo ch’Amor strinse pur dianzi,

o la pietà del giovinetto ucciso

loqualbello ancor le giace innanzi,

che non con altri forse atti e pallori,

se potesser morir, morrian gli Amori.

«Dunque per te (prorompe alfin gridando)                            146

il fior d’ogni mio ben langue distrutto,

perfido lestrigon, mostro essecrando,

portento di natura immondo e brutto?

Così grazia e mercé s’impetra amando?

così s’ottien dele fatiche il frutto?

Non credo no, né fia mai ver, ch’un core

rozzo e villano ingentilisca amore.

Ma che? Ben pagherai d’un tanto torto                                 147

la pena in breve, di quel lume privo,

che quel terreno sol, ch’oggi m’hai morto

indegno fu di rimirar già vivo.

Benché’l tuo sdegno insano e poco accorto

util gli fu per essergli nocivo.

D’uccider ti credesti Acide mio

e t’avedrai che d’uom l’hai fatto dio».

Sì dice, indi quel corpo amato e bello                                   148

ch’incapace è di vita e di salute,

trasforma in chiaro e limpido ruscello

con la divina sua fatal virtute;

e poich’ha del gentil fiume novello

con le lagrime sue l’acque accresciute,

il salso inun col dolce umor confonde

e rimescola insieme onde con onde.

Udiste, o dei, del fiero il crudo sdegno,                                 149

non già quanto a seguir n’ebbe dapoi.

Io’l so, che’l vidi, e parmi ancor ben degno

da ricordarsi e raccontarsi a voi.

Io’l vidi e’l so, però che’l vago ingegno,

intento ad osservar negli atti suoi

ciò che disse e che , ciò che gli avenne,

più salda impression mai non ritenne.

Così vedrete alfin che pur il colse                              150

la bestemmia fatal di Galatea,

onde quant’egli errò, tanto si dolse

perdendo il sol, la forma e la sua dea.

La giusta legge del destin non volse

ch’impunita n’andasse oprarea.

Sovente vendicar le cose belle,

come simili a lor, soglion le stelle.

Quando del colpo iniquo ed inumano                                    151

gonfiando, insuperbito, i suoi furori,

d’aver morto il rival di propria mano

vantava seco i trionfali onori

e credea follemente, il mostro insano,

dela ninfa gentil goder gli amori,

permise il ciel che di lontan venisse

ad ingannarlo, ad acciecarlo Ulisse.

Giacea, sicome sempre avea per uso                        152

in fondo al’antro suo scabroso e vecchio.

Aveagli il vel dela gran luce chiuso

un grave oblio dal’un al’altro orecchio,

quando tra’l vino e’l sonno ebro e confuso,

il terso dela fronte unico specchio

con doglia incomparabile repente

fuor del concavo suo sveller si sente.

Non farian tal romor l’eterne rote                             153

se cadesse del ciel l’immensa mole

o fusse pur, sicome esser non pote,

dal’epiciclo suo schiantato il sole,

con quale strido e strepito si scote,

con qual furia il crudel s’arrabbia e dole,

mentr’il guerrier nel ciglio il pal gli ficca

e’nsul bel del dormir l’occhio ne spicca.

Quasi fin nel cervel la rigidasta                                 154

del’acuto tizzon dentro gli caccia

e dela gemma sua vivace e vasta

impoverisce la terribil faccia.

Quei con la fronte sanguinosa e guasta

pasimando distende ambe le braccia,

poi si leva e tenton va con la mano,

ma l’aria stringe e lui ricerca invano.

Ricerca il feritor, né sa, né vede                                155

dove né come al suo furor si fura.

Al’avanzo de’ miseri ne chiede

che tien sepolti entro la grotta oscura,

ma la voce tremante indietro riede

ed è tolta a ciascun dala paura;

il tuon del grido, il picchio dela clava,

tutta fa risentir l’ombrosa cava.

Aprendo l’uscio alfin del cavo speco,                                   156

si terge il sangue onde la fronte è sozza

e, quando al chiaro sol si trova cieco,

molti di quella turba uccide e strozza.

Smembra i compagni del facondo greco,

come leon faria lepre o camozza.

Parte al sasso n’aventa e non indugia

ch’un ne sbrana, un ne scanna, un ne trangugia.

Perduto il , ch’a lui per sempre annotta,                             157

battesi ad ambe man l’estinto lume,

e dala piaga dela fronte rotta

fa di sangue sgorgar torbido fiume;

fuor dele labra, per l’opaca grotta,

stilla bave sanguigne e nere schiume

e nel fango del suolo e nela polve

sestesso immerge e bruttamente involve.

Del crin che, rabbuffato e non tonduto,                                 158

con lunghe ciocche insu le spalle pende,

del mento inculto, squallido e barbuto

da cui ben folto il pelo al petto scende,

del petto istesso, il cui pelame irsuto

rigido tutto e setoloso il rende,

gli aghi pungenti e l’irte lane e grosse

per ira e per dolor si straccia a scosse.

Vuol pur trovar, per vendicar l’offesa,                                  159

chi gli serrò la lucida finestra.

Su l’entrata s’asside aspra e scoscesa

che fa spiraglio ala spelonca alpestra.

Sotto la mazza attraversata e stesa

uscir fa la sua greggia e con la destra,

mentre la chiusa sbarra inalza ed apre,

di corno in corno annovera le capre.

Ma come saprà mai dove si celi                                160

uomcauto, sì scaltro e sì sagace?

chi può pensar ch’un vello asconda e veli

l’insidioso ingannator fugace?

Monton s’infinge e mente i cozzi e i beli,

gli palpa il tergo e quei camina e tace.

Così coverto di lanosa pelle

gli si sottragge e passa infra l’agnelle.

Or poscia che non sol l’occhio gli ha tolto                             161

col tronco arsiccio il peregrino argivo,

ma dal’infame arena il legno sciolto

già dala cruda man campato è vivo,

furia, ondeggia, vaneggia e, come stolto

non men di senno che di luce privo,

languendo a un punto e minacciando insieme,

più del mar che’l produsse, orribil freme.

Uscito indi del’antro, arbori intere                             162

fiaccò con l’urto e con la man divelse,

né, tra quell’ire sue superbe e fiere,

questo tronco da quel distinse o scelse.

Sbarbò frassini antichi ed elci altere,

spezzò cerri robusti e querce eccelse

e furibondo errò pertutto e forse

cento volte, quel , l’isola corse.

Cerca e ricerca ove Nessun s’appiatta                                 163

ed alza il grido spaventoso e grande.

Ma quel Nessun, che la bell’opra ha fatta,

già per l’acque lontan la vela spande.

Nessun per ogni tana ed ogni fratta

chiama e nessun risponde ale dimande,

fuorché dal cupo sasso i tre fratelli

che batton su l’ancudine i martelli.

Vola la nave e, quasi augel del’onde,                        164

batte de’ remi le spedite penne

e ne’ sali spumanti il rostro asconde

sospinta in alto dal’alate antenne.

Su le deserte e solitarie sponde

intanto ei con grand’impeto ne venne,

dove si fu pur finalmente accorto

che partito il navilio era dal porto.

Allor sì grossa rupe e sì pesante                                165

spiccò dal fianco al gran monte vicino

e, con braccio feroce e fulminante,

lanciolla dietro al fuggitivo pino,

che, pien di fere e carico di piante

un bosco sostenea su’l tergo alpino,

e seco per lo ciel trattando il vento

trasse col suo pastor tutto un armento.

Quasi animato monte imposto a monte,                                166

in cima al’alto ed elevato colle

piantato il crudo in piè, l’orribil fronte

presso le nubi alteramente estolle,

or minacciando al cielo oltraggi ed onte,

or fortuna appellando iniqua e folle,

or bestemmiando in atti orrendi e schifi

il vento, il mar, la vela, il remo e Tifi.

Quivi in sì fiere e sì crucciose voci                             167

sue querele spiegò languide e meste

e d’urliterribili e feroci

l’aure intronò, le piagge e le foreste,

che seben de’ duo mostri infra le foci

fremea pien di procelle e di tempeste,

giacer parve senz’onda il mar immoto

e tacer euro ed aquilone e noto.

Fer tenore e risposta a’ suoi lamenti                          168

le spelonche vicine e’l mar istesso.

Gemer gufi s’udir, fischiar serpenti,

lupi ulular per que’ vallon dapresso.

Corser le ninfe a que’ dogliosi accenti,

Nettuno, il genitor, vi corse anch’esso

e ne piansero in suon flebile e rauco

Tritone e Proteo e Melicerta e Glauco.

«Va pur (dicea) va dormi, occhio dolente,                            169

tu, cui tanto è il dormir caro e soave

e fra straniera e traditrice gente

fa pur il sonno tuo profondo e grave.

Va dormi va, ma intanto ampio torrente

d’infruttuose lagrime ti lave.

Occhio sciocco, occhio pigro, occhio gravoso,

come t’ha concio il tuo mortal riposo.

Quando più nel’inganno e nel periglio                                   170

sguardo devevi aver d’aquila e d’Argo,

allor men cauto il sonnacchioso ciglio

sparger ti piacque d’infernal letargo.

Va dormi va, ma intanto egro e vermiglio

versa di sangue un rio tepido e largo

e questa fosca tua vota caverna

chiudi in sonno perpetuo, in notte eterna.

Lasso, più non sperar gli alti splendori                                  171

riveder mai dela tua fiamma antica,

piante verdeggiar, né rider fiori

in valle ombrosa o in collinetta aprica.

Fatta, tua colpa, de’ suoi chiari onori

vedova questa fronte oggi e mendica,

spento del volto mio l’unico raggio,

come farò, se luce altra non aggio?

Indarno indarno, o sol, per me rinasci,                                  172

poiché m’ingombra sempiterna sera.

Trionfa pur, che negra benda or fasci

del lume mio l’inecclissata sfera,

lieto omai Giove ogni sospetto lasci,

che più non osa il cor, la man non spera,

non spera più con immortal trofeo

l’opra fornir che’ncominciò Tifeo.

Alcun più qui dele conteste travi                               173

da lunge il corso o de’ nocchier non spia.

Corran secure pur, corran le navi

per la piana del mar liquida via.

Vengan di merci preziose gravi,

radano a lor piacer la riva mia

e, spiegato per l’onde il volo audace,

senza spavento alcun, passino in pace.

Or per trastullo lor, sì com’io fossi                            174

fera che giace incatenata e dorme,

dele grand’unghie mie, de’miei grand’ossi,

del’ampio ciglio e dela bocca informe,

de’ membri tutti smisurati e grossi,

de’ satiri e pastor seguendo l’orme,

verran le ninfe intrepide e secure

a tor con lunghe canne alte misure.

Ed io, che già sì grande e sì robusto                          175

non ebbi eguale in paragon di forza,

orché del mio negletto inutil busto

caligine mortal la face ammorza,

mercé di chi v’affisse il remo adusto

e poi fuggì sotto mentita scorza,

mi rimarrò per mio maggior tormento

fischio ala plebe ed agli augei spavento.

Deh! quanto fu per me misera l’ora                           176

quando il malnato passaggiero infido

girò la stanca e combattuta prora

a questo mio già dolce antico nido.

Troppo felice lo mio stato fora,

se d’Etna il monte e di Trinacria il lido,

se queste rive un tempo amene e liete

viste mai non avesse il greco abete.

È ver che quando il traditor m’assalse                                   177

per lasciarmi del’occhio orbato e scemo,

vil omicciuol non osò già, né valse

mover publico assalto a Polifemo;

ma con lusinghe allettatrici e false

tese l’insidia del mio danno estremo

e seppe i suoi pensier perversi e rei

sì ben dissimular, ch’io gli credei.

Quanto vaglia il mio braccio e quanto possa                         178

faranne quest’arena eterna fede,

laqual di sangue per gran tratto e d’ossa

rosseggiar tutta e biancheggiar si vede.

Sallo del’antro mio la cupa fossa,

che pien d’umane e di ferine prede,

ha di teschi e di pelli intorno intorno

il negro muro orribilmente adorno.

Onde s’allora un picciol cenno, un atto                                 179

scorto avess’io del suo villan talento,

pensar si può se strazio egual mai fatto

fu da lupo affamato infra l’armento;

o che questo baston sparse in un tratto

l’ossa n’avrebbe e le minugia al vento,

o ch’avrei forse al’uom malvagio e rio

fatto vivo sepolcro il ventre mio.

Nulla curo però quanti soffrire                                  180

possa per tal cagione oltraggi e torti,

nulla fra dolorose ombre languire

in un stato peggior di mille morti.

Quelch’ogni pena eccede, ogni martire,

dove speme non è, che mi conforti,

egli è solo il pensar che mi sia tolta

la bella che dal mar forse m’ascolta.

M’ascolta forse, e più che mai mi sprezza,                            181

e già vederla ador ador m’aviso,

ch’addita con insolita allegrezza

ale compagne il mio squarciato viso.

Strana miseria mia, dala bellezza,

per cui piango e languisco, esser deriso.

Bellezza, oimé! ch’a desperar m’induce

e priva è di pietà, com’io di luce.

Or goda e rida pur, ch’a me s’asconda                                 182

per l’altrui fraude eternamente il giorno

e che del lido favola e del’onda

fatto io mi sia per queste spiagge intorno.

Del’una e l’altra mia piaga profonda

poco il danno cur’io, poco lo scorno,

pur che’n riso sel prenda e n’abbia gioco

la soave cagion del mio bel foco».

Detto questo, il feroce, inver la costa                        183

dela montagna ripida e sublime

ch’al figlio di Titan già sovraposta

del rubello del ciel le terga opprime,

il passo move e tacito s’accosta

ale più rotte e dirupate cime.

Quivi sovra un scheggion dela pendice

stanco s’asside e, tra sé, pensa e dice:

«Villano cavalier che con mentita                              184

spoglia molto conforme al tuo timore

la fronte mia con la crudel ferita

senza luce lasciasti e senza onore,

deh! perché con la vista ancor la vita

non mi togliesti e, inun con l’occhio, il core,

se con gli occhi del cor, di vista privo,

veggio i miei danni e non ho vita e vivo?

Io vivo, io veggio e del mio strazio crudo                              185

l’aspra cagion m’è più che mai presente

e mentre un occhio solo in fronte io chiudo,

mille un cauto pensier menapre in mente,

ch’altro di Galatea novello drudo

seco veder mi fa visibilmente;

il vegg’io ben, seben nottula, e peggio

fuorché’l vedermi cieco altro non veggio.

Amor nume possente, amor tiranno                          186

per aggravar de’ miei martir la salma,

quando di me con arte e con inganno

l’assassin scelerato ebbe la palma

pur come ristorar volesse il danno

del’acciecato corpo al’afflittalma,

per duol maggior, non per pietà che n’ebbe,

la vista raddoppiò, la luce accrebbe.

Ninfa, orch’a me non più visibil sei,                           187

raddoppiar m’udirai l’alto lamento,

che la cagion s’accresce ai pianti miei

e dela gelosia cresce il tormento;

e son nonché de’ salsi umidi dei,

nonché d’ogni augelletto e d’ogni vento,

nonché d’ogni animal del regno ondoso,

degli scogli e del mar fatto geloso.

Pesce felice e te vie più felice                                    188

pesce ch’hai cento braccia e cento branche,

cui sovente non pur dapresso lice

mirar le membra cristalline e bianche,

ma toccarle talor non si disdice

dal lungo nuoto affaticate e stanche;

le stringi in cento guise, in cento nodi,

e di tal gloria insuperbisci e godi;

felice e te, che ripiegata in arco                                 189

la coda incurvi e’l tergo ispido e nero

e di ragion talvolta e d’amor carco

fai di testesso a lei nave e destriero.

Poco ad Atlante il suo stellato incarco

invidi tu, di più bel peso altero,

qualor portando i vaghi membri a galla

mordi il suo freno e la sostieni in spalla.

Cieco dunque io non son, benché si veggia                           190

l’orbe di questo ciglio orbo rimaso,

che’l chiaro sol che nel mio cor lampeggia,

non tramontò nel miserabil caso

e l’alma innamorata ancor vagheggia

il suo oriente in quest’oscuro occaso

e la beltà, che più di fuor non vede,

a riveder nela memoria riede.

Non è questo non è, ch’arde e sfavilla                                  191

le celesti varcando oblique vie,

il sol che le foltombre apre e tranquilla

dela mia mente e può recarmi il die.

Tu di quest’occhio sol sei la pupilla,

tu sola il sol del’atre notti mie.

S’a me volgi sereno un solo sguardo,

basta ad illuminarmi il foco ond’ardo.

Perché più contro il reo la lingua sciolgo,                              192

pur troppo, ahi lasso! in sua ragione accorto?

e qual pro se sdegnoso al ciel mi volgo,

sicom’ei fabro sia del mal ch’io porto?

Contro le stelle invan m’adiro e dolgo

e d’altrui che di me mi lagno a torto,

se di sì fiero caso e sì sinistro

io fui solo l’autor, solo il ministro.

Non fu, non fu Nessun che mi costrinse                                193

a gir cieco e tapin, non so se’l sai.

Perfida, quelche la mia luce estinse,

fu lo splendor de’ tuoi lucenti rai.

meraviglia fia, se m’arse e vinse,

io meco ben mi meraviglio assai,

come quando talor mirar ti vuole

o non s’acciechi o non s’abbagli il sole.

Io, se mi desse il ciel, che’l mio perduto                                194

lume per sorte riacquistar potessi,

sol quelche mi tolse il greco astuto,

ma come un sol n’avea, mille n’avessi,

e quanti di Giunon l’augello occhiuto

girar ne suol nel’ampia rota impressi,

quanti la Fama e quanti il ciel n’ha seco,

mirando gli occhi tuoi, tornerei cieco.

Miser, dunque a ragion m’offusco e caggio                           195

e così va chi sovra sé presume.

Cadde, com’odo, il giovane malsaggio

che troppo alzò le temerarie piume;

cadde chi per lo torto alto viaggio

vols’esser duce del paterno lume;

e quest’altier, ch’al gran motor guerra,

qui fulminato ancor giace sotterra.

Anco il teban, ch’ambì d’esser eletto                        196

giudice degli Dei, cieco divenne

ed io ch’a più bel sol con stolto affetto

del’audace pensier spiegai le penne,

non mi dorrò, se sì sfrenato oggetto

la mia debile vista non sostenne.

Confesso dele tenebre il martire

esser picciola pena a tanto ardire.

S’aggiunse ancora a questo lampo ardente                           197

dura cagion ch’abbacinai la vista:

de’ larghi pianti miei l’onda corrente

che versa tuttavia l’anima trista.

E qual potenzia mai fiapossente,

qual cerviera virtù fia che resista,

quando insieme accoppiandosi in eccesso

han gli ardori e gli umori un varco istesso?

A questa grave e memorabil piaga                            198

medicina non val, cura non giova,

né d’erba per guarirla o d’arte maga

virtù, ch’io creda, in terra oggi si trova.

Tu, che m’apristi il cor, ninfa mia vaga,

tu che ferisci e che risani a prova,

render al’occhio mio la luce puoi

con una sola lagrima de’ tuoi.

Folle, come vaneggio! ancor l’insana                        199

voglia a novi ardimenti ergo e sospingo?

ancor, con speme temeraria e vana,

adulando a mestesso il cor lusingo?

E la tigre del mar dolce ed umana

fatta al mio pianto, al mio pregar m’infingo?

chi m’aborrì, mentr’ebbi il lume meco,

oso sperar che m’ami orch’io son cieco?».

Qui tacendo sospira, indi dal loco                             200

dove mesto sedea, lento risorge

e’l piè come può meglio, a poco a poco

trae verso il sasso che’nsul mar si sporge;

e poiché giunto , dove il suo foco

arder solea fra l’acque, esser s’accorge,

con più placido volto e più sereno

così rallenta ale parole il freno:

«Ma che cieco io mi sia perché sia priva                               201

la fronte mia dell’ornamento usato,

non è però che’n me non splenda e viva

la face ardente del fanciullo alato,

né tu di me devresti esser sì schiva,

né tanto aver il cor crudo e spietato,

anzi mentre mi doglio in tua presenza,

se m’odiasti con l’occhio, amarmi senza.

Cieco è l’Erebo ancor, da cui ciascuna                                 202

trasse il principio suo creata cosa,

cieca la Morte, cieca è la Fortuna,

possenti dee, cieca la Notte ombrosa.

È cieco il Sonno e, quando il ciel s’imbruna,

pur lieto in grembo a Pasitea riposa;

e pur dele sue fiamme accese il core

ala sua Psiche, ancorché cieco, Amore.

Chi sa se’l re del’amoroso regno,                             203

del cui foco il mio corforte avampa,

spingendo di sua man l’acceso legno,

smorzò del’occhio mio la chiara lampa?

Forse ch’a me, com’a fedel più degno,

volse il viso onorar dela sua stampa?

giusta legge stimò forse il protervo

che, s’è cieco il signor, sia cieco il servo?

Ma d’altra parte a chi da tante oppresso                              204

gravi cure d’amor si strugge e sface,

che perduto ha col core anco sestesso,

perduto ogni suo bene, ogni sua pace,

poca perdita fia perdere appresso

del sol la luce; e cieco esser mi piace

se quanto al’altrui vista è di diletto,

fora infausto ala mia doglioso oggetto.

Non ha per queste rive o tronco o foglia,                              205

non poggio adorno di fioretti e d’erbe

che visibilimagine di doglia

in sé stampata per mio mal non serbe

e ch’a quest’occhio la cagion non soglia

rappresentar dele mie pene acerbe,

a quest’occhio meschin ch’or chiuso e spento

più non fia spettator del mio tormento.

O ch’a quest’aspra rupe io lo girassi                         206

o ch’a questo scosceso arido scoglio,

veder pareami negli alpestri sassi

la durezza del cor per cui mi doglio.

Vedea nel mar, qualor più irato fassi,

il tuo superbo e minaccioso orgoglio

e nel’onde, nel’alghe e nel’arene

il numero vedea dele mie pene.

Se d’Alfeo, se d’Oreto o se d’Imera                        207

l’acque per risguardar volgea la fronte,

tosto presente il simulacro m’era

di quelch’io verso inessiccabil fonte;

se la fiamma scorgea torbida e nera,

ch’erutta la voragine del monte,

i miei sospiri fervidi e fumanti

e gli incendi del cor m’erano avanti.

Misero, e quante volte i tronchi vidi                          208

stringer le viti e l’edere seguaci?

e le conche tra lor per questi lidi

i nodi raddoppiar saldi e tenaci?

e i solitari mergi entro i lor nidi

darsi e i colombi affettuosi baci?

ed invido fra me dissi sovente:

deh! perché voi felici ed io dolente?

Ma che membrar d’altrui, quasi molesta,                              209

ogni gioia amorosa, ogni atto estrano?

Quante volte vid’io testessa in festa

scherzar col vago ed io mi dolsi invano?

sasselo il giusto sasso e sassel questa

del torto mio vendicatrice mano

che, rotto il dolce nodo e sciolto il laccio,

si teluccise, e ne piangesti, in braccio.

Oltre di ciò non poco io mi consolo                          210

che la mia luce in tenebre si cange,

però, ch’avezzo al pianto e nato al duolo,

altro non so che trar del’occhio un Gange.

Or l’occhio inteso ad un ufficio solo

più non s’occupa in risguardar, ma piange,

e piangerà finché col pianto unita

stillandosi per l’occhio esca la vita.

Tempo fu già che l’occhio ebro si volse                                211

ai chiari raggi del suo vivo sole.

Per l’occhio entrò la fiamma, il cor l’accolse

e n’arde ancor, sichesca altra non vole.

Allor l’occhio fu lieto, il cor si dolse:

ora gioisce il cor, l’occhio si dole.

Dolgasi pur, ragion ben fia, che quanto

v’entrò foco ed ardor, n’esca acqua e pianto.

Porgemi ancor la cecità speranza                              212

che forse fuor de’ soliti confini

con minor tema e con maggior baldanza

da oggi avante a me tu t’avicini

e con Dori e Leucotoe in lieta danza

t’udrò talor cantar sovra i delfini

e bench’io viva in tenebre sepolto,

avrà l’orecchio quelch’al’occhio è tolto.

Anzi tolto non già, ciò non fia vero:                           213

siami il ciel quanto vuol crudele ed empio,

armisi pur l’ingiurioso arciero

a mio sol danno, a mio perpetuo scempio,

tor non potran dal cupido pensiero

dela cara beltà l’amato essempio;

né tanto è quel dolor che l’alma attrista

quant’è il piacer d’averti amata e vista.

Vantaggio dunque ogni mio danno io chiamo,                                   214

né più quasi mi cal di luce esterna,

perché quella che tanto io goder bramo

godo assai più con la veduta interna,

laqual fisa nel sol ch’adoro ed amo,

dove dianzi era breve, è fatta eterna,

sol tutta intesa al bel, ch’ella desia,

orch’altro oggetto più non la desvia.

Almen non fia che strale in me più scocchi                            215

Amor, né ch’io m’affisi in altri rai,

sichacceso il mio cor da sì begli occhi

di bellezza minor non arda mai,

anzi se i miei pensier non eran sciocchi,

io stesso il primo che ti mirai

ammorzar mi devea questa facella

per giamai non mirar cosa men bella».

Tutti questi discorsi al’onde, ai venti                          216

sparge il meschino e l’ode il vento e l’onda,

né v’ha chi per la spiaggia ai mesti accenti,

salvo Ceice ed Alcion, risponda.

Al fin nel fiero cor, dopo i lamenti,

l’ira e’l dispetto oltremisura abonda.

Vuol uccidere sestesso o nel’aperta

gola del mar precipitar dal’erta.

La numerosa fistula ch’aggrava                                 217

il rozzo fianco ad ambe mani afferra

ed ogni canna sua forata e cava

spezza col dente e poi la scaglia a terra.

Il nodoso troncon, l’immensa clava

che fece a mille fere oltraggio e guerra,

gitta lontano e con le note estreme

in questa guisa si lamenta e geme:

«Fido baston, già mio compagno antico,                               218

che mi fosti gran tempo arme e sostegno,

rimanti in pace in questo lido aprico

orch’io peggio che morto, orbo divegno.

Forse ad uso miglior destino amico

ti serba e, volto in remo o in curvo legno,

solcando i campi del gran padre mio

godrai tu la beltà che non god’io.

Né più di mazza omai, né di sampogna                                 219

gagliarda melodia vo’ che mi vaglia,

né più d’onor, né più d’amor bisogna

che’n sì misero stato unqua mi caglia.

Prenderò di mestesso ira e vergogna,

e se fia mai che la mia greggia assaglia

lupo, che per rubar venga dal bosco

fuggirò brancolando al’antro fosco.

Ma che? se per mio scampo io non ti reco                            220

tra fere e mostri e tra dirupi e poggi,

chi guiderà lo sventurato cieco?

dove sarà che le sue membra appoggi?

Buona trave e fedel, vientene meco,

da te l’ultimo ossequio avrò forsoggi;

se’n vita al tuo signor fosti consorte

ben devi esca al suo rogo esser in morte.

Voi senza guardia intorno e senza guida                                221

venandrete dispersi, o cari agnelli,

né potrà più la vostra scorta fida

tergervi l’unghie o pettinarvi i velli.

So che, mossi a pietà dele mie strida,

disdegnerete i pascoli e i ruscelli,

mostruosi formando e disusati

gemiti umani invece di belati.

A dio, cari molossi e fidi alani,                                  222

e voi, mastini miei pronti e leggieri,

del mio pregiato ovil campion sovrani,

forti custodi, intrepidi guerrieri;

non più di greggia omai, non più di cani

al vostro afflitto duce è di mestieri,

né più pastor, né cacciator fia d’uopo

che d’esser pensi il misero ciclopo.

Di cani uopo non m’è senon sol quanto                                223

ne sia, novo Atteon, lacero e morto,

o perché nele tenebre e nel pianto

sia, qual cieco, da lor guidato e scorto.

Lascio a te dela caccia il pregio e’l vanto

cagna crudel che’l cor mi sbrani a torto;

lascio in mia vece pascolar contento

il felice pastor del salso armento.

Vienne vienne, o crudel, tu’l corpo lasso                               224

e la tremula man reggi e conduci;

tu s’hai tanta pietà, da questo sasso

il piè vagante a precipizio adduci.

O perch’io non ricaggia a ciascun passo,

scopri il seren dele divine luci,

che, sicome ancor cieco io ben discerno,

possente fora a rischiarar l’inferno.

Tu quella che il ciel crudo oggi gli nega                                 225

deh! porgi, o ninfa, al desperato aita,

rigida ninfa, avara a chi ti prega

dela morte non men che dela vita.

Ahi che costei non m’ode e non si piega

perché la pena mia resti infinita,

perché mi sia d’ogni miseria in fondo

morte la vita e vivo inferno il mondo.

Or tu che miri il mio destin perverso,                         226

fabro Vulcan, dale sulfuree porte,

se di chi diè le tempre al’universo

il fulmine temprar t’è dato in sorte,

prima ch’io sia dal pelago sommerso,

pria ch’io di propria man mi dia la morte

fingi di provarn’un per questo cielo

e quelchel duol non può, faccia il tuo telo.

Ma ben cieco m’ha fatto e stolto insieme                              227

il dolor che travolge i miei desiri.

Di morir bramo e non sperando ho speme

di finir, con la morte, i gran martiri.

Mi rifiuta Pluton, forse che teme

il troppo fiero ardor de’ miei sospiri,

perché sa ben ch’appol mio incendio grave

è la fiamma infernal fresca e soave.

Pietoso oimé! sol per mio mal diviene                                   228

il crudo re de’ regni oscuri e bassi,

né vuol che quinci ale tartaree arene

con la grand’ombra mia morendo io passi,

che se dannata a quell’eterne pene

il pallido Acheronte oggi varcassi,

avrian veggendo in me maggior tormenti

qualche conforto le perdute genti.

Teme non forse il tenebroso inferno                          229

queste tenebre mie rendan più fosco.

Teme non forse al mio furore eterno

raddoppi il can la rabbia e l’idra il tosco.

Teme non cresca al mio gran pianto Averno

e de’ mirti amorosi inondi il bosco.

Teme non beva in Lete un dolce oblio

sich’io più non rimembri il dolor mio».

Così diss’egli e diè sì gran muggiti                             230

e tanti mandò fuor torbidi fumi,

che lasciò per gran pezza impalliditi

i chiari aspetti de’ celesti lumi.

Cadde il remo a Caronte e sbigottiti

fuggiro i mostri ai più profondi fiumi.

Stupir le Furie e del sovran tonante

ebbe novo timor l’arso gigante.

Fu quello il primo che tra gli abissi                         231

vide Cocito aperto il monte Etneo.

Il gran Peloro in cento lati aprissi

e Pachinno si scosse e Lilibeo.

Fremer Cariddi e latrar Scilla udissi,

con Aretusa si restrinse Alfeo

e lungo spazio ancor poich’egli tacque,

tremaro i lidi e rimbombaron l’acque.

Pianse Nettuno, il padre, e’l crudo fato                                 232

mosse a pietà di quella ria sventura,

onde in un monticel fu trasformato

loqual ritiene ancor l’alta statura.

Mongibel fu poi detto e’n tale stato

nutrisce ancor nel sen la fiera arsura,

cessa pien di furiosi incendi

d’essalar tuttavia sospiri orrendi.–

Poich’ha raccolto ala favella il freno                          233

la dea feconda che perdé la figlia,

quella ch’alberga al’Oceano in seno,

in cotal guisa il ragionar ripiglia.

– Che torni in terra alfin ciò ch’è terreno,

esser certo non dee gran meraviglia:

morte al corso mortal termine pose,

ultima linea del’umane cose.

Chi lagrimar non vuol né vuol dolersi,                                   234

ad oggetti immortali alzi il desio,

ch’i dolci frutti suoi tien sempre aspersi

d’amarissimo tosco il mondo rio.

Di questo ho tanti essempi e sì diversi,

che più che l’onde son del regno mio.

Se fia ch’a dirne alcun la lingua io sciolga,

non so ben qual mi lasci o qual mi tolga.

Tacerò, memorabili fra tutti,                          235

Calamo e Carpo, gl’infortuni vostri?

Che non pur non lasciar con occhi asciutti

alcuno abitator de’ regni nostri,

ma dier materia entro i miei salsi flutti

d’amaro pianto ai più spietati mostri;

e fer per gran pietà de’ lor cordogli

singhiozzar l’onde e lagrimar gli scogli.

Su per l’oblique e tortuose rive                                 236

del bel Meandro e tra’ suoi guadi aprici

passavan lieti le caldore estive

di pari età duo fanciulletti amici.

Simil beltà non si racconta o scrive,

ch’altrui desser giamai stelle felici.

Lasciato avrian per lor l’Alba Orione

e la diva di Delo Endimione.

Daché la bella coppia al mondo nacque,                               237

mentre crescendo entrambo ivano al paro

tanto il genio del’uno al’altro piacque,

che’n perpetua amistà l’alme legaro.

Scherzavan dunque infra l’arene e l’acque

del fiume che scorrea tranquillo e chiaro,

attraversando con suoi giri ondosi,

quasi serpe d’argento, i prati erbosi.

Piantato avean nel verde margo un legno                              238

e quivi appesa una ghirlanda in cima,

proposta in premio a qual de’ duo quel segno

giunto fusse, nuotando, a toccar prima.

Sforzavasi ciascun con ogni ingegno

d’acquistar vincitor la spoglia opima

e’n così fatti lor giochi e trastulli

travagliavano aprova i duo fanciulli.

Sfavillan l’acque, assai più belle e chiare                               239

fatte dalo splendor che le percote

in quella guisa che fiammeggia il mare

al folgorar dele lucenti rote,

quando l’aurora che’n levante appare

dal vel purpureo le rugiade scote

e’l sol che giovinetto esce di Gange

col gran carro di foco il flutto frange.

Carpo nel nuoto essercitato e dotto                          240

molto non è, ma Calamo gli è scorta

ed or col tergo, or con la man di sotto

agevolmente lo sostiene e porta.

Talor poscia ch’alquanto ei l’ha condotto

per mezzo l’acqua flessuosa e torta,

dilungandosi ad arte innanzi passa,

indi l’aspetta ed arrivar si lassa.

Con tardo moto, a bello studio, e lento,                                241

bramoso d’esser pur vinto e precorso,

pian pian rompendo lo spumoso argento

per la liquida via trattiene il corso.

Ma per poter trovarsi in un momento,

qualora uopo ne fia, presto al soccorso

del caro emulo suo che gli è davante

con la provida man segue le piante.

Il giovinetto, che’l compagno vede                            242

indietro rimaner quasi perdente,

tolto il vantaggio allor che gli concede,

scorre l’umido arringo arditamente

e va, mentre rapir la palma crede,

dove l’impeto il trae dela corrente.

Già già stende la man superba e lieta,

tanto è vicina la prefissa meta.

Ma pria ch’a torre il bel trofeo la sporga,                              243

ecco fiero e crudel turbo che spira

e là’ve il rio volubile s’ingorga

soffiando a forza, lo respinge e gira

e senza che di ciò l’altro s’accorga,

l’onda l’assorbe e nela ghiaia il tira,

ratto così che Calamo l’ha scorto

sommerger no, ma già sommerso e morto.

Che sospiri, che pianti e che querele                         244

sparse il meschin sul doloroso lito,

quando chiaro conobbe il suo fedele

esser dala vorace onda inghiottito?

«Fiume ingrato (dicea), fiume crudele

che m’hai repente ogni mio ben rapito,

questa da te riceve empia mercede

chi tanta gloria e tant’onor ti diede?

L’Ermo, il Pattolo e qual per gemme ed oro                         245

più famoso tra gli altri il mondo apprezza,

perdeano appol tuo pregio i pregi loro,

ch’eri ben possessor d’altra ricchezza.

Quelch’ha titol di re, corna di toro,

mercé di quella estinta alta bellezza,

benchillustre corona abbia d’elettro,

ti reveriva e ti cedea lo scettro.

Ma tu per far più ricco anco il tuo fonte                                246

trangugiarlo volesti, avaro fiume,

che se nel grembo il Po tenne Fetonte,

tu raccogli altro sole ed altro lume.

Lasso, che’l sol, seben dal’orizzonte

cader quando tramonta ha per costume,

più chiaro poscia insu’l mattin risorge,

ma’l mio Carpo apparir più non si scorge.

Qual invidia al bel furto oimé! vi spinse                                 247

Naiadi quanto belle, inique e rie?

ditemi chi d’amor la luce estinse?

chi svelse il fior dele speranze mie?

Deh, se mai di pietà forza vi strinse,

ite, cercate altrove onde più pie;

di qua fuggite ove morendo giacque

l’esca dele mie fiamme in seno al’acque.

Lasciate questi ovalbergar solete,                            248

del crudo padre mio fondi omicidi,

né più di que’ cristalli empi bevete

ch’a sì rara beltà fur tanto infidi.

Abbracciatemi intanto e raccogliete

le tronche chiome mie tra’ vostri lidi;

e pria ch’io caggia al’avidacque in preda,

l’ultima grazia almen mi si conceda.

Sia sepolcro immortal l’urna paterna                         249

al’una e l’altra spoglia insieme unita,

dove a neri caratteri si scerna

questa memoria in ogni età scolpita:

Arser delpari in una fiamma eterna

Calamo e Carpo e vissero una vita.

Ebbero alfin, né spense l’acqua il foco,

una morte commun, commune un loco».

Così dice e per gli occhi intanto versa                                   250

fiume ch’al fiume umor novello aggiunge,

poi tace e con la fronte ingiù conversa

traboccando dal margo al fondo giunge.

Riman la coppia misera sommersa,

felice in ciò, che pur si ricongiunge

e’nsieme ottien nel’ultimo sospiro

morte d’argento e tomba di zaffiro.

Lavaro col licor gelido e molle                                  251

il freddo corpo le sorelle meste.

Rifiutò’l peso il genitor, né volle

tra le sue ricettarlo onde funeste;

ma poiché vide alfine il garzon folle

da forza oppresso di destin celeste,

lo strinse in braccio e, con amaro lutto,

cangiò Calamo in canna e Carpo in frutto.

Or passare in silenzio io deggio forse                        252

di Leandro infelice il caso mesto,

loqual tanta pietate al’onde porse

che ne piangono ancora Abido e Sesto?

Spettacol mai più crudo il ciel non scorse

torto il mar non mai maggior di questo;

e bench’esser pietoso il mar non soglia,

l’uccise nondimen contro sua voglia.

Già di quel foco il garzonetto acceso                         253

che la face d’amor gli sparse in seno,

avea più giorni impaziente atteso

e l’ingordo desio tenuto a freno,

tra lunghe cure ad aspettar sospeso

che fusse il mar tranquillo, il ciel sereno,

per poter senza intoppo e senza impaccio

ricondursi nuotando ad Ero in braccio.

Ai suoi fervidi ardori erano d’Ero                             254

le bellezze oltrabelle esca soave,

onde spesso solea pronto e leggiero

fatto a sestesso e navigante e nave,

l’angustie attraversar di quel sentiero

che tra l’Asia e l’Europa è porta e chiave

e la sua donna a riveder veniva

sconosciuto e notturno al’altra riva.

Non sì veloce di difficil arco                          255

al bersaglio volando esce saetta,

barbaro giamailieve e scarco

dale mosse ala meta il corso affretta,

com’ei passando a nuoto il picciol varco

per tragittarsi ove’l suo cor l’aspetta,

vassene e prende ogni procella a gioco,

per mezzo l’acqua a ritrovare il foco.

Dolce gli è la fatica e la dimora,                                256

grata la notte ed importuno il giorno

e costretto a partirsi, odia l’aurora

che sollecita è troppo a far ritorno.

Partito apena poi di ciascun’ora

conta i momenti e gira gli occhi intorno,

tornar vorrebbe alla magion felice

e sospira l’indugio e tra sé dice:

«Son forse per gli sferici sentieri                                257

rotti i cerchi del ciel sempre rotante?

son del rettor del zoppi i destrieri?

chiodato è il carro suo lieve e volante?

Chi del vecchio che vanni ha sì leggeri,

chiuse ha tra ceppi le spedite piante?

Che fan l’ancelle sue rapide e preste

che non dan fretta al passaggier celeste?

Tu, che non men del tempo, Amor, hai l’ali                           258

e sei del sol vie più possente dio,

pungi i pigri corsier con gli aurei strali,

ch’ogni minuto è secolo al desio.

Pur ch’abbia fin coturbini infernali

questo divorzio e quest’essilio mio,

con far veloci i giorni e l’ore corte

bramo a mestesso accelerar la morte

Così languisce e sette volte il sole                             259

ne’ lidi iberi ha già tuffato il raggio

e, circondando la terrena mole,

altrettante è tornato al gran viaggio

daché piangendo il giovane si dole

contro il ciel, contro il mar del grave oltraggio,

che vede in nebbia e’n pioggia e’n fiamma e’n gelo

turbato il mare e nubiloso il cielo.

Preme la sponda e’nsu lo scoglio ascende                            260

che la vergin sommersa ancora infama,

la crudeltà del pelago riprende,

le stelle inique, iniqui i venti chiama

ed accusa Nettun che gli contende

la vista di colei che cotantama;

né potendo appagar gli occhi e i desiri

copensier la corteggia e cosospiri.

Tutto soletto insu la ripa assiso                                 261

vagheggia di lontan gli amati lidi

e, rivolgendo al’alta torre il viso,

comuggiti del mar confonde i gridi.

«Perché color, (dicea) che non diviso

congiunge Amor, Fortuna empia dividi?

Perché non lasci in sì leali amori

i corpi unir come s’uniro i cori?

Ben raccoglier devria sol una terra                            262

due alme che son anco una solalma.

Finir devria la procellosa guerra

e i travagli del mar compor la calma.

Chi mi vieta il passaggio? e chi mi serra

in parte onde nocchier legno non spalma?

Qual’invidia del ciel per intervallo

un muro tra noi posto ha di cristallo?

Che peggio far mi puoi? qual ria sventura                              263

fu giamai ch’agguagliasse il mio tormento?

Sì lungo tempo una procella dura

in un sì variabile elemento?

L’istabiltà del mar cangia natura,

perde per me sua leggerezza il vento.

Quelche non ebbe mai fermezza avante,

trovo sol per mio mal fatto costante.

Ahi, quando fia che tanta rabbia cessi                                   264

sich’io per queste ingorde onde fallaci

furtivo amante a depredar m’appressi

dela mia dea gli abbracciamenti e i baci?

Que’ baci, oimé, che far porian gl’istessi

numi celesti divenir rapaci;

ben degni ch’altri per dubbiosa strada

di dal mare a conquistargli vada.

Barbaro spirto, che di neve sparto                            265

del gelato Gelone i monti agghiacci

e qualor furiando esci del’arto

gonfi il mar, crolli il suolo e’l ciel minacci,

sola cagion perch’io di qua non parto,

soffio crudel, che dal mio ben mi scacci,

perché turbando questi ondosi regni

così cruccioso incontr’a me ti sdegni?

Ingrato invido vento, or che faresti,                           266

s’amor fusse al tuo core ignoto affetto?

non negherai ch’ancorché freddo, avesti

dela fiamma d’Atene acceso il petto.

Quando il bel foco tuo rapir volesti,

chi turbò la tua gioia e’l tuo diletto?

chi tra le dolci allor prede amorose

per mezzo l’aria al volo tuo s’oppose?

Deh! placa il tuo rigor, deh! prego, omai                               267

più moderato e mansueto spira.

Sostien ch’io vada e poi perché più mai

non possa indi partir, sfoga pur l’ira.

O se del mio dolor pietà non hai,

portami a quella onde’l mio cor sospira;

poscia di partendo ov’ella alberga,

fa pur che nel ritorno io mi sommerga».

Queste voci il meschin, pregando invano,                              268

sparge inutili al’aria e senza effetti,

perch’Austro sordo ed Aquilone insano

ne portan via, rimormorando, i detti.

Volumi d’onde per l’instabil piano

s’urtan l’un l’altro in minacciosi aspetti,

onde l’ali di Dedalo desia

per trattar l’aure ed accorciar la via.

Già l’Ellesponto e l’emisperio tutto                           269

copre la notte, orrenda oltre l’usanza.

Cresce l’ira di Borea e pur del flutto

l’implacabile orgoglio ognor s’avanza.

Egli allor più non vuol su’l lido asciutto

la speme trattener con la tardanza;

e, punto dalo stral che lo percote,

più sofferir quel differir non pote.

Lo stral, che’l cieco arcier nel cor gli aventa,                         270

gli è sprone al fianco, ond’a partir s’accinge.

Tre volte del gran gorgo i guadi tenta

e tre le spoglie si dispoglia e scinge;

tre volte poi nel’onda entrar paventa

e tre del’onda l’impeto respinge.

Così d’esporsi in dubbio al gran periglio,

non sa ne’ casi suoi prender consiglio.

Ma su la vetta intanto ecco ha veduta                                   271

la fiaccola d’amor ch’a sé l’invita,

onde rinfranca la virtù perduta

e nel rischio mortal la rende ardita.

In lei ferma lo sguardo e la saluta

come nunzia fedel dela sua vita

e, contemplando quella fiamma aurata,

così scioglie la lingua innamorata:

«Ecco ne vegno, o luminosa, o fida                           272

scorta a miei dolci errori, ecco ne vegno.

Non più temo il furor d’Euro omicida,

non più del crudo mar curo lo sdegno.

Tu sol per queste tenebre mi guida

mentre m’appresto ad ubbidire al segno,

seben mi favoreggia e mi conduce

altra stella, altra lampa ed altra luce.

Ancorch’io per la tua lucida traccia                           273

segua quel sol che solo è mio conforto,

son dal lume però dela sua faccia

più che dal tuo splendor per l’ombre scorto.

Gli occhi suoi sono il polo e le sue braccia

sono il mio dolce e desiato porto;

Arianna, Calisto, Elice, Arturo

non rischiarano tanto il cielo oscuro.

Non vanti no l’ambizioso Egitto                                274

il suo lucente e celebrato faro,

ch’assai più da naufragio il core afflitto

assecura quel raggio ardente e chiaro

e quantunque talor ne sia trafitto,

il languir m’è soave, il duol m’è caro.

Sarei con esso di passar ardito

l’onda di Flegetonte e di Cocito».

Tali accenti dogliosi ha sparsi apena,                         275

dispersi inun con le speranze a voto,

che tutto ignudo insu la molle arena

depon le vesti e s’apparecchia al nuoto;

e, dando spirto al cor, sforzo ala lena,

la fuga al corso ed ale membra il moto,

dove fanno i flutti aspra battaglia

con audacia infelice alfin si scaglia.

Sdegnasi forte il mio marito altero                             276

ch’ei lo disprezzi e tanto ardir gli spiace,

onde col re ch’ha sovra i venti impero

fa lega per punir l’insania audace:

loqual, disciolto il suo drappel guerriero,

per far guerra maggior fa seco pace,

e l’un e l’altro indomito tiranno

con congiura crudel s’arma a suo danno.

Noto ne vien dal’austro e’l sen di brine                                 277

carco, l’ali d’umor, d’orror la fronte

e stillante di piogge il mento e’l crine,

spezza le nubi e fa del cielo un fonte.

Vien dal nevoso e gelido confine

Borea di Scizia e fa del mare un monte,

indi il ragguaglia e i mobili cristalli

spiana in campagne, poi gli abbassa in valli.

Sorge da’ Nabatei contro costoro                            278

il torbidEuro e l’oriente scote

men superbo e rigido di loro

con orribil fragor l’onde percote.

Ma con più torvo aspetto il crudo Coro

leva dal’ocean gonfie le gote.

Piove tonando e folgorando fiocca

l’irsuta barba e la tremenda bocca.

Da tai nemici combattuto il mare,                              279

con tumido bollor rauco stridendo,

mar più non già, ma diventato pare

di caligini e d’urli inferno orrendo.

È nero il ciel, ma fiammeggianti e chiare

le saette ch’ognor scendon cadendo,

fanno per l’aria più che pece bruna

dele stelle l’ufficio e dela luna.

Nubi di foco gravide e di gelo,                                  280

portate a forza da feroci venti,

scoppiando partoriscono dal cielo

lampi sanguigni e fulmini serpenti

e mandan giù dal tenebroso velo

un diluvio di laghi e di torrenti.

Aver sembra ogni nube ed ogni nembo

i fiumi no, ma tutti i mari in grembo.

Per lo stretto canal che’n sì gran zuffa                                   281

incapace di sé, si frange e freme,

va brancolando e si contorce e sbuffa

il nuotator ch’al cominciar non teme.

In sestesso si libra, indi s’attuffa

e le braccia e le gambe agita insieme;

l’acque batte e ribatte e dala faccia,

col soffio e con la man, lunge le scaccia.

Serpe alo striscio, al volo augel somiglia,                               282

battello ai remi e corridore al morso.

Or l’ascelle agilmente a meraviglia

dilata e stende, or le ripiega al corso,

or sospeso l’andar, riposo piglia

e volge verso il mar supino il dorso,

or sorge e zappa il flutto ed anelante

rompe la via cocalci e con le piante.

Scorrendo va con smisurati balzi                               283

l’impetuose e formidabil onde,

la cui piena possente or fa che s’alzi

presso ale nubi, or tutto ingiù l’asconde.

Ei dele braccia ignude e de’ piè scalzi

con spesso dimenar l’ordin confonde

e, benché sia nel nuoto abile e destro,

non gli giova del’arte esser maestro.

Ben conosce il suo stato e sa che’n breve                             284

al petto lasso è per mancar la forza,

perché del salso umor gran copia beve

e’l vigor abbattuto invan rinforza.

Omai de’ membri a galla il peso greve

sostener più non val, seben si sforza,

e lo spirto languente il corpo infermo

move a gran pena e non può far più schermo.

Mentre che comarittimi furori                                 285

giostra e cerca al morir refugio e scampo,

l’alto fanal che tra gli ombrosi orrori

mostra il camin di quel volubil campo,

ratto sparisce e i vigilanti ardori

soffiato estingue del notturno lampo,

ond’ei smarrito e desperato e cieco

del suo fiero destin si lagna seco.

E di fiati rabbiosi ecco veloce                                   286

novo groppo l’assale e lo circonda

e’n un punto medesmo insu la foce

per lo mezzo si rompe un arco d’onda,

che soffogando il gemito e la voce,

dentro quel cupo baratro l’affonda.

Due volte a piombo il trae l’onda vorace,

sorge due volte ed ala terza giace.

Ma pria che’ntutto abbandonato e stanco                             287

tra que’ globi spumosi involto pera,

mentre mira il ciel buio e che vien manco

del’amato balcon l’aurea lumiera,

traendo pur del’affannato fianco

il debil grido, esprime umil preghiera

e manda fiochi e fievoli e dolenti

a te, madre d’Amor, questi lamenti:

«Diva, che nata sei di queste spume,                         288

deh raffrena il furor del’onde irate

e, poich’è spento il già cortese lume

ch’a quelle mi scorgea rive beate,

al suo svanir, del tuo benigno nume

e la luce supplisca e la pietade:

non voler consentir ch’uccidan l’acque

un servo di colei che di lor nacque.

Ma se’l mio duro fin scritto è nel fato,                                   289

se’n quest’onde morir pur mi conviene,

fa ch’almen sia’l cadavere portato

innanzi ala cagion dele mie pene;

a quel terren felice e fortunato,

a quelle dolci un tempo amiche arene,

onde mi dian col pianto alcun ristoro

quegli occhi per cui vissi e per cui moro».

Di quest’estremo dir languido e mozzo                                 290

incerto il suono ed indistinto udissi,

e sepolto con l’ultimo singhiozzo

restò nel mar che’nfin dal centro aprissi.

Il mare in vista spaventoso e sozzo

le fauci aprì de’ suoi cerulei abissi

e, spalancando la profonda gola,

il corpo tracannò con la parola.

Or chi può d’Ero sua narrar la doglia?                                  291

come strecciossi il crin stracciossi il volto,

quando dala finestra inver la soglia

lo sguardo al nuovo giorno ebbe rivolto

e vide ai rai del sol la fredda spoglia

del suo bel sole estinto ed insepolto?

Gittossi in mar la misera fanciulla

e sepoltura sua fu la tua culla.

D’amorosa pietà colmi i delfini                                  292

lo sventurato accompagnar fur visti.

I mergi, degli scogli cittadini,

con gridi il circondar flebili e tristi.

Gli fer l’essequie i popoli marini

di nereidi e tritoni uniti e misti,

ed io lo trasformai nel fior d’un’erba

che di Leandro ancora il nome serba.

Ahi ma perché non narro e dove lasso                                  293

d’Achille mio lo sfortunato fine?

L’istorie altrui racconto e taccio e passo

le mie proprie sventure e le ruine.

Scoglioduro e di sì rozzo sasso

non ricettano in sen l’onde marine

che, quando ebb’io quel mesto annunzio udito,

non si fusse a’ miei pianti intenerito.

Tutti voi vi lagnate afflitti dei,                         294

tanto d’un van piacer può la membranza;

se pianger voless’io quanto devrei,

com’avrian mai quest’occhi acque a bastanza?

Tanto han vantaggio ai vostri i dolor miei,

quanto natura ha più ch’amor possanza,

perch’al’amor con cui s’amano i figli,

amor altro non è che s’assomigli.

Giove il gran padre tuo, madre d’Amore,                             295

ebbe un tempo di me l’anima accesa,

ma del destino udito il fier tenore

e dele Parche la sentenza intesa,

perché figlio di lui molto maggiore

generarne temea, lasciò l’impresa,

e così Peleo a cotai nozze eletto,

principe di Tessaglia, ebbe il mio letto.

Tra molti miei di qualità mortale                                296

simili al genitor pegni produtti,

che’n vece di purgar la parte frale

restar dal foco in cenere distrutti,

l’ultimo che campò l’incendio e’l male

fu più vago e gentil degli altri tutti;

di crin dorato e d’una tal bellezza

che nel’aria feroce avea dolcezza.

Ma l’oracol di Temi, il cui consiglio                           297

è decreto fatal, m’atterrì forte.

Predisse ch’onor sommo a questo figlio

e somma gloria promettea la sorte,

ma che sul fior degli anni alto periglio

gli minacciava a tradigion la morte

pugnando in guerra, e di cotal tenzone

devea beltà di donna esser cagione.

Io per assecurar l’amato infante                                298

e da spade e da lance e da saette,

nel’onda l’attuffai che fiammeggiante

le rive innaffia al gran Pluton soggette;

e quivi, senon sol sotto le piante,

ch’io tenni per le man sospese e strette,

del corpo in guisa gli affatai le tempre

ch’ei ne fu poscia impenetrabil sempre.

Ciò fatto, io lo condussi al buon Chirone                              299

che di Filira nacque e di Saturno,

colui ch’or fregia al’orrida stagione

di sette e sette stelle il ciel notturno.

Or questi ad allevar prese il garzone

in solitario albergo e taciturno,

dove Pelio di tremende belve

le sue spelonche ombrose empie e le selve.

Né d’alimento dilicato e molle                                  300

nutrillo in languidozio e’n vil piacere;

latte di rigidorse, aspre midolle

di leoni il pasceano e d’altre fere.

Effeminarlo in quell’età non volle

tra delizie soavi e lusinghiere,

ma gli facea per la montagna alpestra

spedire il piede, essercitar la destra.

Or levretta, or cerbiatto, or cavriolo                         301

gl’insegnava a pigliar per la foresta

e quando il mio magnanimo figliolo

ne riportava o quella preda o questa,

il fido suo governator non solo

il ricevea con allegrezza e festa,

ma con gran lodi ed accoglienze amiche

il premio gli porgea dele fatiche.

Di miel, di poma o pur d’uva matura                         302

gli apprestava al ritorno il grembo pieno

e, per farglisi egual nela statura,

le ginocchia piegava insu’l terreno

e chino e basso con paterna cura

queste cose gli offria dentro il suo seno;

e’l giovane prendea standogli alpari

dal cortese custode i doni cari.

Ma se talor per caso in lui scorgea                            303

immodesto costume, atto villano,

severissimamente il correggea

col ciglio, con la lingua e con la mano.

Ed ei, terror de’ gran guerrier, temea

del vecchio inerme un cenno, un guardo estrano

e quella destra, che poi vinse Ettorre,

ala verga temuta iva a supporre.

Oltre il cacciar, nel’armonia sonora                           304

il discreto centauro ivi l’instrusse.

Dele piante e de’ semplici talora

a dimostrargli la virtù s’indusse.

Volse ala scherma ammaestrarlo ancora

acchiocchesperto in armeggiar poi fusse;

spesso fattol montar sul proprio dorso,

l’addestrava al maneggio e spesso al corso.

Mentre sotto tal guardia e’n tale scola                                  305

l’alto fanciul la disciplina apprende,

la temeraria vela ecco che vola

e’l mio liquido sen per mezzo fende;

ecco Paride tuo ch’ad Argo invola

la bella, ond’Ilio alte ruine attende,

dico colei che fu già da testessa

del’aureo pomo in premio a lui promessa.

Tornommi allora il gran presagio a mente,                             306

onde volsi impedir che non venisse;

e Proteo il confermò, ché parimente,

quando il vide passar, gran mal predisse.

Tor dunque l’esca a quell’incendio ardente

e l’origin troncar di tante risse

che rapir mi devean l’unica prole,

io m’ingegnai con opre e con parole.

Vommene ratto ove’l mio sposo alberga                               307

e’l prendo a supplicar che mi conceda

ch’io quel navilio in mar rompa e disperga,

usurpator dela mal tolta preda,

e che col falso adultero sommerga

la rea del bianco augel figlia e di Leda,

ma sì duro ritrovo il molle Dio,

ch’essaudir nega intutto il pregar mio.

Poscia ch’io son dal re del’acque esclusa                             308

che violar non può la legge eterna,

né vuole al fato opporsi e gir ricusa

contro l’alto motor che’l ciel governa,

torno, sotto color di nova scusa,

del tessalico monte ala caverna;

quindi a Chirone il caro allievo io tolgo

e poi subito a Sciro il piè rivolgo.

Al re di Sciro il diedi e sotto panni                            309

finti nascosto di real donzella,

il pargoletto eroe passò qualch’anni

in compagnia di Deidamia la bella,

a cui scoprendo poi gli occulti inganni

che la froda chiudea dela gonnella,

per certezza del ver seco si giacque,

onde il famoso Pirro al mondo nacque.

La tromba intanto del troiano Marte                         310

suona pertutto e l’universo fiede

e’l giovane fatal van con grand’arte

cercando intorno Ulisse e Diomede;

e poich’investigata hanno ogni parte,

giungon ala magion di Licomede.

Quivi presentan poi diversi doni

al’ancelle di corte i duo baroni.

La turba dele vergini le voglie                                   311

volge de’ bassi oggetti al’esca vile

e qual cembalo, o tirso, o qual si toglie

gemmato cinto o lucido monile;

Pelide sol celato in altre spoglie

dissimular non può l’esser virile

e, disprezzando ciò ch’a donna aggrada,

tosto al’elmo s’aventa ed ala spada.

L’astuto esplorator che’l ferro terso                          312

avea tra gli altri arnesi a studio posto,

con un scaltro sorriso a lui converso,

del mentito vestir s’accorse tosto;

onde di quella larva il vel disperso,

l’abito feminile alfin deposto,

incitato ad armarsi, al campo greco

con faconde ragioni il trasse seco.

L’alte prodezze sue, l’opre lodate,                            313

di cui la fama infin al ciel rimbomba,

taccio, perché saranno in altra etate

nobil suggetto ala meonia tromba;

onde del’ossa illustri ed onorate

solo il mirar la gloriosa tomba

invidi farà poi di tanti pregi

stupire i duci e sospirare i regi.

Que’ valorosi e generosi gesti,                                  314

materia degna di sì chiari carmi,

sicome a tutti voi già manifesti,

d’ingrandir con encomi uopo non parmi.

Testimoni chiam’io, numi celesti,

voistessi sol di quant’ei nel’armi

poich’alcun, che presente or qui m’ascolta,

in quell’assedio ancor sudò talvolta.

Sasselo il mio Nettun che l’alte mura                         315

penò molto a guardar ch’ei prima eresse.

Apollo nostro il sa, che con sciagura

di contagio mortal gli Argivi oppresse.

E’l sai ben tu, che spesso di paura

tremasti già ch’Enea non uccidesse;

né quella guerra fu men dele stille

sparsa del sangue tuo che del mio Achille.

L’ingiustissima offesa io non ridico,                           316

né voglio altrui rimproverar quel torto,

con quanta fellonia dal fier nemico,

con qual perfido aiuto ei mi fu morto

per non crescer novodio al’odio antico,

dove il mio intento è di recar conforto.

Non so però da quale invidia mossa,

l’ira in petto divin cotanto possa.

De’ corsieri immortali altero tanto                             317

nulla gli valse il governar le briglie.

Non gli giovò d’aver tra gli altri vanto

d’unico operator di meraviglie,

né che l’onde per lui Scamandro e Xanto

portasser del troian sangue vermiglie,

impediti a passar nel’oceano

da’ corpi uccisi sol per la sua mano.

Dopo l’aver lasciata al campo acheo                        318

del’amato Patroclo alta vendetta,

quando a Briseida sua, dolce trofeo

di sudor tanti, esser congiunto aspetta,

ecco uscir d’arco dispietato e reo

avelenata e barbara saetta,

che mentr’ei stassi inginocchion nel tempio

colpo in lui scocca insidioso ed empio.

In quella parte inferior del piede,                               319

che nel suolo stampar suol le vestigia,

quella ch’ai ferri, ale ferite cede

perché tocca non è dal’acqua stigia,

l’assal di furto e di lontano il fiede

con stral pungente il rio pastor di Frigia,

lassa! e veder mi fa spenta e sparita

la mia speranza inun con la sua vita.

E veggio a un tempo la vermiglia vesta                                  320

d’orribil ostro e sanguinoso immonda,

quella, che di mia man fu già contesta

dele più fine porpore del’onda,

la guancia impallidir, cader la testa,

per la polve strisciar la chioma bionda

begli occhi languir, cui gelidombra

di mortal nebbia eternamente ingombra.

O splendor de’ Pelasghi, o del troiano                                  321

valor flagello e del’orgoglio ostile,

s’era ne’ fati che cader per mano

devessi effeminata e non virile,

per mano, oimé! di tal che di lontano

valse solo a ferir la plebe vile,

quanto miglior almeno il morir t’era

ucciso dal’amazzona guerriera?

Soverchio è raccontar l’angosce interne                                322

onde in quel punto addolorata io fui;

oltre ch’a dir le lagrime materne

così facil non è come l’altrui.

Ben per queste d’umor fontane eterne

tutto il mar distillar deggio per lui

e per lui giusto è ben che tanto io pianga

che nulla in lor d’umidità rimanga.

Devrei quanti ricetta entro il suo seno                                   323

il profondo ocean torrenti e fiumi,

tutti ne’ tristi miei raccorre apieno

già dela cara luce orbati lumi;

so come disciolto al’onde il freno,

tra tempeste di duol non mi consumi,

e quante ha perle in conche ogni sua riva

non distempri per essi in pioggia viva.

Ma che giovar poriano i pianti amari,                        324

s’irrevocabil perdita è la mia?

Nel mal ch’è certo e che non ha ripari,

il non cercar rimedio il meglio fia.

Tra brutto e bel, tra nobili e vulgari

differenza non fa la falce ria.

Tronca il fil del pastore e del monarca

col ferro istesso una medesma parca.

Strana legge di fato e di natura,                                 325

che del’umane tempre il fragil misto

congiunta abbia al natal la sepoltura

e svanisca qual fiore apena visto.

Pur col novanno il fiore e la verdura

dele bellezze sue fa novo acquisto;

ma l’uom poiché la vita un tratto perde,

non rinasce più mai, né si rinverde. –

Così Teti ragiona e la dea bella                                 326

le dolci stille, onde le guance asperge,

poiché vede ch’alcun più non favella,

con un candido vel s’asciuga e terge;

indi il bel volto e l’una e l’altra stella,

che tenea chine al suol, solleva ed erge

ed ala voce inferma ed impedita

da sospir, da singulti, apre l’uscita:

Dolci gli essempi e dolci e belle invero                               327

son le ragion (diss’ella), alme immortali,

con cui cercate agevole e leggiero

rendermi il fascio di sì gravi mali.

Ma di temprar in vece il dolor fiero,

voi l’inasprite con pungenti strali,

che’l rimembrar de’ vostri antichi danni

raddoppia forza ai miei presenti affanni.

Lassa, non più del ciel chiaro pianeta,                                   328

non più son io d’Amor madre gioconda,

non sarò più la dea ridente e lieta

ma di doglie e di pianti idra feconda.

Questo mio cinto, ch’ogni sdegno acqueta,

vo’ che si cangi in vipera iraconda.

Vo’ che di rose in vece il biondo crine

mi vengano a cerchiar triboli e spine.

Diverranno i bei mirti, i vaghi fiori                              329

neri cipressi omai, stecchi pungenti.

Le Grazie amorosette e i grati Amori,

Furie crudeli ed orridi serpenti.

Cornici infauste e nunzie di dolori,

le semplici colombe ed innocenti.

Simile ai corvi vestirà ciascuno

de’ miei candidi cigni abito bruno.

Deh! perché dala man di Radamanto                        330

ricomprar non poss’io l’amato amore?

Che’l core e l’alma io pagherei col pianto

quando non fusser suoi l’anima e’l core.

Perché non pote almeno impetrar tanto

dal destin rigoroso il mio dolore?

ché, se’n terra tra fior giace il bel velo,

tra le stelle lo spirto abiti in cielo?

Ah che mentr’ei laggiù langue in martiri,                                331

io non godrò lassù diletto interno.

Saran fiamme tartaree i miei sospiri,

la mia misera vita un vero inferno.

Fia Flegetonte il foco de’ desiri,

sarà Cocito il mio gran pianto eterno

e perché’n questo abisso io mi consumi

mancherà Lete sol tra gli altri fiumi.

No no, non fia giamai ch’onda d’oblio                                  332

spenga fiammabella e sì gradita,

lascerò con tutto il dolor mio

d’adorarla sepolta e’ncenerita.

E poiché’l ciel non vole e non poss’io

risuscitarlo e rendergli la vita,

col rogo e col sepolcro almen sia giusto

consolar l’ombra ed onorare il busto.

Non può, qualora avien che morte sciolga                            333

il vital nodo agli uomini infelici,

mostrar maggior d’amor segno e di doglia

la vera de’ più perfetti amici,

ch’accompagnando la caduca spoglia

con sacre pompe e con pietosi uffici,

con l’onor del’essequie e dela fossa

dar quiete alo spirto, albergo al’ossa.

Peso dunque di voi sarà ben degno                           334

meco impiegarvi a fabricar l’avello

e tal sia dela fabrica il disegno

qual conviensi a coprir corpobello;

e poiché la man vostra e’l vostro ingegno

data avrà questa gloria alo scarpello,

con pomposo apparato a lento passo

visitar meco il fortunato sasso. –

Tace ciò detto e serz’altra dimora                             335

al’opra egregia alto principio dassi.

Prende a toccar le dolci corde allora

Apollo e sforza a seguitarlo i sassi,

che tratti già dal’armonia sonora,

danno spirito al moto e moto ai passi;

corron veloci ala divina cetra

la frigia selce e l’africana pietra,

e di Sparta e di Paro il marmo corre.                        336

O miracol di suon, forza di versi,

onde si vede in un balen raccorre

gran quantità di porfidi diversi

e, mentre viensi il cumulo a comporre,

s’incominciano a far politi e tersi.

Già cento fabri a prova e cento mastri

segan diaspri, affinano alabastri.

Mercurio allor dala seconda sfera                             337

per dar effetto a’ suoi pensier leggiadri,

del’Arti belle vi menò la schiera,

del’Industria gentil nutrici e madri.

Vennevi ancor del ciel l’alta ingegnera,

de’ modelli maestra e degli squadri,

Pallade dico; ad oprasollenne

da Mercurio chiamata, anch’ella venne.

Taccian di Caria i celebri obelischi,                           338

cedan di Menfi altera i monumenti,

che ne’ secoli antichi ai regi prischi

per memoria drizzar barbare genti.

Di color verdi e rossi, azzurri e mischi

varie son le gemme e sì lucenti,

tai son del’artificio i bei lavori

che rendon grati i funerali orrori.

Sovr’otto alte colonne e sotto un cerchio                              339

ripiegato in mezz’arco, un’arca giace,

che la statua d’Amor tien nel coverchio

piangente e’n atto d’ammorzar la face.

Nulla di scarso e nulla ha di soverchio

per esser d’un cadavere capace;

ed è di pietra lucida ma bruna,

semplice, schietta e senza macchia alcuna.

Di qua di la machina funesta                                  340

ha d’una e d’altra parte un nicchio voto.

La Morte in quella e la Fortuna in questa

scolpite son, ch’aver sembrano il moto.

Nel’altro spazio inferior che resta

altri duo n’ha; nel’uno espressa è Cloto,

Cloto che piagne e l’orride sorelle

par che’n troncando un fil, piangano anch’elle.

Dincontro a queste havvi le Grazie incise,                             341

che volte a risguardar le dee crudeli,

dale vedove chiome al suol recise

straccian, dolenti, le ghirlande e i veli.

Lo scultor che l’ha finte in cotai guise,

fa che ciascuna pianga e si quereli

e per farle spirar dona e comparte

del’istessa Natura il fiato al’Arte.

Vago festone ale cornici altere                                  342

tesse serpendo intorno intorno un fregio

e v’ha di cani sculti e v’ha di fere,

di dardi e lasse un magistero egregio.

In cima al’arco Adon si può vedere

sovraureo trono e di mirabil pregio;

una gloria d’Amori alto il sostenta

ed al vivo l’effigie il rappresenta.

Posa il piè nela base e dele braccia                           343

curvo insu l’anca l’un tien la figura,

l’altro appoggia alo spiedo ed ha da caccia

l’arco ala spalla, il corno ala cintura.

E ben tal nel sembiante e nela faccia

del gentil simulacro è la scultura

che, dal parlar in fore, ond’egli è privo,

nulla quasi ha del finto e tutto è vivo.

Presso ala pianta, apiè del’alta cassa,                                   344

tutto del bel garzone in doppio ovato

di mezzo intaglio e di scultura bassa

il natal con la morte è rilevato.

Quinci Mirra si vede afflitta e lassa

frondoso divenir legno odorato

e dopo lungo affanno alfin sofferto

il fanciullo sbucciar dal tronco aperto.

Quindi si mira il fior d’ogni beltade                            345

quando dal fier cinghial morto rimane

e come dale zanne aspre e spietate

ucciso resta ancor l’amato cane.

Né del’istesso can l’ossa onorate

hanno molto a giacer da lui lontano,

ch’a piè di quel, ch’è sacro al suo signore,

ottiene anch’egli un tumulo minore.

In cotal forma illustremente adorno                           346

dela gran tomba è il bel lavor scolpito

e’l drappello del ciel la notte e’l giorno

travaglia accioche’n breve ei sia compito.

Ammaestra i maestri e cura intorno

che sia l’ordin divin ben esseguito

con l’artefice dotto di Cillene

l’architettrice vergine d’Atene.

Prima che dale man celesti e sante                            347

fusse in colmo fornita oprabella,

nove volte lucifero in levante

precorse al gran camin l’alba novella

e mutato destriero anco altrettante

guidò notturno la più bassa stella.

Comparso il nono sol, comparve intutto

l’edificio superbo apien costrutto.

Nel’ultimo mattin di tutti i nove                                 348

per celebrar l’essequie al caro estinto,

la figliuola mestissima di Giove

sorge col crin confuso e’l sen discinto

e con gli amici dei vassene dove

giace ancora il suo ben di sangue tinto,

ed ha l’urne degli occhi omai sì vote,

che geme sì, ma lagrimar non pote.

Come di pietra alabastrina e tersa                             349

statua gentil, che liquidi tesori

di vivo argento in vaga conca versa,

s’avien ch’adusta sia da fieri ardori

o che sieno talor da man perversa

rotti i canali ai cristallini umori,

seccasi e nega al’orticel che langue,

tronca le vene, il suo ceruleo sangue,

così costei, che’n caldo umor la vita                          350

benché immortale, ha distillata tutta,

non piagne più, ma resta instupidita,

nel’eccesso del duol fontana asciutta,

onde la bella guancia impallidita

discolora i suoi fior, quasi distrutta.

Non però già, sebene il pianto manca,

d’addolorarla il suo dolor si stanca.

Or perché’l corpo del garzon defunto                                   351

fin ne’ più chiusi penetrali interni

già tutto olezza imbalsamato ed unto

de’ preziosi aromati materni,

mentr’al mortorio in un medesmo punto

apparecchian la pompa i numi eterni,

con la ruina dela selva impone

la pira accumularsi al morto Adone.

Vansi a troncar dela foresta annosa                          352

le piante già per lunga età vetuste.

Cominciasi a sfrondar la chioma ombrosa,

tremano le radici aspre e robuste.

Scote la vecchia rovere nodosa

di rozze ghiande le gran braccia onuste

e percossa dal ferro e dala mano,

si distacca dal ceppo e cade al piano.

L’elce superba e’l platano sublime                            353

trabocca e’l faggio verde e l’orno nero;

inchina il dritto abete al suol le cime

e precipita a terra il pino altero;

ala scure, che’l fiede e che l’opprime,

cede abbattuto il frassino guerriero

e corron col mortifero cipresso

anco il cedro e l’alloro un fato istesso.

Fuggon le fere da’ covili usati,                                  354

abbandonan gli augei timidi i nidi;

abbracciano partendo i tronchi amati

le ninfe allieve con lamenti e stridi

ed ululando i satiri scacciati

lasciano a forza i lor ricovri fidi,

si straccia Pale i crin lunghi e canuti

e piagne il buon Silvan gli ozi perduti.

Geme la terra intorno e’l bosco ch’era                                  355

ricco dianzi di verdure e d’ombre,

impoverito di sua pompa altera,

concede altrui le vie libere e sgombre,

e rischiarando la caligin nera,

orché raro arboscello ha che l’adombre,

senza invidia del prato e fuor del’uso

scopre agli occhi del sole il grembo chiuso.

Intanto pria ch’a sepelir si porti,                                356

il letto si compon lugubre e mesto.

L’infima parte ha sovra rami attorti

di verdi strami un piumacciuol contesto.

Di sovra tien de’ più bei fior degli orti

molle orditura il talamo funesto.

L’ordin supremo è poi di gemme e d’ori

e di glebe d’incenso e d’altri odori.

La coltra che’l ricopre è così grande,                                    357

che’ntorno giù dal letticciuol trabocca

e da capo e da piedi e dale bande

con le falde cadenti il terren tocca,

e d’un bruno broccato, il qual si spande

sovra tela d’argento e si disfiocca,

e d’un fregio di perle ad or commiste

riccamato ha il gran lembo a quattro liste.

Son del’istesso i morbidi origlieri,                             358

dove il morto fanciul la testa appoggia,

han pur di fosca seta i fiocchi neri

e son trapunti ala medesma foggia.

Sparsa insu’l volto i faretrati arcieri

gli hanno di rose una vermiglia pioggia

e gli ha la piaga del costato orrenda

fasciata Amor con la sua propria benda.

Ed ecco il rame giù curvo, forato                              359

con lugubre muggito alto risona

e che’ncominci l’ordine schierato

del’essequie a partirsi il segno dona;

primiero il vecchio Astreo vien col senato

tra i ministri maggior dela corona;

e tra costor Sidonio armato viene

e con Dorisbe in nera veste Argene.

Sei quadriglie d’araldi e di trombetti                          360

ivano innanzi al’orrido feretro,

a cui di cavalier fra gli altri eletti,

due lunghe file poi ne venian dietro.

Quei sovra ubini e questi insu giannetti

di pel conforme al’armi oscuro e tetro

e rauchi e fiochi e languidi e soavi

sospiravano i fiati ai bronzi cavi.

In alicorni a leggier morso avinti                                361

ben cento coppie in armeggiar maestre,

con poppe ignude ed abiti succinti

d’amazzoni seguian la turba equestre;

non già dardi dorati, archi dipinti,

ma brunite zagaglie arman le destre,

le fosche chiome innanellate al’aure,

vergini brune e giovinette maure.

Bianche altrettante poi seguon le negre                                 362

a suon di sordi timpani e taballi,

piene d’incenso in testa han conche integre

ed urne in man di limpidi cristalli;

veston gonne sguernite e poco allegre

e son cervi frenati i lor cavalli,

di gramaglie coverti ed ogni corno

d’aride fronde e scolorite adorno.

Succedean dela corte di Canopo,                             363

attraversati di sanguigna banda,

gli scudieri davante, i paggi dopo,

e di notturni fior cingean ghirlanda

di quel color che’l torrido etiopo

dala fervida zona a noi gli manda.

Cotte avean di cottone ala moresca

tutti di pari età giovane e fresca.

Purpureo carro alfin, ch’a biga a biga                                   364

su rote d’oro e d’ebeno conteste

traean venti elefanti in doppia riga,

le due donne portava afflitte e meste.

Sovrasiede a ciascuno un nano auriga

e su’l capo ha ciascun piume funeste,

umidi gli occhi e pallidi i sembianti

e tenebrosi e lagrimosi i manti.

L’illustrator degl’intelletti saggi,                                 365

l’eterno tesorier del’aurea luce,

senza fronde ale tempie e senza raggi

succede a questi e’l popol suo conduce.

Cingonlo quinci e quindi ancelle e paggi

come signor d’ogni altro lume e duce.

Le Stagioni coMesi, il Tempo e l’Anno

e la Notte col dietro gli vanno.

Su la mole portatile d’un monte                                366

vien quei che’n Delo e’n Delfo ha la sua reggia

e di bei lauri insu la doppia fronte

di quel finto Parnaso ombra verdeggia.

Quivi per arte è fabricato un fonte,

loqual d’argento e di cristallo ondeggia;

e presso l’onde assai simile al vero

v’ha di rilievo il volator destriero.

Non consentì la Poesia che fusse                              367

priva di lei la compagnia sollenne,

e tutta seco la famiglia addusse

fuor la Comedia sol che non vi venne;

e tutti neri gli abiti costrusse,

i cigni istessi nere ebber le penne,

le bianche penne copurpurei rostri

tutte eran tinte de’ più puri inchiostri.

Con occhi molli e languidi e dimessi                          368

le Muse afflitte e con turbata faccia,

cinte il crin di mortelle e di cipressi,

una gran lira d’or tirano a braccia.

Seguon d’absinzio incoronati anch’essi

cento poeti la medesma traccia

e di dogliose e querule elegie

fanno pertutto risonar le vie.

Mercurio col drappel delo dio biondo                                  369

volse ch’anco il suo stuolo unito andasse,

e’n simil modo un numero facondo

d’altrettanti oratori in schiera trasse

e vi raccolse di quant’Arti ha il mondo

liberali e meccaniche ogni classe,

che di Minerva con ossequio sacro

precedeano e seguiano il simulacro.

L’imago ancor, qual l’adorò già Roma,                                 370

tra mille palme di smeraldo e d’oro

v’era dela Virtù, cinta la chioma

di verde oliva e d’immortale alloro.

Reggeano altre insu’l tergo immensa soma

un caduceo di sovruman lavoro,

tutto d’argento smisurato ed alto,

salvo le serpi sol ch’eran di smalto.

Dopo costor, con lo squadron di Teti                                   371

tabernacoli argentei e cristallini

portano statue orribili di ceti,

foche, pistri, balene, orche e delfini

e, chiusi in grosse gabbie e’n doppie reti,

gran capidogli e gran vecchi marini.

Havvi rosmari ignoti agli occhi nostri,

ippopotami immensi ed altri mostri.

Da volubili ordigni indi son tratte                               372

per meraviglia d’ineffabil arte

navi e galee con somma industria fatte

che le vele han d’argento e d’or le sarte.

Ignude il sen più candido che latte,

vengon nereidi con le trecce sparte,

e vibran con le man lucide e bianche

arbori di corallo a cento branche.

La dea del mar tra ninfe e tra garzoni                        373

sovra un carro di chiocciole procede,

quei forma han di sirene e di tritoni,

questa ha di verde limo algosa sede;

e van facendo strepitosi suoni

mentre, con lento andar, muovono il piede

e tra battute e ribattute conche

fan le voci languir tremule e tronche.

Segue colei che’l dono altrui dispensa                                   374

con larga man dele granite ariste.

Van di spiche dorate in copia immensa

spargendo nembi le sue ninfe triste.

Conducon parte in spaziosa mensa

varie vivande accumulate e miste;

quanto apporta la terra e l’aria e’l mare,

quanto il foco condisce, entro v’appare.

Reca del’abondanza il fertil corno                             375

un’altra parte e di fin or costrutto

ch’ha di biade mature il grembo adorno

e di semi fecondi è colmo tutto.

Squadra gli va di contadini intorno

con armi proprie a coltivar quel frutto,

vomeri e zappe e falci e cribri e pale,

con quanto dela messe al’opra vale.

Accompagnan di Cerere gli adusti                            376

dal sol ardente e rustici cultori

i custodi de’ prati e degli arbusti,

Pomona con Vertun, Zefir con Clori;

ed han canestri d’auree poma onusti

e versan pieni calati di fiori;

ed a queste ed a quelli il crin circonda

di Ciparisso la funerea fronda.

Trae poscia del licor che brilla e fuma                                   377

la gente sua lo dio giocondo e fresco;

giovani scelti di novella piuma

portano avante la credenza e’l desco;

ciascuno ha in man d’un bel rubin che spuma

vasel d’oro distinto e d’arabesco;

e per tutto il camino a quando a quando

vanno a prova bevendo e propinando.

Di verde mitra adorno havvi Filisco,                          378

sacerdote di Libero e poeta,

con tutto quello stuol che’l secol prisco

appellò Mimallonide e Maceta.

Qual di smilace il crin, qual di lentisco

cerchia, deposta ogni sembianza lieta;

e van tutti vibrando orribilmente

chi coltello, chi tirso e chi serpente.

Un plaustro a quattro ruote e sì leggiadre                              379

ch’invidia fanno al carro del’Aurora,

Nisa conduce in mezzo a queste squadre,

nutrice di colui che Tebe adora;

e’l letto genial dove la madre

giacque col gran motor, conduce ancora

e del medesmo la corona porta

di viti e d’edre in bianche fasce attorta.

Cinquanta dopo questa ebri sileni                             380

sovrasinelli mansueti e pigri

cantando tuttavia versi epileni,

gran cuoia gonfie in braccio hanno di tigri

e versando ne’ calici che pieni

tengono in man di bianchi umori e nigri,

dagli otri il vin, che si diffonde e cade,

di dolci stille ingemmano le strade.

Sovra un bel soglio d’or preme Lieo                         381

la fera ch’idolatra è dela luna.

Laconico è il vestir d’ostro eritreo,

il cui vermiglio la viola imbruna.

Intagliata nel seggio è di Penteo

la dolorosa e tragica fortuna.

Un satirin, che siede a piè del trono,

gonfia un corno caprin con rauco suono.

Piangendo anch’ei del genitor Dionigi,                                  382

cinto di menta il gran capo vermiglio,

senza la falce in man, segue i vestigi

il suo barbuto, il suo membruto figlio.

Cavalca un animal pur di que’ bigi

con lunghe orecchie e tien dimesso il ciglio,

va con le vene al collo enfiate e grosse,

col naso acceso e con le luci rosse.

Tinti d’ebuli e mori i volti informi,                              383

dopo’l cultor degli orti lampsacei

armenti di bicorni e di biformi,

gregge di semicapri e semidei,

satiri, fauni ed altri a lor conformi

numi esclusi dal ciel rozzi e plebei,

sospingon, da cent’argani tirato,

un immenso colosso e smisurato.

Forma ha d’immenso e giganteo colosso                              384

d’oricalco dorato un itifallo,

cento cubiti lungo e venti grosso

sì che stride, al gran peso, il piedestallo,

e nel mezzo del vertice che rosso

innestato il rubino ha su’l metallo,

chiara scintillar stella si scorge

che lucifero par quando in ciel sorge.

Non vide Roma infra le sue colonne                          385

mai miracolo egual piantato e dritto,

né tra quante più vaste edificonne

piramide maggior celebra Egitto.

Va dele verginelle e dele donne

di Citera e di Gnido il coro afflitto

e, cantando per via meste canzoni,

l’incorona di serti e di festoni.

Passò poi dela dea che’n Cipro impera                                386

tutto il corteggio e con diversi incarchi;

di cento sagittari armata schiera

veniva innanzi con turcassi ed archi,

di brocchieri lunati ala leggiera

e di lievi loriche adorni e carchi,

senz’elmi in testa e con corone aurate

e l’armi erano azzurre e d’or fregiate.

Secondavano i primi anco altri cento                         387

gravi le destre di spadoni e d’azze,

ch’avean di puro e ben forbito argento

le celate, le targhe e le corazze.

Seguiva alfin per terzo un reggimento

d’aste ferrate e di ferrate mazze

e vario di color dal’altre truppe

neri gli arnesi avea, nere le giuppe.

Al tergo di costor cento arieti                                   388

con cento tauri di color simili

moveano il passo tardi e mansueti

con teste chine e con cervici umili.

Aveano indosso serici tapeti,

aurei frontali intorno, aurei monili,

d’appio secco le corna inghirlandati

e di vermiglio vel gli occhi bendati.

I sacerdoti ancor son altrettanti                                 389

di coltella forniti e di securi,

con cui, di forma e d’abito eleganti

cento donzelli, ch’hanno i volti oscuri,

spiche di nardo, foglie d’amaranti

e calami di casia eletti e puri

portan con lento piè premendo il calle

dentro vasi gemmati insu le spalle.

Fanciulle arrecan poi candide e bionde                                 390

di lagrime di mirra altre vasella

e sostien del licor, ch’entro s’asconde,

mille dramme di peso ogni donzella.

E non men che i primier, son le seconde

guernite di livrea splendida e bella;

vermiglia han quelli infin a’ piè la veste,

scorciate in bianca tunica van queste.

Un’altra legion pur di pedoni                         391

segue, e son tutti inermi e tutti astati.

Qui Nubi e Garamanti e Nasamoni,

ed altri negri in Etiopia nati

van con denti d’avorio e con tronconi

d’ebano in man, di porpora addobbati.

Vibran molti di lor ricchi incensieri,

molti sostengon d’or lampe e doppieri.

Seben non venne a que’ pomposi uffici,                                392

per le note cagion, la Dea di Cinto,

non però cacciatori e cacciatrici

lasciaro già d’accompagnar l’estinto.

Chi trae per man dale rifee pendici

pardo leggiadro a ricca corda avinto;

chi dale rupi dela caspia foce

tigre o pantera indomita e feroce.

Chi fier leon dal’africana arena,                                393

chi superbo cervier dal bosco trace,

chi l’orso bianco di Russia vi mena,

chi di Scizia il crudel grifo rapace.

Chi d’Ircania o d’Epiro ala catena

conduce alano altier, molosso audace,

chi con bracco o levrier tratto ala lassa

odi Caria o di Creta in mostra passa.

Havvi di falconieri altri drapelli                                  394

con giraffe e cameli e dromedari,

ch’entro eburnee prigion some d’augelli

portan su’l dorso peregrini e rari,

quanti l’indico ciel n’abbia più belli;

tutti di piuma differenti e vari

e volar d’or in or ne lascian molti

sol copiedi legati, il resto sciolti.

Ecco la bara alfin, che ben composte                                    395

con vari emblemi intorno ha varie imprese

e d’armati guerrier tiene ale coste

di qua di due maniche distese

e con mirabil ordine disposte

lumiere illustri in ogni parte accese

e de’ torchi lucenti anco la cera

simile in tutto al paramento, è nera.

Le ninfe di Ciprigna e le donzelle                              396

circondan quinci e quindi il cadaletto

e sostengon tra via le braccia belle,

ch’accennan di cader, del giovinetto.

Havvi anco altri valletti ed altre ancelle

che, dolenti nel core e nell’aspetto,

la cuccia, de’ bei membri orrido albergo,

peso dolce e leggier, portan su’l tergo.

Ultima a tutti, in neri panni avolta,                             397

Venere bella il funeral conchiude

e, con viso graffiato e chioma sciolta,

dele stelle si lagna invide e crude,

battendosi con mano anco talvolta

il bianco petto e le mammelle ignude.

Turba di serve ha dietro e d’ambo i lati

la fida guardia degli arcieri alati.

Giunta ove’l bel cadavere disegna                             398

in preda dar dela funebre arsura

e dov’è già, d’un tanto dono indegna,

edificata la catasta oscura,

fa Citerea depor sovra le legna

il letto a piè del’alta sepoltura,

indi supposta la facella a l’esca

fa che, desto dal soffio, il rogo cresca.

Già su le prime fronde apena appresi                        399

si dilatan gli incendi in un momento.

Sonan le gemme de’ fregiati arnesi

e suda l’oro e si disfà l’argento;

stillan succhi d’Arabia i rami accesi

che già gl’impingua l’odorato unguento;

stride scoppiando in liquefarsi al foco

il nardo, il costo, il cinnamomo e’l croco.

Più nobil fiamma in terra unqua non arse,                              400

cener mai più ricco si compose.

Chi di candido latte urne vi sparse

e chi di negro vin tazze spumose.

Altri le mani ancor non avea scarse

di biondo mele e di più rare cose.

Altri del sangue degli uccisi armenti

abbeverava le faville ardenti.

Versanvi e lacci e reti ed archi e strali                                   401

volando intorno i lagrimosi Amori;

le vaghe penne svellonsi dal’ali

e le fan cibo de’ voraci ardori;

le tre d’Eunomia ancor figlie immortali

vi gittan dentro i lor monili e i fiori;

Vener le trecce d’or troncar si volle

ed ale fiamme in vittima donolle.

Indi il bel rogo ancor, secondo il rito,                                    402

prende da manca a circondar tre volte,

ed inchinando il busto incenerito

le bellezze saluta in aria sciolte.

Ma poiché già Vulcan langue sopito

e l’ossa amate ha in polvere rivolte,

di propria mano il cenere rimaso

raccoglie e serra entro’l marmoreo vaso.

Serrato il vaso, in cui chiudeasi quanto                                  403

natura e’l ciel di bello unqua crearo,

Amor che stava in flebil atto a canto

quasi custode al cimiterio caro,

cercava pur d’intenerir col pianto

l’aspro rigor di quel sepolcro avaro,

e con la punta del dorato strale

vi scolpì sovra un epitafio tale:

«O peregrin che passi, arresta il passo                                  404

al marmo, se non hai di marmo il core.

Giace sepolto Adone in questo sasso

e giace seco incenerito Amore.

Nel cener freddo e nel sepolcro basso

spento il lume è però, non già l’ardore.

E che sia ver, tocca la pietra un poco

che senz’altro focil n’uscirà foco».

Vi fu sospeso in un gran fascio involto                                  405

l’arco insieme con l’asta e con l’altr’armi

e’l dente dela fera anco raccolto

restò trofeo di que’ medesmi marmi;

fu poi con simil cura il can sepolto

e Febo aggiunse agli altri onori i carmi,

che su l’avel del’animal trafitto

la memoria lasciò di questo scritto:

«Qui sta Saetta, il can, la cui bravura                        406

le fere spaventò non solo in terra,

ma quasi a quelle ancor pose paura

che’l zodiaco nel ciel raccoglie e serra.

Pluton, per far la sua magion secura

in guardia del’inferno il tien sotterra,

che poich’Ercol discese in quella corte,

fidar non vuole a Cerbero le porte».

Poscia che’l nobil marmo in cotal guisa                                 407

ha già d’Adon le ceneri coverte,

la mesta dea, là’v’è la pietra incisa

del deposito caro, il piè converte;

e stata alquanto immobilmente fisa

con gli occhi in alto e con le braccia aperte,

trangosciando più volte, alfin si scote

e rompe il suo tacer con queste note:

Dolci, mentre al ciel piacque, amate spoglie,                                   408

già dolci un tempo or quant’amate amare,

poiché negano l’acque a tante doglie

fatte le luci mie di pianto avare,

prendete questi fiori e queste foglie,

ultimi doni ale reliquie care

e’n vece dele lagrime dolenti

gradite questi baci e questi accenti.

S’invido fato, avaro ciel mi toglie                              409

distemprar gli occhi in lagrimoso mare,

di questa tomba le funeste soglie

non mi torrà con gemiti baciare.

Se colei ch’ogni fior recide e coglie,

reciso ha il fior dele bellezze rare,

lo spirto almen, ch’ascolta i miei lamenti,

gradisca questi baci e questi accenti.

L’urna gentil che le bell’ossa accoglie,                                  410

sarà dei voti miei perpetuo altare;

l’alte faville del’accese voglie,

dove il cor sacrificato appare,

il foco de’ sospir, che l’alma scioglie,

saran fiaccole e fiamme ardenti e chiare.

Ombra felice, se mi scorgi e senti,

gradisci questi baci e questi accenti. –

Qui tace e chiede del suo core il core                                   411

e gli è recato al primo cenno avante.

Ell’avea già, quando il sabeo licore

le viscere condì del caro amante,

sterpato e svelto infin dal centro fore

del bel fianco sparato il cor tremante;

indi il serbò tra preziose tempre

di celesti profumi intatto sempre.

Tolto in mano quel cor, gli occhi v’affisse                              412

e contemplollo con pietoso affetto

ed: – O del più bel foco (indi gli disse)

e del più puro ardor nobil ricetto,

che d’aver riscaldato unqua s’udisse

in cielo o in terra innamorato petto,

così fuor di quel sen, ch’era tuo seggio,

lacerato ed aperto oimé! ti veggio?

Forse mostrar mi vuoi che non contento                               413

del’amor che vivendo in te bolliva,

dopo’l cener gelato e’l rogo spento

serbi ancor la tua fiamma accesa e viva.

Ahi ben il veggio, anzi in mestessa il sento,

che, benché del mio ben vedova e priva,

ancor estinto de’begli occhi il lampo,

in pari incendio immortalmente avampo.

Or con qual degno onor, fuorché di baci                               414

sodisfar posso ad oblighicari?

ond’avrò per lavarti acque vivaci,

secca la vena de’ miei pianti amari?

chi mi darà le luminose faci,

spenta la luce di que’ lumi chiari?

fuor del bel volto, ove saranno i fiori?

senza i fiati soavi, ove gli odori?

Deh che farò? Per quanto almen mi lice                                415

io voglio al mondo pur con qualche segno

lasciar del nostro amor poco felice

grata memoria ed onorato pegno.

S’agli altri dei ciò far non si disdice,

s’altro mortal fu di tal grazia degno,

per qual cagion non potrò farlo anch’io?

o perché non l’avrà l’idolo mio?

Farò dunque al mio ben l’istesso onore                                 416

che fece Apollo al suo fanciullo ucciso,

che non fu certo il mio gentile ardore

di Giacinto men bel né di Narciso.

E poich’ei fu d’ogni bellezza il fiore

e di fiori ebbe adorno il seno e’l viso

e mi fu tolto insu l’età fiorita,

vo’ che, cangiato in fior, ritorni in vita.

Tra i fiori, o fiore, il primo pregio avrai,                                 417

torrai lo scettro ala mia rosa ancora;

vinti saran da te quanti giamai

Clori in terra ne sparse, in ciel l’Aurora;

ornamento immortal de’ miei rosai,

perpetuo onor dela vezzosa Flora,

nova pompa del prato e del terreno,

novo fregio al mio crine ed al mio seno.

Farò sempre di più che d’anno in anno                                 418

dela parca malgrado e dela sorte,

si rinovelli col mio duro affanno

la rimembranza di sì cruda morte,

e i miei devoti ad imitar verranno

con sollenne dolor piangendo forte,

come fec’io quando il mio ben perdei,

la trista pompa de’ lamenti miei.

Questo fiume vicin che già si tinse                             419

del nobil sangue del buon re ciprigno,

nel giorno istesso che’l cinghial l’estinse,

col corno rotto correrà sanguigno.

Questo medesmo mar, che’l lido cinse,

dove l’oppresse il rio destin maligno,

nutrirà pesce tal nel grembo interno

che riterrà d’Adone il nome eterno. –

Poiché così parlò, di nettar fino                                 420

pien di tanta virtù quel core asperse,

che tosto per miracolo divino

forma cangiando, in un bel fior s’aperse

e nel centro il piantò del suo giardino

tra mille d’altri fior schiere diverse.

Purpureo è il fiore ed anemone è detto,

breve, come fu breve il suo diletto.

Rivolta poscia al fido stuolo amico                            421

de’ servi Amori e de’ compagni divi:

– Fu sempre (ripigliò) costume antico

d’onorar morti quei che s’amar vivi.

Osservasti ben tu l’uso ch’io dico

accoppiando al dolor giochi festivi,

Bacco, quand’empia morte Ofelte uccise;

così fece il mio figlio al padre Anchise.

Questo rito seguir dunque m’aggrada                                   422

nele sacre d’Adon pompe funeste;

io vo’ ch’ogni anno in questa mia contrada

s’abbiano a celebrar tragiche feste

e vo’ che vi concorra e che vi vada

spettatrice non sol turba celeste,

ma del mar, dela terra e del’abisso;

e di tre lo spazio abbian prefisso. –

Così ragiona e l’immortal brigata                              423

il pietoso pensier commenda e loda,

onde il gran banditor del’ambasciata,

l’autor del’eloquenza e dela froda,

su’l capo impon la cappellina alata,

alate al piè le talloniere annoda,

né pur gli dei del ciel convoca e cita

ma quanti il mondo n’ha, tutti gl’invita.

E per posar nele cerulee piume                                 424

già varca intanto il sol l’onde marine,

e già si lava entro le salse spume

l’umida fronte e’l polveroso crine.

Vedesi tinto il ciel d’ombra e di lume

nel tenebroso e lucido confine

e’n sé far mezzo chiara e mezzo oscura

dela notte e del giorno una mistura.

 




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