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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria          20

Gli SPETTACOLI. I giuochi adonii instituiti da Venere nell’essequie d’Adone, sono per farci intendere che quegli amici, i quali veramente di cuore amano, non lasciano con tutte l’ufficiose dimostrazioni possibili d’onorare eziandio dopo la morte la memoria di coloro che hanno amati in vita. Nella giostra, che dopo il tirar dell’arco, il ballo, la lotta e la scherma de’ due precedenti, è lo spettacolo del terzo ed ultimo giorno, oltre i cavalieri barbari che v’intervengono, sono adombrate molte famiglie principali d’Italia. Tra le romane ven’ha primieramente quattro che vengono da pontefici, come Farnesi, Peretti, Aldobrandini e Borghesi. L’altre che seguono sono Colonnesi, Orsini, Conti, Savelli, Gaetani, Sforzi, Cesarini, Cesi, Crescenzi, Frangipani, Molari, Cafarelli, Santacroci e Mattei. Vi si aggiugne di più il giovane sposo Lodovisio, nipote di papa Gregorio il decimoquinto, congiunto ultimamente in matrimonio con la Gesualda, principessa di Venosa. Per la persona di Sergio Carrafa s’intende il prencipe di Stigliano, che così, per quanto dicono, si chiamò il primo capo di quella casa. Ne’ tre fratelli che vengono appresso si figurano i tre figliuoli secolari del serenissimo duca di Savoia; l’uno è detto Doresio dalla Dora, fiume del Piemonte; l’altro Alpino dall’Alpi, presso allequali è il dominio di que’ prencipi; il terzo Leucippo, che vuol dire cavallo bianco, ilquale è la divisa antica di quelle altezze. I due che sono gli ultimi a comparire rappresentano Spagna e Francia. Austria si nomina la guerriera, ch’è il cognome dell’una; Fiammadoro il cavaliere, cioè Oriflamma, ch’è l’istoria nota dello scudo dell’altra. A quella si danno ed il leone e l’aquila, l’uno per esser l’arme di Castiglia, l’altra per la possessione dell’Imperio e l’uno e l’altra come geroglifici della magnanimità. A questo si danno il giglio ed il gallo, l’uno per significare il sudetto scudo, l’altro perché allude al nome della Gallia ed è dedicato a Marte, che predomina quella nazione. Nella battaglia che passa tra loro si accennano le guerre passate; e negli amori che succedono tra amendue si dinota il maritaggio seguito tra questa corona e quella. Il pronostico d’Apollo sopra lo scudo di Vulcano contiene le lodi del re Lodovico ed in breve compendio tutti i progressi della guerra mossa contro gli ugonotti.

 

Canto, argomento 20

Dopo l’essequie nobili e pompose

Venere instituisce i giochi estremi

e, compartiti ai vincitori i premi,

il vel si squarcia ale future cose.

 

Canto 20

Ed ecco alfin, dopo camin sì lungo                            1

scorge la meta il mio corsier già stanco,

onde con maggior fretta io sferzo e pungo

al pigro ingegno il travagliato fianco.

Già la voce vien men, ma mentr’io giungo

presso al’estremo, augel canoro e bianco,

vorrei, purgando il rauco spirto alquanto,

far vie più dolce e non mortale il canto.

Qual volubile ordigno il cui volume                            2

misura quelche misura al moto,

giunto al tocco del’ora, oltre il costume

veloci i giri accelerando io roto.

Quasi lucerna, in cui s’estingue il lume

quando il vasel d’ogni alimento è voto,

svegliando il vigor languido, mi sforzo

raddoppiar lo splendor mentre l’ammorzo.

Somiglio peregrin che’nfermo e fioco                                    3

trascorsa già quella contrada e questa,

del patrio tetto e del paterno foco

scoprendo i fumi, i voti al tempio appresta.

Sembro nocchier, che fatto un tempo gioco

per l’immenso ocean dela tempesta,

tosto che dela riva arriva al segno

ripiglia il remo e la spinta al legno.

Son Leandro novello a cui tra l’onde                        4

mostra lucida lampa eccelsa rocca.

Ma, mentre da vicin mira le sponde,

mentre ch’ador ador la terra tocca,

in guisa il mar orribile il confonde

che gli manca tremante il fiato in bocca

e lasciar teme, pria ch’attinga il lido,

tra gli scogli sommerso, il debil grido.

Pur tale e sì benigna è la mia scorta,                          5

chiara splende e sì serena e bella,

che dal polo real mi riconforta

in sì dubbiosa e torbida procella;

tem’io già che mi sia spenta o morta,

perché mai non tramonta artica stella

e può più tosto il sol perder la luce

che quel raggio immortal che mi conduce.

Dunque, che fai? Rinfranca ed avalora,                                 6

ahi lento nuotator, le forze oppresse.

Ben ha tanto il tuo stil di lena ancora

che ti basta a compir l’alte promesse.

Ecco già desta in ciel sorge l’aurora,

sorga la musa al bel lavor che tesse;

già con l’ultimo fil Febo la chiama

dela gran tela a terminar la trama.

La ninfa d’oriente aprendo il grembo                        7

tra nuvoletti candidi e vermigli,

dolce versava ed odorato nembo

di pura manna e di celesti gigli.

Garriano intorno al rugiadoso lembo

i dipinti del’aria alati figli

e per l’ampio seren Favonio e Clori

scoteano i vanni e precorrean gli albori.

Sereno il ciel, d’un’aurea luce viva                            8

fregiava l’aere puro e cristallino

e d’odor molli, mentre il sole usciva,

seminava le vie del suo camino;

ed ala funeral pompa festiva

apria dal’uscio d’oro e di rubino,

da mille trombe salutato intorno,

di mille lampi incoronato il giorno.

Tranquillo il mar, del’onde sue facea                         9

senz’alcun monte una pianura eguale

e quasi una gran tavola parea

tinta di schietto azzurro orientale;

e come in specchio di zaffir, v’ardea

in tal guisa del ciel l’oro immortale,

che detto avresti o che nel mar profondo

sommerso è il sole o ch’ha duo soli il mondo.

Verdeggiante la terra e di bei fiori                             10

vestito il prato e di color novelli,

richiamava, ridendo, i suoi pastori

ale ghirlande, ai pascoli gli agnelli.

Spandea lietombre il bosco e, spettatori

de’ bei certami i venti e gli arboscelli,

taceano intenti al nobile apparato

fermando il moto e sospendendo il fiato.

Tratta i zefiri a volo e l’aria scorre                             11

del celeste senato il messo eterno;

e non fa sol le deità raccorre

ch’han dela terra o ch’han del ciel governo,

ma chiamata vi tragge e vi concorre

del pelago la turba e del’inferno.

Sol Marte irato e sol Vulcan dolente

non volse ai propri scorni esser presente.

Ad onorar le dolorose feste,                         12

instituite al funeral d’Adone,

dalo stellante suo trono celeste

col consorte immortal scese Giunone.

Per sì nove mirar pompe funeste

la cieca reggia abbandonò Plutone.

E per far quell’onor vie più sollenne

il gran Giove del’acque anco vi venne.

Oltre Cerere e Bacco, oltre la madre                                    13

del forte Achille e’l figlio di Latona,

d’altri dei, d’altre dee v’ha varie squadre,

Berecinzia con Cinzia, Isi e Bellona:

Temi e Vesta vi son, né men leggiadre

Iride ed Ebe e Flora evvi e Pomona,

Giano, Como, Talassio, indi s’asside

tra gli immortali immortalato Alcide.

L’ordin non si confonde, a ciascun dassi                               14

secondo il proprio merito la sede;

e Mercurio, il mazzier, dispon le classi

e d’onor pari al grado altrui provede.

A tutti gli altri dei, che stan più bassi,

con l’alta sposa il gran motor precede,

e giù deposto il fulmine tra loro

eminente si mostra in soglio d’oro.

Dopo colui che l’universo regge,                               15

ponsi il signor che sovra l’onde regna.

Ai principi minor ch’han da lui legge

loco non lunge inferior s’assegna.

Tien presso al gran Nettun le prime segge

Nereo con Forco e gente altra più degna.

Stan con mill’altri poi cerulei numi

degli umidantri usciti, i vecchi fiumi.

Segue terzo la serie il re profondo,                            16

genero dela dea che’n Etna impera,

e seco ha quella che dal nostro mondo

discese ad abitar la città nera.

Succede, setoloso e rubicondo,

lo dio d’Arcadia con la rozza schiera;

corna e piante ha salvatiche e caprigne

e di minio le guance ognor sanguigne.

V’è, di ferula cinto e di ginestra,                               17

Silvan, del’ombre l’arbitro canuto,

che Pale a manca ed ha Vertunno a destra,

dintorno un folto essercito cornuto,

rustica gioventù, plebe silvestra,

il satiro lanoso e’l fauno irsuto,

e presso a questi in non sublime scanno

geni, lari, cureti assisi stanno.

Gran piano innanzi ala superba entrata                                  18

del bel palagio ove Ciprigna alloggia,

spazioso vestibulo dilata

sotto l’alte finestre e l’ampia loggia,

che s’allarga e distende in piazza ovata,

quasi di circo o di teatro a foggia.

Ha la tela nel mezzo e come s’usa

di palancati e di bertesche è chiusa.

Scena è di lieti giochi e par steccato                          19

fatto per diffinir risse e duelli,

tra ben salde colonne incatenato

di graticci pertutto e di cancelli;

ed ha da’ capi al’un e l’altro lato

due porte con barriere e con rastelli,

per cui passando poi, denno i campioni

rappresentar pacifiche tenzoni.

Non sol di Cipro i popoli e i vicini                             20

sono al’alto spettacolo presenti,

ma da vie più remoti altri confini

vi convengono ancor straniere genti.

Paesani non men che peregrini

stan su i balconi ale bell’opre intenti.

Parte occupano intorno i catafalchi,

le sbarre il vulgo e’l baronaggio i palchi.

Poiché già pieno il campo in ogni parte                                 21

scorge la bella dea nata di Giove,

appresta i premi ai giochi e gli comparte

per dispensargli ale future prove.

Fa varie spoglie sue porre in disparte

e tutte rare e preziose e nove

e l’inalza e sospende, accioché sproni

sieno dela virtute i guiderdoni.

In alto tribunal stassene assisa,                                  22

per poter più spedita aver la vista

e, mentre ingiù lo sguardo intenta affisa,

giudicar meglio chi più loda acquista.

Intanto con l’insegna ala divisa

di porpora e d’argento a lista a lista

l’araldo con tre suoni intima il bando,

poi publica il cartel così gridando:

– La dea del terzo cielo in rimembranza                                23

del morto Adon, ch’ha tanto amato in vita,

de’ sacri onori la pietosa usanza

per tre giorni continui ha stabilita.

Oggi, ch’è il primo, al’arco ed ala danza

con bella pugna i concorrenti invita;

negli altri duo vuol che si venga in mostra

ala lotta, ala scherma ed ala giostra.

Ben fian dela vittoria i pregi tali                                 24

che non saranno invan sparsi i sudori,

poveri di palme trionfali

invidia avranno i vinti ai vincitori.

Chiunque in guisa indrizzerà gli strali,

che riporti in colpire i primi onori,

o per valore o per fortuna avegna,

ricompensa del’opra avrà ben degna.

Quella faretra avrà che colà pende                            25

e di sagri vermiglio ha l’ornamento,

con quell’arco di bosso a cui risplende

l’un capo e l’altro di polito argento.

Chi più vicino al primo il segno offende,

d’un nobil dardo rimarrà contento.

D’ebeno è l’asta, e’l ferro è di tai tempre

che qualvolta ferisce, uccide sempre.

Darassi al terzo d’immortale alloro,                           26

degna non pur d’arcier ma di poeta,

ghirlanda che le fronde ha messe ad oro,

attorta a un cordoncel di verde seta.

Fia poscia di colui ch’avrà tra loro

l’ultimo grado in accertar la meta,

spiedo di duro e noderoso cerro

ch’arma la punta di lucente ferro. –

Qui tace, e risonar fanno l’agone                              27

cent’altre trombe e nacchere e cornette.

Allor quivi legato ad un troncone

lontano alquanto un cavriuol si mette.

Questo, per ordin dela dea s’impone,

ch’esser deggia bersaglio ale saette.

Ed ecco al saettar destra e leggiadra

arciera in punto e faretrata squadra.

Tempo distruggitor d’ogni bell’opra,                         28

ch’affondi i nomi entro l’oscuro oblio,

consenta il tuo rigor ch’io narri e scopra

i più degni tra lor nel canto mio.

O Fama e tu ch’impero eterno hai sopra

le forze invitte del tiranno rio,

tu mel rammenta e dal’etate avara

l’offuscate memorie a me rischiara.

Fassi avante Arabin che’n Guba nacque,                              29

del’Arabia petrea nobil cittate,

ma per le selve essercitar gli piacque

contro le fere la robusta etate.

Vien Silvanel, che colà dove l’acque

sen va col Tigri a mescolar l’Eufrate,

crebbe in Apamia, avezzo a ferir solo

le folighe del mar che vanno a volo.

Havvi Foresto il troglodito arciero,                           30

che’l deserto per patria ebbe nascendo,

selvaggio cacciator più che guerriero,

agli elefanti ed ai leon tremendo.

V’è Ferindo d’Arsacia, il parto fiero,

che combatter non sa se non fuggendo

e’l cavo arnese al tergo e’n pugno l’arco

di saettame avelenato ha carco.

Ermanto v’ha, di cui giamai più dotto                        31

non ebbe in quel mestier l’indica terra.

E Fartete il pigmeo, che fu prodotto

ad aver con le gru perpetua guerra.

E v’è Fulgerio ancor ch’è cipriotto

e di mille un sol colpo unqua non erra,

e’l superbo Medonte il battriano

che d’acciaio lunato arma la mano.

S’accinge al’opra e cinge al fianco Ordauro                          32

pien di ferrate penne aureo turcasso.

Il figliuol d’Euro Euripo, il gran centauro,

tal gloria ambisce e’l sericano Urnasso.

men di lor Brimonte ed Albimauro

la brama, ircano l’un, l’altro circasso.

Chiedela aprova Ucciuffo ed Anazarbo,

quegli è di Tracia allievo e questi alarbo.

E Tirinto e Filino, i duo fratelli,                                  33

mostran d’entrar nel numero desire,

nati in Tessaglia e di ferine pelli

vestiti e molto esperti a ben ferire.

Vogliono cento e cent’altri e questi e quelli

del primo gioco al paragone uscire.

Vuol, per accrescer liti, Amor istesso

ala prova del’arco esser ammesso.

Or per cessar gli sdegni, onde dolersi                                   34

sol dela sorte poi deggian gli esclusi,

scriver fa Citerea nomi diversi

e porgli in urna d’or serrati e chiusi;

e poich’ivi per entro alfin dispersi

son con più d’una scossa e ben confusi,

ad un ad un dal’agitato vaso

per la man d’un fanciul fa trargli a caso.

Dentro l’urna il fanciul la mano ascose                                  35

e Mitrane n’uscì nel primo scritto,

Mitrane, che lasciate ha le famose

sponde del fiume onde s’impingua Egitto.

Fatto è l’arco, ch’ei tien, di due ramose

corna d’un cervo di sua man trafitto

ed ha nel mezzo le divise punte

con bel manico eburneo insieme aggiunte.

D’un dragone african macchiato a stelle                                36

voto scoglio squamoso ha per frecciera

e sgangherando l’orride mascelle

il teschio serpentin gli fa baviera.

Scalze ha le piante e con la bionda pelle

dela più brava e generosa fera

tra quante n’ha Getulia unqua produtte,

ammanta il resto dele membra tutte.

Ponsi per dritto filo incontro al segno,                                   37

la faretra si slaccia e la disserra

e, traendone fuora alato legno,

s’abbassa e posa un de’ ginocchi in terra.

Lo squadra intorno e con industre ingegno

in un punto con l’arco il ferro afferra.

In cima il tenta e tasta pria se punge,

indi al cordone il calamo congiunge.

Tien nela manca il corno, e la saetta                          38

con l’altra mano insu la fune incorda.

Trae fin al destro orecchio a forza stretta

col grosso dito e l’indice la corda,

ch’un angolo divien di linea retta,

e l’occhio intanto con la mano accorda,

e dal’arco incurvato in mezza sfera

fa per l’aria volar l’asta leggiera.

Liberata la canna, ancorché fosse                             39

la testa ita a ferir del cavriuolo,

però ch’impaurito il capo ei mosse,

diedalto e passò via rapida a volo.

Il tronco nondimen giunse e percosse

dove lo ritenea stretto il lacciuolo

e sì forte ad entrarvi andò la freccia,

ch’affissa gli restò nela corteccia.

Fu per sorte il secondo Arconte armeno                               40

che la man pueril dal’urna trasse,

di fero latte ed ale fere in seno

nutrito in riva al sagittario Arasse,

la’ve Nifate, d’aspre selve pieno,

volge la fronte alpestra al gelidasse

e dela tigre il fremito dolente

vedovata de’ figli, ode sovente.

Raso il mento e la chioma e bruno il volto,                            41

lunga ha la giubba e d’un tabì cangiante,

sferico lino in larghe fasce involto

gli tesse intorno al capo ampio turbante.

Di scaglie d’oro intarsiate e scolto

l’arco ha d’orribil vipera sembiante;

serpe rassembra e’n quella parte e’n questa

chiude l’estremità gemina testa.

Grossa canna indiana acconcia in modo                                42

di vagina agli strali, in campo tratta,

d’un sol bocciuol dal’un al’altro nodo

dal’istessa natura ad arte fatta.

Prende il suo posto e ben acuto e sodo

un ne sceglie tra molti e poi l’adatta.

D’un anel d’osso il maggior dito cinge,

indi il calce v’appoggia e l’arco stringe.

Stringe, col pugno manco, il legno torto,                               43

col dritto a più poter la corda tira,

l’un piede indietro e l’altro innanzi sporto;

curva gli omeri alquanto insu la mira,

serra il lume sinistro e l’altro accorto

su l’asta aguzza e’l braccio al segno gira,

sbarra alfin l’arco e quel caccia lo strale;

fremono intorno l’aure e fischian l’ale.

Lieve più che balen, fendendo il cielo,                                   44

lo stral nel caprio a sdrucciolar sen viene.

Nol fiede già, né pur gli tocca il pelo

ma nel canape che preso il tiene.

Vien nela corda ad incontrarsi il telo

e fa tremar il cor, gelar le vene

ala fera che tenta a’ suoi legami

romper intutto i già sfilati stami.

Scotonsi allor gl’imbossolati brevi                             45

e n’escon duo, l’un prima e l’altro dopo.

Frizzardo è l’un, con le quadrella lievi

uso a chiusocchi ad affrontar lo scopo,

natio del’arso e non da piogge o nevi

rinfrescato giamai clima etiopo,

dove d’acque e d’ombre ognor mendica

soggiace al primo sol Siene aprica.

Cotta ha la pelle e tutto ignudo il busto,                                46

sol cinto in mezzo di listati lini;

tinge la chioma arsiccia e’l pelo adusto

d’odoriferi unguenti e purpurini;

tien di piume vermiglie il capo onusto

e di folte saette impenna i crini,

e, coronata di sì strania cresta,

è faretra al’arcier la propria testa.

L’ultimo è Dardiren, nel’arena                               47

nato ove nasce il solitario Oronte,

la cui serpente e flessuosa vena

ha tra’l Libano e’l Tauro il primo fonte.

Garzon di crespo crin, d’aria serena,

di viso grato e di modesta fronte,

non sol famoso a guerreggiar con l’armi,

ma maestro de’ suoni anco e de’ carmi.

Duo archi, un dale corde un dagli strali,                                48

usa e con l’un e l’altro egli ferisce.

Quello stampa in altrui piaghe vitali,

questo morte a chi sfidarlo ardisce;

e de’ corpi e de’ cori ha palme eguali

e la dolcezza ala fierezza unisce.

Sembra, di doppio arnese ornato il collo,

con la faretra e con la cetra, Apollo.

L’arco guerrier che l’arma e per traverso                              49

dal’omero gli pende al fianco cinto,

è di tasso cornuto assai ben terso,

con purpureo carcasso insieme avinto.

Di vario smalto e di color diverso,

sicomiride in ciel, tutto è dipinto;

iride sì, però che’n guerra o in caccia

sempre pioggia di strali altrui minaccia.

Con lieto mormorio, con molte e molte                                 50

voci d’applauso il nome altier si lesse,

perché sapean le turbe intorno accolte

quanto in quell’arte il giovane valesse;

sapean che’l nibbio e l’aghiron più volte

ch’a mezz’aria insu’l volar cadesse;

e ch’avria, nonche’n ciel giunto un augello,

diviso con lo strale anco un capello.

Prende alor l’arco in man prima Frizzardo,                           51

ch’è fabricato del più bianco dente

e dala selva, ond’è crinito, un dardo

svelle qual più gli par saldo e pungente.

Il segno e’l sito essamina col guardo

ed al vantaggio suo volge la mente.

L’arco in mezzo sostien con la sinistra,

con la destra il quadrel gli somministra.

Incoccato ch’ei l’ha, pria che lo scocchi,                              52

pria che’l forbito avorio allarghi e stenda,

piglia la mira e studia ben con gli occhi

dove l’un drizzi e come l’altro spenda.

La distanza misura accioché tocchi

in parte l’animal ch’egli l’offenda.

L’occhio, il braccio, la mano inun rassetta,

l’arco a tempo, la corda e la saetta.

Tragge il gomito indietro e la pennuta                                    53

verga verso la poppa accosta insieme.

In tondo il semicircolo si muta,

vanno a baciarsi le due punte estreme,

si dischiava la noce e l’asta acuta

salta e ronza per l’aria e fugge e freme.

L’arco il suo sesto alfin ripiglia e torna,

già rallentato, a dilatar le corna.

Ch’arrestasse la fera alquanto il moto                                   54

l’etiopico arcier non ben sostenne,

ond’ella allor ch’al sibilar di noto

sentì del novo stral batter le penne,

fatto sforzo maggior, non solo a voto

fu cagion che la freccia a cader venne,

ma spezzato il capestro ond’era avolta,

per la piazza fuggì libera e sciolta.

Per rabbia e per dolor la destra sciocca                                55

si morde il negro che quel colpo ha fatto.

Ma Dardiren, che’l dardo ha su la cocca,

più non aspetta a scaricare il tratto.

Senz’altro indugio a sé tirando il tocca

e lascia andarlo impetuoso e ratto.

Per l’aria che, qual folgore, divide

striscia lo strale e strepitoso stride.

Dal’arco sorian la freccia uscita                                56

e dala man che l’impeto le diede,

va la fera a trovar che sbigottita

move, già rotto il laccio, in fuga il piede

e la raggiunge e di mortal ferita

per lo fianco sinistro il cor le fiede

e’l colpo, onde di sangue il campo bagna,

con lieti gridi il popolo accompagna.

Tra i quattro allor saettatori egregi,                           57

che fur dal caso a gareggiar promossi,

Citerea distribuire i pregi

a suon di vari bronzi e vari bossi.

Ma Dardiren de’ più superbi fregi

come il più degno e segnalato ornossi;

onde colui, che’l volto arso ha dal sole,

sdegnoso freme e con la dea si dole:

– Non per valor (dicea), ma per ventura                               58

m’usurpa oggi costui le glorie prime,

che s’avess’io qual egli ha l’armatura,

giunto non fora a quest’onor sublime.

Di tempra è l’arco suo non molto dura

e guernite ha di corno ambe le cime,

corno di capro alpin ch’agevolmente

si curva e torce ed ala man consente.

Di rigidosso è il mio che pertinace                           59

spezzar prima si può che piegar mai.

Questo adoprar sogl’io perché ferace

di tal materia è la mia terra assai.

Ma se’l discior quell’animal fugace

error fu pur, d’impazienza errai.

Vinto fui sol perch’aspettar non volsi

e per non corre il tempo, apien nol colsi.–

Sotto benigno e placido sorriso,                               60

velando allora i suoi tormenti acerbi,

la dea con lieto e mansueto viso

rispose a quegli accenti aspri e superbi:

Ragion è ben che del mio Adone ucciso

memoria ancor tra’ barbari si serbi

e, perché vide ben ch’invidia il punse,

al già promesso dono altro n’aggiunse.

– Questa sottile ed ingegnosa rete                             61

prendi (gli disse) a più color contesta.

Poco men ch’invisibili ha le sete,

opra Aracne non simile a questa.

Le fere di tal fraude ingorde e liete

vi corron volentier per la foresta

ed al’augel che’n sì bei nodi è colto,

il perder libertà non pesa molto. –

Finito il dardeggiar, con chiare note                          62

chiama la tromba i ballatori al ballo,

poi tace e’l vulgo, che tacer non pote,

fa bisbigliando al suon breve intervallo.

Ed ecco altr’armonia l’aria percote,

vie più soave che’l guerrier metallo

e Dardiren tra’ musici stromenti

canta il trionfo suo con lieti accenti.

Follerio, il ballarin, fuor del drappello                                    63

degli altri tutti in prova uscì primiero;

sfrenato strale o fuggitivo augello

fora di lui men presto e men leggiero.

Questi una sua corrente agile e snello

danzò con arte tanta e magistero,

intramezzata di passaggi tali,

ch’empì d’alto stupor l’alme immortali,

ond’un par di coturni in premio ei n’ebbe                              64

barbaramente ala ninfal guerniti.

Al purpureo corame il mastro accrebbe

ricchi riccami in bel tramaglio orditi

e’n guisa che stimar non si potrebbe

di figure d’argento eran scolpiti.

Ei donogli a Tersilla il giorno istesso,

che’l don pagò con mille baci appresso.

Passa innanzi Alibello, un che cosalti                                  65

s’arrischia a far prodigiose prove.

strani son, son sì mortali ed alti,

ch’orrore insieme e meraviglia move.

Lanciasi in aria e, con tremendi assalti,

in mille foggie inusitate e nove

su la punta or d’un brando, or d’una lancia,

or la schiena riversa ed or la pancia.

Poi di ferro la man, di piombo il piede                                  66

carco, passeggia l’aure e’l ciel discorre.

e per la tesa fune andar si vede,

qual Dedalo novel, da torre a torre.

Viensi alfin con ardir ch’ogni altro eccede,

col capo ingiù precipitoso a porre

e con l’estremo sol, pendente in libra

sostien sestesso e si raggira e vibra.

Il seconda Aquilanio, emulo antico,                           67

degli altri saltator capo sovrano

e seco ha Clarineo, Delio, Laurico

e Garbino e Celauro e Floriano.

Tutti congiunti allor costor ch’io dico,

fan di sé l’un su l’altro un groppo estrano

ed ergendo di membre eccelse mura,

fan di corpi intessuti alta struttura.

Di martora ebbe l’un rara e pregiata                         68

zanio artificioso e peregrino,

che gli occhi avea di lucida granata

e le zanne e le zampe avea d’or fino,

la cui morbida pelle era fodrata

d’un bel serico vello incremesino

e con lacci di seta intorno sparsi

poteva al fianco appendersi e legarsi.

L’altro non men leggiadra e preziosa                         69

e per materia insieme e per lavoro

con foglie di rubino ebbe una rosa

e con spine di smalto e gambo d’oro.

Onorato ancor poi d’alcuna cosa

fu ciascun altro de’ compagni loro:

– Su su (Venere disse) or basti tanto,

non si tolga al mio sesso il proprio vanto.

Serbinsi i cor virili a lotte, a giostre,                           70

non s’usurpi omai l’uom l’arti donnesche.

Vengano e scopran lor le ninfe nostre

come sappiam menar carole e tresche. –

Allor vaghe donzelle in varie mostre

comparver con fiorite e con moresche

e della balleria di quelle schiere

le Grazie eran maestre e condottiere.

V’è Lindaura gentil, Marpesia bella,                         71

Mirtea vezzosa e Filantea gioconda,

Albarosa la bianca e Fiordistella

la bruna e, col crin d’or, Fulvia la bionda.

Ma Lilla a cui questa bellezza e quella

di gran lunga non è pari o seconda,

la pupilla d’april sembra tra’ fiori

o la lampa maggior tra le minori.

Prende con tanta grazia a danzar Lilla                                   72

il contrapasso pria, poi la gagliarda,

che d’amor langue e di dolcezza brilla

il misero Filen mentre la guarda;

e non solo ale fiamme onde sfavilla

l’alto sol de’ begli occhi è forza ch’arda,

non sol la bianca man lo lega e fiede,

ma trafigger si sente anco dal piede.

Bel piè (seco dicea) mentreche finge                                  73

la danza essercitar mobile e vaga,

nele tue rote i circoli dipinge

dove m’incanta la mia bella maga.

Tesse mille catene onde mi stringe

ed incurva millarchi onde m’impiaga;

que’ giri, ch’ella in tanti modi implica,

son labirinti ove’l mio core intrica.

O felice il terren che vai premendo!                          74

Deh, perché non poss’io cangiarmi in sasso?

seben, mentre che’n te lo sguardo intendo,

l’anima mia calpesti a ciascun passo.

Oimé, sento il tuo moto e nol comprendo.

Com’esser puoi così veloce, ahi lasso?

Sì sì, vola pur lieve a saettarmi

poich’hai l’ali d’Amor come n’hai l’armi.–

Così dela sua Lilla innamorato                                  75

l’afflitto pescator tra sé dicea;

ed ella intanto avea sì ben danzato

che l’onor riportò da Citerea.

Dono d’un bel pavone ammaestrato

tra le mense a servir le la dea:

con la coda sapea ne’ soli ardenti

scopar le mosche e temperare i venti.

Uscir Clizio pastor poscia si scorge                          76

ch’a ballar la sua Filli invita e prega,

Filli sua che ritrosa alquanto sorge,

pur quelche chiede al’amator non nega.

Levata in piè, la bella man gli porge,

la bella man che l’incatena e lega.

Reverente e tremante egli la prende

e si bacia la sua mentre la stende.

Seco al tenor dela maestra cetra                               77

pianpian s’aggira pria ch’abbia a lasciarla,

indi la lascia, indi da lei s’arretra,

indi rivolto a lei, torna a baciarla;

e cortese un inchino anco n’impetra

mentre curva il ginocchio ad onorarla.

Stassi la ninfa in mezzo al cerchio immota,

Clizio qual Clizia intorno al sol si rota.

Del’onesto favor fatto orgoglioso,                             78

poiché chiusa più volte egli ha la volta,

vassene in atto grave e grazioso

a restringer la man che dianzi ha sciolta.

Torna seco al passeggio aventuroso

e’ntanto egli le parla, ella l’ascolta;

e trattenendo in bassi accenti il gioco,

scopre l’un l’altro il suo celato foco.

La dea traendo fuor nobil cicuta                               79

fatta di sette canne in Siracusa,

donolla a Clizio, ala cui voce arguta

ben s’accordò la sua canora musa.

Gazza loquace ch’i pastor saluta

Filli ebbe in dono, in gabbia eburnea chiusa;

umana lingua aver sembra e favella

e chiunque conosce a nome appella.

Due coppie ancor la dea volse ch’avesse                              80

di colombe vezzose a meraviglia

e sì feconde che ciascuna d’esse

ben quattro volte il mese impregna e figlia.

L’una è sì bianca che le nevi istesse,

l’istesso latte nel candor somiglia;

l’altra d’un vago vezzo il collo ha cinto

di varie macchie a più color dipinto.

Faunia, di Citerea serva lasciva,                                81

vien dopo loro ad occupar la lizza

e come baldanzosa ed attrattiva

prende Ardelio per man, che’n piè si drizza.

Incominciano in prima a suon di piva,

secondo l’uso a carolar di Nizza,

Nizza, che di Provenza il bel paese

rende superbo del suo forte arnese.

Mossersi alparo ed amboduo ballando                                 82

vedeansi a man a man, sola con solo

prima a passo veloce ir misurando

con giravolte e scorribande il suolo,

poscia l’un l’altra insu le braccia alzando

levarsi in aria e gir senz’ali a volo

e’n più scambietti al’ultima raccolta

serrar il giro e terminar la volta.

Così vid’io, qualora i campi aprici                             83

fervon su’l fil dela stagione adusta,

nele selve colà liete e felici

dela famosa e fortunata Augusta

danzatori leggiadri e danzatrici

a groppo a groppo in vaga rota angusta

pender girando a suon d’arpa canora

e di plausi festanti empir la Dora.

Compito il primo ballo, ecco s’appresta                                84

la coppia lieta a variar mutanza,

e prende ad agitar, poco modesta,

con millatti difformi oscena danza.

Pera il sozzo inventor che tra noi questa

introdusse primier barbara usanza.

Chiama questo suo giuoco empio e profano

saravanda e ciaccona il novo ispano.

Due castagnette di sonoro bosso                              85

tien nele man la giovinetta ardita,

ch’accompagnando il piè con grazia mosso,

fan forte ador ador scroccar le dita.

Regge un timpano l’altro, ilqual percosso

con sonaglietti ad atteggiar l’invita;

ed alternando un bel concerto doppio

al suono a tempo accordano lo scoppio.

Quanti moti a lascivia e quanti gesti                           86

provocar ponno i più pudici affetti,

quanto corromper può gli animi onesti

rappresentano agli occhi in vivi oggetti.

Cenni e baci disegna or quella or questi,

fanno i fianchi ondeggiar, scontrarsi i petti,

socchiudon gli occhi e quasi infra sestessi

vengon danzando agli ultimi complessi.

Letto era un pregio esposto in quelle feste                             87

con colonne d’elettro elette e fine,

ch’avean di sfinge i piè, d’arpia le teste

e custodie di porpora e cortine

e vergate pertutto e quelle e queste

erano d’oro in triplicate trine.

Fatto il talamo ricco e prezioso

ala vista parea più ch’al riposo.

Dele danze sfacciate ed impudiche                            88

volse la dea che per trofeo servisse:

Ale vostre dolcissime fatiche

questo sia’l premio e questo il campo (disse).

Qui col mio figlio ignudo entrò già Psiche

la prima notte ale beate risse;

qui voi dar fine al gioco ed al difetto

potrete del ballar supplir col letto.–

Diana, che la guancia avea vermiglia                         89

quegli atti abominabili mirando

e tenea tuttavia chine le ciglia

per la vergogna del ballar nefando,

non fu lenta a chiamar la sua famiglia,

che venne al cenno del divin comando;

e, senza uscir del’onestà devuta,

un riddon cominciò con nova muta.

Lucilia bella, che qual sole irraggia,                           90

Lidia gioliva che qual fiamma sface,

Partenia casta, Gloriana saggia,

Absinzia cruda, Antifila sagace,

Florismena solinga, Egle selvaggia,

Lesbia ritrosa, Testili fugace,

Amaranta superba, Alteria altera,

danzan tutte racolte in una schiera.

Guidato alquanto insieme il ballo tondo,                                91

ballar volser divise ad una ad una

e con error festevole e giocondo,

ma col decoro debito a ciascuna,

di quante danze ha più leggiadre il mondo

non tralasciaro in tai vicende alcuna,

qual più per arte o per vaghezza aggrada

del ventaglio, del torchio e dela spada.

Disse la dea d’amor: – L’onesto e’l bene                              92

del meritato onor non si defraude.

Non dee vera virtù, né si conviene,

senza premio restarsi e senza laude.

Vuolsi qui dimostrar ch’al’opre oscene

Vener non più ch’a le contrarie applaude. –

E fattasi recar la statua d’oro

del’istessa Virtù, la donò loro.

Non vuol Febo soffrir che la sorella                          93

l’onor del ben ballar sen porti sola,

onde dele sue Muse il coro appella

e l’aureo plettro accorda ala viola.

Vien tosto, inteso il suon, la schiera bella

al’armonia dela divina scola

e colegami dele braccia istesse

stranio balletto in vaghi nodi intesse.

Sotto la treccia dele braccia alzate                            94

per filo or quella or questa il capo abbassa,

e torcendo le mani innanellate

altra senesce, altra sottentra e passa.

Poich’alfin le catene ha rallentate,

la bellissima filza il campo lassa

e soletta a ballar resta in disparte

Tersicore che diva è di quell’arte.

Si ritragge da capo, innanzi fassi,                              95

piega il ginocchio e move il piè spedito

e studia ben come dispensi i passi,

mentre del dotto suon segue l’invito;

circonda il campo e raggirando vassi

pria che proceda a carolar più trito,

lieve che porria, benché profonde,

premer senz’affondar le vie del’onde.

Su’l vago piè si libra, e’l vago piede                          96

movendo a passo misurato e lento,

con maestria, con leggiadria si vede

portar la vita in cento guise e cento.

Or si scosta, or s’accosta, or fugge, or riede,

or a manca, or a destra in un momento,

scorrendo il suol sì come suol baleno

del’aria estiva il limpido sereno.

E con sì destri e ben composti moti                           97

radendo in prima il pian s’avolge ed erra,

che non si sa qual piede in aria roti

e qual fermo de’ duo tocchi la terra.

Fa suoi corsi e suoi giri or pieni, or voti,

quando l’orbe distorna e quando il serra,

con partimentiminuti e spessi

che’l Meandro non ha tanti reflessi.

Divide il tempo e la misura eguale                             98

ed osserva in ogni atto ordine e norma.

Secondo ch’ode il sonatore e quale

o grave il suono o concitato ei forma,

tal col piede atteggiando o scende o sale

e va tarda o veloce a stampar l’orma.

Fiamma ed onda somiglia e turbo e biscia,

se poggia o cala o si rivolge o striscia.

Fan bel concerto l’un e l’altro fianco                         99

per le parti di mezzo e per l’estreme;

moto il destro non fa che subit’anco

non l’accompagni il suo compagno insieme;

concordi i piè, mentre si vibra il manco,

l’altro ancor con la punta il terren preme;

tempo non batte mai scarso o soverchio,

tira a caso mai lineacerchio.

Tien ne’ passaggi suoi modo diverso,                                   100

come diverso è de’ concenti il tuono;

tanti ne fa per dritto e per traverso

quante le pause e le periodi sono

e, tutta pronta ad ubbidire al verso

che’l cenno insegna del maestro suono,

or s’avanza, or s’arretra, or smonta, or balza

e sempre con ragion s’abbassa ed alza.

Talor le fughe arresta, il corso posa,                         101

indi muta tenore in un instante

e con geometria meravigliosa

apre il compasso dele vaghe piante,

onde viene a stampar sfera ingegnosa

e rota a quella del pavon sembiante;

tengono i piè la periferia e’l centro,

quel volteggia di fuor, questo sta dentro.

Su’l sinistro sostiensi e’n forme nove                         102

l’agil corporatto aggira intorno

che con fretta minor si volge e move

il volubil paleo, l’agevol torno.

Con grazia poi non più veduta altrove

fa gentilmente, onde partì, ritorno;

s’erge e sospende e, ribalzando in alto,

rompe l’aria per mezzo e trincia il salto.

Il capo inchina pria che’n alto saglia                          103

e gamba a gamba intreccia ed incrocicchia;

dale braccia aiutato il corpo scaglia,

la persona ritira e si rannicchia.

Poi spicca il lancio, e mentre l’aria taglia,

due volte con l’un piè l’altro si picchia

e fa, battendo e ribattendo entrambe,

sollevata dal pian, guizzar le gambe.

Poich’ella è giunta insù quanto più pote,                                104

la vedi ingiù diminuir cadente

e nel caderlieve il suol percote

che scossa o calpestio non sene sente.

È bel veder con che mirabil rote

su lo spazio primier piombi repente,

come più snella alfin che strale o lampo

discorra a salti e cavriole il campo.

Immobilmente il popolo sospeso                               105

pende da’ moti di colei che balla.

Stupisce ognun che dele membra il peso

estolla al ciel qual ripercossa palla;

serpa in obliquo o vada a passo steso,

opra il tutto con arte e mai non falla,

ond’alza un grido alfin garrulo e roco

e’l sol termina il giorno ed ella il gioco,

e la madre d’Amor, con queste lodi,                         106

dele sorelle sue celebra il vanto:

Dive immortali, vergini custodi

del pregiato licor del fiume santo,

da cui per fare al Tempo eterne frodi

hanno i miei bianchi augelli appreso il canto,

qual dono offrir vi può che vil non sia

o la sfera o la terra o l’onda mia?

Ecco nove corone. Elette queste                               107

sono a fregiar le vostre chiome bionde,

peso ben degno di sì degne teste

poiché de’ cieli al numero risponde.

Son merlate di gemme ed han conteste

di smeraldo finissimo le fronde,

la cui verdura si conforma al verde

del’arbor che giamai foglia non perde.

A te, che fatto hai qui novo Elicona                           108

chiudendo il festeggiar di questo giorno,

oltre ch’avrai dela gentil corona,

come l’altre compagne, il crine adorno,

questo ricco monile anco si dona

da cerchiar nove volte il collo intorno,

da cui di bel zaffir pende un branchiglio

che dal’isole vien del mar Vermiglio.

Ma tu, che più d’ogni altra altrui diletti,                                 109

onde stimata sei la più gentile,

Erato mia, che gli amorosi affetti

spiegando in dolce e delicato stile

lusinghi i cori, intenerisci i petti,

altro avrai che corona e che monile,

degna per la tua rara alta eccellenza

d’esser dela mia rota intelligenza.

Se non ho cosa che’l tuo merto agguagli,                              110

resti del buon voler pago e contento;

togli questo scrittoio, i cui serragli,

i cui foderi son tutti d’argento.

Tien figurato di sottili intagli

in ciascun ripostiglio il suo stromento,

coltelli e righe e con mirabil arte

cent’altri arnesi da vergar le carte.

È di terso diaspro il bel lavoro                                  111

del’urna che l’inchiostro in sé ricetta.

Fuso, invece d’inchiostro, havvi del’oro,

di cui l’arco ha il mio figlio e la saetta.

Del più candido cigno e più canoro

penna lo sparge infra mill’altre eletta

e’l vasel dela polve in grembo tiene

ricche del Gange e preziose arene.

Con questo a gloria mia vo’che tu scriva                               112

versi soavi e teneri d’amore.

Ed io, qualor su la Castalia riva

t’esserciti a cantar con l’altre suore,

farò che del tuo stil la vena viva

dolcezza assai del’altre abbia maggiore,

dando al tuo canto, accioché più s’apprezzi,

tutte le grazie mie, tutti i miei vezzi.

La stella mia che, quando il sol vien fora,                              113

ultima cade e’n ciel sorge la prima,

quella che sveglia a salutar l’aurora

i sacri spirti ed a cantar in rima

e più che’n altra è solita in quell’ora

d’alzar l’ingegno ond’alte cose esprima,

vo’ che col raggio suo, sempre seconda,

furor divino ala tua mente infonda. –

Disse e già fuor de’ tenebrosi orrori                          114

traea di vive perle il corno pieno

Cinzia e spargea di cristallini albori

il taciturno e gelido sereno.

Taceano i venti e languidetti i fiori

giaceano al’erba genitrice in seno.

Nel suo placido letto il mar dormiva,

del cui gran sonno il fremito s’udiva.

Sorse Venere bella e seco tolti                                 115

tra mille lumi i peregrini dei,

lor provide d’alloggio e fur raccolti

nel’ampia reggia ad albergar con lei.

Sgombra fu la gran piazza, ancorché molti

de’ riguardanti e nobili e plebei

volser, per non lasciar gli agiati luochi,

aspettar nel teatro i novi giochi.

Già lampeggiando in ciel l’alba traea                         116

dale nubi notturne auree scintille

e colte già dal seminario avea

dele rugiade mille perle e mille,

onde con larga mano ella spargea

dal vaso d’oro innargentate stille,

innebriando di celesti umori

l’avidità, l’aridità de’ fiori,

quando Ciprigna ad ordinar le cose                          117

del secondo uscì del ricco albergo

e de’ lottanti al vincitor propose

fiero molosso a brun macchiato il tergo,

ch’avea di piastre terse e luminose

d’acciar dorato intorno un forte usbergo

e d’un cuoio durissimo ferrato,

aspro di punte d’oro, il collo armato.

Col novo premio e con la luce nova,                         118

ecco più d’una tromba ad alta voce

dela lotta citar s’ode ala prova

ed incitar la gioventù feroce.

Subito presto a comparir si trova

Cisso il tebano e Batto il cappadoce

e Clorigi è con essi e Vigorino,

il primo è cireneo, l’altro è bitino.

Noto al’Olimpo Olimpio ed al Citoro                                   119

Eutirto, un di Tessaglia ed un di Ponto;

Brancaforte di Tarso e Bellamoro

di Babilonia, uom celebrato e pronto,

e col temuto Uragano il fier Brunoro

mostrasi anch’egli apparecchiato e pronto,

e Bronco il forte e l’animoso Edrasto

esser bramano i primi al gran contrasto.

Ma Satirisco entro l’agone intanto                            120

salta ed aspira ai preparati premi.

D’una driada e d’un fauno in Erimanto

fu generato di confusi semi.

Non è satiro intutto eccetto quanto

tengon sol dela capra i piedi estremi.

Forma umana ha nel resto e di due corna,

con cui cozza lottando, il capo adorna.

Corteccio allora, un contadin possente,                                121

contro costui per tenzonar s’è mosso;

ale braccia in Arcadia uso è sovente

venir con gli orsi e n’ha le pelli addosso.

Ha, come gli orsi istessi, irto e pungente

su’l petto il pel, grande ogni membro e grosso;

è dele piante figlio e dele selve,

commun l’albergo e’l vitto ha con le belve.

Le selve a questo popolo e le piante,                        122

orribil a contar, fur genitrici

e crebbe poi robusta turba errante,

senza cura di fasce o di nutrici.

Da novo piè calcata, il suoi tremante

scosse la terra infin dale radici,

quando da’ padri frassini e da’ faggi

vide i fanciulli uscir verdi e selvaggi.

Spaventati ed attoniti stupiro                         123

quel che prima al ciel gli occhi levaro

e videro alternar con vario giro

dela notte e del giorno il fosco e’l chiaro.

Fama è che lungo tratto il sol seguiro

quando oscurar la sera il miraro,

temendo forte, ahi semplici! non loro

involasse per sempre i raggi d’oro.

Veder duo lottator tanto eccellenti                            124

da corpo a corpo a contrastar ridutti,

fu gran diletto, ond’a mirargli intenti

in piè s’alzaro i circostanti tutti.

Non stetter molto a bada i combattenti,

ambo delpar nell’essercizio instrutti,

ma subito n’andar senz’altro dirsi

impetuosamente ad assalirsi.

Non da spiedo o da stral talor feriti                           125

duo fier leoni o duo cinghiali alpestri

risonar d’urli orrendi e di ruggiti

fan con tanto furor gli antri silvestri,

con quanto insieme ad affrontarsi arditi

vennero dela lotta i duo maestri

e si strinsero a un tempo e d’alti gridi

rimbombar fer d’intorno i campi e i lidi.

Tra saldi nodi e rigide ritorte                         126

avinchiati così stetter gran pezza,

poi si staccaro e con rivolte accorte

cominciaro a mostrar forza e destrezza.

Pesante è l’un, ma ben gagliardo e forte,

l’altro è leggier, ma di minor fortezza,

pur, girandosi ognor, con l’arte astuta

e con la propria agilità s’aiuta.

Poich’ei più volte ha circondato il piano,                               127

le gambe allarga e ferma i piedi in terra,

le spalle incurva e l’una e l’altra mano

distende innanzi, accinto a nova guerra.

Con minaccioso scherno il fier villano

sorride e contro lui ratto si serra

e con un braccio, il più forte che pote,

di sovra la collottola il percote.

Quasi duro bastone o grossa trave                            128

parve battesse al satiro la fronte

e stordito restò dal picchio grave,

pur come addosso gli cadesse un monte.

Ma si riscote intanto e perché pave

d’un nemicofier l’offese e l’onte,

cerca di prevaler sagace e scaltro

con stratagemi e con cautele al’altro.

Mostrò forte dolersi e d’aver rotta                            129

la testa e di cader quasi s’infinse,

onde colui per dargli un’altra botta,

scioccamente ridendo, oltre si spinse

e, credendo omai vinta aver la lotta,

senza riguardo alcun, seco si strinse;

ma tutto in semedesmo ei si raccolse

ed aspettar quell’impeto non volse.

Mentre Corteccio, con l’ardir ch’ha preso                            130

risoluto ritorna ala battaglia

e la seconda volta il braccio steso

per di novo ferirlo a lui si scaglia,

la fronte abbassa e, pria che l’abbia offeso,

gli entra di sotto e fa che’nvan l’assaglia

e loco ala furia e la ruina

del colpo irreparabile declina.

Schivato il colpo e col suo destro braccio                             131

preso del’aversario il braccio manco,

quasi legato da tenace laccio

glielimprigiona e l’attraversa al fianco.

Tenta ben l’altro uscir di quell’impaccio,

ma perché greve e travagliato e stanco

ceder gli è forza e nel colpire a voto

è tirato a cader dal proprio moto.

Tutto in un tempo ei gli passò sfuggendo                               132

sotto l’ascella e gli s’avinse al collo

e con le mani il gran ventre cingendo

gli saltò sulle terga e circondollo

in guisa tal che’n ginocchion cadendo

quei venne a terra e non potea dar crollo;

pur con sì fatto sforzo alfin si torse

che quasi in piedi libero risorse

e con quel dimenar diègrand’urto                         133

al destro assalitor che l’avea cinto,

ch’al’improviso allor colto e di furto,

fu per caderne anch’egli, indietro spinto.

Ma pria ch’apien disciolto e’n piè risurto

fusse l’altier, già poco men che vinto,

il quasi vincitor dela contesa

non fu già lento a rattaccar la presa.

Robustamente con le braccia il lega,                         134

con le corna il ferisce a capo chino

e’l ginocchio di dietro, ove si piega,

batte in un punto col tallon caprino

e tanta forza ad atterrarlo impiega,

che lo costringe a traboccar supino.

Far non potè però, quando l’oppresse,

ch’ancor sovra il caduto ei non cadesse.

Seco abbracciato e fortemente stretto                                  135

l’abbattuto pastor in modo il tenne,

ch’addosso in venir giù sel trasse al petto,

onde cadere ad ambodue convenne.

Cadder sossovra e d’onta e di dispetto

l’un e l’altro fremendo in piè rivenne;

e già moveansi a più rabbiose risse

ma Citerea vi s’interpose e disse:

– Non convien che più oltre oggi proceda,                            136

giovani valorosi, il furor vostro,

né che cotanto un vano sdegno ecceda;

basti l’alto valor che qui s’è mostro.

Non vo’ che’l sangue alo scherzar succeda,

non è mortal conflitto il gioco nostro;

cessino l’ire; ambo egualmente siete

degni di palma ed egual premio avrete.

Abbiasi Satirisco il can promesso                             137

ma non s’oblii del’altro insieme il merto;

quel pardo cacciator gli fia concesso

ch’è di spoglia ricchissima coverto. –

Più volea dir, ma su quel punto istesso

vide Membronio entrar nel campo aperto,

Membronio il fiero scita, uom ch’ale membra

animata piramide rassembra.

Sembra torre sensibile e spirante,                             138

sembra viva montagna ala statura.

Non giamai, credo, in alcun suo gigante

tanta massa di carni unì Natura.

Dal vasto capo ale tremende piante

così dismisurata è la misura,

che tra gli uomini grandi è quello istesso

ch’è tra i virgulti piccioli il cipresso.

Pien di superbo e temerario orgoglio                         139

questi nel chiuso cerchio entrato apena,

depon le vesti e in un confuso invoglio

furiando le gitta insu l’arena.

Poi, quasi eccelso ed elevato scoglio,

del’ampie spalle e del’immensa schiena

scopre gli eccessi e di terribil ombra,

ben piantato nel mezzo, il piano ingombra.

Qual Tizio fuor dela prigion tenace                            140

libero e’n piè levato a veder fora,

se l’augel che famelico e mordace

le sue feconde viscere divora,

da’ nove campi ove disteso ei giace

sorger gli desse e respirar talora,

cotal parea quel mostro orrendo e rio,

ch’i più temuti a spaventar uscio.

Con bieco sguardo in prima egli si vide                                 141

torcer le luci e sollevar la faccia,

aspra se scherza ed orrida se ride,

or che fia se s’adira o se minaccia?

Indi con formidabili disfide,

ambe sbarrando incontr’al ciel le braccia,

di tai parole audaci ed arroganti

l’orecchie fulminò degli ascoltanti:

– Or venga a noi di quanta gente accoglie                             142

questa di lottatori ampia adunanza,

qual più di palme cupido e di spoglie

in sestesso si fida e’n sua possanza.

Vedrem chi tanto insane avrà le voglie,

che di meco pugnar prende baldanza.

Parlo a chiunque intorno ode il mio grido

e quanti qui ne son, tanti ne sfido. –

Nessun risponde al’oltraggiose note,                         143

salvo sol di Beozia un giovinetto,

ch’accende allor, perché soffrir nol pote,

di vergogna la guancia e d’ira il petto.

Incomincia a segnargli ambe le gote

del primo pelo un picciolo fregetto,

ma sotto l’ombra dele fila bionde

di qua, di la zazzera l’asconde.

Crindor, dal’or del crine, egli ebbe nome,                             144

perché sì bionde e molli e dilicate

e sì crespe e sì terse avea le chiome,

ch’auree in vero pareano e non aurate.

E qualor dala forbice, sicome

sogliono a chi si tonde, eran tagliate,

per possederlucido tesoro

le compravan le donne a peso d’oro.

Senza accorciarla un lustro ha già nutrita                               145

la bella chioma, ond’è diffusa e lunga

e non è di che culta e ben forbita,

de’ più pregiati aromati non l’unga.

Ma s’or avien che dal’impresa ardita

vincitor esca e ch’ala patria ei giunga,

troncar promette in voto i capei cari

e d’Apollo offerirgli ai sacri altari.

Poiché vede ch’alcun non osa ancora                                   146

di contraporsi a quel colosso immane,

sfibbiasi il manto e senz’altra dimora,

scinte le spoglie, ignudo ivi rimane

e del corpo viril dimostra fora

le fattezze leggiadre e sovrumane,

onde del’altre membra al vago volto

quelche i drappi ascondeano, il pregio ha tolto.

Sentendo nel bravar che fa colui                               147

publica e general l’ingiuria e l’onta,

benché debil di forze, incontr’a lui

dala voglia è portato audace e pronta,

né senza tema e meraviglia altrui

il coraggioso giovane l’affronta.

Ma l’altro, con piè fermo e fronte oscura,

minacciando l’aspetta e nulla il cura.

Somiglia , nelo steccato ibero                                 148

tauro cui gente irritatrice espugna,

qualor dal canneggiar fatto più fiero,

fiede il ciel con la fronte, il suol con l’ugna,

la coda inalza, abbassa il collo altero,

sbarra le nari e sfida i venti a pugna

e par, torto le corna e torvo i lumi,

quando sorge dal letto il re de’ fiumi.

E che può folle ardir? che può? che vale                               149

contro sì sconcia machina e sì vasta?

che non ch’aver proporzione eguale,

con tutto il petto al capo gli sovrasta?

Lasciasi pur crollar, mentr’ei l’assale,

sostien gli urti innocenti e non contrasta;

ma’l tempo attende e con accorto ciglio

cerca ala treccia d’or dargli di piglio.

La treccia d’oro ch’al soffiar del vento                                 150

volava intorno innanellata e sciolta,

era molto al garzon d’impedimento

e gli occhi gli copria tant’era folta;

onde il gigante ala vittoria intento

ebbe pur d’afferrarla agio una volta;

nel’aureo crin la fiera man gli stese

e tanto ne stracciò quanto ne prese.

Come quando talora astuto gatto                              151

il nemico che rode ha nela branca,

non subito l’uccide al primo tratto

ma quinci e quindi lo raggira e stanca,

finché, veggendol poi mezzo disfatto

e che lo spirto ador ador gli manca,

dopo lungo scherzar, pur finalmente

ala zampa lo toglie e dallo al dente,

così Membronio altero e furibondo                           152

poiché sofferto ha il bel Crindoro alquanto,

con oltraggio crudel per lo crin biondo

lo sbatte a terra e quivi il lascia intanto;

e disprezzando insieme il cielo e’l mondo

l’insolente parlar raddoppia e’l vanto:

– Perché soffre (dicea) chi più si stima

che gli tolga un fanciul la lotta prima?

Venite voi, ch’io tal onor non curo,                           153

voi forti, al braccio mio degna fatica.

Venga ciascun che vuol provar se duro

o molle è il sen dela gran madre antica. –

Così dic’egli con sembiante oscuro,

Corimbo sostien che così dica;

di Crindoro è compagno, anch’egli greco,

e di stretta amistà legato seco.

Nacque su l’Acheloo, famoso fiume,                        154

che lottò già col domator de’ forti

e contan che l’istesso umido nume

gl’insegnò l’arte e mille tratti accorti

e del pontar la pratica e’l costume

e le prese a cangiar di varie sorti;

e di persona essendo agile e destra,

vincitor riuscì d’ogni palestra.

Spiacque a ciascun la crudeltà villana                                    155

del barbaro feroce e discortese,

ma’l fido amico ala caduta e strana

d’ira non men che di pietà s’accese.

Volgiti (disse) a me, bestia inumana,

che disonori l’onorate imprese

e d’avilire e d’infamar ti gonfi

l’onor dele vittorie e de’ trionfi.

Non superbir con vanitàsciocca,                           156

perché mole di membra abbi cotanta,

ché, se sembra il tuo corpo eccelsa rocca,

eccelsa rocca ancor s’abbatte e schianta.

Spesso da giogo altero al pian trabocca

tronca da picciol ferro, immensa pianta,

spesso lo smisurato angue d’Egitto

da minuto animal cade trafitto.

Fu l’uccisor del fier leon nemeo                                157

vie più forse di te forte e membruto,

pur nel tallon trafitto alfin cadeo

dal morso sol d’un pesciolin brancuto.

Fu di quel ch’io mi son, del campo acheo

forse minor l’esploratore astuto,

pur tolse di sua man con picciol remo

l’arroganza e la vita a Polifemo. –

Con un ghigno sprezzante e pien d’orgoglio                          158

l’ascolta il grande e qual si sia nol degna:

– Teco non con la man combatter voglio,

solo il mio piede a ben lottar insegna.

Con un calcio di quei, ch’aventar soglio,

ti manderò dove Saturno regna;

e’n tornar giù mi recherai novelle

di ciò che colassù fanno le stelle. –

Così rispose, e così detto prese                                159

un salto tal che stupir le genti,

né l’Appenninforte o il Monsanese

scosso è talor da prigionieri venti.

Poi d’un gridofiero il cielo offese,

che la terra crollò da’ fondamenti;

vacillò la gran piazza e rimbombonne

l’aria e tremaro intorno archi e colonne.

Con sì fatto romor, quand’Ercol morse,                                160

aprì latrando Cerbero le gole;

con tal rimbombo Giove a punir corse

del fier Titan la temeraria prole

e con strepito egual Pozzuol forse

d’alto spavento impallidire il sole,

alor ch’alo scoppiar dele campagne

vomitò fiamme e partorì montagne.

Senz’altro motto al vantator superbo                        161

il buon Corimbo allor si drizza e tace.

È d’età verde e di vigore acerbo,

indomito di cor, di spirto audace,

tutto callo, tutt’osso e tutto nerbo,

di polpe asciutto e d’animo vivace.

Quadrato ha il corpo e sovra i fianchi stretto,

gli omeri larghi e spazioso il petto.

Stupir le turbe intorno, a cui non era                         162

conta la fama del campion gagliardo,

quando insperato e solo uscir di schiera

l’ebber veduto e’n lui fisaro il guardo.

Ma tra color ch’avean notizia intera

di quel valor che non fu mai codardo,

meraviglia non nacque e lor non nove

l’usate n’attendean prodezze e prove.

Del pari ignuda e stimulata e punta                            163

da sprone egual la fiera coppia arriva,

e poiché già concesso a prima giunta

libero ad ambo il campo è dala diva,

poich’han la pelle immorbidita ed unta

col licor verde dela molle oliva,

chinansi a terra e con furore e rabbia

fregan le mani insu la secca sabbia.

Quando d’arida polve ambo pres’hanno                               164

quanto lor basta ad inasprar le palme,

non così tosto ad abbracciar si vanno

quelle due senza pari intrepidalme.

Ma de’ corpi ch’al moto accinti stanno,

ferme nel suol le ben librate salme,

da capo a piè, da questo e da quel canto,

trattengon gli occhi a misurarsi alquanto.

Usa ciascun l’industria, adopra ogni arte                               165

per aver nela luce anco vantaggio

e sceglie il sito e’n guisa il sol comparte,

che gli occhi offenda al’aversario il raggio,

cercando pur di collocarsi in parte

dove non n’abbia la sua vista oltraggio,

e’n sì fatta postura il lume piglia

che gli fieda le spalle e non le ciglia.

Volge Membronio al suo nemico il viso,                               166

tien curvo il collo e tien le gambe aperte

e’ntento ad avinchiarlo al’improviso,

larghe le braccia ed inarcate ed erte.

Corimbo in sé raccolto e’n su l’aviso,

le man, gli occhi e la faccia a lui converte

ed indietro col piè, col capo avante,

tenta aver nela presa il primo istante.

Lanciarsi ambo in un tratto ed investiti                                  167

s’aviticchiar con noderosi groppi;

polpo a nuotator tra’ salsi liti

tese mai noditenaci e doppi,

come fur quei, che di lor membra orditi,

tentando insidie e traversando intoppi,

strinsergli insieme in cento modi estrani

con le braccia, copiedi e con le mani.

Premer petto con petto ambo vedresti                                  168

e stinco a stinco e fronte a fronte opporsi,

ambo a prova afferrarsi agili e presti

sotto i lombi, su i colli e dietro ai dorsi.

Stan così buono spazio e quegli e questi,

pur disbrigati al fin vengono a sciorsi

e, con gran giri intorniando il loco,

van quinci e quindi e fan più largo il gioco.

Torna da capo ad affrontarsi e i petti                        169

congiunge insieme la robusta coppia,

e sì forte gli tien serrati e stretti

ch’afferma ognun che già vien meno e scoppia;

poi son pur a lasciarsi alfin costretti,

indi pur l’un e l’altro ancor s’accoppia,

e l’un e l’altro mentre or lascia, or prende,

scambievolmente ognor varia vicende.

Come in riva palustre o in balza alpina,                                 170

quando dal furor d’euro è combattuta,

minaccia antica pianta alta ruina,

accenna arbore eccelsa alta caduta,

or la cima frondosa a terra inchina,

or in alto dal vento è sostenuta

e’l moto alterno del’altere fronti

fa stupire e tremare i fiumi e i monti,

così fanno quei duo. Sovente vedi                             171

mutar fogge d’assalto or quello, or questo;

il minor dal maggior talvolta credi

già soffogato ed abbattuto e pesto;

in un momento poi risorto in piedi

rincalza l’altro ed a ghermirlo è presto;

or respinge il nemico, or n’è respinto,

né si distingue il vincitor dal vinto.

Su le dita de’ piè Corimbo in alto                             172

s’erge talor, ma non gli arriva al mento;

talor prende a saltar, ma sempre il salto

appo bustogrande è corto e lento.

Non però si ritrae dal fiero assalto,

né di forza gli cede o d’ardimento;

virtù raccolta è vie più forte e langue

troppo allargato in un gran corpo il sangue.

Membronio, saldo in mezzo al campo e dritto                                   173

di guardia in atto e di difesa stassi

e cerca stancheggiar l’emulo invitto

che gli va intorno con veloci passi,

ma per farglisi egual nel gran conflitto

convien che’l tergo incurvi e che s’abbassi.

Pensa dargli di piglio e l’altro fugge,

ond’ei sbuffa e bestemmia e freme e rugge.

Qual orbo a cui zanzara intorno o pecchia                            174

vola importuna ad infestar la faccia,

ed or nel naso il punge or nel’orecchia,

e più ritorna quant’ei più la scaccia,

tal, quanto più si volge ed apparecchia

or quinci or quindi ala tenzon le braccia,

dal destro assalitor men si difende

e le man per pigliarlo indarno stende.

Già sono entrambo affaticati e stanchi                                   175

e di molle sudor bagnati e sparsi,

già con spesso alitar battono i fianchi

e vanno alquanto al travagliar più scarsi.

Ma’l più grave trafela e par gli manchi

la lena intutto e brama omai posarsi;

mostra ogni vena il corpo enfiata e rossa

e più forte anelando il fiato ingrossa.

Pur dal’onor sospinto in piè sostiensi                        176

e gli usati furori in sé raccende;

ma con la vastità de’ membri immensi

più che con la possanza ei si difende.

Il greco, ch’ha più vigorosi i sensi,

più fresco al’opra e più vivace intende

ed ecco già que’ nervi intanto adocchia

che di dietro incurvar fan le ginocchia,

e perché lasso il vede e pien d’angoscia,                               177

con la destra gli accenna inver la spalla.

Minaccia al collo e in un momento poscia

s’inchina, ma l’effetto al pensier falla,

che la man troppo breve al’ampia coscia,

inumidita dal licor di Palla,

non potendo fermar la palma in essa,

lubrica a sdrucciolar vien da sestessa.

Il superbo di Scizia, ancorché rotto                           178

dala stanchezza, allor punto non tarda

e vistosi da lui sì malcondotto,

par che di stizza e di dispetto n’arda.

Sovra andar gli si lascia e quasi sotto

sel caccia in modo con la man gagliarda,

ch’a l’ombra del gran seno, onde il soverchia,

tutto l’asconde e con le braccia il cerchia;

così chi cerca con occulta mina                                 179

l’oro sepolto in sotterraneo speco,

se la rupe si rompe e’n giù ruina,

siché chiusa la buca ei resti cieco,

sotto l’alta percossa e repentina

tutti gli ordigni suoi ne tragge seco

e pon fine in un punto al’opra ardita,

a l’ingorda avarizia ed ala vita.

Non perde il cor Corimbo, anzi s’affretta                              180

in caricarlo e riposar nol lassa;

e perch’a far un colpo il tempo aspetta,

sotto il braccio nemico il capo abbassa

e con più d’una scossa e d’una stretta

gli esce ale coste, indi ale spalle, e passa.

Di qua, di , con l’una e l’altra mano

gli annoda i fianchi e tenta alzarlo invano.

Più volte a destra, a manca il fier gigante                               181

spinge e respinge e con gran forza il tira,

ma non men saldo il trova o men costante

che grossa quercia a zefiro che spira.

Dele gran gambe ognor, dele gran piante

sì ben fondate tien, mentr’ei l’aggira,

le colonne e le basi insu l’arene,

che la propria gravezza in piedi il tiene.

Pur alfin tutto ala vittoria inteso,                                182

ratto da faccia a faccia a lui s’aventa,

indi, quantunque intolerabil peso,

sollevandol da terra, alto il sostenta.

Quando così nel’aria ei l’ha sospeso,

non allarga i legami e non gli allenta,

ma con tutto il vigor dela persona

dove pende più, più s’abbandona.

Sovra l’osso del petto alto levato                              183

calcollo sì che’l respirar gli tolse.

Quanto d’impeto avea, quanto di fiato

nele membra e nel cor, tutto raccolse

e, piegandolo a forza al manco lato,

lui da sé spinse e sé da lui disciolse,

onde cadendo alfin, con l’ampia schiena

il membruto campion stampò l’arena.

Non altrimenti il generoso Alcide                              184

quando il libico Anteo pugnando assalse,

poiché dela cagion chiaro s’avide

ond’ei più volte al suo valor prevalse,

tra le braccia possenti ed omicide

stringendolo schernì l’arti sue false

e tanto spazio lo sostenne e resse

che violenta fuor l’alma n’espresse.

Cadde con quel fragor che suole al basso                             185

cader smosso dal’onde argine o ponte

e parve apunto che scosceso il sasso

venisse quasi a dirupare un monte.

Tutti a quella ruina, a quel fracasso

segno mostrar d’alta letizia in fronte

e con grido e stupore al riso misto,

favorire applaudendo ognun fu visto.

Mentre intorno ridea la turba pazza,                          186

confondendo al’applauso alto bisbiglio,

fattosi Citerea venire in piazza

stranio vasel, volse a Corimbo il ciglio:

– Tua sia questa (gli disse); in questa tazza

che’n India conquistò lo dio vermiglio,

Giove bevea nel tempo già, che pria

di Ganimede a mensa Ebe il servia.

La tazza ha il ventre assai capace e grande                           187

e, come vedi, è di cristallo alpino;

sorge vite dal fondo e dale bande

le serpe intorno e fa corona al vino;

son di smeraldo i pampini che spande,

l’uve son di topazio e di rubino;

e’n guisa tal che l’arte assembra caso,

il tronco inferior fa piede al vaso.

In mezzo al vaso ricco e prezioso                             188

sta con arte mirabile piantato

un cespo intier del’arboscel ramoso

che fu già da Medusa insanguinato,

onde il dolce licor d’un fresco ombroso

sparge, né men ch’al labro al’occhio è grato

e mesce il rosso al verde e’nsieme serra

le delizie del mare e dela terra.

Dele gemme ch’ha dentro il prezzo è il meno.                                   189

sottil l’artificio è di quest’opra,

perché mentre la coppa ha voto il seno,

paiono acerbi i grappoli di sopra;

ma quando poi comincia ad esser pieno,

tanto che’l vino infin al’orlo il copra,

s’annegrisce il rigor dela verdura

e diventa l’agresto uva matura. –

Così dic’ella e gliel consegna e porge                                   190

e, veduto Membronio ala pianura,

loqual carco di polve in piè risorge

vie più che di superbia e di bravura,

perché confuso il mira e ben s’accorge

quanto l’affligga il duol di sua sciagura,

non vuol ch’alcuno in sì festoso giorno

da lei si parta con mestizia e scorno.

Una gran fiasca in dono ottien da lei,                         191

opra ben tersa d’acero tornito,

che d’un bel chiaro oscuro in duo camei

per la man del gran Guido è colorito.

In una parte de’ celesti dei

dipinto è il lauto e splendido convito,

nel’altra una vendemmia ha di baccanti,

di selvaggi sileni e coribanti.

Sovragiunge Crindoro il qual si lagna                        192

del torto ingiusto e mostra interno affanno,

dicendo che da lui nela campagna

fu per fraude abbattuto e per inganno.

Graffiasi il volto e di bel pianto il bagna

e vendica nel crin l’ingiuria e’l danno

ed accrescono grazia ala beltate

le chiome polverose e lacerate.

Ride Ciprigna e col bel vel sottile                              193

gli asciuga di sua man gli occhi piangenti.

Poi d’alabastro candido e gentile

fa due portar ben grandi urne lucenti,

già di ceneri sacre antiche pile,

or tutte piene d’odorati unguenti:

– Questi licori preziosi e fini

servanti (disse) a far più molli i crini. –

Dopo le lutte faticose e fiere                         194

la bellicosa dea prende per mano

e la vuol seco giudice a sedere

sovra il gran palco che comanda al piano.

Poi fra le genti armigere e guerrere

fa per l’araldo suo gridar lontano

che chiunque onor brama in campo vada

a tirar d’armi ed a giocar di spada.

Per incitar, per allettar con l’esca                              195

gli animi forti ala tenzon novella,

e perch’ai cori arditi ardir s’accresca,

un dolce premio a conquistar gli appella;

vergine addita lor fiorita e fresca

nata in Corinto e fra le belle bella,

bianca vie più che tenero ligustro,

e compito ha di poco il terzo lustro.

Fu beltà tanta ai fianchi di coloro                              196

che deveano armeggiar, stimolo ardente,

perch’al valor che langue, alto ristoro

i trastulli d’amor recan sovente.

Tosto Brandin comparve ed Armidoro,

l’un detto il feritor, l’altro il valente,

Gauro lo scarmigliato, Ormusto il fiero,

Garinto il rosso e Moribello il nero.

Taurindo il mosco, il tartaro Briferro,                        197

Argalto il siro, il persian Duarte

e Giramon che sì ben gira il ferro

e Fulgimarte, il folgore di Marte.

Magabizzo e Spadocco, un ladro, un sgherro,

ambo or rivolti a più lodevol arte.

Belisardo dal guado, Albin dal ponte,

Grottier dal bosco ed Olivan dal monte.

Mentre son questi in gara ed altri eroi                                   198

di cui la Musa mia l’opre non narra,

Esperio ispano di cui prima o poi

uom più audace non fu, prende la smarra;

e precorrendo i concorrenti suoi,

cacciasi il primo entro la chiusa sbarra,

indi la man toccando ala donzella,

con un sorriso altier così favella:

– Farà meco pugnando oggi costei                           199

d’altra guerra miglior, campo il mio letto.

Non speri alcun dela beltà di lei

finch’avrò questa in man, prender diletto.

Chiunque opporsi ardisce ai detti miei,

venga e’l vieti, se può, ch’io qui l’aspetto.

Gli ozi più dolci son dopo i sudori,

pria convien trattar l’armi e poi gli amori. –

Bardo il toscano allora oltre s’avanza,                                  200

sdegnoso che costui tanto presuma

e dice: – Nel parlar tanta arroganza

dov’è chi più val non si costuma.

Se sostegno non hai d’altra speranza,

giacerai scompagnato in fredda piuma.

Il guadagno non va senza il periglio

e’l ver piacer dela fatica è figlio. –

– E tu chi sei? (replica l’altro) e donde                                  201

il primo a cercar brighe esci fra tanti?

Spesso quand’altri per timor s’asconde,

chi di tutti è il peggior si tragge avanti. –

– Son chi mi sono, e qual mi sia (risponde)

son più di te, che si ti stimi e vanti

e di qualunque alpar di te s’apprezza

degno di posseder quella bellezza. –

Avea per cominciar deposto il manto,                                   202

ma trovò che già preso era l’arringo

e che l’avea già prevenuto intanto

e venia contrEsperio, Ugo il fiammingo;

per attenderne il fin si trae da canto

e vede questo e quel cauto e guardingo

moversi a tempo e’n vaga pugna e nova

vicendevoli industrie usar a prova.

Or s’inchinano al suol curvati e bassi,                                   203

or in men d’un balen levansi in alto,

or fanno innanzi, or tranno indietro i passi,

or son rapidi al giro, or destri al salto.

Trattiensi alquanto il belga e’n guardia stassi,

alfin s’arrischia a più vicino assalto.

Fa pur l’istesso il baldanzoso ibero,

ma volge in simil atto altro pensiero.

Di stringersi con lui si riconsiglia                                204

e non pone al’effetto altra dimora.

Dela spada nemica il debil piglia

siché la sforza a scaricar di fora.

Poi con la sua l’avinchia e l’attortiglia,

vista al disegno suo commoda l’ora.

In qual modo io non so, so che lontano

gliela fa svelta alfin balzar di mano.

Ride ed inerme il lascia ed indifeso                            205

l’altier che’n suo valor troppo si fida

ed a schernir più che a schermire inteso

volgesi a Bardo e lo minaccia e sgrida.

Colui corre al’appello e, d’ira acceso,

vassene ad affrontar chi lo disfida,

loqual contro gli vien per fargli il tratto

che dianzi al’altro astutamente ha fatto.

Ma quel d’Etruria che’l suo gioco intende,                            206

svia con la palma il ferro e lo raffrena,

con la manca la destra indi gli prende

e la guardia gli afferra e gl’incatena

e mentre in guisa il tien che non l’offende

passandogli col piè dietro la schiena,

di piatto ancor, quasi fanciul con verga,

al superbo spagnuol batte le terga.

Non riposa egli già poich’ha del Tago                                   207

l’altero idalgo umiliato e vinto,

ché di nova fatica è ben presago,

visto Olbrando l’insubre a pugna accinto,

che’l capo ha di gran piume ornato e vago

e di banda purpurea il petto cinto.

Largo fa questi il gioco e con bravura

leggiadra da veder più che secura.

Con ampie rote intorno a lui passeggia                                  208

e’l taglio adopra a dritto ed a traverso.

Senza intervallo alcun sempre colpeggia

e tien nel colpeggiar modo diverso.

L’altro sta ben coverto e temporeggia

col ferro al ferro di lontan converso.

Alfin, quando a misura esser s’accorge,

il tempo coglie e’ncontr’a lui si sporge.

Saggio è chi coglie a tempo il tempo lieve,                            209

che lieve più che stral vola e che vento

ed è picciolo instante, attimo breve

e quasi indivisibile momento.

Ma se’n ogni altro affare esser non deve

altri a pigliarlo neghittoso e lento,

più nella scherma è necessario assai,

ché se’l lasci fuggir, non torna mai.

Tosto ch’a senno suo gli apre la porta                                  210

colui che di ferir l’aure si vanta,

più non indugia il tosco e non sopporta

ma la stoccata subito gli pianta;

e con impeto tal la punta porta

lancia ver lui con furia tanta,

ch’a cader quasi indietro ei l’ha costretto

e la spada gli rompe in mezzo al petto.

Applaudon tutti allor, ma quando Bardo                               211

già nel pugno la palma aver si stima,

di lui si duol lo schermidor lombardo

e ceder non gli vuol la spoglia opima,

anzi perfido il chiama ed infingardo,

con dir che rotto il brando avea già prima

nel’assalto d’Esperio e si querela

ch’egli per fraude il vinse e per cautela.

La fanciulla per man Bardo tenendo                          212

vuol pur che come sua, gli si conceda.

L’altro per l’altra ancor la vien traendo,

ciascun brama per sé la nobil preda.

Ma le due dee gli acquetano, imponendo

ch’ancor da capo a tenzonar si rieda

ed acciocché’l giudicio alfin non erri,

fan visitar con diligenza i ferri.

Per mostrar meglio il ver, la pugna accetta                            213

il guerrier d’Arno, ancorché d’ira avampi,

ed ecco il ferro allor con tanta fretta

torna il bravo a rotar ch’eccede i lampi.

Ma già del’altro il ciel fa la vendetta

e’l caso vuol che l’aversario inciampi,

ch’un non so che gli s’attraversa al passo

e’l piè gli manca e sdrucciola in un sasso.

Con la chiave del piè guasta e scommessa                            214

risorge Olbrando dale molli arene,

dolente sì che’n mezzo al’ira istessa

al nobil vincitor pietà ne viene,

loqual cortesemente a lui s’appressa,

a levarsi l’aita e lo sostiene

ed obliando le discordie e l’onte

gli forbisce le vesti e’l bacia in fronte.

La giovane tra lor già litigata                         215

restò pur finalmente in suo potere,

e l’altro, che pur dianzi avea stracciata

la traversa vermiglia in su’l cadere,

un’altra n’ebbe, intorno intorno orlata

di merletti di perle a tre filiere

ed avea di grottesche e di fogliami,

lavor di nobil ago, ampi riccami.

– Più che propria virtù destin secondo                                  216

diè questa palma (ei disse) al mio rivale.

Colei che n’erge in alto e spinge al fondo,

dona spesso gli onori a chi men vale. –

E l’altro allor: – Più dee pregiarsi al mondo

favor divin d’ogni valor mortale.

Se le stelle mi ferfortunato,

dunque il ciel m’ama e ne ringrazio il fato. –

Vener qui s’interpose e sciolse il nodo                                  217

con un dolce sorriso ala favella:

Vincasi pur in qualsivoglia modo,

che la vittoria alfin fu sempre bella. –

Tronco il filo ala lite e fisso il chiodo

al decreto immortal, la dea più bella

dopo questi i duo primier campioni

contenti anco restar con altri doni.

Ponsi poscia a mirar Marzio e Guerrino,                               218

l’un de’ quali è guascon, l’altro normanno,

l’un e l’altro iracondo e repentino

che tolerar, che destreggiar non sanno.

Esce pria l’aquitano, indi vicino

fattosi al’altro, ove le smarre stanno,

perché vinto d’orgoglio esser non soffre,

de’ duo stili d’acciar la scelta gli offre.

Eran le smarre ben temprate e dure,                         219

quantunque oltre il dever lunghe, sottili.

Guerrin sorride e dice: – Altre armature

si convengon che queste a cor virili.

Parmi un scherzar da pargoletti o pure

un pugnar da guerrier codardi e vili.

A dirti il ver, meglio amerei provarmi

con la spada di fil che con quest’armi. –

– A chi pace non vuol, guerra non manca                             220

 (Marzio risponde) in campo ecco mi vedi.

Voglimi o con la nera o con la bianca,

pronto sempre m’avrai qual più mi chiedi. –

Non vuol Ciprigna che la coppia franca,

che già nova disfida ha messa in piedi,

la festa sua sì dilettosa e lieta,

macchi di sangue e gliel contende e vieta.

Grida Guerrino: – Almen fa che sien tolti                               221

dale punte de’ ferri i duo bottoni,

sien da’ colpi eccettuati i volti;

mantenga poi ciascun le sue ragioni. –

– Non creder ch’io miglior novella ascolti,

men brami di te quel che proponi

 (replica Marzio) e freme iratamente,

onde Vener, costretta, alfin consente.

Non molto in lungo andò tra loro il gioco,                             222

né l’un del’altro ebbe la man men presta.

Si serrar tosto insieme i cor di foco

e la mira pigliaro ambo ala testa.

Onde l’assalto lor, che durò poco,

si terminò con azzion funesta

e passato e squarciato al’improviso

l’un con l’occhio restò, l’altro col viso.

Poich’ha la dea, non senza doglia acerba,                             223

visto il tragico fin dela battaglia,

in risanargli con qualch’utilerba

prega Apollo a mostrar quant’egli vaglia.

Poi dona a Marzio d’agata superba,

da portar nel cappel, ricca medaglia

ed a Guerrin d’una fattura estrana,

per ornarsene il petto, aurea collana.

Sorge Altamondo, un aleman membruto,                              224

di superbia e di vin fumante e caldo

e non attende che col suono arguto

l’inviti in campo a duellar l’araldo.

Cariclio, il greco, è contro lui venuto,

d’ossa minor, ma ben robusto e saldo,

uom di corpo, di piè, di mano attivo,

di spirto pronto e di coraggio vivo.

Vassene il greco senza far parole                              225

per dargli il primo allor allor di piglio;

aspettar che si scaldi egli non vole,

stima il dargli tempo util consiglio,

ché la ruina di sì greve mole

teme e’l restarne oppresso è gran periglio.

Onde nel ripararsi e nel colpire

del’industria si serve e del’ardire.

Nele sue guardie ha di svantaggio il grande                           226

e d’uopo è ben ch’anch’egli il senno adopre,

ch’ad ogni moto che le braccia spande,

del’ampio corpo una gran parte scopre.

Mal picciolo davante e dale bande

facilmente si serra e si ricopre

e può meglio cangiar sito e postura,

non avendo a guardar tanta statura.

Mentre i colpi il germano adombra e finge                            227

con molti tempi e’l tempo indarno spende,

l’ultima parte del suo forte ei spinge

siché nel mezzo il debile gli prende;

gli guadagna la spada, indi si stringe

seco ed addosso gli si scaglia e stende,

potendol ferir di piede fermo

con fugace trapasso usa altro schermo.

Su per la spada, che Cariclio ha stesa,                                  228

quegli allor trae di punta inver la faccia;

ma questi anch’ei di punta a fargli offesa

sotto il braccio suo destro il ferro caccia,

e per non s’arrischiar seco ala presa,

che sa ch’ha maggior forze e miglior braccia,

senz’altro indugio in un medesmo istante

lo ferisce nel fianco e passa avante.

Per dargli in testa, con un tratto accorto                                229

di riverso al cavar tira Altamondo;

ma l’altro allor, che si ritrova al corto,

mentre la spada si rivolge in tondo,

subito che del ferro il giro ha scorto

su’l primo quarto il batte col secondo,

la misura gli rompe e con tre passi,

cautamente veloce, indietro fassi.

E perché vede che il nemico a molta                         230

possanza accoppia ancor scaltrito ingegno

e se sotto gli va sol una volta

non avrà quella furia alcun ritegno,

fa, con la mente in sé tutta raccolta,

ricorrendo al’astuzie, altro disegno

ed usa ogni arte accioché vinta sia

dala sagacità la gagliardia.

Torna e di novo ancor gli s’avicina,                           231

fingendo di tentar nove passate,

poscia, con gran prestezza, il capo inchina

tra le cosce di lui che l’ha sbarrate

e in aria con altissima ruina

dopo’l tergo sel gitta a gambe alzate,

siché dele gran membra il vasto peso

riman, quant’egli è lungo, a terra steso.

Venere una cintura allor gli dona                               232

ch’ha di sottil riccamo i guernimenti

e son d’oro le brocche, ond’ala zona

s’affibbian col tirante i perpendenti.

E’l tedesco, ch’al suol con la persona

brutta di polve, sparge alti lamenti,

guadagna anch’ei, benché turbato e tristo,

contro l’ebrezza un indico ametisto.

Ma già Cencio e Camillo il vulgo aspetta,                             233

ogni voce nel circo omai gli chiama.

Tanta è l’opinion di lor concetta,

che’l popol tutto il paragon ne brama.

Coppia questa di mastri era perfetta,

emuli d’alta stima e di gran fama,

ch’ebber per mille palme infra i migliori

nele scole latine i primi onori.

Nacquero in riva al Tebro, ambo romani,                             234

ma da’ nativi lor patri soggiorni

per desio di veder paesi estrani,

capitati eran qui di pochi giorni.

Già di spada e pugnale arman le mani,

d’abito lieve e rassettato adorni

e succinta hanno a studio in su’l farsetto

spoglia di bianco lino intorno al petto.

Ed accioché de’ colpi il segno resti                           235

nela candida tela e vi s’imprima,

dal’un canto e dal’altro e quegli e questi

tinti han di nero i ferri insu la cima.

Non sono ad affrettarsi ancor sì presti

e non si stringon subito ala prima,

ma fanno, intenti ad ogni moto e cenno,

moderator del’ardimento il senno.

Tenta ciascun con ingegnose prove                           236

farsi al proprio vantaggio adito e strada.

Concorde al corpo il piè, concorde move

l’occhio ala mano ed ala man la spada.

Or minaccia in un loco e fa ch’altrove

inaspettata la percossa cada,

or, risoluto l’un l’altro incontrando,

sottentra insieme e si sottragge al brando.

In ambo la ragion s’agguaglia al’ira,                          237

l’un e l’altro è delpari agile e forte.

Quegli talor accenna e talor tira

colpi furtivi con insidie accorte;

questi girando al ferro ostil che gira,

oppon guardie sagaci, astute porte.

Se l’un con leggiadria chiama fingendo,

l’altro con maestria para ferendo.

Camillo, ove il passaggio aperto vede,                                  238

spinge la spada per entrar veloce:

Ripara or questa – dice, e batte e fiede

col piè la terra e l’aria con la voce.

Ma Cencio con la sua non gliel concede,

l’urta in sul forte e la ribatte in croce,

sovra l’elsa la ferma e dal’impaccio

ritrae subito poi libero il braccio.

In un tempo medesmo il ferro abbassa                                  239

dritto al costato inver la manca parte

e mentre impetuoso andar si lassa,

grida: – Così s’inganna arte con arte. –

L’altro il periglio del furor che passa

schiva col fianco e traggesi in disparte;

ed ambo i ferri, mentr’un poggia un cala,

scorrono invan sul tergo e sotto l’ala.

Non molto stan, ch’essendo entrambo in punto                                240

di tornar ale prese ed ale strette,

tiran di punta in un medesmo punto

ratti che del ciel sembran saette;

e’n quella parte ove l’un coglie apunto,

l’altro né più né men la spada mette.

A colpir questo e quel va su le cosce,

siché vantaggio in lor non si conosce.

La rattacca Camillo e si presenta                              241

col piè destro davante ardito e franco

e’n passo natural vi si sostenta

di profilo col busto e mostra il fianco

e con la spada, che per dritto aventa,

stende il braccio migliore ed alza il manco.

Ripara un col pugnal la testa in alto

e l’altro il corpo dal nemico assalto.

Cencio incontro gli va né si scompone,                                 242

ma col sinistro piede oltre s’avanza;

nel dritto del diametro si pone,

sich’al circol pervien dela distanza

e dela manca spalla il punto oppone

verso la linea ostil, poi fa mutanza

e dal confin che dianzi s’ha prescritto,

di moto traversal move il piè dritto.

Esce dal primo circolo e va ratto                              243

nel secondo de’ quattro a cangiar posto

e rimosso quel punto, annulla a un tratto

dela linea nemica il segno opposto,

e con moto minor di quelch’ha fatto

colui, che di ferirlo era disposto,

e deltutto contrario al’altrui moto,

fa che, se vuol ferir, ferisca a voto.

Quegli allor piede a piede insieme aggiunta,                          244

s’apre in passo di forza e viengli addosso

e la stoccata seguita e la punta

porta a quel segno pur ch’è già rimosso

e’n lui, ma così scarso, il ferro appunta

che tocco si può dir più che percosso.

Il colpo è sì leggier, noce sì poco,

che riman dubbio a chi rimira il gioco.

Ma l’altro a un tempo dala parte aversa                                245

contraposto d’obliquo ala ferita,

la spalla destra, incontr’a sé conversa,

gli ha di ferma imbroccata apien colpita

e col pugnale intanto gli attraversa

la spada ch’al tornar resta impedita;

poi si ritira e con la sua distesa

ponsi e col corpo in scorcio ala difesa.

Qui cenno agli araldi e non permise                                   246

che l’ostinata pugna oltre seguisse

e la coppia magnanima divise

la nemica degli odi e dele risse;

e fu pari la gloria e dele decise

che dipar la mercè si compartisse;

e da Ciprigna in premio e da Bellona

folgorina ebbe l’un, l’altro bisciona.

Erano queste due famose spade,                              247

Enea già l’una e l’altra usò Camilla.

Ambe di rara e singolar bontade

e quella e questa svincola e sfavilla.

dolce è il taglio e così netto rade,

ch’altri prima che’l senta, il sangue stilla.

Hanno ricche guaine e le lor daghe

con bei manichi d’or pompose e vaghe.

Intanto il sol s’inchina e fa passaggio                         248

d’Esperia a visitar l’estremo lito

e stanco peregrin del gran viaggio,

avendo il minor circolo fornito;

carta è il ciel, l’ombra inchiostro e penna il raggio,

onde cancella il ch’è già compito

e’l fin del lungo corso a lettre vive

d’oro celeste in occidente scrive.

Sparito il sole, in apparir le stelle                               249

voto tutto di genti il campo resta.

Chi sotto le frondose e verdi ombrelle

vassene ad alloggiar nela foresta,

chi del palagio in queste stanze e’n quelle

e chi de’ borghi in quella casa e’n questa;

altri giace in campagna e’l giorno attende

tra pergolati e padiglioni e tende.

Ma già traea del Gange i biondi crini                         250

lasciando Apollo i suoi dorati alberghi

e ratto fuor degl’indici confini

ai volanti corsier sferzava i terghi,

per venirsi a specchiar ne’ ferri fini

degli elmi tersi e de’ lucenti usberghi,

onde sembrava al mattutino lampo

tutto di soli seminato il campo,

quando l’usata tromba ecco s’ascolta                                   251

ch’al gran bagordo appella i cavalieri.

Già s’è la turba al nuovo suon raccolta,

già si veggion passar paggi e scudieri

e trar cavalli a mano e gir in volta

con livree, con insegne e con cimieri

e portar quinci e quindi armi ed antenne,

bandiere e bande e pennoncelli e penne.

Mentre che del paese e di ventura                            252

molta cavalleria concorre al gioco,

siché dela larghissima pianura

son già pieni i cantoni a poco a poco,

dela quintana esperti fabri han cura

e di piantarla in oportuno loco;

e proprio insu la sbarra appo la lizza

nel mezzo dela tela ella si drizza.

Sta coverto di ferro un uom di legno,                        253

con lo scudo imbracciato e l’elmo chiuso,

ch’esposto ai colpi altrui, bersaglio e segno

termina il busto in un volubil fuso

e s’affige ala base e gli è sostegno

forato ceppo e ben fondato ingiuso,

sovra cui, quando avien ch’altri il percota,

agevolmente si raggira e rota.

Tre catene ha la destra e quindi avinto                                  254

di tre globi di piombo il peso pende,

siché qualora il manco braccio è spinto,

l’altro con esse si rivolge e stende,

pur come voglia, ale vendette accinto,

castigar chi fallisce e chi l’offende;

né sì cauto esser può, né girsciolto,

che sul tergo il guerrier non ne sia colto.

Un pilier di diaspro in terra fitto                                255

su la porta al’entrar delo steccato

in gran lamina d’or regge uno scritto

a note di rubin tutto vergato:

qui dela giostra il generale editto

che dianzi a suon di trombe è publicato,

di quanto in essa adoperar conviene

le leggi per capitoli contiene.

Bella è la vista a meraviglia e lieta,                            256

varia la gente e l’abito diverso.

Chi scopre nel vestir gioia secreta,

chi tacendo si duol d’amor perverso.

Chi cifra ha d’or su l’armi e chi di seta,

altri in prosa alcun breve ed altri in verso.

Ciascuno o nel colore o nel’impresa

al’amata bellezza il cor palesa.

Sidonio in campo è il primo a comparire,                              257

Sidonio dico, il genero d’Argene,

l’accorto amante il cui felice ardire

meritò d’ottener l’amato bene.

Ma mentre tutto intento a ben ferire

già con la lancia in punto oltre ne viene,

dala sua donna, ch’è sul palco assisa,

con altr’armi è ferito e d’altra guisa.

Quarteggiate d’argento armi azzurrine                                   258

son le divise sue pompose e belle,

di zaffir tempestate e di turchine,

fatte a sembianza d’onde e di procelle,

tra cui consparse son d’acque marine

e di brilli cilestri alquante stelle,

che fanno al sol, sicom’ai lampi il flutto,

balenar, tremolar l’arnese tutto.

La lorica è d’argento, adorna e ricca                        259

dele più belle pietre di levante.

Con fibbie d’or si serra e si conficca

con chiodetti pur d’oro e di diamante.

Bandato vien d’una cerulea stricca,

con bei fiocchi di seta ingiù cascante;

e del color medesmo al destro braccio

tien di biondi capei trecciato un laccio.

Perché Dorisbe azzurra usa la veste,                         260

veste anch’egli l’azzurro e l’usa e l’ama

e l’auree fila in quel cordon conteste

son dele chiome pur dela sua dama.

Con piume d’or quel fanciullin celeste,

quel nudo arcier ch’Amore il mondo chiama,

sovra la rota di Fortuna assiso

porta nel’elmo e nelo scudo inciso.

Esce per sorte a tutti gli altri avanti                            261

e’l primo loco ad occupar si move.

Tre volte correr sol lice a’ giostranti

per legge dela dea figlia di Giove.

Soriano ha un corsier, che i primi vanti

riportò dela giostra in cento prove

e già chiede coringhi, accinto al corso,

al suo signor la libertà del morso.

È baio e di fattezze assai ben fatte,                            262

grasso petto, ampia groppa e largo fianco.

Spesso col piè sonoro il terren batte,

ora col destro il zappa, ora col manco.

Quasi notturno ciel solco di latte,

gli divide la fronte un fregio bianco,

brune ha gambe e ginocchia e brune chiome,

duo piè balzani e Balzanello ha nome.

Di pace impaziente e di dimora,                                263

sente l’odor dela vicina guerra.

Tende l’orecchie e sbuffa adora adora,

le nari ador ador gonfia e disserra,

tutto spumoso il ricco fren divora,

drizza il collo, erge il crin, gratta la terra.

E tosto che tre volte ode la tromba

par sasso che volando esca di fromba.

Gli stringe i fianchi e l’una e l’altra costa                                264

con gli stimuli d’or punge e ripunge,

e di dove apunto il colpo apposta

va per dritto a ferir non molto lunge.

Il buon destrier, ch’al termine s’accosta,

para in tre salti e, quando alfin vi giunge,

al mormorio del’ottenuta laude

con la testalta e col nitrito applaude.

Tra’l segno inferior ch’è nela gola                             265

e’l secondo di mezzo il tronco ei spezza;

e benché’l pregio è d’una botta sola,

Vener, che molto il suo fedele apprezza,

col dono avantaggiato il riconsola

d’un fornimento pien d’alta ricchezza,

guernigion da destrier superba e bella

con testiera e groppiera e fascia e sella.

A lui succede un saracin di Tarso                              266

che la corazza e la divisa ha nera

e di serpi d’argento il campo sparso

dela cotta che l’arma ala leggiera.

Con l’asta in pugno è nel’agon comparso,

che pur di negro in cima ha la bandiera;

sul sinistro galon curva la storta

e’l turcasso con l’arco al tergo porta.

Passato un cor d’acuto strale e crudo                                   267

ha per cimier la cappellina bruna.

Di gran foglie d’acciar fasciato scudo,

scudo a sembianza di non piena luna,

copre senza bracciale il braccio ignudo,

color v’ha né v’ha pittura alcuna

fuor due righe di bianco e dice: – O morte,

l’anima senza corpo, o miglior sorte. –

Avea per la bellissima Adamanta,                             268

figlia del re d’Arabia, il cor ferito.

Era però dala vezzosa infanta

ogni servigio suo poco gradito

e, benché fusse in lui prodezza quanta

illustrar possa altrui, languia schernito,

perché mento avea raso, irsuto labro,

viso pallido, brun, rugoso e scabro.

Tosto riconosciuto ala coverta                                  269

del’armi fu com’uom famoso e chiaro.

Veggendol poi con la baviera aperta,

le turbe intorno un lieto grido alzaro:

– Ecco Alabrun che’n ogni colpo accerta,

Alabrun dala lancia, il campion raro.

Senza dubbio egli è desso. Avrà tra poco

termin la festa e si vedrà bel gioco. –

Vien portato costui da un suo stornello                                 270

rapido sì, che se’n campagna il vedi

formar volte e rivolte, agile augello,

mobil paleo, volubil fiamma il credi.

E se’n fuga ne va spedito e snello,

par le procelle apunto abbia ne’ piedi.

Vergato a bruno e pien d’alto ardimento,

vola, non corre, e nome ha Passavento.

Sovente il crin solleva, erge la testa                           271

e picchia il suol con la ferrata zampa,

calca nel corso l’erba e non la pesta,

preme col piè l’arena e non la stampa;

soffia borfando e’n quella parte e’n questa

sempre si volge e d’alto incendio avampa;

chiude, né trova al suo furor mai loco,

sotto il cener del manto alma di foco.

Contan che del’arabica pendice,                               272

mentre pascea l’armento in riva al’acque

pien di quella incostanza, imitatrice

del mar vicino, insu gli scogli nacque.

Nettun primier domollo, anzi si dice,

che talor di montarlo ei si compiacque.

Quel veloce il portava e vie più lenti

ne venian dietro ad emularlo i venti.

Pungendo ei dunque a quel destrier la pancia,                                   273

è sì rapace e violento il moto,

ch’agio non ha d’arrestar pur la lancia,

perde l’incontro e fa l’arringo ir voto.

Onde, infiammato di rossor la guancia

per errornotabile e sì noto,

ritorna a spron battuto e briglia sciolta

a serrarlo nel corso un’altra volta.

Vana ancora è la botta ed è tra via                           274

dal soverchio furor dispersa e guasta,

che pria che giunto ala sortice ei sia

per sestessa in andar si rompe l’asta:

– Ancor tu contro me, Fortuna ria,

 (disse) congiuri? Amor solo non basta?

Venga il mio Farfallino! – e dai sergenti

gli fu innanzi recato ai primi accenti.

Questo del’altro è men carnoso e grande,                             275

stretto di ventre e corto di giunture.

È del color dell’uve e dele ghiande

quando in piena stagion son ben mature.

Biondi, quasi leone, i velli spande

ed ha luci vermiglie e gambe oscure,

membra svegliate ad ogni cenno e pronte,

rabican nela coda e nela fronte.

La guernitura è candida e morella                             276

con bei puntali di lucente smalto,

ma di lame acciarine arma la sella,

ben ferme e forti ad ogni duro assalto.

Selva di folte piume ombrosa e bella

gl’imbosca il capo e si rincrespa in alto.

Semedesmo ei vagheggia ed orgoglioso

de’ ricchi fregi suoi non ha riposo.

Vi salse il moro e, del’error commesso                                 277

tutto stizzoso, un’altra lancia tolse

e di meglio colpir fermo in sestesso,

contro il facchin le redine gli sciolse;

e’nfin al pugno alfin la ruppe in esso

e tra’l visale e la nasella il colse;

e senon che strisciò raschiando il segno,

del primo pregio il colpo era ben degno.

Pur dala bella giudice, che i gesti                               278

stava a notar de’ giostrator baroni

per compartir conformi a quegli e questi

gli onori al’opre, ale fatiche i doni,

in pegno di conforto ai pensier mesti

un paio riportò di ricchi sproni,

che di fin or le fibbie e le girelle

e d’aguzzi diamanti avean le stelle.

Floridauro e Rosano eran duo pegni                         279

d’una portata insieme al mondo nati

e pargoletti ereditaro i regni

de’ Caspi alpestri e de’ Rifei gelati.

Ma poi per colpa di duo servi indegni,

che già dal morto re furo essaltati,

a tradigion del regio scettro privi

n’andaro orfani un tempo e fuggitivi.

Cresciuti in forze e pervenuti agli anni                                   280

mossero l’armi intrepidi guerrieri

e vendicaro i ricevuti danni

e racquistaro gli usurpati imperi.

Or già vinti ed uccisi i duo tiranni,

qua ne veniano i giovinetti alteri

e del color del’erbe e dele foglie

sparse di soli d’oro avean le spoglie.

L’oro forbito insu l’arnese verde                               281

in cotal guisa folgora e risplende,

che la vista abbarbaglia e la disperde

e’l finto sol col vero sol contende

e contendendo al paragon non perde

ché, se raggi ne trae, lampi gli rende.

Ambo egualmente di due belle imprese

fanno al’elmo ornamento ed al pavese.

Nel’una è un sole a cui velar la luce                          282

tenta vil nube e ricoprir la faccia;

Ingrata al genitor che lo produce

dice il cartiglio che lo scudo abbraccia.

Nel’altra il sol istesso anco riluce

che’l malnato vapor distrugge e straccia;

e dice il motto insu la targa al tergo:

– Io che’n alto la trassi, io la dispergo. –

Cavalca quei di placida andatura                              283

destrier gentil che nel’andar paleggia.

Tranne il ciglio e’l calcagno, in cui Natura

sparse alquanto di brun, tutto biancheggia

e’l cigno intatto e la colomba pura

nela canicie del bel pel pareggia.

Sembra al’andar, sì vago è quel cavallo,

sposa in passeggio o donzelletta in ballo.

Nacque di padre trace e madre armena                                284

ne’ monti dov’aquilone alberga.

Nominossi Armellino e l’ampia schiena

un profondo canal gli riga e verga.

Rimorde il morso che con or l’affrena

e si lascia con man palpar le terga.

Sbavan le labra e con lasciva sferza

la lussuria del crin su’l collo scherza.

Picca quest’altro un barbaro veloce                          285

ch’egual quasi al pensiero il corso stende.

Delo spron, dela verga e dela voce

pria che senta il comando, il cenno intende.

Fierezza vaga e leggiadria feroce

umile al morso alteramente il rende.

Steril per arte e meglio assai per questo,

fatto inabil marito, abile al resto.

Chiamasi il Turco e dela Furia lieve                           286

diresti e che del’Impeto sia figlio,

lungo e sottil la gamba, asciutto e breve

il capo, alto la fronte, altero il ciglio.

Di tutto il corpo ch’è di bianca neve

l’estremo dela coda ha sol vermiglio,

picchiato a schizzi e di macchiette fosche

puntellato il mantel come di mosche.

Corsero alternamente e pria Rosano                         287

ben due volte colpì nela gorgiera.

Corse la terza poi, ma corse invano,

che la sbarra toccò nela carriera.

Non meglio di lui l’altro germano,

che due volte tornò con l’asta intera;

fallò duo colpi ed ala terza botta

gli danno maggior l’averla rotta.

Mentre che’n cento pezzi ala goletta                         288

la ruppe con la man possente e franca,

una scaglia volò come saetta

e si confisse al corridor nel’anca;

ond’a contaminar la neve schietta

di quella spoglia immacolata e bianca,

videsi tosto un vermiglietto rivo

per la piaga spicciar di sangue vivo.

Di quel caso pietosa e di quel sangue                                    289

Venere il tutto ad osservare intenta,

al primo un bel cimiero in foggia d’angue

fabricato di gemme in don presenta.

Al’altro, in vece del destriero essangue,

di pel simile al’ambra una giumenta

che già di poco ingravidata il seno

di parto ancor non ben maturo ha pieno,

specchio e corona dele frigie stalle,                           290

figlia di bella e generosa madre

e dele più magnanime cavalle

scelta per la miglior fra cento squadre.

Nel petto, nele groppe e nele spalle

pomellata è di macchie assai leggiadre.

Dala vivacità che in lei sfavilla

il nome tolse e s’appellò Favilla.

Segue Montauro, uom ben corputo e grosso,                                   291

da sei scudieri accompagnato e cinto

con l’istessa livrea ch’ei porta addosso

stellata d’oro in un rossor mal tinto.

Lo scudo altier, che similmente è rosso,

tien del gran Giove il fulmine dipinto.

Di corona real, tutta contesta

di gemme e d’or, cerchiato ha l’elmo in testa,

e nela sommità del morione                           292

par fischi e spiri fuor fiamma vivace

e spiega l’ali ed apre un fier dragone

del’ampia gola il baratro vorace.

Saginato e rossigno ha un suo ronzone

ch’ala grandezza sua ben si conface.

Nacque in India sul Gange ed è cornuto

e’l corno è lungo e più che lancia acuto.

Pende un fiocco di perle al corno in punta,                            293

di perle dele noci assai maggiori.

Porpora con argento inun congiunta

d’un sovrariccio d’or broccata a fiori

che, del’estremo margine trapunta

di bei fregi ha la fascia e di lavori,

tuttutto il superbissimo Alicorno

tien dal capo al tallon bardato intorno.

Gonfio di gloria e di superbia pazza                          294

in sestesso il guerrier si pavoneggia

e quantunque sia solo in sì gran piazza,

tutta ei solo l’occupa e signoreggia.

E benché forte e di feroce razza,

l’animal, che cavalca e che maneggia,

sotto il peso che porta insu la schiena,

ficca un braccio le braccia entro l’arena.

È re di Rodo. Il regno a cui comanda                                   295

con Cipro insu i confini è sempre in guerra.

Questi in atto sprezzante allor da banda

per giostrar su le mosse un tronco afferra.

Ma l’araldo ne vien che gli dimanda

chi siasi e di qual gente e di qual terra.

Risponde il fier, colmo d’orgoglio e sdegno:

– Chi’l sol non vede è dela luce indegno.

Sole è il mio nome e non è loco alcuno                                 296

dove chiaro non sia, né più dirotti

ch’esser ben devria qui noto a ciascuno

il temuto flagel de’ Cipriotti.

Ciò basti e basti sol ch’io mi son uno

uso a far molti fatti e pochi motti. –

Non bada a far, ciò detto, altro discorso,

la lancia impugna e s’apparecchia al corso.

L’orecchie apena il primo suon gli fiede                                297

del tortuoso incitator metallo,

che dispicca un gran trotto e ne succede

l’effetto mal, bench’abbia scusa il fallo.

Sinistrando il destrier dal destro piede,

cadder tutti in un fascio uomo e cavallo.

Quel suo dal corno è poderoso e grave

e del mestier la pratica non have.

Levasi infretta dal’immonda sabbia                           298

tra sé fremendo irato e furibondo;

e perché, quando colpa egli non v’abbia,

chi manca al primo arringo esce al secondo,

rimonta arso di scorno, ebro di rabbia

in un altro corsier membruto e tondo,

di non minor possanza e gagliardia,

che la dea degli amori in don gl’invia.

D’un’alfana di Scizia e d’un centauro                                    299

nel freddo Pangeo fu generato.

Il suo pelame è del color del’auro,

il suo nome per vezzo è lo Sfacciato,

perché sol nela faccia, il resto è sauro,

d’una gran pezza bianca ei va segnato.

Di quattro gambe parimente è scalzo

e camina saltando a balzo a balzo.

Poco miglior del primo il second’atto                                    300

seguì, perché dal segno ancor lontano,

lo sconcerto e’l disordin fu sì fatto

che si lasciò la lancia uscir di mano.

Pur la ripiglia e studia il terzo tratto

per far buon corso e non ferire invano,

dando loco altrui d’entrar in campo,

con l’incontro emendar cerca l’inciampo.

Lo scudo del facchin nel mezzo imbrocca                             301

che la scorza ha d’acciar lubrica e liscia,

onde vien l’asta ingiù tosto che’l tocca,

di sghembo a sdrucciolar con lunga striscia.

Girasi il torno e la catena scocca,

che s’ode allor fischiar com’una biscia

e nel passar con le piombate palle,

fa lunge al cavalier sonar le spalle.

Qual robusto castagno o pino alpino                         302

del celeste centauro ai primi orgogli,

s’avien che del bel verde ostro o garbino,

la folta chioma e le gran braccia spogli

o ch’a busse ne scota il contadino

gl’irsuti ricci e i noderosi scogli,

fulmina al piano i frutti suoi sonori,

dele mense brumali ultimi onori,

tal quella mobil machina che presta                           303

in semedesma si raggira e libra,

facendo allor fioccar l’aspra tempesta

il braccio move e le catene vibra

e’n tal guisa al guerrier la schiena pesta

ch’ogni nervo gli dole ed ogni fibra.

Batte le palme il vulgo e fischia e grida,

non è vecchio o fanciul che non ne rida.

Tornaro i primi a replicar l’antenne:                           304

tal n’ebbe onor che fu biasmato avante;

e spesso il piombo incatenato venne

a scaricar la grandine pesante.

Così la piazza un pezzo si trattenne

con gran piacer del popol circostante;

e ciascun tanto o quanto, il vile e’l prode

n’ebbe chi più, chi meno, o premio o lode.

Vede girando poi Vener le ciglia                               305

a coppia a coppia entrar nela barriera

di diciotto guerrier nobil quadriglia,

ai sembianti ed agli abiti straniera.

L’armatura ciascun porta vermiglia,

salvo colui che capo è dela schiera;

e con tal grazia e maestà cavalca

che’l passo volentier gli apre la calca,

onde ala saggia dea dela civetta                                306

stupida in atto si rivolge e parla:

– Che squadra è quella che fra l’altre eletta

trae tutti gli occhi intenti a vagheggiarla

e vien con sì bell’ordine ristretta,

ch’io per me non saprei, senon lodarla? –

Così dice la dea nata dal’onde

e la vergin del ciel così risponde:

– A la tua Teti è ben ragion che porti                        307

questo di fortunato obligo eterno,

perché mentre pur dianzi i guerrier forti

prendendo in picciol legno i flutti a scherno

trascorreano i sentier torbidi e torti

del’elemento a lei dato in governo,

per onorar la tua famosa festa

l’acque turbò con subita tempesta;

onde il drappello aventurier, ch’errante                                 308

altre imprese cercando in Asia giva,

stanco dal mareggiar, fermò le piante

in quest’amena e dilettosa riva.

Or qui finché s’acqueti il mar sonante

vien per provarsi ala tenzon festiva,

peregrin di costume e d’idioma

e v’è dentro raccolto il fior di Roma.

Chiamala ognun la compagnia del foco                                 309

perché qual foco dissipa e consuma.

Non trova al suo valor riparo o loco,

arde pertutto e tutto il mondo alluma.

Ciascun destriero in vera pugna o in gioco

di tre penne sanguigne il capo impiuma.

Gli elmi e l’armi hanno eguali e questi e quelle

han per fregi e cimier fiamme e fiammelle.

Tutto delpari ala medesma guisa                               310

l’inclito stuol di porpora è guernito,

senon quanto diversa è la divisa

di cui ciascun lo scudo ha colorito.

Solo colui, meco lo sguardo affisa

a quel primier ch’io ti dimostro a dito,

come di tutti lor suprema scorta,

differente dagli altri il vestir porta.

Quegli è Michel che, quasi eccelso duce                               311

vien dela truppa e condottier sovrano,

pompa, gloria, delizia, unica luce

de’ sacri colli e del’onor romano.

Scelto fu dagli eroi ch’egli conduce

di consenso commun per capitano.

Ecco la sbarra d’ostro, ecco l’altero

leon che s’erge e tien fra l’unghie il pero.

Colui ch’è seco insu la fila prima,                              312

è il gran Ranuccio, intrepido campione,

tra i più chiari guerrier di somma stima

vibri l’asta o la spada insu l’arcione;

onde, poggiato dela gloria in cima,

mille l’attendon già palme e corone.

Su la rotella d’or mira dipinti

con le foglie cerulee i sei giacinti.

Pietro il seconda, alta speranza e pregio                               313

d’Italia tutta e l’onorato stemma

in celeste color con ricco fregio

d’un aureo rastro e di sei stelle ingemma.

Marcantonio è con lui, giovane egregio,

guarda colà misterioso emblemma:

convien pur che soggiaccia, il senso esprime,

l’infernal drago al’aquila sublime.

L’altro che segue e la colonna mostra                                   314

bianca insu’l minio ed ha sì fier l’aspetto,

Sciarra s’appella, e’n guerra mai né in giostra

non fu più ardito cor, più franco petto.

Virginio è quei che’l puro argento inostra

di tre traverse di rubino schietto,

anima illustre e d’adornar ben degna

del tuo bel fior la gloriosa insegna.

Vedi un che degli augei l’alta reina                            315

tarsiata ha di scacchi orati e neri,

lucido sol dela virtù latina;

Camillo ha nome, ascritto infra i primieri.

Sabellio seco apar apar camina,

specchio immortal di duci e di guerrieri;

conosco ben l’impronta sua famosa

ch’è la colomba e tra i leon la rosa.

Eccone un’altra coppia; al destro fianco                               316

veggio un baron di generose prove,

Ruggier, che sovra’l fondo azzurro e bianco

inquartato l’augel porta di Giove.

Veggio poi Sforza che gli vien dal manco,

né con minor baldanza il destrier move;

figura in su’l turchin l’orbe di smalto

aureo leon con aureo pomo in alto.

Ve’ Gismondo ed Emilio. O stirpe altera,                             317

tra le fortune invitta e tra’ perigli!

Quei sovralta colonna aquila nera

spiega che spiega l’ali, apre gli artigli,

dove stretta in catene è quella fera

che riforma lambendo i rozzi figli.

Questi, ch’è de’ più celebri e più conti,

un cornio ha nel brocchier sovra tre monti.

Orazio è quegli che nel vermiglio                           318

tre lune d’oro ancor crescenti ha sparte.

Signor d’armi possente e di consiglio,

del guerreggiar, del comandar sa l’arte.

D’una ninfa del Tebro è costui figlio

onde figlio lo stima altri di Marte;

ed è ben tal, ché Marte ei sembra apunto,

Marte quando è però teco congiunto.

Mario a lato gli va. L’armi che cinge,                        319

fuor lo scudo ch’è rosso, ha tutte bianche.

Duo leoni in quel rosso egli dipinge

che quattro pani d’oro han tra le branche.

Annibaldo la lancia aprova stringe

e’n sembianze ne vien feroci e franche.

Il bruno scorpion scolpisce in oro,

che vessillo fia poi del fiero moro.

Il buon Curzio procede a lui vicino,                           320

Scipio con Fabio alfin dietro s’accampa.

L’un nel targone azzur sculto d’or fino

tien l’animal magnanimo che rampa.

L’altro il quartier dorato e purpurino

di croce trionfal per mezzo stampa.

L’ultimo ha lista d’or che per traverso

scacchier divide innargentato e perso.

Ma non vedi un di lor ch’ha già l’antenna                              321

sovra la coscia e, benché grave e grossa,

lieve giunco gli sembra ed agil penna,

stiam pur dunque a mirar quant’egli possa.

Già fattosi da capo, ecco ch’accenna

dritto insu’l filo entro l’agon la mossa.

Ecco volar qual folgore leggiero

la piuma che fiammeggia insu’l cimiero. –

Intanto poiché furo i nomi scritti                                322

de’ cavalier dala divisa ardente

e d’osservare i promulgati editti

giuraro e per mirar tacque la gente;

correndo ad un ad un gli emuli invitti,

tutti si segnalar notabilmente;

alcun non fu che non n’uscisse apieno

o con vittoria o con applauso almeno.

Restava sol colui che dela bella                                 323

brigata quasi il principal venia

quando con foggia insolita e novella,

il serraglio passò dela bastia;

so s’alcun sì ben disposto in sella

l’agguagliasse giamai di leggiadria.

Dopo tutti, costui venne solingo

signorilmente a posseder l’arringo.

Il più superbo augel su la celata                                324

trionfante nel’atto ha per cimiero,

qualor gonfio di fasto apre e dilata

dele conche di smalto il cerchio intero

e dela piuma florida e gemmata

spiegando gli orbi di sue pompe altero,

la bella scena dela coda grande

di cento specchi illuminata spande.

Di più color la sovravesta intesse                              325

che la spoglia non è di Flora o d’Iri,

in cui le cime dele penne istesse

son di smeraldi in vece e di zaffiri,

sì ben da dotto artifice commesse

che par che’ntorno il fermamento ei giri.

Par con tant’occhi un Argo e sembra armato

un giardino fiorito, un ciel stellato.

Con l’abito ha il destrier qualch’agguaglianza,                                   326

non so s’altro mai tal ne fu veduto.

Bianco ha il mantello e’n disusata usanza

sparso di nere macchie il pel canuto;

ma le macchie e le rote hanno sembianza

di ciglia e d’occhi, ond’ei rassembra occhiuto.

Cervier s’appella e par mentre passeggia

l’orgoglioso pavon quando vaneggia.

Un fusto intier di frassino silvestro                             327

per far buon colpo a bella posta elegge.

Prima sel reca in man dal fianco destro,

poi tra via l’alza e’nsu la destra il regge.

Ma qual braccio poria forte e maestro

piegarlo pur, non che ridurlo in schegge?

Tre volte corre e’l saracin percote,

ma quel duro troncon romper non pote.

Ed ecco dopo lui vi comparisce                                328

altro stranier che’l popol folto allarga.

Nel suo volto e negli anni april fiorisce,

par che raggi d’amor per tutto sparga.

Per obliquo ha costui tre mezze strisce

di lucid’or nella purpurea targa

e su l’elmetto, ch’è di salda tempra,

la fenice immortal quando s’insempra.

Non solo eterne in questa esprime l’opre                              329

del proprio singolar pregio e valore,

ma dela donna sua la beltà scopre,

ch’è del mio bel Sebeto unico onore.

Di morato satì l’armi ricopre,

color gentil che pur dinota amore,

in foggia di mandiglia o di guarnacca

che con bottoni di rubin s’attacca.

Io non so dir se quel superbo arnese                         330

di tanti fregi e sì pomposo adorno

già dal nobil signor del bel paese,

a cui fan l’Alpi ampia corona intorno,

al gran monarca del valor francese

donato già nel trionfal ritorno,

fusse tal ch’agguagliar potesse in parte

di questa spoglia o la ricchezza o l’arte.

Di genitrice ispana e padre moro                              331

regge un destrier ch’agli atti è foco e vento.

La groppa, il capo e tutto il resto ha d’oro,

fuor che’l sinistro piè che sembra argento,

e dela bardatura il bel lavoro

pur d’oro è tutto e d’oro il guernimento,

d’oro le staffe e d’oro il fren spumante

e d’or porta calzate anco le piante.

Del cavalier che lo cavalca e doma                           332

è l’occhio destro e’l fior dela sua stalla.

Ei stesso il pasce e Francalancia il noma,

perché dal dritto corso unqua non falla.

Vedesi insuperbir sotto la soma,

lieto del peso che sostiene in spalla,

cavar spesso l’arena e l’or lucente

del fren sonoro essercitar col dente.

Senza mutar cavallo o prender fiato                          333

questi l’uom finto in tre carriere assale

e ben tre volte in lui del pin ferrato

rompe fin ala resta il tronco frale;

e nela terza ha più secondo il fato

e fa colpo miglior con forza eguale:

nela buffa gli presso la vista,

si ché tre botte in una botta acquista.

Fuor dela lizza ei s’è ritratto apena,                           334

quand’ecco in giubba d’or contesta a maglie

giostrator nuovo. Un corsier falbo affrena,

bravo e di sommo ardir nele battaglie.

Su la cresta del’elmo ha la sirena

tutta squamosa di dorate scaglie.

Quelche s’imbraccia dala parte manca

con tre gran fasce l’incarnato imbianca.

Bel cavalcante in maestoso gesto                              335

con largo giro il chiuso pian circonda.

Va poi nel mezzo e da quel lato e questo

spinge il destrier ch’è quasi al vento fronda.

Dolce di bocca ed ala mano è presto

e di gran core e di gran lena abonda.

Spirito ha nome e gli conviene invero

perch’oltremodo è spiritoso e fiero.

Cordon di sottil seta il regge a freno,                         336

barbaro pettoral l’orna a traverso,

che d’auree borchie è tempestato e pieno

e di gran perle orientali asperso.

Ala testa frontal, fermaglio al seno

gli fan due bolle di smeraldo terso

e per mezzo le coste, ove si stringe,

serica zona e gioiellata il cinge.

Del più fin or ch’invia l’alpe arimaspa                                   337

fabricata e contesta ha sella e frangia.

Serra la coda, il pavimento raspa

e le gemme del fren rumina e mangia.

Con tanta maestria le braccia innaspa,

con tal arte in andando il passo cangia,

che ne’ suoi vaghi atteggiamenti e moti

par che’n aria schermisca e’n terra nuoti.

Poiché conosce che il guerrier risolve                                   338

dar spettacolo grato al’altrui viste,

non sai dir, così destro ei si rivolve,

se vola in aria o se nel suol sussiste;

né pur col vago piè segna la polve,

né su la messe offenderia l’ariste.

E quegli or lo sospinge, or lo ritira,

or lo sospende, or com’un torno il gira.

A suon di tamburini e di trombette,                           339

lo cui strepito rauco il ciel assorda,

tre volte e quattro intorno egli il rimette,

ed al pronto ubbidir l’aiuto accorda,

sempre applicando ai salti, ale corvette

col dolce impero del’agevol corda,

dela gamba, del piede e del tallone

or la polpa, or la staffa ed or lo sprone.

Talor l’arresta, di saltar già lasso,                              340

e nel raccorlo imprime orma sovrorma.

Poi di novo il volteggia a salto e passo

mutando a un punto e disciplina e norma

e mentre va con repolon più basso

terra terra serpendo, un cerchio forma.

Chiunque il mira al variar stupisce

di tanti e tali e giramenti e bisce.

Spesso gli fa, sicome cionco o zoppo,                                  341

o questo o quello alzar dele due braccia

e dandogli un leggier mezzo galoppo,

sovra tre piedi or quinci or quindi il caccia.

Fermo nel centro alfin, con un bel groppo

di saltetti minuti alza la faccia

e’l fa davante al tribunal divino

inginocchiar con reverente inchino.

Per non troppo stancarlo, ancorché tutto                              342

sia foco e tutto spirto e tutto nervo

e perché sa ch’è per usanza instrutto

più ch’al corso al maneggio, accenna al servo,

ch’un n’ha più fresco e riposato addutto

ma disfrenato, indocile e protervo.

La coda, il crin, la gamba, il capo e’l viso

solo ha di nero, il rimanente è griso.

Del color del cilicio orna la spoglia                            343

semplice berrettino e non rotato,

onde quand’uscir suol fuor dela soglia,

è da ciascun l’Ipocrito chiamato.

Par mansueto agnel pria che si scioglia,

sembra una furia poi discatenato.

Così ricopre a chi non sa suo stile

la superbia del cor d’abito umile.

Il cavalier con la sinistra mano                                  344

su’l pomo del’arcion la briglia stende,

spiccato un leggier salto indi dal piano,

senza staffa toccar sovra v’ascende.

Quel ritroso e restio s’impenna invano,

invan s’arretra e calcitra e contende,

che vié più del guinzaglio e del capestro

può l’arte in lui del domator maestro.

Pria dala verga e dalo spron corretto,                                   345

poi con vezzi addolcito e fatto molle,

quantunque ancor pien d’ombra e di sospetto

consentir gli convenne a quant’ei volle;

e benché gisse overa a gir costretto

con precipizio impetuoso e folle,

pur gli nondimeno un verde salce

romper con bell’incontro infin al calce.

Lascia il polledro e fa menar dal paggio                                346

altro destrier ch’è del color del topo,

superbo sì, ma non così selvaggio

e sempre avezzo ad investir lo scopo.

Spirto ha discreto e moderato e saggio

e senza segno alcun capo etiopo.

Con occhio ardente e con orecchia aguzza

fremita, anela ed annitrisce e ruzza.

Di portar per l’agon l’usato incarco                          347

ferve già d’un desir non mai satollo

e vuolsi delo sprone essergli parco,

basta accennargli ed allentargli il collo;

va più ratto che strale uscito d’arco,

senza dar ala mano un picciol crollo;

la via trangugia e rapido e leggiero,

ruba di man la briglia al cavaliero.

Dal correr trito e dal’andar soave                             348

Turbine è detto e i turbini trapassa.

La destra allor di smisurata trave

arma il guerriero estrano, indi l’abbassa

e nel facchin, benché massiccia e grave,

tutta, qual fragil vetro, ei la fracassa.

Due volte corse e l’istesso effetto,

l’una al guanciale e l’altra al bacinetto.

Rivolta allora a Citerea Bellona                                 349

che tace e con stupor la mira in volto:

– Che ti par di costui (seco ragiona)

ch’ad ogni altro nel corso il pregio ha tolto?

S’io miro, oltre il valor dela persona,

la patria ond’egli uscì, non mi par molto,

poich’a lei qualunqu’altra in tali affari

convien che ceda e da lei sola impari.

È figlio di Partenope famosa,                        350

Sergio, garzon d’indomito ardimento,

ch’ai monti di Venafro e di Venosa

ed ai piani di Bari e di Tarento,

gente vincendo invitta e valorosa

imposto ha il giogo e non ha peli al mento.

Se’n guerra conquistò spoglie e trofei

che farà nele giostre e ne’ tornei?

L’esser qui ben montato, io ben confesso,                            351

ch’altrui val molto, e fora il dir menzogna

che dal cavallo al cavalier ben spesso

e l’onor non resulti e la vergogna.

Ma ch’ardire e vigore abbia in sestesso

e di core e di corpo anco bisogna,

loqual irruginisce e resta ottuso

quando non v’è la buona scola e l’uso.

Quest’uso dunque, ch’affinar si suole                                    352

col travaglio e’l sudor, fiorisce quivi,

e non v’ha loco in quanto gira il sole

dove meglio s’esserciti e coltivi.

Ma costui, d’alta stirpe altera prole,

è tal che raro fia ch’altri v’arrivi.

Rimira l’armi sue colà ritratte,

un ciel di sangue con tre vie di latte. –

Più volea dir, ma l’altra allor repente                         353

il parlar le’nterruppe e disse: – Or guarda

guarda que’ tre, che fior d’ardita gente

sembrano in vista e’n armeggiar gagliarda,

mira i sembianti nobili, pon mente

come ciascun tra l’armi e splenda ed arda.

Già chi sien ben m’avviso. – E l’inventrice

del’arboscel pacifico le dice:

– Son, s’io mal non m’appongo e non vaneggio,                               354

di Savoia i tre lumi, i tre fratelli,

tra quanti qui nel’assemblea ne veggio

pregiati, illustri ed incliti donzelli.

Tengon nel piano augusto il real seggio

tra que’ confin deliziosi e belli

a cui con molli braccia e dure fronti

fan riparo tre fiumi e cento monti.

Candida è di ciascun la sovrainsegna,                                   355

candide son le vesti e le lamiere.

Ma l’un nel’elmo e nel brocchier disegna

il sagittario del’eterne sfere;

l’altro in questo ed in quel figura e segna

croce, terror del’africane schiere;

del terzo adorna il capo, adorna il fianco,

posto in campo vermiglio un destrier bianco.

Tutti costor che vedi ed altri molti                             356

son qui per arte pur giunti di Teti.

Ecco l’un dopo l’altro inun raccolti

cominciano a spezzar faggi ed abeti.

Doresio è quei che già gli occhiali ha sciolti

al destrier ch’ha nel cor spirti inquieti:

buon per giostra, atto a caccia, uso in battaglia,

altro il mondo non ha di miglior taglia.

Sottile il capo, il collo ha curvo ed ambe                               357

brevi l’orecchie e l’una e l’altra acuta,

aspre di nervi e muscoli le gambe,

largo petto, ampio sen, groppa polputa.

Spesso sbrana le fauci e lecca e lambe

il fren dorato, il labro arriccia e sputa,

né fu di corso mai, né mai di core

velocità, ferocità maggiore.

Bruna ha la spoglia in ogni parte integra                                358

più che spento carbone o pece schietta.

Ma bell’aria, occhio vivo e vista allegra,

morbida pelle e rilucente e netta.

Biancheggiar gli fa sol la fronte negra

in forma di cometa una rosetta.

Altri Corvo il chiamò, ma Biancastella

per tal cagione il suo signor l’appella.

Alpino è l’altro e del sicano armento                         359

vivacissimo allievo un corsier preme,

ne’ campi del fertile Agrigento

pasciuto e nato del più nobil seme.

Veste mantel tutto leardo argento

senon che fosche ha sol le parti estreme,

e l’ampia groppa e le spianate spalle

gli ara con lunga lista un nero calle.

Su la cervice dala destra parte                                  360

gli pende il crine e spesso il quassa e scote.

S’aggira e per l’arene intorno sparte

tesse prigioni e labirinti e rote.

Quant’è dal suol fin ala cinghia ad arte

par che misuri e’n van l’aure percote.

Ringhia, né volentier soggiace al freno,

scorre qual lampo e chiamasi Baleno.

Vedilo che con la man robusta                              361

felicemente il gran lancione ha rotto.

Ecco or Leucippo insu gli arcion s’aggiusta,

non men nel’armi essercitato e dotto.

Vedi che già per dritta linea angusta

sen va broccando il corridor ch’ha sotto.

Il produsse Granata e col pennello

nol saprebbe pittor formar più bello.

Non mai Saturno in sì leggiadre spoglie                                 362

sonar d’alti nitriti intorno feo,

per involarsi ala gelosa moglie,

le foreste di Pelio e di Peneo.

Al nobil volator la palma toglie

che portò già per l’aria il mio Perseo.

Perde appo lui quel che domò Polluce

e Lucifero detto è dala luce.

Né più grate fattezze e signorili                                 363

quel del’Aurora in oriente ha forse;

né con più baldanzosi atti gentili

il famoso Arione in Tebe corse.

Vergin non mai sì lunghi o sì sottili

in trecce e’n groppi i suoi capelli attorse,

sicome molli e delicate ei spiega

le belle sete e’n nastro d’or le lega.

Fama è ch’avendo il sol, giunto al’occaso,                            364

disciolto il carro insu l’arena ibera,

del seme di Piroo concetto a caso

partorillo del Tago una destriera.

Partita con bel tratto infin al naso

ha di bianco la fronte, alquanto nera,

e di vaghi coturni innargentati

tutti fin al ginocchio i piè calzati.

Il resto di gran pezze ha vario il manto,                                 365

quasi per arte a più color tessute

e’l bel candor, che toglie al’Alpi il vanto

quando al verno maggior son più canute,

seminato di bigio è tuttoquanto

in spesse stelle e’n gocciole minute.

Eccetto il capo, il piè, la coda e’l crine,

spruzzato par di ceneri e di brine.

Già già si move e fuor del folto stuolo                                   366

del cor disfoga i generosi ardori.

Ecco lievi ondeggiar per l’aria a volo

del cimier bianco i tremolanti albori.

Par l’aura il porti, apena liba il suolo

e’l suo duce conduce a sommi onori,

dove per valor più che per sorte

rompe il saldo troncon col braccio forte. –

Così dicea Minerva e ben di quanto                          367

parlato avea veraci erano i detti,

perch’altamente ale lor prove intanto

posto avean fin gli armeggiatori eletti,

onde volendo oltre la loda e’l vanto

remunerargli con cortesi effetti,

con questo dir la dispensiera bella

rivolse a lor la faccia e la favella:

– Or qualcosa avrò mai ch’al vostro merto,                          368

invitissimi eroi, ben si convegna?

Non se fusse del mar l’erario aperto,

ricchezza avria di tal valor condegna.

Man che larga altrui dona, io so ben certo,

che don picciolo e basso aborre e sdegna.

Pur senza aver riguardo a vil tesoro,

gradirete il desir con cui v’onoro.

Voi, che dove il Po sorge in picciol rivo,                               369

principi generosi, avete il trono,

queste tre gemme or non prendete a schivo

che’n segno sol del buon voler vi dono.

L’una è carbonchio e v’è intagliato al vivo

cinto di fiamme il gran rettor del tuono

quando i giganti fulmina dal’Etra;

e’l foco imita ben l’istessa pietra.

L’altra d’Apollo con la cetra e’l plettro                                 370

mostra incisa l’effigie in un zaffiro

ed è legata in un anel d’elettro

ch’ha di smalti eritrei distinto il giro.

Nela terza lo dio che tien lo scettro

del quinto cerchio, egregie man scolpiro,

gemma di quella indomita durezza

cui né foco disfàferro spezza.

Tu, che dal bel Sebeto in qua trascorso                                371

germoglio illustre di famosa gente,

tanto vali al maneggio e tanto al corso,

quest’elmo accetta limpido e lucente.

Rassomiglia a vederlo un teschio d’orso

e le pupille ha di piropo ardente,

le gran fauci spalanca e son costrutti

di diamanti arrotati i denti tutti.

spiaccia a te, degna progenie e chiara                             372

di quel sangue lodato, onor degli ostri,

per cui col Tebro altero in nobil gara

fia che’l Reno minor contenda e giostri

ed a cui già con Felsina prepara

il Vaticano i più sublimi inchiostri,

il pronto, ancorché povero tributo

prender in grado, al tuo valor devuto.

Ecco una spoglia che i suoi stami fini                         373

intinti ha nel licor dele cocchiglie,

ordita a sovraposte e di rubini

fregiata e d’altre ancor gemme vermiglie.

Molti piccioli specchi adamantini

accrescon del lavor le meraviglie,

consparsi in lei sì chiari e lampeggianti

ch’abbarbaglian la vista a’ riguardanti.

L’ostro insieme e’l cristallo accoppiar volli                            374

a dinotarti con duo saggi avisi

e la real grandezza a cui t’estolli

e la chiara prudenza in cui t’affisi;

ond’avran maggior gloria i sacri colli

da te, da’ tuoi nel’alta sede assisi,

che quando in altra età Roma felice

fu di mille favelle imperadrice.

Questo di fila d’or manto tessuto                              375

che infin al lembo è figurato a stelle,

dove tutte han di diamante acuto

fissa al centro una punta e queste e quelle,

tuo fia, signor, ch’hai qui recar saputo

d’arnesi in campo invenzionbelle,

che non fia mai che’n giostra altri compaia

con portatura più leggiadra e gaia.

E’nsieme a voi, che da’ confini estremi                                 376

del nobil Lazio per sì lunghi errori

seco veniste, d’altri pregi e premi

non mancheranno ancor publici onori.

Ma se da farvi al crin degni diademi

palme Idume non ha, Parnaso allori,

di sé s’appaghi il gran valor latino,

lumi eterni di Marte e di Quirino. –

Tacquesi, ed ecco allor mentre i destrieri                              377

già già Febo inchinava al mar d’Atlante,

per diverso camin duo cavalieri

in un tempo venir d’alto sembiante.

Dorati ha l’un di lor gli arnesi interi,

sovra l’elmo l’augel del gran tonante

e nel tondo d’acciar rampante e dritto

il feroce animal d’Ercole invitto.

Viensene assiso in un giannetto ibero                        378

figlio del vento e ben l’agguaglia al corso.

Zefiro nominato è quel destriero,

picciolo il capo ed ha solcato il dorso;

raro crin, folta coda, occhio guerriero,

lunato il collo e sovra’l petto il morso;

fremendo il rode e pien di spirti arditi

squarcia l’aria copassi e conitriti.

Salvo la fronte, ove per mezzo scende                                  379

candidissima riga, è tutto soro.

Barde ha purpuree, di purpuree bende

gli fa ricco monile arnese moro.

Sonora piggia e tremula gli pende

giù dala sguancia di squillette d’oro.

Alto la staffa e coturnato il piede,

con lungo sprone il cavalier lo fiede.

L’abito del guerrier che segue appresso                                380

è di sciamito azzur, fatto a fogliami

e di gigli minuti un nembo spesso

v’è sparso, il cui contesto è d’aurei stami.

Sculto in mezzo alo scudo ha il fiore istesso,

un giglio sol, maggior che ne’ riccami.

Ed erge per cimier di gemme adorno

il sollecito augel ch’annunzia il giorno.

Governa il fren d’un gran frison cortaldo                               381

ch’è del color del dattilo maturo,

a par d’un monte ben quartato e saldo

e tre talloni ha bianchi e l’altro oscuro.

Mostra nel’occhio il cor focoso e caldo,

segna la fronte nera argento puro;

e col piè forte e col gagliardo passo

stamperia le vestigia anco nel sasso.

Petto largo ha tre spanne e doppia spina                               382

e corta schiena e spaziosa coda,

bocca squarciata e testa serpentina,

di corno terso unghia sonante e soda;

leva a tempo e ripon quando camina

le grosse gambe e le ripiega e snoda.

Tremoto è il nome suo, però che’n guerra

ciò ch’urta abbatte e fa tremar la terra.

Nel’incognita coppia ognuno affisse,                         383

pien di diletto e di stupore, il ciglio

e come un doppio sol quivi apparisse,

d’ognintorno ne nacque alto bisbiglio.

Il nome d’amboduo prima si scrisse,

il guerrier dal leone e quel dal giglio;

indi fur dala sorte in egual loco

a vicenda e delpari ammessi al gioco.

di piedi al destrier prima colui                              384

che’l giglio porta e rompe insu la cresta.

Quel che porta il leon va dopo lui

e nel loco medesmo il colpo assesta.

Altre due volte corrono ambodui,

né v’ha vantaggio in quella parte o in questa,

che l’un e l’altro con tre lance rotte

viene egualmente a guadagnar tre botte.

Un pregio esser non può che si divida                                   385

tra duo campioni e già ne sono a lite.

Vuol Citerea che’l dubbio si decida

con nove lance eguali e ben forbite.

Ma Palla è di parer che per disfida

le controversie lor sien diffinite.

Battansi in giostra e chi più val di loro,

sicome avrà la palma, abbia l’alloro.

Da corpo a corpo gli emuli superbi                           386

concordi a terminar la differenza,

son posti in prova e con sembianti acerbi

di qua, di ne vanno a concorrenza.

Dela vittoria a qual di lor si serbi

su le punte del’aste è la sentenza.

Cenna al trombetta allor Vener dal palco

che dia la voce al concavo oricalco.

Quei dal tergo onde pende in mano il toglie,                          387

pon su l’orlo le labra e, mentre il tocca,

nel petto pria quant’ha di spirto accoglie

quinci il manda ale fauci, indi ala bocca.

Gonfia e sgonfia le gote, aduna e scioglie

l’aure del fiato e’l suon ne scoppia e scocca.

Rompe l’aria il gran bombo e’l ciel percote

e risponde tonando eco ale note.

Veder de’ duo destrier, poiché fur mossi                              388

fu spavento lo scontro e fu diletto,

quando rotti i troncon nodosi e grossi,

fronte con fronte urtar, petto con petto.

Rimbombar lunge e sfavillar percossi

ambo gli scudi e l’un e l’altro elmetto.

Fu del’armi il fulgor, de’ colpi il suono

agli occhi un lampo ed al’orecchie un tuono.

Il broccal delo scudo al’altro incise                           389

quel che venia con l’aquila grifagna;

falsollo e la divisa anco divise,

che dispersa n’andò per la campagna.

L’altro segnò più basso e’l ferro mise

per entro al corpo al corridor di Spagna,

che con tremoto poi venuto a fronte,

n’andò col suo signor tutto in un monte.

Visto il suo bel destrier che sanguinoso                                 390

per l’incontro mortal s’accoscia in terra,

di vendicarlo il cavalier bramoso

dale staffe si sbriga e’l brando afferra:

– Tu non sei né gentilvaloroso

ch’a sì degno animal fai torto in guerra,

guerrier villano e discortese, o scendi

o da simil perfidia il tuo difendi. –

Così dice il dorato e quel del gallo:                           391

– Fu sciagura (risponde) e non oltraggio,

degno di scusa involontario fallo,

creder ch’io da te voglia vantaggio. –

Smonta con questo dir giù da cavallo

e trae la spada con egual coraggio.

Così fremendo di dispetto e d’onta

l’un l’altro a un tempo in mezzol campo affronta.

Gemon l’aure dintorno e l’aria freme,                                   392

treman del vicin bosco antri e caverne.

Son di questo e di quel le forze estreme

e chi n’abbia il miglior mal si discerne.

Lampeggiar vedi aprova i ferri insieme

ed odi orrendi folgori caderne;

per traverso e per dritto, or bassi or alti,

tornan più volte a rinovar gli assalti.

Sonar le spade e risonar gli scudi                              393

fa del’aspra tenzon l’alta ruina.

Par che battute da novelle incudi

escan l’armi pur or dela fucina.

Ardon lor le palpebre ai colpi crudi

gli elmi infocati, la cui tempra è fina

e le fiammelle e le scintille ardenti

gli fan quasi invisibili ale genti.

Senza riposo alcun, senza dimora,                            394

or di taglio si tranno ed or di punta.

In quella cote istessa ove talora

l’acuto ferro si rintuzza e spunta

ivi s’arrota, ivi s’irrita ancora,

l’ira più dal furor scaldata e punta.

Ed ecco alfin quel dal’aurato arnese

risoluto s’aventa a nove offese.

Alzò la spada ed un fendente tale                              395

sovra le tempie al’aversario trasse,

che rotto al gallo il rostro e tronche l’ale,

che stordito al suol s’inginocchiasse.

Fu forse Amor che per destin fatale

con fronte china e con ginocchia basse,

l’idol dal cielo a’ suoi pensieri eletto

volse pur ch’adorasse a suo dispetto.

Non è da dir, poich’egli in sé rivenne,                                   396

con quanta rabbia e qual furor si mosse.

Dritto verso la testa il colpo tenne,

su la barbuta ad ambe man percosse.

Al’aquila tagliò l’unghie e le penne,

spezzò del barbazzal le piastre grosse,

squillò l’acciaio e tal fu quella botta

che la spada di man gli cadde rotta.

Ruppe lo stocco e gli rimase apena                           397

de l’elsa d’oro in man la guardia intera

e’l colpo uscì di sì gagliarda lena

ch’al nemico sbalzar la visiera.

Ma, tolto il vel che ricopria la scena,

si scoverse il guerriero esser guerriera

e con le bionde chiome al’aura sparse

bella non men che bellicosa apparse.

Come rosa fanciulla e pargoletta                               398

che dal novo botton non esce ancora,

dala buccia in cui sta chiusa e ristretta

s’affaccia alquanto a vagheggiar l’aurora,

così, nel far di sé la giovinetta

publica mostra del’elmetto fora,

in quel vivo color si rinvermiglia

che l’onestà dala vergogna piglia.

Ala vergogna, ala fatica or l’ira                                 399

rossore aggiunge e ne divien più bella,

onde molto più spessi aventa e tira

i colpi in lui l’intrepida donzella.

Ma l’altro allor che quel bel volto mira,

senza moto riman, senza favella,

trema, sospira e sparge a mille a mille

più dal cor che dal’armi, alte faville.

E mentr’ella a ferirlo ha il ferro accinto                                  400

per far ch’essangue a terra alfin trabocchi:

– Che fai che fai? (le dice) eccomi estinto,

senza che più la bella man mi tocchi.

Morto m’hai già, nonchabbattuto e vinto

codolcissimi folgori degli occhi.

Crudeltà più che gloria omai ti fia

con più piaghe inasprir la piaga mia.

Ma poiché morto pur brama vedermi                                   401

congiunto a beltà tanta un corcrudo,

ecco la testa, ecco la gola inermi

t’offro senza difesa e senza scudo. –

Disse ed anch’ei restò, tolti gli schermi

dela cuffia di ferro a capo ignudo

e parve un sol, qualor più luminosi

trae fuora i raggi in fosca nube ascosi.

Tosto che’n luce uscì quelche pur dianzi                               402

di celar la celata avea costume,

trovossi anch’ella un garzonetto innanzi

che mettea pur allor le prime piume.

Io non so dir, quanto l’un l’altro avanzi

e’n cui splenda d’amor più chiaro il lume.

Sembran Pallade e Marte armati in campo

di beltà, di valor gemino lampo.

L’afflitta Citerea, quando il bel viso                           403

si discoverse, ancorch’alquanto smorto,

arse a un punto e gelò, ché le fu aviso

di rivedere il caro Adon risorto.

Ma che direm del fulmine improviso

che si sente nel cor, poiché l’ha scorto,

la giovane superba al primo instante?

Quelche mai più non le successe avante.

S’a lui spezzossi entro la destra il brando,                             404

a lei si spezza il core in mezzo al petto,

né meno, il cupidocchio in lui fermando,

perde le forze a quel novello oggetto.

Già comincia a gustar, ratto cangiando

nela guancia color, nel’alma affetto,

le dolci amaritudini del core,

le dolcezze amarissime d’amore.

Dialogi di sguardi e di sospiri                        405

che quinci e quindi ad incontrar si vanno,

reflessi di pensieri e di desiri

un bel muto concento insieme fanno.

Ma l’un, che l’altra per maggior martiri

armata tuttavia scorge a suo danno,

pur come in atto di ferir l’aspetti,

ripiglia il favellar con questi detti.

– Io vomorir, ma volentier saprei                            406

l’alta cagione onde’l mio mal procede.

O donna o dea, se sì spietata sei

ch’offender vogli pur chi pietà chiede,

deh fammi noto almen chi sia colei

che la pace mi nega e la mercede.

Poi mi fia dolce e cara ogni ferita,

morendo per le man dela mia vita.

Quelle, s’è giusto il prego, a trarpronte                             407

dale mie vene il sangue armi omicide,

sospendi tanto sol che tu mi conte

chi di due morti insieme oggi m’uccide. –

Trattiene i colpi e la turbata fronte

rasserenando alquanto aspro sorride

e fiera in vista e mansueta in voce

risponde allor la vergine feroce:

– Non son vil feminetta; il naspo e l’ago                                408

questa destra virile aborre e sprezza.

Di guernirla di ferro anch’io m’appago

ed è la spada a sostenere avezza.

Non ne’ cristalli fragili l’imago

piacemi vagheggiar di mia bellezza;

specchio m’è l’elmo rilucente e fino

e questo terso scudo adamantino.

Sdegnar dunque non dei d’oprar la spada                             409

tentando incontr’a me l’ultima sorte,

tanto che l’un rimanga e l’altro cada

col fin dela vittoria o dela morte,

poich’io ti so ben dir ch’aver m’aggrada

più ch’aspetto leggiadro, animo forte.

Ha la man feminile anco i suoi pregi

e vinse duci e trionfò di regi.

Ma poich’odio non è né rissa antica                          410

ch’oggi qui ne conduce a trattar l’armi

e tu mel chiedi con preghiera amica

ed io di rado in uso ho di celarmi,

se mi permette pur che’l tutto io dica

il tempo e’l loco e piaceti ascoltarmi,

istoria udrai, cui non fu pari alcuna

stravaganza di stato o di fortuna.

Venne d’Ircania ad occupar la reggia                                   411

la generosa vergine Tigrina

ed ancor la possiede e signoreggia

con quanta region seco confina;

donna ch’ala beltà l’ardir pareggia,

dele feroci Amazoni reina.

Ma, benché fusse d’un tal regno erede,

non s’appagò dela materna sede.

Sdegnò di star tra’l Sero e’l Messageta,                               412

genti inumane, immansuete e crude,

né del’Imavo l’arrestò la meta

né’l fren dela Meotica palude

né’l freddo Tanai che quel passo vieta

né’l Caspio mar che quel confin rinchiude,

siché con l’altre sue che trattan l’arco,

non si spedisse a novi acquisti il varco.

La schiatta di costei, quant’ognun dice,                                 413

è di Pantasilea scesa e d’Ettorre.

Valore ebbe dal ciel quant’aver lice,

donna seco in leggiadria concorre.

Ma del sesso viril disprezzatrice,

l’amorose dolcezze odia ed aborre

e’l popol feminil governa e regge

con dura troppo e’ntolerabil legge.

La legge dele femine guerrere                                   414

che già regnaro al Termodonte in riva

è tal che sotto pene aspre e severe

del commercio degli uomini le priva.

Quinci avien che ciascuna è del piacere

per cui si nasce totalmente schiva

e, senon quanto a conservarle basta,

vivon vita tra lor solinga e casta.

Era quest’uso in quelle parti antico                            415

finché, come dirò, fu poi dismesso,

né si servian del genere nemico

se non per propagarne il proprio sesso.

Talor col forestier l’atto impudico

per cagion dela prole era permesso,

ma, serbando a nutrir sol le fanciulle,

strangolavano i maschi entro le culle.

Quantunque universal fusse e commune                                416

lo statuto antichissimo ch’ho detto,

fra tante nondimen n’erano alcune

molto inclinate al natural diletto;

e non potendo più starne digiune,

giacer solitarie in freddo letto,

fer secreta congiura, indi pian piano

si ribellaro e tolser l’armi in mano.

Tiranno allor di Parzia era Argamoro                        417

che fu gran tempo di Tigrina amante,

di paese possente e di tesoro,

forte e più ch’altro mai fiero gigante.

Ma nulla gli giovò la forza o l’oro

con cor di ferro e petto di diamante;

mille rifiuti e mille scorni ei n’ebbe;

ma tra l’aspre repulse il desir crebbe.

Or, già ala licenza il fren disciolto,                             418

le donzelle di Scizia e le matrone

con lui s’uniro e l’appetito stolto

col pretesto coprir dela ragione.

Ond’egli un grosso essercito raccolto,

fatto di tutte lor capo e campione,

prese, sfogando il già concetto sdegno,

a danneggiarla ed a turbarle il regno.

Ebbe seco in aiuto Alani e Traci                               419

e Medi e Battri e Sarmati ed Armeni,

talché d’erranti barbari rapaci

vidersi i piani in breve spazio pieni

e di crudo signor fieri seguaci

guastar villaggi e disertar terreni,

crudelissimamente in ogni loco

sacco e sangue spargendo e ferro e foco.

Armò sue squadre anch’ella e virilmente                               420

s’oppose a quel furor la donna forte,

ma di gran lunga inferior di gente

fu risospinta ale caucasee porte;

quand’ecco Austrasio il cavalier valente,

venne quivi di capo a dar per sorte

a cui d’Aspurgo appartenea lo stato,

semplice allora aventurier privato.

Bramoso Austrasio d’emendar l’oltraggio                             421

e di lei già per fama acceso il core,

sentì, facendo a sì bel sol passaggio

sotto clima gelato estremo ardore

e, giunto presso a quel celeste raggio,

se dianzi ardeva, incenerì d’amore.

Amor in somma in cotal guisa il vinse

che per non mai si scior seco si strinse.

Scettro a scettro congiunto e spada a spada,                        422

l’impeto affrena de’ guerrier ladroni;

scorre di qua di l’ampia contrada

e’l gigante reprime e suoi squadroni;

poi per non star sì lungamente a bada

ed in una ridur molte tenzoni,

da sol a sol, finché l’un l’altro uccida,

in campo a tutto transito lo sfida.

Tigrina ogni ragion di quel reame                              423

d’uomfamoso entro le man rimise,

loqual venuto a singolar certame

brando per brando il fier rivale uccise

ed, al duce maggior rotto lo stame,

si ruppe anco il suo campo e si divise,

ché, vulgo imbelle essendo e mal instrutto,

fu facil cosa a dissiparlo intutto.

Dal gran valor del principe germano,                         424

dal nobil volto e dal parlar cortese,

dal’obligo che porta ala sua mano,

vinta è Tigrina e non sa far difese.

Fatto al possente arcier contrasto invano,

come grata e gentile, alfin si rese

e ferita e legata e prigioniera

al gran giogo inchinò l’anima altera.

Ma d’onesto rispetto un dubbio greve                                  425

la costringe a celar quelche desia

che, benché dale leggi onde riceve

regola il regno suo libera sia,

in quelch’altrui vietò peccar non deve

convien ch’a disfarla essempio dia.

Quindi onor, quinci amor le batton l’alma,

pur l’affetto più dolce ottien la palma.

Qual d’ognintorno assediata e cinta                          426

da fameliche fiamme arida stoppia,

è forza pur che divorata e vinta

resti dal foco che stridendo scoppia,

tal da quel crudo a vaneggiar sospinta,

ch’ognor novesca al novo ardor raddoppia,

cede, e benché ritrosa, alfin si piega

e d’amor ad amor cambio non nega.

Austrasio intanto l’essortò parlando                          427

la ria costuma a cancellar del regno

e le rubelle a richiamar dal bando

che ben ebber cagion di giusto sdegno.

Disse ch’abominabile e nefando,

di civiltà, d’umanitate indegno

era il rigor di quella legge dura,

contraria al cielo, al mondo ed a natura.

Con più d’una ragion faconda e saggia                                 428

mostrò quanto infelice è quella donna,

laqual sestessa e l’universo oltraggia

vivendo senza l’uom ch’è sua colonna;

e ch’egli è ritrosia troppo selvaggia,

quasi di fera alpestra avolta in gonna,

voler che s’aborisca e si detesti

il bel trastul degli abbracciari onesti.

Soggiunse ancor che’l proibire al mondo                              429

il marital diletto era un delitto,

ch’a conservarlo e renderlo fecondo

fu dale stelle e dagli dei prescritto;

e chi s’astien da quel piacer giocondo

nega a natura il suo devuto dritto,

anzi mentre ch’amor disdegna e fugge

l’umana specie inquanto a sé distrugge.

Seguì di più, che se le loro antiche                            430

per qualch’ira privata odiar gli sposi,

non devean l’altre poi sempre nemiche

mostrarsi ai dolci altrui vezzi amorosi,

ridursi a durar tante fatiche

nate solo ai domestici riposi,

arando i campi e coltivando gli orti

ch’eran propri mestier de’ lor consorti.

Conchiuse alfin ch’oltre lo star sì sole                                   431

per altro erano ancor donne infelici,

ai passaggier per generar figlioli,

esposte a guisa pur di meretrici;

e ch’era non men misera la prole

che del seme nascea de’ lor nemici,

costretta ancora a perder le mammelle,

parti del sen le più gentili e belle.

Non penò molto il cavalier discreto                           432

per ben disporla a far questa mutanza,

perch’oltre che la donna odio secreto

portava al’empia e scelerata usanza,

a revocar quel rigido divieto

già da sé persuasa era a bastanza,

per onestar de’ lor trafitti cori

con leggittimo titolo gli amori.

Così cessar le leggi inique e sozze,                            433

del pazzo abuso s’annullaro i riti,

furon le guerre e le discordie mozze,

le contumaci donne ebber mariti,

ottenne Austrasio le bramate nozze,

passò Tigrina agl’imenei graditi,

concepinne a suo tempo e partorio

pargoletta bambina e fui quell’io.

Nacqui, né fui però sì tosto nata                               434

che strano caso e portentoso avenne.

Aquila bianca, d’oro incoronata,

dal ciel battendo l’argentate penne,

per le finestre dela stanza entrata

dritto ala cuna, ov’io giacea, ne venne

e mentr’io tra le fasce ancor vagia,

mi ghermì con gli artigli e portò via.

Io non so se fu Giove in forma tale                            435

ch’aver volse di me pietosa cura

o del grand’avo mio l’ombra immortale,

già difensor dele troiane mura,

che la rapace augella imperiale

per insegna portò nel’armatura.

Opra più tosto fu d’un mago antico

che dela stirpe mia fu sempre amico.

Ella al vecchion dela Foresta Nera,                           436

così si nominava il negromante,

l’aure trattando rapida e leggera,

senza alcun mal depositommi avante.

Vita mena costui dura ed austera

dela folta Ercinia infra le piante,

e’n quelle solitudini silvestri

gli sono i libri suoi muti maestri.

Il buon vecchio di me prese il governo,                                 437

cui per sempre obligata io mi conosco.

Con zelo m’allevò più che paterno,

sempre tra le fatiche entro quel bosco.

Varcai rigidi fiumi al maggior verno,

vegghiai gelide notti al ciel più fosco,

lottai con orsi ed affrontai leoni,

temei d’assalir tigri e dragoni.

Austria nome mi pose; e’ntanto essendo                               438

già de’ tre lustri oltre l’età cresciuta,

in Austrasio ch’un giorno a caccia uscendo

avea de’ suoi la compagnia perduta,

mentre ch’a fronte avea cinghiale orrendo

a caso m’abbattei non conosciuta.

L’uno era inerme e l’altro fiero e forte,

io questo uccisi e quel campai da morte.

Come alfin mi conobbe e come fui                            439

dale selve condotta ai gran palagi,

lungo a dir fora e quali e quanti a lui

di me poscia il savio alti presagi.

Questo però tacer non voglio altrui,

ch’ancor tolta ai travagli e data agli agi,

tra le delizie sue la corte folle

forza non ebbe mai di farmi molle.

Comprender puoi dal’abito s’io nacqui                                 440

agli ozi vili o se viltà disprezzo,

al’impero d’Amor mai non soggiacqui,

mai non mi mosse allettamento o vezzo;

e di poter mostrar più mi compiacqui

in questo corpo ale fatiche avezzo

le cicatrici degli assalti audaci

che le vestigia de’ lascivi baci.

Tolto dal genitor dunque congedo,                            441

di Germania soletta io fei partita

e tra vani riposi aver non credo

perduti i giorni in oziosa vita.

Ma mentre alfin per nave in patria riedo,

via sperando dal mar piana e spedita,

dopo molte aventure, a queste spiagge

tempestoso aquilone ecco mi tragge.

Or poiche’n brevi detti udito hai quanto                                442

raccontar saprei mai del’esser mio,

se lice pur, posta giù l’ira alquanto,

il nemico essaudir com’ho fatt’io

fa tu, narrando il tuo meco altrettanto,

ch’ancor non men d’intenderlo desio,

e’l tuo sembiante e’l tuo parlar mi pare

di guerrier non oscuro e non vulgare. –

Così diss’ella e si ritrasse poi                        443

in quel contegno suo dolce e severo,

quando: – Poiché così comandi e vuoi

 (cominciò rispondendo il cavaliero)

de’ miei, simili in parte ai casi tuoi,

che sono ancor meravigliosi invero,

con non lungo sermone a darti conto,

feritrice mia bella, eccomi pronto.

Ardean tra’l re Francone e’l re Morgano                              444

guerre crudeli e mortalmente orrende

e d’aspri assalti ognor con l’armi in mano

alternavan tra lor fiere vicende.

Dominava il primier tutto quel piano

che’nfin dal’Alpi ai Pirenei si stende;

l’altro reggea dela maggior Brettagna

quanto paese il gran Tamigi bagna.

Vennero alfin tra questa parte e quella                                  445

per maritaggio ad amicar le spade

e’l re gallo al bretton diè la sorella,

Fiordigiglio, che fior fu di beltade,

Fiordigiglio gentil, di cui più bella

non ebbe il mondo in questa o in altra etade

dal lucidorto al’occidente oscuro,

dal’umidaustro al’agghiacciato arturo.

Ambiziosa di cotanto bene,                           446

Anglia con general pompa festiva

la ricettò nele beate arene

com’a sposa real si convenia.

Felice chiama e fortunata tiene

la disgiunta dal mondo estrema riva,

dove seco traendo un novello

sorge al cader del sole un sol più bello.

Loda il candido sen, la treccia bionda,                                  447

le fresche guance, i serenocchi ammira.

Diresti ben che gelosia n’ha l’onda

de l’ocean, ch’or viene, or si ritira,

né per altro quell’isola circonda

e dintorno a’ suoi lidi si raggira,

senon per custodirbel tesoro

quasi serpe che guardi i pomi d’oro.

Era Morgano uom di gran forze ed era                                 448

di membra poco men che gigantee,

ma non avea quella prudenza intera

che costumato principe aver dee.

D’aspra natura impaziente e fiera,

d’opre malvage e scelerate e ree.

E ben fede facean di quanto ha detto

la terribil sembianza e’l sozzo aspetto.

La faccia ha bruna e di color ferrigna,                                   449

illividita d’un crudel pallore,

ciglia congiunte in union maligna,

occhio fellone e sguardo traditore.

Villanamente ador ador sogghigna

con un sorriso che non vien dal core.

I movimenti, i portamenti tutti

son rigorosi e spaventosi e brutti.

Or io non so qual ria sciagura o sorte,                                  450

con quai d’empia malia nodi tenaci

le forze legò sì del fier consorte

ch’ei non potè mai trarne altro che baci.

Pur l’ama intanto, anzi d’amor più forte

nel vietato diletto ardon le faci

ed agli uffici inabile di sposo,

quant’egli è men potente, è più geloso.

Fu consiglio, cred’io, di chi governa                          451

dele stelle lassù l’ordin fatale.

Non volse dar la providenza eterna

ad uom terreno una ventura tale

e parve indegno ala bontà superna

di cotanta beltà sposo mortale;

onde serbolla a nozze eccelse e sante

d’amor celeste e di divino amante.

Odi strano accidente, odi in che nova                                   452

guisa dal ciel l’origine pigliai

e se genitura altra si trova

sì fatta al mondo o si trovò giamai.

Indi al concetto il nascimento aprova

simile, se m’ascolti, anco vedrai,

mostruoso, ammirabile e ch’eccede

ogni credenza intutto ed ogni fede.

Nela stagion che dela terra l’ombra                          453

dal fondo uscita del cimerio speco

spegne il sol, copre il cielo e l’aria ingombra

e fa muta la gente e’l mondo cieco,

mentr’ella dorme, ecco che’n sogno l’ombra

l’appar di Marte e si congiunge seco.

Poi desta il giorno, di feconde some

grave si sente il ventre e non sa come.

Turbasi e de’ begli occhi il lume imbruna                               454

e languisce e stupisce e trema e gela

e di sua dura e misera fortuna

incontr’al ciel si lagna e si querela.

Pur quanto può fin ala nona luna

la gravidanza sua ricopre e cela.

Ma qual secreto alfin non manifesta

quel cauto mostro ch’ha cent’occhi in testa?

Morgano, entro’l cui petto il foco acceso                              455

tempra col ghiaccio suo la gelosia,

accorto alfin del disusato peso,

del concetto innocente i segni spia.

Oltre il sen grosso, onde’l sospetto ha preso,

gli accresce nel pensier la frenesia

il veder gonfie ancor le poppe eburne

del nettare d’Amor fontane ed urne.

La ritira in disparte, indi le chiede                              456

con torvo ciglio e con severa faccia

del’onor maritale e dela fede

le schernite ragioni e la minaccia.

La sventurata, che da lui si vede

già discoverta, di paura agghiaccia,

ché di quel fiero cor le son ben noti

troppo tremendi e repentini i moti.

Volea le labra allor allora aprire                                457

la bella donna e raccontar la cosa;

ma non seppe il crudel tanto soffrire,

tal gli bollia nel cor rabbia gelosa.

Traendo fuor senza volerla udire,

un suo spadon, con furia impetuosa,

colpo tiròsconcio e smisurato

che la tagliò dal’un al’altro lato.

Dico che dela spada il fil le mise                               458

sì per dritto nel corpo ed a misura,

che la ruppe a traverso e la divise

tutta per mezzo i fianchi e la cintura.

Con le gambe dal busto allor recise

quinci il tronco riman mezza figura,

quindi il bel sen sul pavimento resta

ale braccia attaccato ed ala testa.

Apena ella di sangue un largo fiume,                         459

in due pezzi caduta, a terra sparse,

che fatta chiara in viso oltre il costume,

pur com’un sol visibilmente apparse.

Fuor de’ begli occhi di celeste lume

folgore uscì che l’abbagliò, che l’arse;

sentissi il fier dal raggio e dal’ardore

ferir la vista e fulminare il core.

E di quel lampo, ond’ebbe il cor ferito,                                 460

tanta il sacro splendor luce gli porse,

che’n sé tornando il barbaro marito,

di sua ferina immanità s’accorse.

Onde del’opra rea tardi pentito,

la man per ira e per dolor si morse

e fisi gli occhi in quell’oggetto orrendo,

forte a dolersi incominciò piangendo.

«Fiordigiglio mia cara (egli dicea)                              461

il cui nome gentil veracemente

se forsennato pur non mi facea

la passion che traviò la mente,

per sestesso mostrar sol mi potea

un intatto candor d’alma innocente,

deh con qual mar di lagrime poss’io

pagar giamai d’un sì bel sangue il rio?

Anima disleal, perfido core,                          462

che per sì vil misfatto infame sei,

se già non valse a moverti l’amore

che mentre visse ti portò costei,

come almen non ritenne il tuo furore

giusta pietà dela beltà di lei

dal macchiar del bel sen le pure nevi

e’nsieme quell’amor che le devevi?

Stolta mia destra, che d’un tanto eccesso                             463

di ferità ti festi essecutrice,

ragion non è che del gran mal commesso

si faccia anco altra man vendicatrice.

Serrò già contro lei, contro mestesso

questo mio traditor braccio infelice,

emendi Amor l’error ch’egli commise

con l’odio che si deve a chi l’uccise.

Spada villana, al tuo signor ingrata,                           464

che nel mio bene incrudelir potesti

ed ancor de’ begli ostri insanguinata

quasi accusando il feritor ne resti,

se già fosti crudel, fosti spietata

nel’alta crudeltà che commettesti,

or a quel gran dolor che mi saetta

non negar la pietate e la vendetta».

Così, piangendo e sospirando, disse                         465

e, tenendo nel pugno il ferro stretto,

senza trovarsi alcun che l’impedisse

sospinse il braccio ed applicollo al petto,

e, trafitto appo lei ch’egli trafisse,

pien d’amoroso e di rabbioso aspetto

freddo cadendo e pallido ed essangue,

insieme mescolò sangue con sangue.

Chi crederà prodigiose e nove                                  466

altezze di miracoli divini?

chi d’un corpo ch’è morto e non si move,

uscir vide giamai vivi bambini?

Nel ventre che spaccato era dove

hanno l’anche e le coste i lor confini,

dentro l’aperte viscere anelante,

spirar si vide e palpitar l’infante.

Il parto, ch’era per uscir già presto,                          467

accelerato dal fellon crudele,

fuor del lacero sen pietoso e mesto

di lei raccolse un famigliar fedele.

A sua magion recollo in cavo cesto

sotto panni appiattato e sotto tele,

e quivi il con sì benigna aita

dala moglie allattar che’l tenne in vita.

vissi e crebbi ed, oh stupor! del petto                               468

scritte portai nela sinistra parte

note di sangue il cui tenor fu letto:

 ‘Fiammadoro è costui, figlio di Marte’.

Quindi poi Fiammador fui sempre detto

e fu di quel gran dio mirabil arte

che come mi campò pria ch’io nascessi,

così, credo, curò gli altri successi.

Il mio leal custode, il balio fido,                                 469

sovra una lieve e ben spalmata fusta

tragittando a Calesso il salso lido,

passò di Gallia al’alta reggia augusta,

dove inteso l’annunzio, udito il grido

del’onta indegna e dell’ingiuria ingiusta,

il mio gran zio che governava il regno

pianse di duolo ed avampò di sdegno.

Per vendicar dela sorella i torti,                                 470

mosse poi l’armi e grand’incendio accese.

Questo il principio fu di tante morti,

quinci nacquer le risse e le contese

che con odio mortal tra i petti forti

durano ancor del franco e del’inglese,

che tra lor confinando, han d’ambo i lati

cagion di star su le frontiere armati.

Fece il re quivi intanto ammaestrarmi                        471

come regio garzon nutrir si debbe.

Ma di fuggir poi gli ozi e seguir l’armi

anco in me con l’età la voglia crebbe.

Vezzo, prego o consiglio a distornarmi

da sì nobil pensier forza non ebbe.

Così dal ciel guidato e dala sorte

sconosciuto e notturno uscii di corte.

Già di paesi e popoli diversi                          472

costumi assai, peregrinando, ho visti.

Molto errai, molto oprai, molto soffersi

per far d’eterno onor pregiati acquisti.

Poi per l’Egeo tra i flutti e i venti aversi

ne venni anch’io sicome tu venisti;

quel borea istesso che’l tuo legno spinse

anco a prender qui porto il mio costrinse.

Narrate io t’ho gran meraviglie e tali                         473

che volto forse avran di favolose;

ond’essendo sì strani i miei natali,

credo, che’l ciel mi serbi a strane cose.

E certo o di gran beni o di gran mali

fortune attendo o liete o dolorose,

secondo che di gioia o di martire

per te m’è dato o vivere o morire. –

Così divisa, ed ecco ingiù disceso,                            474

mentre queste ragion passan tra loro,

tutto concorre ad onorargli inteso

del celeste collegio il concistoro.

Là’ve in duo petti era egual foco acceso,

con la madre d’Amor venner costoro;

ed ella con sereni occhi ridenti

l’aria risonar di tali accenti:

– O coppia degna e da’ più degni eroi                                  475

sol per gloria del mondo al mondo uscita,

qui gran tempo aspettata e’n ciel da noi

troppo ben conosciuta e ben gradita,

deponete omai l’armi e sia tra voi

la tenzon con lo sdegno inun sopita.

Canginsi in vezzi le discordie e l’ire

e sia pari l’amor, com’è l’ardire.

Ardete, anime belle; ai vostri ardori                          476

son propizie le stelle, i cieli amici!

Già le Grazie pudiche e i casti Amori

v’arridon tutti con benigni auspici.

Fortunati desir, beati cori,

che’n sì nobile incendio ardon felici;

esca onde trae la fiaccola e’l focile

d’Amor e d’Imeneo fiamma gentile.

Lunga stagion tra dilettosi affanni                              477

sotto un giogo dolcissimo vivrete.

Vivran le glorie vostre al par degli anni,

n’andranno i vostri onor di da Lete.

Già spiegando per voi la Fama i vanni,

tutte scorre del ciel le quattro mete

e sparge intorno i fiati suoi sonori

dal meriggio ai trion, dagl’Indi ai Mori.

Le due gran monarchie nel mondo sole,                                478

cedan Greci e Romani e Persi e Siri,

per voi fien grandi e per la vostra prole

laqual fia ch’Asia tema, Europa ammiri.

Le lor terre, i loro mari apena il sole

visitar potrà mai con mille giri,

d’amicizia congiunte e d’allianza,

emule di grandezze e di possanza.

Tu, che per doppia via l’alme rubelle,                                   479

verginella real, vinci in battaglia,

rischiara i raggi dele luci belle,

né del morto destrier punto ti caglia.

So che del sol le stalle e che le stelle

non l’hanno tal ch’appol tuo merto vaglia;

questo mio nondimen con lieta faccia,

ch’è miglior de’ miglior, gradir ti piaccia.

nel fonte del sol dove in pastura                           480

la corridrice nomade col pardo

si copulò, d’adultera mistura

concetto nacque e fu chiamato Ippardo.

Parte chiara ala spoglia e parte oscura

quasi piuma di storno ha del leardo,

stellata in guisa tal tutta a rotelle

che’n lui le macchie istesse anco son belle.

Tenero il tolse ala materna mamma                           481

e frenollo e domollo Arte maestra.

Spinselo or dietro a cerva, or dietro a damma,

or per campagna, or per montagna alpestra.

Pronto ai salti, agli assalti, uso è qual fiamma,

girarsi a manca e raggirarsi a destra

e veloce e feroce a meraviglia

la genitrice e’l genitor somiglia.

E tu franco guerrier, ch’oggi ten vai                           482

nel trionfo d’amor con tanto fasto

e sovr’ogni trofeo ti pregi assai

d’uscir vinto e prigion dal gran contrasto,

non languir più, né più lagnarti omai

del brando rotto o delo scudo guasto.

Lascia pur l’armi usate e prendi quelle

ch’or io t’arreco assai più forti e belle.

Questa spada biforme onde già fue                           483

dal buon Perseo l’orribil Orca uccisa,

Anfisbena ei chiamò, però che’n due,

come vedi, ha la lama ingiù divisa.

Aguzza l’una è dele parti sue,

ma si termina l’altra in altra guisa,

ché nel’estremità curva diviene,

l’una taglia di lor, l’altra ritiene.

Degna del fianco ben fora di Marte                           484

l’arme onde possessore oggi ti faccio,

ma perde appo lo scudo il pregio in parte

che peso fia del valoroso braccio.

De’ suoi lavori il gran mistero e l’arte

altri ti scoprirà, questo mi taccio.

Vi vedrai del futuro occulte cose

e de’ tuoi successor l’opre famose. –

Barbaro scudo a questo dir recato                            485

fu da molti valletti in un momento.

Nel’incude di Lenno è fabricato,

d’oro ha il bellico, il circolo d’argento

e di minute istorie effigiato

l’orlo, a cui fanno intorno ampio ornamento,

ogni figura sua vivace e bella

poco men che non spira e non favella.

Allor lo dio che signoreggia in Delo,                          486

rivolto a specolar quelle sculture,

de’ secreti ineffabili del cielo

affisa gli occhi entro le nebbie oscure;

indi, squarciando il tenebroso velo

che i gesti asconde del’età future,

pien di spirito sacro ed indovino

a Fiammadoro interpreta il destino:

Guarda (dicea) nel mezzo e vedrai pria                              487

d’uno in tre gigli la mutata insegna.

Tal qual è sarà sempre in tua balia

mentre il peso mortal l’alma sostegna.

Da indi in poi custode il ciel ne fia

finché’l gran Clodoveo nel mondo vegna.

Per miracolo allor lo scudo istesso

fia dinovo alla terra ancor concesso.

Volgiti al cerchio poi del ricco arnese                                   488

e mira quante imagini v’ha sculte.

Son de’ tuoi gran Borbon le chiare imprese

che sotto oscuro vel giacciono occulte,

finch’un tanto splendor fatto palese

dale penne più nobili e più culte,

in quanto l’ocean bagna e circonda,

per mille lustri illustre, i rai diffonda.

Nel gallico terreno, ancorchangusto                         489

sia quasi tutto a tal legnaggio il mondo,

in cotal guisa di quel ceppo augusto

fia radicato il gran pedal fecondo,

che giamai quercia il suo robusto busto

non piantò sì nel più profondo fondo.

Tronco a cui non fia mai che vento crolli,

fertile di radici e di rampolli.

Per conoscer apien qual sia la pianta,                                   490

basta solo assaggiarne un frutto o dui.

Questo però di frutti ha copia tanta

che ne confonde e ne satolla altrui;

e come l’arbor d’oro onde si vanta

l’Esperia, abondasi de’ pomi sui,

che chi la scote per carpirne un solo

ne fa mille talor piovere al suolo.

Di tant’avi e nipoti e padri e figli                                491

lasciando dunque il numero infinito,

converrà ch’al miglior solo m’appigli:

ed ecco un sol fra mille io tenaddito.

Vedi del’alfabeto a piè de’ gigli

il decimo elemento ivi scolpito:

il nome è quel di quel garzon reale

a cui promette il ciel gloria immortale.

Gloria immortal trarrà da chiari pregi                         492

del genitor non men ch’eterno essempio,

del genitore, a’ cui gran fatti egregi

benché s’opponga il fato iniquo ed empio,

la fenice però sarà de’ regi,

di pietà, di giustizia il trono e’l tempio,

un Numa in pace, un Alessandro in guerra,

un vero nume, un vivo lume in terra.

L’esser nato d’un re che di valore                             493

fia specchio al mondo e fior d’ogni bontate,

di cui saran con sempiterno onore

più vittorie che guerre annoverate,

somma laude gli fia, ma vie maggiore

il secondar di lui l’orme onorate;

felice inun di posseder ben degno

e la virtute ereditaria e’l regno.

Quai poeti di lui, quali oratori                                    494

potranno, ancorché celebri e celesti,

o in note sciolte o in numeri canori

tanto mai dir che più da dir non resti?

Che può pensar de’ suoi sovrani onori,

che può narrar de’ suoi sublimi gesti,

secca ogni vena, ogni virtù perduta,

intelletto confuso e lingua muta?

Quegl’infelici e miseri ch’oppressi                             495

dal crudel di Bisanzio empio tiranno

dele dure catene i ferri istessi

logori quasi con le membra avranno,

per lui sol fiano in libertà rimessi,

per la sua man fia vendicato il danno;

e poiché l’oriente avrà distrutto,

si farà tributario il mondo tutto.

Non di sol, non di gel tanto ardimento                                  496

affrenar mai potranno ardori o brume.

Veggio l’Indo e’l Gelon, quel di spavento

gelar, questo sudar contro il costume.

Veggio la luna trace il puro argento

macchiar di sangue, impoverir di lume;

torbido il Nil già per settocchi piange

e l’aureo suo pallor raddoppia il Gange.

Veggio che sol per lui la Tana estrema                                  497

più di timor che di rigore agghiaccia;

scote i suoi boschi il Caucaso che trema

di quel valor che’l giogo gli minaccia;

già cede il Parto e disusata tema

con non mentita fuga in fuga il caccia;

veggio gli archi depor Meroe al suo nome

e di saette disarmar le chiome.

Marte, nonch’altri, ilqual per tema eletto                               498

s’ha l’albergo lassù nel cerchio quinto,

converrà che più alto abbia ricetto,

s’esser non vuol anch’egli in guerra vinto.

Fia Giove ancor d’alzar il ciel costretto

ed allargar del’universo il cinto,

che’l suo nome, il suo ardir non ben si serra

tra gli spazi del’aria e dela terra.

E come il suo magnanimo pensiero                           499

termine non avrà che lo capisca,

così confin che’l chiuda anco l’impero

non troverà dov’ei di gire ardisca

e non in questo sol noto emispero

fia che lo scettro suo si stabilisca,

ma dove ancor con affannata lena

giungono stanchi i miei corsieri apena.

È ver che’n su’l bel fior del’età fresca                                   500

contraria avrà sediziosa gente,

diversa assai dala bontà francesca,

disleale, ostinata, empia, insolente.

Vedi vedile in mano il foco e l’esca

con cui semina intorno incendio ardente,

che nel sen dela patria appreso e sparso

l’ha quasi il corpo incenerito ed arso.

Per intutto estirpar l’Idra ramosa,                             501

che quanto più moltiplica più noce,

l’armi giuste intraprende e non riposa

l’infaticabil giovane feroce.

Suda ed anela ala stagion nevosa,

quando adusto da borea il verno coce;

se’n ciel rugge il leon, latra la cagna,

ei sotto i raggi miei marcia in campagna.

Con le squadre più fide e più devote                         502

movesi ad espugnar l’empia caterva

che le leggi calpesta, il giogo scote

e ricusa ubbidir soggetta e serva;

vegghia, studia, travaglia il più che pote

quella peste a scacciar fiera e proterva,

che del’afflitta Gallia in modo orrendo

va per le chiuse viscere serpendo.

È giunto a tale il suo valor sovrano                            503

ch’omai vince e trionfa e non combatte.

Son dal nome vie più che dala mano

prese le rocche e le città disfatte;

solo col vento dele penne al piano

la sua gran fama l’alte mura abbatte;

cede ogni forte, ogni castel si rende:

misero chi contrasta e si difende!

Sassel ben d’Angerì la turba stolta                            504

che l’accordo pospone ala difesa.

Ecco Salmuria a’ rei ladron ritolta,

Bergeracco poi fa gran contesa.

Ecco la prima e la seconda volta

Cleracco a forza è soggiogata e presa,

Pouso, Mondur, Lunello ed ecco mille

racquistate in un punto e piazze e ville.

Fa ben due volte a Montalban ritorno,                                  505

né per pioggia o per neve assalto allenta,

ma col fiero cannon la notte e’l giorno

l’eccelse torri e’l gran giron tormenta.

Passa quindi a Narbona e tutti intorno

gli ammutinati popoli spaventa;

e posto campo ala città sovrana

di cadaveri ostili i fossi appiana.

E mentre ivi di sangue il campo tinge,                                    506

da lunge ala Roccella anco fa guerra.

Spernon da un lato e Suesson la cinge

e di soccorso ogni camin le serra,

minor forza la combatte e stringe

dala parte del mar che dela terra,

dove al gran porto del’alpestra rocca

tenta industre ingegner chiuder la bocca.

Spianta le selve e le miniere vota                               507

e con legni e con ferri il mar affrena,

e copulando vien, benché remota,

d’entrambo i capi l’un’e l’altra arena;

ed acciocché sue machine non scota,

quasi in dura prigion l’onda incatena,

e’l buon duce di Guisa insu l’entrata

il varco guarda con possente armata.

Tien del rege costui la vece e’l loco,                         508

guerrier cui non fia mai chi si pareggi.

Vanne e sprezza pur l’onda e sprezza il foco,

inclito eroe che la gran classe reggi!

Ben avrai quella e questo a temer poco,

milita il ciel per te mentre guerreggi

e l’un e l’altro orribile elemento

ti favorisce e la fortuna e’l vento.

Mira con qual inganno han mossi i legni                                509

le ribellate e debellate genti,

che portan seco insidiosi ingegni

d’occulti fuochi e d’artifici ardenti;

ma di toccarnobil corpo indegni

scoppiano a voto i perfidi stromenti,

volan le fiamme e’nsieme il mar confonde

le nebbie e i fumi e le faville e l’onde.

Vedi ogni altro vascello irne lontano,                         510

soletto ei si riman su l’ammirante.

Tutto incontro gli vien lo stuol villano;

ei non lascia però di girne avante,

anzi principe insieme e capitano

e soldato in un punto e navigante,

minacciando il nocchier ritroso e tardo

atterrisce il Terror sol con lo sguardo.

Può ben l’aspro conflitto ivi vedersi                          511

pien d’accidenti tragici e mortali;

vele stracciate ed uomini sommersi

e remi rotti ed arbori e fanali.

Spettacoli d’orror così diversi

oggetti ti parrian più ch’infernali,

s’udir potessi ancor gli alti rimbombi

che fanno i cavi bronzi e i fusi piombi.

Ecco la strage delo stuol rubello,                              512

ecco i navili suoi sparsi e distrutti.

L’animoso signor di cui favello,

fa del sangue fellon vermigli i flutti.

Saltando va da questo legno a quello

e la sua spada è scudo agli altri tutti.

Col grido e con la man fulmina e tuona,

così la difende e la corona.

Intanto al popol falso e contumace                            513

perdona alfin placato il gran Luigi

e dopo lungo assedio e pertinace

dispiega in Mompelier la fiordiligi,

quindi con la vittoria e con la pace

tra la palma e l’olivo entra in Parigi

e lieta sotto il trionfal vessillo

torna la Francia al bel viver tranquillo.

Tornan l’Arti più belle e le Virtudi                             514

poco dianzi fugaci e peregrine,

fioriscon gli alti ingegni e i sacri studi,

crescon i lauri a coronargli il crine,

riposan l’armi orrende, i ferri crudi

pendon dimessi e le battaglie han fine.

Son fatti i cavi scudi e i voti usberghi

nidi di cigni e di colombe alberghi. –

Qui tacque Apollo e’l pescator Fileno,                                 515

che presente ascoltò quant’egli disse,

quanto diss’egli e tutto il filo apieno

di que’ tragici amori in carte scrisse.

Giunse intanto la notte e nel sereno

tempio del ciel le sue lucerne affisse.

Tornaro a Stige le tartaree genti,

l’altre ale stelle e l’altre agli elementi.




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