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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto 1, allegoria

LA FORTUNA. Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rustico, dal medesimo leggiadramente composto.

 

Canto 1, argomento

Passa in picciol legnetto a Cipro Adone

dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque.

Amor gli turba intorno i venti e l’acque,

Clizio pastor l’accoglie in sua magione.

 

Canto 1

Io chiamo te, per cui si volge e move                        1

la più benigna e mansueta sfera,

santa madre d’Amor, figlia di Giove,

bella dea d’Amatunta e di Citera;

te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,

dela notte e del giorno è messaggiera;

te, lo cui raggio lucido e fecondo

serena il cielo ed innamora il mondo,

tu dar puoi sola altrui godere in terra                         2

di pacifico stato ozio sereno.

Per te Giano placato il tempio serra,

addolcito il Furor tien l’ire a freno;

poiché lo dio del’armi e dela guerra

spesso suol prigionier languirti in seno

e con armi di gioia e di diletto

guerreggia in pace ed è steccato il letto.

Dettami tu del giovinetto amato                                 3

le venture e le glorie alte e superbe;

qual teco in prima visse, indi qual fato

l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.

E tu m’insegna del tuo cor piagato

a dir le pene dolcemente acerbe

e le dolci querele e’l dolce pianto;

e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto.

Ma mentr’io tento pur, diva cortese,                         4

d’ordir testura ingiuriosa agli anni,

prendendo a dir del foco che t’accese

i pria sì grati e poi sì gravi affanni,

Amor, con grazie almen pari al’offese,

lievi mi presti a sì gran volo i vanni

e con la face sua, s’io ne son degno,

dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno.

E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi,                         5

di beltà vinci e di splendore abbagli

e, seguendo ancor tenero i vestigi

del morto genitor, quasi l’agguagli,

per cui suda Vulcano, a cui Parigi

convien che palme colga e statue intagli,

prego intanto m’ascolti e sostien ch’io

intrecci il giglio tuo col lauro mio.

Se movo ad agguagliar l’alto concetto                                  6

la penna, che per sé tanto non sale,

facciol per ottener dal gran suggetto

col favor che mi regge ed aure ed ale.

Privo di queste, il debile intelletto,

ch’al ciel degli onor tuoi volar non vale,

teme al’ardor di sì lucente sfera

stemprar l’audace e temeraria cera.

Ma quando quell’ardir ch’or gli anni avanza,                         7

sciogliendo al vento la paterna insegna

per domar la superbia e la possanza

del tiranno crudel che’n Asia regna,

vinta col suo valor l’altrui speranza

fia che’nsu’l fiore a maturar si vegna,

allor, con spada al fianco e cetra al collo,

l’un di noi sarà Marte e l’altro Apollo.

Così la dea del sempreverde alloro,                          8

parca immortal de’ nomi e degli stili,

ale fatiche mie con fuso d’oro

di stame adamantin la vita fili

e dia per fama a questo umil lavoro

viver fra le pregiate opre gentili,

come farò che fulminar tra l’armi

s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.

La donna che dal mare il nome ha tolto                                 9

dove nacque la dea ch’adombro in carte,

quella che ben a lei conforme molto

produsse un novo Amor d’un novo Marte,

quella che tanta forza ha nel bel volto

quant’egli ebbe nel’armi ardire ed arte,

forse m’udrà, né sdegnerà che scriva

tenerezze d’amor penna lasciva.

Ombreggia il ver Parnaso e non rivela                                   10

gli alti misteri ai semplici profani,

ma con scorza mentita asconde e cela,

quasi in rozzo Silen, celesti arcani.

Però dal vel che tesse or la mia tela

in molli versi e favolosi e vani,

questo senso verace altri raccoglia:

smoderato piacer termina in doglia.

Amor pur dianzi, il fanciullin crudele,                         11

Giove di nova fiamma acceso avea.

Arse di sdegno e’l cor d’amaro fiele

sparsa, gelò la sua gelosa dea,

e’ncontro a lui con flebili querele

richiamossi del torto a Citerea;

onde il garzon sovra l’etade astuto

dala materna man pianse battuto.

– Oimé, possibil fia (dicea Ciprigna)                         12

ch’io mai per te di pace ora non abbia?

Qual cerasta più livida e maligna

nutre del Nilo la deserta sabbia?

qual furia insana, o qual arpia sanguigna

là negli antri di stige ha tanta rabbia?

Dimmi, quel tosco ond’ogni core appesti,

aspe di paradiso, onde traesti?

Vuoi tu più mai contaminar di Giuno                         13

le leggittime gioie e i casti amori?

Udrò di te mai più richiamo alcuno,

ministro di follie, fabro d’errori,

sollecito avoltor, verme importuno,

morbo de’ sensi, ebrietà de’ cori,

di fraude nato e di furor nutrito,

omicida del senno, empio appetito?

Ira mi vien di romperti que’ lacci                               14

e quell’arco che fa piaghe sì grandi,

né so chi mi ritien ch’or or non stracci

quante reti malvage ordisci e spandi,

che per sempre dal ciel non ti discacci,

che’n essilio perpetuo io non ti mandi

su i gioghi ircani e tra le caspie selve,

arcier villano, a saettar le belve.

Che tu fra gli egri e languidi mortali,                          15

di cui s’odono ognor gridi e lamenti,

semini colaggiù martiri e mali,

convien, malgrado mio, ch’io mi contenti;

ma soffrirò che’n ciel vibri i tuoi strali,

non perdonando ale beate genti?

che sostengan per te strazi sì rei,

serpentello orgoglioso, anco gli dei?

Che più? fin dele stelle il sommo duce                                   16

questo malnato di sforzar si vanta,

e spesso a stato tale anco il riduce

ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta.

Un pestifero mostro, orbo di luce,

avrà dunque fra noi baldanza tanta?

un, che la lingua ancor tinta ha di latte,

cotanto ardisce? – E ciò dicendo il batte.

Con flagello di rose insieme attorte                           17

ch’avea groppi di spine, ella il percosse

e de’ bei membri, onde si dolse forte,

fe’ le vivaci porpore più rosse.

Tremaro i poli e la stellata corte

a quel fiero vagir tutta si mosse;

mossesi il ciel, che più d’Amor infante

teme il furor che di Tifeo gigante.

Dela reggia materna il figlio uscito,                            18

con quello sdegno allor se n’allontana

con cui soffiar per l’arenoso lito

calcata suol la vipera africana

o l’orso cavernier, quando ferito

si scaglia fuor dela sassosa tana

e va fremendo per gli orror più cupi

dele valli lucane e dele rupi.

Sferzato e pien di dispettosa doglia,                          19

fuggì piangendo ala vicina sfera,

là dove cinto di purpurea spoglia,

gran monarca de’ tempi, il Sole impera

e’nsu l’entrar dela dorata soglia,

stella nunzia del giorno e condottiera,

Lucifero incontrò, che’n oriente

apria con chiave d’or l’uscio lucente.

E’l Crepuscolo seco, a poco a poco                         20

uscito per la lucida contrada

sovra un corsier di tenebroso foco,

spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,

di fresco giglio e di vivace croco

forier del bel mattin spargea la strada

e con sferza di rose e di viole

affrettava il camino innanzi al Sole.

La bella luce, che’n su l’aurea porta                          21

aspettava del Sol la prima uscita,

era di Citerea ministra e scorta,

d’amoroso splendor tutta crinita.

Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta

già la biga rotante avea spedita

e’l venir dela dea stava attendendo,

quando il fier pargoletto entrò piangendo.

Pianse al pianger d’Amor la mattutina                                   22

del re de’ lumi ambasciadrice stella

e di pioggia argentata e cristallina

rigò la faccia rugiadosa e bella,

onde di vive perle accolte in brina

potè l’urna colmar l’Alba novella,

l’Alba che l’asciugò col vel vermiglio

l’umido raggio al lagrimoso ciglio.

Ricoverato al ricco albergo Amore,                          23

trovò che, posto a’ corridori il morso,

già s’era accinto il principe del’ore

con la verga gemmata al novo corso

e i focosi destrier, sbuffando ardore,

l’altere iube si scotean su’l dorso

e, sdegnosi d’indugio, il pavimento

ferian co’ calci e co’ nitriti il vento.

Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,                          24

che sempre il fin col suo principio annoda

e’n forma d’angue innanellato e torto

morde l’estremo ala volubil coda

e, qual Anteo caduto e poi risorto,

cerca nova materia ond’egli roda;

v’ha la serie de’ Mesi e i Dì lucenti,

i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti.

L’aurea corona, onde scintilla il giorno,                                 25

del Tempo gli ponean le quattro figlie.

Due schiere avea d’alate ancelle intorno,

dodici brune e dodici vermiglie.

Mentre accoppiavan queste al carro adorno

gli aurati gioghi e le rosate briglie,

gli occhi di foco il Sol rivolse e’l pianto

vide d’Amor, che gli languiva a canto.

Era Apollo di Venere nemico                                   26

e tenea l’odio ancor nel petto vivo,

daché lassù del’adulterio antico

publicò lo spettacolo lascivo,

quando accusò del talamo impudico

al fabro adusto il predator furtivo

e, con vergogna invidiata in cielo,

ai suoi dolci legami aperse il velo.

Orché gli espone Amor sua grave salma:                              27

– E che sciocchi dolor (dice) son questi?

Se’ tu colui che litigar la palma

in riva di Peneo meco volesti?

Tu tu, mente del mondo, alma d’ogni alma,

vincitor de’ mortali e de’ celesti,

or con strale arrotato e face accesa

vendicar non ti sai di tanta offesa?

Quanto fora il miglior, sicome afflitto                         28

di lagrime infantili il volto or bagni,

volgere il duolo in ira e’l dardo invitto

aguzzar nel’ingiuria onde ti lagni?

Fa che con petto lacero e trafitto

per te pianga colei per cui tu piagni;

ché, se vorrai, non senza gloria e nome

seguiranne l’effetto; ascolta come.

Là nela region ricca e felice                           29

d’Arabia bella, Adone il giovinetto,

quasi competitor dela fenice

senza pari in beltà vive soletto.

Adon nato di lei, cui la nutrice

col proprio genitor giunse in un letto,

di lei che, volta in pianta, i suoi dolori

ancor distilla in lagrimosi odori.

Schernì la scelerata il re malsaggio                            30

accesa il cor di sozzo foco indegno,

ond’egli poi per così grave oltraggio

quant’ella già d’amore, arse di sdegno

e le convenne in loco ermo e selvaggio

girne ad esporre il malconcetto pegno,

pegno furtivo, a cui la propria madre

fu sorella in un punto, avolo il padre.

Fattezze mai sì signorili e belle                                  31

non vide l’occhio mio lucido e chiaro.

Sventurato fanciullo, a cui le stelle

prima il rigor che lo splendor mostraro:

contro gli armò crude influenzie e felle,

ancor da lui non visto, il cielo avaro,

poiché, mentre l’un sorse e l’altra giacque,

al morir dela madre il figlio nacque.

Qual trofeo più famoso? e qual altronde                               32

spoglia attendi più ricca o più superba,

se per costui, ch’or prende a solcar l’onde,

il cor le ferirai di piaga acerba?

Dolci le piaghe fian, ma sì profonde

ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba.

Questa fia del tuo mal degna vendetta:

spirto di profezia così mi detta.

Più oltre io ti dirò. Mira là dove                                33

a caratteri egizzi in note oscure

intagliati vedrai per man di Giove

i vaticini del’età future:

havvi quante il destino al mondo piove

da’ canali del ciel sorti e venture,

che de’ pianeti al numero costrutte

sono in sette metalli incise tutte.

Quivi ciò che seguir deggia di questo                        34

legger potrai, quasi in vergate carte:

prole tal nascerà del bell’innesto,

che non ti pentirai d’avervi parte.

In lei, pur come gemme in bel contesto,

saran tutte del ciel le grazie sparte;

e questa, o per tai nozze apien beato,

al tiranno del mar promette il fato.

Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio                        35

la memoria tra noi de’ gran contrasti,

ma tal premio n’avrai d’un dono mio,

che’n mercé di tant’opra io vo’ che basti;

lira nel mio Parnaso aurea serb’io,

ch’ha d’or le corde e di rubino i tasti;

fu d’Armonia tua suora ed io di lei

con questa celebrai gli alti imenei.

Questa fia tua. Così qualor ti stai                              36

di cure e d’armi alleggerito e scarco

musico com’arcier, trattar potrai

il plettro a par di me non men che l’arco;

ché l’armonia non sol ristora assai

qualunque sia più faticoso incarco,

ma molto può co’ numeri sonori

ad eccitare ed incitar gli amori. –

Fur queste efficacissime parole                                 37

folli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio,

ond’irritato abbandonò del Sole

senza far motto il lampeggiante soglio

e, ruinando dal’eterea mole

inver le piagge del materno scoglio,

corse col tratto dele penne ardenti,

più che vento leggier, le vie de’ venti.

Come prodigiosa acuta stella,                                   38

armata il volto di scintille e lampi,

fende del’aria, orribil sì ma bella

passaggiera lucente, i larghi campi;

mira il nocchier da questa riva e quella

con qual purpureo piè la nebbia stampi

e con qual penna d’or scriva e disegni

le morti ai regi e le cadute ai regni:

così mentrech’Amor dal ciel disceso                         39

scorrendo va la region più bassa,

con la face impugnata e l’arco teso

gran traccia di splendor dietro si lassa;

d’un solco ardente e d’auree fiamme acceso

riga intorno le nubi ovunque passa

e trae per lunga linea in ogni loco

striscia di luce, impression di foco.

Su’l mar si cala, e sicom’ira il punge,                        40

sestesso aventa impetuoso a piombo;

circonda i lidi quasi mergo e lunge

fa del’ali stridenti udire il rombo;

né grifagno falcon quando raggiunge

col fiero artiglio il semplice colombo

fassi lieto così, com’ei diventa

quando il leggiadro Adon gli si presenta.

Era Adon nel’età che la facella                                 41

sente d’Amor più vigorosa e viva

ed avea dispostezza ala novella

acerbità degli anni intempestiva,

né su le rose dela guancia bella

alcun gemoglio ancor d’oro fioriva

o, se pur vi spuntava ombra di pelo,

era qual fiore in prato o stella in cielo.

In bionde anella di fin or lucente                                42

tutto si torce e si rincrespa il crine;

del’ampia fronte in maestà ridente

sotto gli sorge il candido confine;

un dolce minio, un dolce foco ardente,

sparso tra vivo latte e vive brine,

gli tinge il viso in quel rossor che suole

prender la rosa infra l’aurora e’l sole.

Ma chi ritrar del’un e l’altro ciglio                             43

può le due stelle lucide serene?

chi dele dolci labra il bel vermiglio,

che di vivi tesor son ricche e piene?

o qual candor d’avorio o qual di giglio

la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,

quasi colonna adamantina, accolto

un ciel di meraviglie in quel bel volto?

Qualor feroce e faretrato arciero                              44

di quadrella pungenti armato e carco,

affronta o segue, inun leggiadro e fiero,

o fere attende fuggitive al varco

e in atto dolce cacciator guerriero

saettando la morte incurva l’arco,

somiglia intutto Amor, senon che solo

mancano a farlo tale il velo e’l volo.

Egli tanto tesoro in lui raccolto                                  45

di natura e d’amor par ch’abbia a vile

e cerca del bel ciglio e del bel volto

turbar il sole, inorridir l’aprile,

ma, minacci cruccioso o vada incolto,

esser però non sa senon gentile

e, rustico quantunque e sdegnosetto,

convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.

Or mentre per l’arabiche foreste,                              46

dov’ei nacque e menò l’età primiera,

l’orme seguia per quelle macchie e queste

d’alcuna vaga e timidetta fera,

errore il trasse, o pur destin celeste,

dala terra deserta ala costiera,

colà dove fa lido ala marina

del lembo ultimo suo la Palestina.

Giunto ala sacra e gloriosa riva                                 47

che con boschi di palme illustra Idume,

dietro una cerva lieve e fuggitiva

stancando il piè, sicom’avea costume,

trovò, di guardia e di governo priva,

ritratta in secco appo le salse spume,

da’ pescatori abbandonata e carca

d’ogni arredo marin, picciola barca.

Ed ecco varia d’abito e di volto                                48

strania donna venir vede per l’onde,

ch’ha su la fronte il biondo crine accolto

tutto in un globo e quel ch’è calvo asconde;

vermiglio e bianco il vestimento sciolto

con lieve tremolio l’aura confonde;

lubrico è il lembo e quasi un aer vano,

che sempre a chi lo stringe esce di mano.

Nel’ampio grembo ha dela copia il corno                             49

e nela destra una volubil palla;

fugge ratto sovente e fa ritorno

per le liquide vie scherzando a galla;

alato ha il piede e più leggiera intorno

che foglia al vento si raggira e balla

e, mentre move al ballo il piè veloce,

in sì fatto cantar scioglie la voce:

– Chi cerca in terra divenir beato,                             50

goder tesori e possedere imperi,

stenda la destra in questo crine aurato,

ma non indugi a cogliere i piaceri,

ché, se si muta poi stagione e stato,

perduto ben di racquistar non speri:

così cangia tenor l’orbe rotante,

nel’incostanza sua sempre costante. –

Così cantava; indi, arrestando il canto,                                  51

con lieto sguardo al bel garzone arrise,

ed alo scoglio avicinata intanto

spalmò quel legno e’n sul timon s’assise.

– Adon, seguimi (disse) e vedrai quanto

cortese stella al nascer tuo promise;

prendi la treccia d’or che’n man ti porgo,

né temer di venirne ov’io ti scorgo.

Benché vulgare opinione antica                                 52

mi stimi un idol falso, un’ombra vana

e cieca e stolta e di virtù nemica

m’appelli, instabil sempre e sempre insana

e tiranna impotente altri mi dica

vinta talor dala prudenza umana,

pur son fata e son diva e son reina,

m’ubbidisce natura, il ciel m’inchina.

Chiunque Amore o Marte a seguir prende                            53

convien che’l nome mio celebri e chiami;

chi solca l’acqua e chi la terra fende

o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami,

porge preghi al mio nume e voti appende

ed io dispenso altrui scettri e reami;

toglier posso e donar tutto ad un cenno

e quanto è sotto il sol reggo a mio senno.

Me dunque adora e’nsu l’eccelsa cima                                 54

dela mia rota ascenderai di corto;

per me nel trono, onde ti trasse in prima

l’empio inganno materno, or sarai scorto;

solché poi dove il fato or ti sublima

sappi nel conservarti essere accorto,

ché spesso suol con preveder periglio

romper fortuna rea cauto consiglio. –

Tace ciò detto ed egli, vago allora                            55

di costeggiar quel dilettoso loco,

entra nel legno e del’angusta prora

i duo remi a trattar prende per gioco.

Ed ecco al sospirar d’agevol ora

s’allontana l’arena a poco a poco,

siché mentr’ei dal mar si volge ad essa

par che navighi ancor la terra istessa.

Scorrendo va piacevolmente il lido                           56

mentr’è placido e piano il molle argento

e da principio, del suo patrio nido

rade la riva a passo tardo e lento,

indi al’instabil fè del flutto infido

sestesso crede e si commette al vento

lunge di là dov’a morir va l’onda

e con roco latrar morde la sponda.

Trasparean sì le belle spiagge ondose,                                  57

che si potean del’umide spelonche

nele profonde viscere arenose

ad una ad una annoverar le conche.

Zefiri destri al volo, Aure vezzose

l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche,

il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede:

oh malcauto colui ch’ai venti crede.

O stolto quanto industre, o troppo audace                            58

fabro primier del temerario legno,

ch’osasti la tranquilla antica pace

romper del crudo e procelloso regno;

più ch’aspro scoglio e più che mar vorace

rigido avesti il cor, fiero l’ingegno,

quando sprezzando l’impeto marino

gisti a sfidar la morte in fragil pino.

Per far una leggiadra sua vendetta                             59

Amor fu solo autor di sì gran moto;

Amor fu ch’a pugnar con tanta fretta

trasse turbini e nembi, africo e noto.

Ma dela stanca e misera barchetta

fu sempr’egli il poppiero, egli il piloto;

fece vela del vel, vento con l’ali,

e fur l’arco timon, remi gli strali.

Dala madre fuggendo iva il figliuolo                           60

quasi bandito e contumace intorno,

perché, com’io dicea, vinto dal duolo,

di fanciullesca stizza arse e di scorno.

Né perché poscia il richiamasse, il volo

fermar volse giamai né far ritorno

e’n tal dispetto, in tant’orgoglio salse

che di vezzo o pregar nulla gli calse.

Per gli spazi sen gia del’aria molle                             61

scioccheggiando con l’Aure Amor volante

e dettava talor rabbioso e folle

tragiche rime a più d’un mesto amante;

talor lungo un ruscello o sovra un colle

piegava l’ali e raccogliea le piante

e, dovunque ne giva, il superbetto

rubava un core o trapassava un petto.

– Non è questo lo stral possente e fiero                                62

ch’al rettor dele stelle il fianco offese?

per cui più volte dal celeste impero

l’aureo scettro deposto in terra scese?

quel ch’al quinto del ciel nume guerriero

spezzò, passò l’adamantino arnese?

quel che punse in Tessaglia il biondo dio,

superbo sprezzator del valor mio?

Questa la face è pur cui sola adora,                          63

nonché la terra e’l ciel, Stige e Cocito,

che strugger fè, che fè languir talora

il signor dele fiamme incenerito,

quella da cui non si difese ancora

di Teti il freddo ed umido marito,

che tra’ gelidi umori infiamma i fonti,

tra l’ombre i boschi e tra le nevi i monti.

Ed or costei, da cui con biasmo eterno                                 64

mill’onte gravi io mi soffersi e tacqui,

perché dee le mie forze aver a scherno,

seben dal ventre suo concetto io nacqui?

Dunque andrà da que’ lacci il cor materno

libero, a cui, nonch’altri, anch’io soggiacqui?

arse per Marte, è ver, ma questo è poco,

lieve piaga fu quella e debil foco.

Altro ardor più penace, altra ferita                            65

vo’ che più forte al cor senta pur anco.

Si vedrà ch’ella istessa ha partorita

la vipera crudel, che l’apre il fianco.

Degg’io sempre onorar chi più m’irrita?

forse per tema il mio valor vien manco?

No no, segua che può... – Così dicea

l’implacabil figliuol di Citerea.

Mentre che quinci e quindi, or basso or alto                          66

vola e rivola il predator fellone,

come prima lontan dal verde smalto

vede in picciol legnetto il vago Adone,

subitamente al disegnato assalto

l’armi apparecchia e l’animo dispone

e, tutto inteso a tribular la madre,

vassene in Lenno ala magion del padre.

Nela fuliginosa atra fucina                             67

dove il zoppo Vulcan, suo genitore,

de’ numi eterni i vari arnesi affina

tinto di fumo e molle di sudore,

entra per fabricar tempra divina

d’un aureo strale imperioso Amore,

stral ch’efficace e penetrante e forte

possa un petto immortal ferire a morte.

Libero l’uscio al cieco arciero aperse                                   68

la gran ferriera del divino artista,

parte di già polite opre diverse,

parte imperfette ancor, confusa e mista.

Colà fan l’armi lampeggianti e terse

del celeste guerrier superba vista,

qui la folgor fiammeggia alata e rossa

del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa.

V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta,                                  69

il rastello di Cerere e’l bidente,

l’acuto spiedo di Diana casta,

la grossa mazza d’Ercole possente,

la falce, onde Saturno il tutto guasta,

l’arco, ond’Apollo uccise il fier serpente,

di Nettuno il trafiero e di Plutone

con due punte d’acciaio havvi il forcone.

Le trombe v’ha con cui volando suona                                 70

la Fama e gli altrui fatti or biasma or loda;

v’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona

i venti insani e le tempeste inchioda;

v’ha le catene, onde talor Bellona

il Furor lega e la Discordia annoda;

e v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra

Giano il gran tempio suo serra e disserra.

Presso al focon di mille ordigni onusto                                  71

travaglia il nero fabro entro la grotta.

Più d’un callo ha la man forte e robusto,

ale fatiche essercitata e dotta;

ruginosa la fronte, il volto adusto,

crespa la pelle ed abbronzata e cotta,

sparso il grembial di mill’avanzi e mille

di limature e ceneri e faville.

Quand’egli scorge il nudo pargoletto,                                   72

la forbice e’l martel lascia e sospende

e curvo e chino entro il lanoso petto

con un riso villan da terra il prende.

Tra le ruvide braccia avinto e stretto

l’ispido labro per baciarlo stende

e la sudicia barba ed incomposta

al molle viso e dilicato accosta.

Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe,                                73

raccolto in braccio, con paterno zelo,

Amor, perché baciando il punge e tinge,

la faccia arretra dal’irsuto pelo

e, con quel sozzo lin che’l sen gli cinge,

per non macchiarsi di carbone il velo,

al’aspra guancia d’una in altra ruga

del’immondo sudor le stille asciuga.

– Padre, dala tua man (poscia gli dice)                                 74

voglio or or sovrafina una saetta,

che fia de’ torti tuoi vendicatrice:

lascia la cura a me dela vendetta.

Il come appalesar né vo’ né lice,

basti sol tanto, spacciati, ch’ho fretta;

non porta indugio il caso, altro or non puoi

da me saper, l’intenderai ben poi.

Il quadrel ch’io ti cheggio esser conviene                              75

di perfetto artificio e ben condotto,

ch’esserne fin nele più interne vene

deve un petto divin forato e rotto.

S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene

il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto,

fa, prego, in cosa ov’hai tanto interesse,

del gran saper le meraviglie espresse.

Starò qui teco a ministrarti intento                             76

sotto la rocca del camin che fuma;

accioché’l foco non rimanga spento,

mantice ti farò del’aurea piuma

e s’egli averrà pur che manchi il vento

al folle che l’accende e che l’alluma,

prometto accumular tra questi ardori

in un soffio i sospir di mille cori. –

Non pon Vulcano in quell’affar dimora,                                77

ma sceglie la miglior fra cento zolle,

e pria che’nsu l’incudine sonora

ei la castighi, al focolar la bolle;

e non la batte e non la tratta ancora

finché ben non rosseggia e non vien molle;

divenuta poi tenera e vermiglia,

con la morsa tenace ei la ripiglia.

Amor presente ed assistente al’opra                         78

come l’abbia a temprar, come l’aguzzi

gli mostra, accioché poi quando l’adopra

non si rompa o si pieghi o si rintuzzi

e di sua propria man vi sparge sopra

del’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi,

piena di stille di dogliosi pianti

di sfortunati e desperati amanti.

Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli                          79

ch’un sol occhio hanno in fronte e son giganti,

con vicende di tuoni i gran martelli

movono a grandinar botte pesanti

e’l dotto mastro al martellar di quelli,

che fan tremar le volte arse e fumanti,

per dar effetto a quel ch’ha nel disegno,

pon gli stromenti in opera e l’ingegno.

Tosto che’l ferro è raffreddato, in prima                               80

sbozza il suo lavorìo rozzo ed informe,

poi, sotto più sottil minuta lima,

con industria maggior gli dà le forme;

l’arrota intorno e lo forbisce in cima,

applicando al pensier studio conforme;

col foco alfin l’indora e col mordente

e fa l’acciaio e l’or terso e lucente.

Poiché l’egregio artefice alo strale                             81

pertutto il liscio e’l lustro ha dato apieno,

n’arma il fanciullo un’asticciuola frale,

ma che trafige ogni più duro seno;

gl’impenna il calce di due picciol ale

e’l tinge di dolcissimo veleno

e, tutto pien d’una superbia stolta,

pon la caverna e i lavoranti in volta.

Va dela dea che generaro i flutti                                82

il baldanzoso e temerario figlio

spiando intorno e i ferramenti tutti

dela scola fabril mette in scompiglio;

or de’ ciclopi mostruosi e brutti

la difforme pupilla e’l vasto ciglio,

or il corto tallon del piè paterno

prende con risi e con disprezzi a scherno.

Veggendo alternamente arsicci e neri                        83

pestar ferro con ferro i tre gran mostri

– Troppo son (dice) deboli e leggieri

a librar le percosse i polsi vostri;

omai con colpi assai più forti e fieri

questa mano a ferir v’insegni e mostri;

impari ognun dala mia man, che spezza

qualunque di diamante aspra durezza. –

Volto a colui, ch’ha fabricato il telo                           84

soggiunge poscia: – In questa tua fornace

le fiamme son più gelide che gelo,

altro ardor più cocente ha la mia face. –

Tolto indi in mano il fulmine del cielo

e sciolto il freno al’insolenza audace,

in cotal guisa, mentre il vibra e move,

prende le forze a beffeggiar di Giove:

– Deh quanto, o tonator, che dale stelle                                85

fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende,

più dela tua, ch’a spaventar Babelle

dal ciel con fiero strepito discende,

atta sola a domar genti rubelle

senza romor la mia saetta offende;

tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme,

l’una fulmina i corpi e l’altra l’alme. –

Depon l’arme tonante e ricercando                           86

di qua di là l’affumigato albergo,

trova di Marte il minaccioso brando,

il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo.

– Or la prova vedrem (dice scherzando)

s’a difender son buoni il fianco e’l tergo. –

Lo strale in questa uscir dal’arco lassa,

falsa lo scudo e la lorica passa.

Di sì fatte follie sorridea seco                        87

lo dio distorto, che’l mirava intanto.

– Tu ridi (disse il faretrato cieco)

né sai che l’altrui riso io cangio in pianto,

e più che la fumea di questo speco,

farti d’angoscia lagrimar mi vanto. –

Ciò detto al gran Nettun vola leggiero,

che nel mondo del’acque ha sommo impero.

Velocemente a Tenaro sen viene,                             88

e l’aria scossa al suo volar fiammeggia.

Abitator dele più basse arene

quivi ha Nettun la cristallina reggia,

che dal’umor, di cui le sponde ha piene,

battuta sempre e flagellata ondeggia.

Rende dagli antri cavi eco profonda

rauco muggito alo sferzar del’onda.

Al’arrivo d’Amor da’ cupi fonti                                89

sgorga e crespo di spuma il mar s’imbianca,

quinci e quindi gli estremi in duo gran monti

sospende e in mezzo si divide e manca,

e, scoverti del fondo asciutti i ponti,

del gran palagio i cardini spalanca.

Passa ei nel regno ove la madre nacque,

patria de’ pesci e region del’acque.

Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia                                 90

quasi per stretta e discoscesa valle.

L’onda nol bagna e il mar, nonché gli noccia,

ritira indietro il piè, volge le spalle.

Filano acuto gelo a goccia a goccia

ambe le rupi del profondo calle,

e tra questo e quell’argine pendente

apena ei scorger può l’aria lucente.

Né già mentre varcava i calli ondosi                          91

la faretra o la face in ozio tenne,

ma con acuti stimoli amorosi

faville e piaghe a seminar vi venne;

e là dove, del’acqua augei squamosi,

spiegano i pesci l’argentate penne,

tra gl’infiniti esserciti guizzanti

sparse mill’esche di sospiri e pianti.

Strana di quella casa è la struttura,                            92

strano il lavoro e strano è l’ornamento;

ha di ruvide pomici le mura

e di tenere spugne il pavimento;

di lubrico zaffiro è la scultura,

dela scala maggior l’uscio è d’argento,

variato di pietre e di cocchiglie

azzurre e verdi e candide e vermiglie.

Nel’antro istesso è la magion di Teti                         93

e gran famiglia di Nereidi ha seco,

che’n vari uffici ed essercizi lieti

occupate si stan nel cavo speco.

Queste con passi incogniti e secreti

e per sentier caliginoso e cieco

van, del’arida terra irrigatrici,

a nutrir piante e fiori, erbe e radici.

Intorno e dentro al’umida spelonca                           94

chi danzando di lor le piante vibra,

chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca,

chi fila l’oro e chi l’affina e cribra;

qual de’ germi purpurei i rami tronca,

qual degli ostri sanguigni i pesi libra

e sotto il piè d’Amor v’ha molte ninfe

che van di musco ad infiorar le linfe.

Belle son tutte sì, ma differenti,                                 95

altra ceruleo ed altra ha verde il crine,

altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti,

altra intrecciando il va d’alghe marine;

e di manti diafani e lucenti

velan le membra pure e cristalline;

simili al viso ed agili e leggiadre

mostran che figlie son d’un stesso padre.

Pasce Proteo pastor mandra di foche,                                  96

orche, pistri, balene ed altri mostri,

dele cui voci mormoranti e roche

fremon pertutto i cavernosi chiostri;

e le guarda e le conta e non son poche,

e scagliose han le terga e curvi i rostri;

glauchi ha gli occhi lo dio, cilestro il volto,

e di teneri giunchi il crine involto.

Giunto ala vasta e spaziosa corte                              97

stupisce Amor da tuttiquanti i lati,

poiché per cento vie, per cento porte

cento vi scorge entrar fiumi onorati,

che quindi poi con piante oblique e torte

tornan per invisibili meati

fuor del gran sen, che gli concepe e serra,

con chiare vene ad innaffiar la terra.

Vede l’Eufrate divisor del mondo,                            98

che i bei cristalli suoi rompendo piange.

Vede l’original fonte profondo

del Nil che’l mar con sette bocche frange

e vede in letto rilucente e biondo

del più fino metal corcarsi il Gange,

il Gange onde trae l’or, di cui si suole

vestir quand’esce insu’l mattino il sole.

Vede pallido il Tago insu la riva                                99

non men ricchi sputar vomiti d’oro

e trar groppi di gel nel’onda viva

il Reno e l’Istro e’l Rodano sonoro;

di salce il Mincio, l’Adige d’oliva,

l’Arno alpar del Peneo cinto d’alloro,

di pampini il Meandro e d’edre l’Ebro

e d’auree palme incoronato il Tebro.

Vede di verdi pioppe ombrar le corna                                  100

l’Eridano superbo e trionfale,

ch’ove il rettor del pelago soggiorna

vien dal’Alpi a votar l’urna reale

e mercé de’ suoi duci il ciglio adorna

di splendor glorïoso ed immortale,

onde quel ch’è nel ciel, di lume agguaglia

e con fronte di luna il sole abbaglia.

Poi di grido minor ne vede molti                               101

che con rami divisi in varie parti

per l’Italia felice errano sciolti,

del gran padre Appennin concetti e parti

e, quai di canna e quai di mirto avolti

le tempie e quai di rosa ornati e sparti,

somministran con l’acque in lunga schiera

sempiterno alimento a primavera.

Tra questi, umil figliuol del bel Tirreno,                                  102

il mio Sebeto ancor l’acque confonde,

picciolo sì, ma di delizie pieno,

quanto ricco d’onor, povero d’onde.

– Giriti intorno il ciel sempre sereno,

né sfiori aspra stagion le belle sponde,

né mai la luce del tuo vivo argento

turbi con sozzo piè fetido armento.

Giacque in te la Sirena e per te poi                           103

sorger virtute e fiorir gloria io veggio,

trono di Giove e di pregiati eroi

felice albergo e fortunato seggio;

dolce mio porto, agli abitanti tuoi,

ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio.

Padre di cigni e lor ricovro eletto,

e de’ fratelli miei fido ricetto. –

Con questi encomi affettuosi Amore                         104

del patrio fiume mio le lodi spande,

che’l riconosce al limpido splendore

che fra mill’altri è segnalato e grande

e de’ cedri fioriti al grato odore

di cui s’intesse al crin verdi ghirlande.

Intanto nela gelida caverna,

dove siede Nettuno, i passi interna.

Seggio di terso oriental cristallo                                105

preme de’ flutti il regnator canuto,

che da colonne d’oro e di corallo

con basi di diamante è sostenuto.

E chi d’una testudine a cavallo

chi d’un delfin, chi d’un vitel cornuto,

cento altri dei minor, numi vulgari,

cedono a lui la monarchia de’ mari.

– Non pensar che per ira (Amor gli disse)                            106

gran padre dele cose a te ne vegna,

ché non può dio di pace amar le risse

e nel petto d’Amore odio non regna;

ma perché novamente il ciel prefisse

impresa al’arco mio nobile e degna,

per render l’opra agevole e spedita

di cortese favor ti cheggio aita.

Tu vedi là, dove di Siria siede                                   107

la spiaggia estrema che col mar confina,

vago fanciul del mio bel regno erede

col remo essercitar l’onda marina.

Questo, che di bellezza ogni altro eccede,

ala mia bella madre il ciel destina,

onde frutto uscir dee di beltà tanta

che fia simile intutto ala sua pianta.

Se deriva da te l’origin mia,                          108

s’a chi mi generò desti la cuna,

se’l tuo desir, quando d’amor languìa,

ottenne unqua da me dolcezza alcuna,

accioch’io possa per più facil via

condurlo a posseder tanta fortuna,

mercé di quanto feci o a far mi resta

siami nel regno tuo breve tempesta.

Di questa immensa tua liquida sfera                           109

turbar la bella e placida quiete

piacciati tanto sol, ch’innanzi sera,

venga Adone a cader nela mia rete;

e fia tutto a suo pro, perché non pera

sì ricca merce in malsecuro abete,

il cui navigio con incerta legge

più’l timor che’l timon governa e regge.

Sai che quando Ciprigna in novi amori                                  110

occupata non è, com’ha per uso,

usurpando a Minerva i suoi lavori

non sa senon trattar la spola o’l fuso,

onde inutil letargo opprime i cori,

torpe spento il mio foco, il dardo ottuso,

manca il seme ala vita ed infecondo

a rischio va di spopolarsi il mondo.

Oltre queste cagion, per cui devrei                            111

impetrar qualch’effetto ale mie voci,

dee l’util proprio almeno a’ preghi miei

far più le voglie tue pronte e veloci:

da questi felicissimi imenei

corteggiata da mille e mille proci,

Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella

fia dele Grazie l’ultima sorella.

Costei, sicome mi mostraro in cielo                           112

l’adamantine tavole immortali,

dove nel cerchio del signor di Delo

Giove scolpì gli oracoli fatali,

concede al re del liquefatto gelo

l’alto tenor di quegli eterni annali,

perché venga a scaldar col dolce lume

del freddo letto tuo l’umide piume.

Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio                               113

chi move il tutto, il fato altro volgesse,

seben di Tebe il giovinetto dio

fia tuo rival nele bellezze istesse,

a dispetto del ciel tel promett’io,

scritte in diamante sien le mie promesse.

Io, che Giove o destin punto non curo,

per l’acque sacre e per mestesso il giuro. –

Così parlava e’l re del’onde intanto                          114

a lui si volse con tranquilla faccia:

– O domatore indomito di quanto

il ciel circonda e l’oceano abbraccia,

a chi può dar altrui letizia e pianto

ragion è ben ch’apieno or si compiaccia:

spendi comunque vuoi quanto poss’io,

pende dal cenno tuo l’arbitrio mio.

E qual’onda fia mai, ch’a tuo talento                         115

qui non si renda o torbida o tranquilla,

s’ardon nel molle e mobile elemento

per Cimotoe Triton, Glauco per Scilla?

Come fia tardo ad ubbidirti il vento

se’l re de’ venti ancor per te sfavilla

e ricettan l’ardor ne’ freddi cori

Borea d’Orizia e Zefiro di Clori?

Tu virtù somma de’ superni giri,                                116

dispensier dele gioie e de’ piaceri,

imperador de’ nobili desiri,

illustrator de’ torbidi pensieri,

dolce requie de’ pianti e de’ sospiri,

dolce union de’ cori e de’ voleri,

da cui natura trae gli ordini suoi,

dio dele meraviglie e che non puoi?

Sicome tanti qui fiumi che vedi,                                 117

del mio reame tributari sono,

così, signor che l’anime possiedi,

tributario son io del tuo gran trono.

Onde a quant’oggi brami e quanto chiedi

da questo scettro a te devoto in dono,

o gioia, o vita universal del mondo,

altro che l’esseguir più non rispondo. –

Così dice Nettuno e così detto                                 118

crolla l’asta trisulca e’l mar scoscende.

D’alpi spumose oltre il ceruleo letto

cumulo vasto inver le stelle ascende;

urtansi i venti in minaccioso aspetto,

dele concave nubi anime orrende

e par che rotto o distemprato in gelo

voglia nel mar precipitare il cielo.

Borea d’aspra tenzon tromba guerriera                                 119

sfida il turbo a battaglia e la procella;

curva l’arco dipinto Iride arciera,

e scocca lampi in vece di quadrella;

vibra la spada sanguinosa e fiera

il superbo Orion, torbida stella

e’l ciel minaccia ed ale nubi piene

d’acqua insieme e di foco apre le vene.

Fuor del confin prescritto in alto poggia                                120

tumido il mar di gran superbia e cresce;

ruinosa nel mar scende la pioggia,

il mar col cielo, il ciel col mar si mesce;

in novo stile, in disusata foggia,

l’augello il nuoto impara, il volo il pesce;

oppongonsi elementi ad elementi,

nubi a nubi, acque ad acque e venti a venti.

Potè, tant’alto quasi il flutto sorse,                            121

la sua sete ammorzar la cagna estiva

e di nova tempesta a rischio corse,

non ben secura in ciel, la nave argiva.

E voi fuor d’ogni legge, o gelid’orse,

malgrado ancor dela gelosa diva,

nel mar vietato i luminosi velli

lavaste pur dele stellate pelli.

Deh che farai dal patrio suol lontano,                        122

misero Adone, a navigar mal atto?

vaghezza pueril tanto pian piano

il mal guidato palischelmo ha tratto,

che la terra natia sospiri invano,

dal gran rischio confuso e sovrafatto.

Tardi ti penti e sbigottito e smorto

omai cominci a desperar del porto.

Già già convien che il timido nocchiero                                 123

al’arbitrio del caso s’abbandoni;

fremono per lo ciel torbido e nero

fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni

e tuona anch’egli il re del’acque altero,

ch’a suon d’austri soffianti e d’aquiloni,

col fulmine dentato, emulo a Giove,

tormentando la terra, il mar commove.

Corre la navicella e ratta e lieve                                124

la corrente del mar seco la porta;

piega l’orlo talvolta e l’onda beve,

assai vicina a rimanerne absorta;

più pallido e più gelido che neve

volgesi Adon, né scorge più la scorta

e di morte sì vasta il fiero aspetto

confonde gli occhi suoi, spaventa il petto.

Ma mentre privo di terreno aiuto                              125

l’agitato battel vacilla ed erra,

ambo i fianchi sdruscito e combattuto

da quell’ondosa e tempestosa guerra,

quando il fanciul più si tenea perduto,

ecco rapidamente approda in terra

e, tra’ giunchi palustri insu l’arena

vomitato dal’acque, il corso affrena.

Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima                                  126

il pianeta maggior che’l dì rimena,

sotto benigno e temperato clima

stende le falde un’isoletta amena.

Quindi il superbo Tauro erge la cima,

quinci il famoso Nil fende l’arena;

ha Rodo incontro e di Soria vicini

e di Cilicia i fertili confini.

Questa è la terra ch’ala dea, che nacque                               127

dal’onde con miracolo novello,

tanto fu cara un tempo e tanto piacque,

che, disprezzato il suo divino ostello,

qui sovente godea fra l’ombre e l’acque

con invidia del’altro un ciel più bello

e v’ebbe eretto, al’immortale essempio

dela sua diva imago, altare e tempio.

Scende quivi il garzon salvo al’asciutto,                                128

ma pur dubbioso e di suo stato incerto,

ch’ancor gli par del’orgoglioso flutto

veder l’abisso orribilmente aperto.

Volgesi intorno e scorge esser pertutto,

circondato dal mar, bosco e deserto,

ma quella solitudine che vede,

gioconda è sì, ch’altro piacer non chiede.

Quivi si spiega in un sereno eterno                            129

l’aria in ogni stagion tepida e pura,

cui nel più fosco e più cruccioso verno

pioggia non turba mai, né turbo oscura,

ma, prendendo dipar l’ingiurie a scherno

del gelo estremo e del’estrema arsura,

lieto vi ride né mai varia stile

un sempreverde e giovinetto aprile.

I discordi animali in pace accoppia                           130

Amor, né l’un dal’altro offeso geme;

va con l’aquila il cigno in una coppia,

va col falcon la tortorella insieme,

né dela volpe insidiosa e doppia

il semplicetto pollo inganno teme;

fede al’amica agnella il lupo osserva,

e secura col veltro erra la cerva.

Da’ molli campi, i cui bennati fiori                             131

nutre di puro umor vena vivace,

dolce confusion di mille odori

sparge e’nvola volando aura predace:

aura, che non pur là con lievi errori

suol tra’ rami scherzar spirto fugace,

ma per gran tratto d’acque anco da lunge

peregrinando i naviganti aggiunge.

Va oltre Adone e Filomena e Progne                                    132

garrir ode pertutto ovunque vanne

e di stridule pive e rauche brogne

sonar foreste e risonar cappanne

di villane sordine e di sampogne,

di boscherecci zuffoli e di canne

e, con alterno suon, da tutti i lati

doppiar muggiti e replicar balati.

Solitario garzon posarsi stanco                                 133

vede al’ombra d’un lauro in rozza pietra;

ha l’arco a’ piedi e gli attraversa il fianco

d’un bel cuoio linceo strania faretra;

veste pur di cerviero a negro e bianco

macchiata spoglia e tiene in man la cetra;

dolce con questa al mugolar de’ tori

accorda il suon de’ suoi selvaggi amori.

Di dorato coturno ha il piè vestito,                            134

eburneo corno a verde fascia appende;

ride il labro vivace e colorito,

sereno lampo il placid’occhio accende;

ha fiorita la guancia, il crin fiorito

e fiorita è l’età che bello il rende;

tutto in somma di fiori è sparso e pieno,

fior la man, fior la chioma e fiori il seno.

Formidabil mastin dal destro lato                              135

in un groppo giacer presso gli scorse,

che con rabbioso ed orrido latrato

quando il vide apparir contro gli corse.

Ma posto il plettro insu l’erboso prato

il cortese villan subito sorse,

e l’indomito can, perché ristesse,

fugò col grido e col baston corresse.

Ubbidisce il superbo, a piè gli piega                          136

l’irsuta testa e l’irta coda abbassa;

quegli ala gola intorno allor gli lega

con tenace cordon serica lassa;

poscia il real donzello invita e prega

ch’oltre vada securo: ed egli passa.

Passa colà, dove raccoglie umile

famiglia pastoral rustico ovile.

Stassene alcun su le fiorite rive                                  137

d’una sorgente cristallina e fresca;

altri per l’elci folte al’ombre estive

i vaghi augelli insidioso invesca;

altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive

d’amor tutto soletto il foco e l’esca;

altri rintraccia di sua ninfa l’orme,

altri salta, altri siede ed altri dorme.

Quei con versi d’amor l’aure addolcisce                               138

al sussurrar de’ lubrici cristalli;

questi al tauro, al monton, che gli ubbidisce,

insegna al suon dela siringa i balli;

qual fiscelle d’ibisco e qual ordisce

serti di fiori o purpurini o gialli;

chi torce al’agne le feconde poppe,

chi di latte empie i giunchi e chi le coppe.

Col bel fanciullo, ove grand’ombra stende                            139

pergolato di mirti, il pastor siede.

Quivi Adon sue fortune a narrar prende,

dela contrada e di lui stesso chiede.

L’un gli risponde e l’altro intanto pende

dal parlar, che d’amore il cor gli fiede.

– Strani (gli dice) oltr’ogni creder quasi,

peregrino gentil, sono i tuoi casi!

Ma cangiar patria omai, deh! non ti spiaccia                         140

con sì bel loco e rasserena il ciglio,

ché se pur, come mostri, ami la caccia,

qui fere avrai senz’ira e senz’artiglio.

Né creder vo’ che’ndarno il ciel ti faccia

campar da tanto e sì mortal periglio

o senz’alta cagion per via sì lunga

perduto legno a queste rive giunga.

Così compia i tuoi voti amico cielo                            141

e secondi i desir destra fortuna,

come, fra quanti col suo piè di gelo

paesi inferior scorre la luna,

non potea più conforme a sì bel velo

terra trovarsi o regione alcuna.

Certo con lei, che con Amor qui regna,

sol di regnar tanta bellezza è degna.

L’isola, dove sei, Cipro s’appella,                            142

che del mar di Panfilia in mezzo è posta;

la gran reggia d’Amor, vedila, è quella

ch’io là t’addito inver la destra costa,

né, se non quanto il vuol la dea più bella,

colà giamai profano piè s’accosta.

Scender di ciel qui spesso ella ha per uso;

in altro tempo il ricco albergo è chiuso.

V’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco,                          143

simulacri, olocausti e sacerdoti,

dove, in segno d’onor, del popol greco

pendono affissi in lunga serie i voti.

Offrono al nume faretrato e cieco

vittime elette i supplici devoti

e gli spargono ognor, tra roghi e lumi,

di ghirlande e d’incensi odori e fumi.

Qui per elezzion, non per ventura,                             144

già di Liguria ad abitar venn’io;

pasco per l’odorifera verdura

i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio;

del suo bel parco la custodia in cura

diemmi la madre del’alato dio,

dov’entrar, fuorch’a Venere, non lice,

ed ala dea selvaggia e cacciatrice.

Trovato ho in queste selve ai flutti amari                                145

d’ogni umano travaglio il vero porto;

qui dale guerre de’ civili affari

quasi in securo asilo, il ciel m’ha scorto;

serici drappi non mi fur sì cari

come l’arnese ruvido ch’io porto

ed arno meglio le spelonche e i prati,

che le logge marmoree e i palchi aurati.

Oh quanto qui più volentieri ascolto                          146

i sussurri del’acque e dele fronde,

che quei del foro strepitoso e stolto

che il fremito vulgar rauco confonde!

Un’erba, un pomo e di fortuna un volto

quanto più di quiete in sé nasconde

di quel ch’avaro principe dispensa

sudato pane in malcondita mensa.

Questa felice e semplicetta gente                              147

che qui meco si spazia e si trastulla,

gode quel ben che tenero e nascente

ebbe a goder sì poco il mondo in culla:

lecita libertà, vita innocente,

appo’l cui basso stato il regio è nulla,

ché sprezzare i tesor né curar l’oro,

questo è secolo d’or, questo è tesoro.

Non cibo o pasto prezioso e lauto                            148

il mio povero desco orna e compone;

or damma errante, or cavriuolo incauto

l’empie, or frutto maturo in sua stagione;

detto talora a suon d’avena o flauto

ai discepoli boschi umil canzone;

serva no, ma compagna amo la greggia;

questa mandra malculta è la mia reggia.

Lunge da’ fasti ambiziosi e vani                                 149

m’è scettro il mio baston, porpora il vello,

ambrosia il latte, a cui le proprie mani

scusano coppa e nettare il ruscello;

son ministri i bifolci, amici i cani,

sergente il toro e cortigian l’agnello,

musici gli augelletti e l’aure e l’onde,

piume l’erbette e padiglion le fronde.

Cede a quest’ombre ogni più chiara luce,                             150

ai lor silenzi i più canori accenti;

ostro qui non fiammeggia, or non riluce,

di cui sangue e pallor son gli ornamenti;

se non bastano i fior che’l suol produce,

di più bell’ostro e più bell’or lucenti,

con sereno splendor spiegar vi suole

pompe d’ostro l’aurora e d’oro il sole.

Altro mormorator non è che s’oda                            151

qui mormorar che’l mormorio del rivo;

adulator non mi lusinga o loda

fuorché lo specchio suo limpido e vivo;

livida invidia, ch’altrui strugga e roda,

loco non v’ha, poich’ogni cor n’è schivo,

senon sol quanto in questi rami e’n quelli

gareggiano tra lor gli emuli augelli.

Hanno colà tra mille insidie in corte                           152

Tradimento e Calunnia albergo e sede,

dal cui morso crudel trafitta a morte

è l’Innocenza e lacera la Fede;

qui non regna Perfidia e, se per sorte,

picciol’ape talor ti punge e fiede,

fiede senza veleno e le ferite

con usure di mel son risarcite.

Non sugge qui crudo tiranno il sangue,                                  153

ma discreto bifolco il latte coglie;

non mano avara al poverello essangue

la pelle scarna o le sostanze toglie;

solo al’agnel, che non però ne langue,

havvi chi tonde le lanose spoglie;

punge stimulo acuto il fianco a’ buoi,

non desire immodesto il petto a noi.

Non si tratta fra noi del fiero Marte                           154

sanguinoso e mortal ferro pungente,

ma di Cerere sì, la cui bell’arte

sostien la vita, il vomere e’l bidente,

né mai di guerra in questa o in quella parte

furore insano o strepito si sente,

salvo di quella che talor fra loro

fan con cozzi amorosi il capro e’l toro.

Con lancia o brando mai non si contrasta                              155

in queste beatissime contrade;

sol di Bacco talor si vibra l’asta,

onde vino e non sangue in terra cade;

sol quel presidio ai nostri campi basta

di tenerelle e verdeggianti spade

che, nate là su le vicine sponde,

stansi tremando a guerreggiar con l’onde.

Borea con soffi orribili ben pote                                156

crollar la selva e batter la foresta:

pacifici pensier non turba o scote

di cure vigilanti aspra tempesta.

E se Giove talor fiacca e percote

del’alte querce la superba testa,

in noi non avien mai che scocchi o mandi

fulmini di furor l’ira de’ grandi.

Così tra verdi e solitari boschi                                   157

consolati ne meno i giorni e gli anni;

quel sol, che scaccia i tristi orrori e foschi,

serena anco i pensier, sgombra gli affanni;

non temo o d’orso o d’angue artigli o toschi,

non di rapace lupo insidie o danni,

ché non nutre il terren fere o serpenti,

o se ne nutre pur, sono innocenti.

Se cosa è che talor turbi ed annoi                             158

i miei riposi placidi e tranquilli,

altri non è ch’amor. Lasso, dapoi

che mi giunse a veder la bella Filli,

per lei languisco e sol per gli occhi suoi

convien che quant’io viva arda e sfavilli

e vo’ che chiuda una medesma fossa

del foco insieme il cenere e del’ossa.

Ma così son d’amor dolci gli strali,                           159

sì la sua fiamma e la catena è lieve,

che mille strazi rigidi e mortali

non vagliono un piacer che si riceve.

Anzi pur vaga de’ suoi propri mali

conosciuto velen l’anima beve

e’n quegli occhi ov’alberga il suo dolore,

volontaria prigion procaccia il core.

Curi dunque chi vuol delizie ed agi,                           160

io sol piacer di villa apprezzo ed amo;

co’ tuguri cangiar voglio i palagi,

altro tesor che povertà non bramo;

sazio de’ vezzi perfidi e malvagi,

ch’han sotto l’esca dolce amaro l’amo,

qui sol quella ottener gioia mi giova

che ciascun va cercando e nessun trova.

Non ti meravigliar che la selvaggia                            161

vita tanto da me pregiata sia,

ch’ancor di Giano insu la patria spiaggia

ne cantai già con rustica armonia;

onde vanto immortal d’arguta e saggia

concesse Apollo ala sampogna mia,

de’ cui versi lodati in Elicona

il ligustico mar tutto risona. –

Del maestro d’amor gli amori ascolta                                    162

stupido Adone ed a’ bei detti intento.

Colui, poich’affrenò la lingua sciolta,

fè da’ rozzi valletti in un momento

recar copia di cibi, a cui la molta

fame accrebbe sapore e condimento;

mel di diletto e nettare d’amore,

soave al gusto e velenoso al core;

né mai di loto abominabil frutto                                 163

di secreta possanza ebbe cotanto,

né fu giamai con tal virtù costrutto

di bevanda circea magico incanto,

che non perdesse e non cedesse intutto

al pasto del pastor la forza e’l vanto:

licore insidioso, esca fallace,

dolce velen ch’uccide e non dispiace.

Nel giardin del Piacer le poma colse                         164

Clizio amoroso e quindi il vino espresse,

ond’ebro in seno il giovinetto accolse

fiamme sottili, indi s’accese in esse.

Non però le conobbe e non si dolse,

ché, finch’uopo non fu, giacquer soppresse,

qual serpe ascosa in agghiacciata falda,

che non prende vigor se non si scalda.

Sente un novo desir ch’al cor gli scende                               165

e serpendo gli va per entro il petto;

ama né sa d’amar, né ben intende

quel suo dolce d’amor non noto affetto;

ben crede e vuole amar, ma non comprende

qual esser deggia poi l’amato oggetto

e pria si sente incenerito il core

che s’accorga il suo male essere amore.

Amor ch’alzò la vela e mosse i remi                          166

quando pria tragittollo al bel paese,

va sotto l’ali fomentando i semi

dela fiamma ch’ancor non è palese.

Fa su la mensa intanto addur gli estremi

dela vivanda il contadin cortese;

Adon solve il digiuno e i vasi liba,

e quei segue il parlar mentr’ei si ciba

– Signor, tu vedi il sol ch’aventa i rai                         167

di mezzo l’arco, onde saetta il giorno;

però qui riposar meco potrai

tanto che’l novo dì faccia ritorno.

Ben da sincero cor, prometto, avrai

in albergo villan lieto soggiorno;

avrai con parca mensa e rozzo letto

accoglienze cortesi e puro affetto.

Tosto che sussurrar tra’l mirto e’l faggio                   168

io sentirò l’auretta mattutina,

teco risorgerò per far passaggio

ala casa d’Amor ch’è qui vicina.

Tu poi quindi prendendo altro viaggio,

potrai forse saldar l’alta ruina,

conosciuto che sii l’unico e vero

successor dela reggia e del’impero. –

Benché non tema il folgorar del sole,                         169

tra fatiche e disagi Adon nutrito,

di quell’oste gentil non però vole

sprezzar l’offerta o ricusar l’invito.

Risposto al grato dir grate parole,

quivi di dimorar prende partito

e ringrazia il destin che, lasso e rotto,

a sì cara magion l’abbia condotto.

Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi                                  170

lasciò le piagge scolorite e meste

e, pascendo i destrier fumanti ed arsi

nel presepe del ciel biada celeste,

di sudore e di foco umidi e sparsi

nel vicino Ocean lavar le teste;

e l’un e l’altro sol stanco si giacque,

Adon tra’ fiori, Apollo in grembo al’acque.

 




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