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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto 3, allegoria

L’INNAMORAMENTO. In Amore, che ferisce il cuore alla madre, si accenna che questo irreparabile affetto non perdona a chi che sia. In Venere, che s’innamora d’Adone addormentato, si dinota quanto possa in un animo tenero la bellezza, eziandio quando ella non è coltivata. Nella medesima, che volendo guadagnarsi l’affezzion d’Adone cacciatore, prende la sembianza della dea cacciatrice e d’impudica si trasforma in casta, s’inferisce che chiunque vuole adescare altrui si serve di que’ mezzi a’ quali conosce essere inclinato l’animo di colui che disegna di tirare a sé, e che molte volte la lascivia viene mascherata di modestia; né si trova femina così sfacciata, ch’almeno insu i principi non si ricopra col velo della onestà. Nella rosa tinta del sangue di essa dea ed a lei dedicata, si dimostra che i piaceri venerei son fragili e caduchi; e sono il più delle volte accompagnati da aspre punture o di passione veemente o di pentimento mordace.

 

Canto 3, argomento

Mentreché stanco Adon dorme insu’l prato,

la bella Citerea n’arde d’amore.

Egli si desta e pien di pari ardore

vassene seco inver l’ostel beato.

 

Canto 3

Perfido è ben Amor, chi n’arde il sente,                                1

ma chi è che nol senta o che non n’arda?

E pur la cieca e forsennata gente

segue il suo peggio e’l proprio mal non guarda!

Fascino dilettoso, ond’uom sovente

pasce, credulo augello, esca bugiarda.

Vede tese le reti e non le fugge,

né vorria non voler quelche lo strugge.

Corre vaga farfalla al chiaro lume,                             2

solca incauto nocchier le placid’onde;

quella nel fiero incendio arde le piume,

questo assorbon talor l’acque profonde.

Spesso arsenico in oro e per costume

rigido tra’ bei fiori angue s’asconde;

e spesso in dolce pomo ed odorato

suol putrido abitar verme celato.

Così spada lucente, arco depinto                              3

con la pittura e con la luce alletta;

ma se l’una è trattata e l’altro è spinto

l’una trafige poi, l’altro saetta.

Così nuvolo ancor di raggi cinto

fiamme nel seno e fulmini ricetta;

e con dorato e luminoso crine

minaccia empia cometa alte ruine.

Sirena, iena, che con falsa voce                                4

e con canto mortale altrui tradisce.

Foco coverto, ch’assecura e coce,

aspe che dorme e’l tosco in sen nutrisce.

Spietato lusinghier, ch’alletta e noce,

pietoso micidial, ch’unge e ferisce,

cortese carcerier, ch’a’ rei di morte

quando chiusi li ha in ceppi, apre le porte.

Dura legge, se legge esser può dove                         5

oppressa la ragion, regna la voglia

e l’alma folle in strane guise e nove

per vestirsi d’altrui di sé si spoglia.

Crudo signor, ch’a forza i sensi move

a procacciarsi sol tormento e doglia.

Fere come la morte e non perdona

senza distinguer mai stato o persona.

O del mondo tiranno e di natura,                              6

se del materno duol gioisci e godi,

qual fia che schermo o scampo alma secura

abbia dale tue forze o dale frodi?

Lasso, e di me che fia, che’n prigion dura

vivo e scioglier del cor non spero i nodi,

finché quel nodo ancor non si discioglia,

che tien legata l’anima ala spoglia?

Era nela stagion, che’l can celeste                             7

fiamme essala latrando e l’aria bolle,

ond’arde e langue in quelle parti e’n queste

il fiore e l’erba e la campagna e’l colle;

e’l pastor per spelonche e per foreste

rifugge al’ombra fresca, al’onda molle

mentre che Febo al’animal feroce

che fu spoglia d’Alcide il tergo coce.

L’olmo, il pino, l’abete, il faggio e l’orno                               8

già le braccia e le chiome ombrosi e spessi,

che dar sul fil del più cocente giorno

agli armenti solean grati recessi,

appena or nudi e senza fronde intorno

fanno col proprio tronco ombra a sestessi;

e mal secura dal’eterna face

ricovra agli antri suoi l’aura fugace.

Già varcata ha del dì la mezza terza                          9

sul carro ardente il luminoso auriga

e i volanti corsier, ch’ei punge e sferza,

tranno al mezzo del ciel l’aurea quadriga.

Tepidetto sudor, che serpe e scherza,

al bell’Adon la bella fronte irriga

e’n vive perle e liquide disciolto

cristallino ruscel stilla dal volto.

Sotto l’arsura del’estiva lampa,                                 10

che dal più alto punto il suol percote,

tutto anelante il garzonetto avampa

e il grave incendio sostener mal pote.

Purpureo foco gli colora e stampa

di più dolce rossor le belle gote,

che’l sol, che secca i fiori in ogni riva,

in que’ prati d’amor vie più gli aviva.

Mentre che pur, dov’egli arresti il passo,                              11

parte cerca più fresca e meno aprica,

ode strepito d’acque a piè d’un sasso,

vede chiusa valletta al sol nemica.

Or questo, il corpo a sollevar già lasso

e travagliato assai dala fatica,

seggio si sceglie e stima util consiglio

qui depor l’armi e dar ristoro al ciglio.

Fontana v’ha, cui stende intorno oscura                                12

l’ombra sua protettrice annosa pioppa,

dove larga nutrice empie Natura

di vivace licor marmorea coppa.

Latte fresco e soave è l’onda pura,

un antro il seno ed un cannon la poppa.

A ber sugli orli i distillati umori

apron l’avide labbra erbette e fiori.

L’arco rallenta e del’usato pondo                             13

al fianco ingiurioso il fianco alleggia

e’l volto acceso e’l crin fumante e biondo

lava nel fonte, che’nsu’l marmo ondeggia.

Poi colà dove il rezzo è più profondo

e d’umido smeraldo il suol verdeggia,

al’erba in grembo si distende e l’erba

ride di tant’onor lieta e superba.

Il gorgheggiar de’ garruletti augelli,                            14

a cui da’ cavi alberghi eco risponde;

il mormorar de’ placidi ruscelli,

che van dolce nel margo a romper l’onde;

il ventilar de’ tremuli arboscelli,

dove fan l’aure sibilar le fronde,

l’allettar sì, che’nsu le sponde erbose

in un tranquillo oblio gli occhi compose.

Non lunge è un colle, che l’ombrosa fronte                           15

di mirti intreccia e’l crin di rose infiora,

e del Nilo fecondo il chiuso fonte

vagheggia esposto ala nascente aurora.

E quando rosseggiar fa l’orizzonte

l’aureo carro del sol, che i poggi indora,

sente a l’aprir del mattutino Eoo

d’Eto i primi nitriti e di Piroo.

A piè di questo i suoi giardini ha Clori                                   16

e qui la dea d’amor sovente riede

a corre i molli e rugiadosi odori

per far tepidi bagni al bianco piede.

Ed ecco sovra un talamo di fiori

qui giunta a caso, il giovinetto vede.

Ma mentr’ella in Adon rivolge il guardo,

Amor crudele in lei rivolge il dardo.

Per placar quel feroce animo irato,                           17

Venere sua, ch’alpar degli occhi l’ama,

con l’esca in man d’un picciol globo aurato

gonfio di vento, a sé da lunge il chiama.

Tosto che vede il vagabondo alato

la palla d’or, di possederla brama,

per poter poi con essa in chiuso loco

sfidar Mercurio e Ganimede a gioco.

Movesi ratto e in spaziosa rota                                 18

gli omeri dibattendo ondeggia ed erra,

solca il ciel con le piume, in aria nuota,

or l’apre e spiega, or le ripiega e serra.

Or il suol rade, or ver la pura e vota

più alta region s’erge da terra.

Alfin colà dove Ciprigna stassi

china rapido l’ali e drizza i passi.

Ella il richiama, egli rifugge, e poi                              19

torna, e’ntorno le scherza alto sui vanni.

Anime incaute e semplicette, o voi,

non sia chi creda a que’ soavi inganni.

Fuggite, oimé, gli allettamenti suoi,

insidie i vezzi, e son gli scherzi affanni,

sempre là dov’ei ride è strazio acerbo;

o Dio quanto è crudel, quanto è superbo!

Questa dolce magia, che per usanza                         20

l’anime nostre a vaneggiar sospinge,

tal in sé di piacer ritien sembianza,

che quasi in amo d’or le prende e stringe.

Or se tanta han d’amor forza e possanza

soli gli effetti, allor ch’inganna e finge,

deh! che fora a mirar viva e sincera

di quel corpo immortal la forma vera?

Di splendor tanto e sì sereno ognora                         21

quel bel corpo celeste intorno è sparso,

che perderebbe ogni altro lume e fora,

senza escluderne il sol, debile e scarso.

Stupor non sia se Psiche, e chiusi ancora

avea gli occhi dal sonno, il cor n’ebb’arso

e vide innanzi a quella luce eterna

vacillando languir l’aurea lucerna.

O se nel fosco e torbido intelletto                             22

di quella luce una scintilla avessi,

siché come scolpito il chiudo in petto,

così scoprirlo agli occhi altrui potessi,

farei veder nel suo giocondo aspetto

di bellezze divine estremi eccessi;

onde, scorgendo in lui tanta bellezza,

ragion la madre ha ben se l’accarezza.

Bionda testa, occhi azzurri e bruno ciglio,                             23

bocca ridente e faccia ha dilicata,

né su la guancia ove rosseggia il giglio

spunta ancor la lanugine dorata.

Piume d’oro, di bianco e di vermiglio

quinci e quindi sugli omeri dilata

ed ha, come pavon, le penne belle

tutte fregiate d’occhi di donzelle.

Molli d’ambrosia e di rugiada ha sparte                                24

le chiome e l’ali e’ngarzonisce apena.

Bendato e senza spoglie il copre in parte

sol una fascia che di cori è piena.

Arma la man con infallibil arte

d’arco, di stral, di face e di catena.

L’accompagna in ogni atto il riso, il gioco,

e somiglia al color porpora e foco.

Corre ingordo a l’invito e colmo un lembo                            25

di fioretti e di fronde in prima coglie,

poi poggia in aria e sul materno grembo

in colorita grandine lo scioglie;

ed ei nel molle ed odorato nembo

chiuso e tra fiori involto e tra le foglie

piover si lassa leggiermente, e sovra

la bellissima dea posa e ricovra.

Tal di donna real delizia e cura                                  26

picciolo can che le sta sempre innanzi,

e dele dolci labra ha per ventura

di ricevere i baci e ber gli avanzi,

se con cenno o con cibo l’assecura

la bella man, che lo scacciò pur dianzi,

scote la coda e saltellando riede

umilemente a rilambirle il piede.

Pargoleggiando il bianco collo abbraccia,                             27

bacia il bel volto e le mammelle ignude.

Ride per ciancia e la vermiglia faccia

dentro il varco del petto asconde e chiude.

Ella, ch’ancor non sa quai le minaccia

l’atto vezzoso acerbe piaghe e crude,

colma di gioia tutta e di trastullo

si stringe in grembo il lusinghier fanciullo.

Stretto in grembo si tien la dea ridente                                  28

il dolce peso entro le braccia assiso.

Sul ginocchio il solleva e lievemente

l’agita, il culla e se l’accosta al viso.

Or degli occhi ribacia il raggio ardente,

or dela bocca il desiato riso;

né sa che gonfia di mortal veleno

una serpe crudel si nutre in seno.

Le colorite piume e le bell’ali                        29

che’l volo scompigliò, l’aura disperse,

e le chiome incomposte e diseguali

polisce con le man morbide e terse.

Ma l’arco traditor, gl’infidi strali,

onde dure talor piaghe sofferse,

non s’arrischia a toccar, che sa ben ella

qual contagio hanno in sé l’aspre quadrella.

Seco però, mentre che’n braccio il tiene,                              30

d’alquanto divisar pur si compiace.

– Figlio, dimmi (dicea) poiché conviene

ch’esser tra noi non deggia altro che pace,

perché prendi piacer del’altrui pene?

Come sei sì protervo e tanto audace,

ch’ognor con l’armi tue turbi e molesti

la quiete del cielo e de’ celesti? –

– Madre (risponde Amor) s’erro talora,                               31

ogni error mio per ignoranzia accade.

Tu vedi ben che son fanciullo ancora,

condona i falli al’immatura etade.–

– Tu fanciul? (replicò Venere allora)

Chi sì stolto pensier ti persuade?

Coetaneo del tempo e nato avante

a le stelle ed al ciel, t’appelli infante?

Forse perché non hai canute chiome,                        32

testesso in ciò semplicemente inganni?

e ti dai pur di pargoletto il nome,

quasi l’astuzia poi non vinca gli anni? –

– E qual mia colpa (Amor soggiunge) o come

altri da me riceve offese o danni?

perché denno biasmar l’inique genti

sol di gioia ministre armi innocenti?

In che pecco qualora altrui mostr’io                          33

le cose belle? o che gran mal commetto?

Non accusi alcun l’arco o il foco mio,

ma semedesmo sol, ch’erra a diletto.

Se’l tuo gran padre o qualunqu’altro dio

si lagna ale mie forze esser soggetto,

dì che’l dolce non curi, il bel non brami,

e chi d’amor non vuol languir, non ami. –

Ed ella: – Or tu, ch’ognor tante e sì nove                              34

spieghi superbo in ciel palme e trofei;

tu, che con alte e disusate prove

puoi tutti a senno tuo domar gli dei;

tu, che non pur del sommo istesso Giove

vittorioso e trionfante sei,

ma da’ tuoi strali ancor pungenti e duri

me, che ti generai, non assecuri,

dimmi ond’avien, che sol, pur come spenta                           35

abbi la face e la faretra vota,

contro Minerva è la tua man sì lenta,

che non l’arda già mai né la percota?

che sol fra tanti un cor piaghe non senta,

che gli sia la tua fiamma intutto ignota,

soffrir non posso; o le facelle e i dardi

depon per tutti, o lei ferisci ed ardi. –

Ed egli: – Oimé! Costei di sì tremendo                                  36

sembiante arma la fronte e sì severo,

che qualor per ferirla io l’arco tendo

temo l’aspetto suo virile e fiero.

Poi del grand’elmo ador ador scotendo

il minaccioso ed orrido cimiero,

di sì fatto terror suole ingombrarmi,

ch’ala stupida man fa cader l’armi. –

Ed ella a lui: – Pur Marte era più molto                                 37

feroce e formidabile di questa;

da’ tuoi lacci però non n’andò sciolto,

malgrado ancor dela terribil cresta. –

Ed egli a lei: – Marte il rigor del volto

placa sovente e mi fa gioco e festa,

m invita ai vezzi, ad abbracciarmi corre;

l’altra sempre mi scaccia e sempre aborre.

Talor ch’osai d’avicinarmi alquanto,                          38

giurò, per quel signor che regge il mondo,

o con l’asta o col piè rotto ed infranto

precipitarmi al’erebo profondo.

D’angui chiomato ha poi nel petto, ahi quanto

squallido in vista! un teschio e furibondo,

del cui ciglio uscir suol tanto spavento,

che’n mirarlo agghiacciar tutto mi sento. –

– Odi (dic’ella) odi sagace scusa.                             39

Sì certo sì. Dunque paventi e tremi

nel sen di Palla a risguardar Medusa,

e pur di Giove il folgore non temi?

Ma dimmi or perché’l cor d’alcuna Musa

non mai del foco tuo riceve i semi?

Queste sguardo non han rigido e crudo,

né del Gorgone il mostruoso scudo. –

– Vero dirotti (egli ripiglia) io queste                         40

non temo no, ma reverente onoro.

Accompagnata da sembianze oneste

virginal pudicizia io scorgo in loro.

Poi sempre intente al bel cantar celeste,

o in studio altro occupato è il sacro coro;

talché non mai, senon ne’ molli versi,

da conversar tra lor varco m’apersi.–

Ed ella allor: – Poiché ritiene a freno                         41

tanto furor qui zelo, ivi paura,

vorrei saver perché Diana almeno

dale quadrella tue vive sicura? –

– Né di costei (risponde) il casto seno

vaglio a ferir, rivolta ad altra cura.

Fugge per monti, né posar concede,

sich’ozio mai la signoreggi al piede.

Ben ho quel chiaro dio, che di Latona                                   42

seco nacque in un parto, arciero anch’esso,

dico quel che di foco il crin corona,

piagato e d’altra fiamma acceso spesso. –

Così mentre con lei scherza e ragiona,

il tratto studia e le si stringe appresso;

e tuttavia dialogando seco,

coglie il tempo a colpir l’occhiuto cieco.

Dal purpureo turcasso, ilqual gran parte                                43

dele canne pungenti in sé ricetta,

parve caso improviso e fu bell’arte,

la punta uscì dela fatal saetta.

Punge il fianco ala madre, indi in disparte

timidetto e fugace il volo affretta;

in un punto medesmo il fier garzone

ferille il core ed additolle Adone.

Gira la vista a quel ch’Amor l’addita,                                    44

che scorgerlo ben può, sì presso ei giace,

ed: – Oimé! (grida) oimé ch’io son tradita,

figlio ingrato e crudel, figlio fallace!

Ahi! qual sento nel cor dolce ferita?

ahi! qual ardor che mi consuma e piace?

qual beltà nova agli occhi miei si mostra?

A dio Marte, a dio ciel, non son più vostra!

Pera quell’arco tuo d’inganni pieno,                          45

pera, iniquo fanciul, quel crudo dardo.

Tu prole mia? no no, di questo seno

no che mai non nascesti, empio bastardo!

Né mi sovien tal foco e tal veleno

concetto aver, per cui languisco ed ardo.

Ti generò di Cerbero Megera,

o del’oscuro Cao la Notte nera. –

Si svelle in questo dir con duolo e sdegno                             46

lo stral, ch’è nel bel fianco ancor confitto

e tra le penne e’l ferro in mezzo al legno

trova il nome d’Adon segnato e scritto.

Volto ala piaga poi l’occhio e l’ingegno

vede profondamente il sen trafitto

e sente per le vene a poco a poco

serpendo gir licenzioso foco.

Ben egli è ver che quella fiamma è tale,                                 47

che non senza piacer langue e sospira;

e vaga pur del non curato male,

mille in sé di pensier machine aggira.

Or si rivolge al velenoso strale,

or l’esca del suo ardor lunge rimira

e’n questi accenti ale confuse voglie

con un ahi doloroso il groppo scioglie:

– Ahi ben d’ogni mortal femina vile                           48

omai lo stato invidiar mi deggio,

poiché di furto e con insidia ostile

da chi meno il devria schernir mi veggio.

Mi ferisce il suo stral, m’arde il focile,

né dele mie sventure è questo il peggio;

ch’alfin le fiamme sue son tutte spente,

se la madre d’Amore amor non sente.

Ma ch’io soggiaccia a sì perversa sorte,                               49

che le bellezze mie si goda un fabro,

un aspro, un rozzo, un ruvido consorte,

inculto, irsuto, affumigato e scabro?

e che legge immortal peggior che morte

mi costringa a baciar l’ispido labro?

labro assai più nel’orride fornaci

atto a soffiar carbon, ch’a porger baci?

Un ch’altro unqua non sa, che col martello                            50

tempestando l’ancudini infernali,

le caverne assordar di Mongibello

per temprar del mio padre i fieri strali,

che dan cadendo in questo lato e’n quello

vano spavento ai semplici mortali

e, del maestro lor sembianti espressi,

com’è torto il suo piè son torti anch’essi?

Deh quante volte audacemente accosta                                51

importuno ala mia l’adusta faccia

e quella man, ch’ha pur allor deposta

la tanaglia e la lima, in sen mi caccia!

Ed io, malgrado mio, son sottoposta

ai nodi pur del’aborrite braccia

ed a soffrir, che mentre ei mi lusinga,

la fuligine e’l fumo ognor mi tinga.

Pallade, o saggia lei, quantunque meco                                 52

non s’agguagli in beltà, ne fè rifiuto.

Né Giove il volse in ciel, ma nel più cieco

fondo il dannò d’un baratro perduto;

onde piombando in quell’arsiccio speco

l’osso s’infranse e zoppicò caduto.

E pur zoppo ne venne entro il mio letto

l’altrui pace a turbar col suo difetto.

Già non m’è già di mente ancor uscita                                   53

la rimembranza del’indegne offese.

Altamente nel cor mi sta scolpita

l’insidia, che sì perfida mi tese,

quando ala rete di diamante ordita

questo sozzo villan nuda mi prese,

follemente scoprendo ai numi eterni

dele mie membra i penetrali interni.

Un rabbioso dispetto ancor sent’io                           54

del grave oltraggio onde delusa fui,

poiché diè con sua infamia e biasmo mio

vergognosa materia al riso altrui.

Or non si dolga no chi mi schernio,

se l’onta che mi fè ricade in lui;

s’ei volse cancellar corno con scorno

io saprò vendicar scorno con corno.

L’Aurora innanzi dì si cala in terra                             55

per abbracciar d’Atene il cacciatore.

La Luna a mezza notte il ciel disserra

per vagheggiar l’arcadico pastore.

Io perché no? Se’l mio desir pur erra,

quella somma beltà scusa ogni errore.

Vo’ che’l garzon, ch’io colà presso ho scorto,

sia vendetta al’ingiuria, emenda al torto. –

Qui tace e poi, qual cacciatrice al guado                               56

colà correndo, al’alta preda anela.

Vesta di lieve e candido zendado

le membra assai più candide le vela,

che, com’opposto al sol leggiero e rado

vapor, le copre sì, ma non le cela.

Vola la falda intorno abile e crespa,

zefiro la raccorcia e la rincrespa.

Sudata dal’artefice marito                             57

su l’omero gentil fibbia di smalto

con branche d’oro lucido e forbito

sospende ad un zaffir l’abito in alto.

L’arco, onde suole ogni animal ferito

mercé dela man bella ambir l’assalto,

con la faretra ch’al bel fianco scende

ozioso e dimesso al tergo pende.

Sotto il confin dela succinta gonna,                           58

salvo il bel piè, ch’ammanta aureo calzare,

del’una e l’altra tenera colonna

l’alabastro spirante ignudo appare.

Non vide il mondo mai, se la mia donna

non l’agguaglia però, forme sì care.

Da lodar, da ritrar corpo sì bello

Tracia canto non ha, Grecia pennello.

Voi Grazie voi, che dolcemente avete                                   59

nel nettare del ciel le labra infuse

e ne’ lavacri più riposti siete

nude le sue bellezze a mirar use,

voi snodar la mia lingua e voi potete

narrar di lei ciò che non san le Muse.

Intelletto terreno al ciel non sale,

né fa volo divin penna mortale.

Pastor di Troia, o te felice allora                               60

che senza vel tanta beltà mirasti;

e saggio te, quanto felice ancora,

che’l pregio a lei d’ogni beltà donasti.

Beltà che gli occhi e gli animi innamora,

diva dele bellezze, e tanto basti.

Se non fuss’ella Citerea, direi,

che Citerea s’assomigliasse a lei.

Non osa al bell’Adon Venere intanto                                    61

il vero aspetto suo scoprir sì tosto,

ma vuol, per torne gioco innanzi alquanto,

che sia sotto altra imagine nascosto.

Novo, i’ non saprei dir con qual incanto,

simulacro mentito ha già composto

e già sì ben di Cinzia arnesi e gesti

finge, che’n tutto lei la crederesti.

Va come Cinzia inculta ed inornata,                          62

e veste gonna di color d’erbetta.

Tutta in un fascio d’or la chioma aurata

le cade sovra l’omero negletta.

Nulla industria però ben ordinata

tanto con l’artificio altrui diletta,

quanto al bel crin, ch’ogni ornamento sprezza,

accresce quel disordine bellezza.

Tien duo veltri la destra, al lato manco                                  63

pende d’aurea catena indico dente.

D’argento in fronte immacolato e bianco,

vedesi scintillar luna lucente.

Lasciasi l’arco e la faretra al fianco,

prende d’acuto acciar spiedo pungente.

Tal ch’ai cani, agli strali, al corno, al’asta

la più lasciva dea par la più casta.

Non sol per suo diletto ella usar vole,                                   64

ma per infamar l’emula quest’arte,

perché temendo, se la vede il Sole,

non l’accusi a Vulcano overo a Marte,

vuol ch’egli, o qualche satiro, che suole

da lui fuggire in quell’ombrosa parte,

a Pan piuttosto il riferisca e dica,

ch’ancor Diana sua non è pudica.

Per più spedito agevolarsi il calle                              65

l’aureo coturno si disfibbia e scalza,

poi del’obliqua ed intricata valle

premendo va la discoscesa balza.

L’erbe dal sole impallidite e gialle

verdeggian tutte, ogni fior s’apre ed alza;

sotto il piè pellegrin del bosco inculto

ogni sterpo fiorisce, ogni virgulto.

Ed ecco audace e temeraria spina,                            66

ma quanto temeraria anco felice,

che la tenera pianta alabastrina

punge in passando, e’l sangue fuor n’elice

e vien di quella porpora divina

ad ingemmar la cima impiagatrice.

Ma colorando i fior del proprio stelo,

scolora i fior dela beltà del cielo.

Pallidetta s’arresta e dolorosa                                   67

que’ begli ostri a stagnar col bianco lino

e’n tanto folgorar vede la rosa,

già di color di neve, or di rubino.

Ma per doppia ferita ancor non posa,

né dela traccia sua lascia il camino.

Vinta la doglia è dal desire e cede

ala piaga del cor quella del piede.

Or giunta sotto il solitario monte,                              68

dove raro uman piè stampò mai l’orme,

trova colà sul margine del fonte

Adon, che’n braccio ai fior s’adagia e dorme;

ed or che già dela serena fronte

gli appanna il sonno le celesti forme

e tien velato il gemino splendore,

veracemente egli rassembra Amore.

Rassembra Amor, qualor deposta e sciolta                           69

la face e gli aurei strali e l’arco fido,

stanco di saettar posa talvolta

su l’Idalio frondoso o in val di Gnido

e dentro i mirti, ove tra l’ombra folta

han canori augelletti opaco nido,

appoggia il capo ala faretra e quivi

carpisce il sonno al mormorar de’ rivi.

Sicome sagacissimo seguso,                         70

poiché raggiunta ha pur tra fratta e fratta

vaga fera talor, col guardo e’l muso

esplorando il covil fermo s’appiatta

e’n cupa macchia rannicchiato e chiuso

par che voce non oda, occhio non batta,

mentre il varco e la preda ov’ella sia

immobilmente insidioso spia,

così la dea d’amor, poiché soletta                             71

giunge a mirar l’angelica sembianza,

ch’ale gioie amorose il bosco alletta

e del suo ciel le meraviglie avanza,

resta immobile e fredda, e’nsu l’erbetta

di stupor sovrafatta e di speranza,

siede tremante e il bel che l’innamora,

stupida ammira e reverente adora.

In atto sì gentil prende riposo,                                   72

che tutto leggiadria spira e dolcezza;

e’l Sonno istesso in sì begli occhi ascoso

abbandonar non sa tanta bellezza;

anzi par che, di lor fatto geloso,

di starsi ivi a diletto abbia vaghezza

e con nido sì bel non gli dispiaccia

cangiar di Pasitea l’amate braccia.

Placido figlio dela Notte bruna                                  73

il Sonno ardea d’amor per Pasitea

e perché questa dele Grazie er’una,

l’ottenne in sposa alfin da Citerea.

Or mentre che di lor se’n gia ciascuna

l’erbe scegliendo per lavar la dea,

scherzando intorno ignudo spirto alato

partir non si sapea dal vicin prato.

Vanno ove Flora i suoi tapeti stende                         74

le Grazie a côr qual più bel fior germoglia.

Qual dala spina sua rapisce e prende

la rosa e qual del giglio il gambo spoglia.

Quella al balsamo ebreo la scorza fende,

questa al’indica canna il crin disfoglia.

Altra, ove suol vibrar lingue di foco,

ricerca di Cilicia il biondo croco.

Or il tranquillo dio, mentre che move                        75

invisibil tra lor l’ali sue chete,

posar veggendo il bell’Adon là dove

tesson notte di fronde ombre secrete,

per piacer ala figlia alma di Giove,

gli pone agli occhi il ramoscel di Lete;

talché ben pote, oppresso in quella guisa,

star quanto vuole a contemplarlo assisa.

Tanta in lei gioia dal bel viso fiocca,                          76

e tal da’ chiusi lumi incendio appiglia,

che tutta sovra a lui pende e trabocca

di desir, di piacer, di meraviglia.

E mentre or dela guancia, or dela bocca

rimira pur la porpora vermiglia,

sospirando, un oimé svelle dal petto,

che non è di dolor ma di diletto.

Qual industre pittor, che’ntento e fiso                                   77

in bel ritratto ad emular natura,

tutto il fior, tutto il bel d’un vago viso

celatamente investigando fura,

del dolce sguardo e del soave riso

pria l’ombra ignuda entro’l pensier figura,

poi con la man discepola del’arte

di leggiadri color la veste in carte,

tal ella quasi con pennel furtivo                                 78

l’aria involando del’oggetto amato,

beve con occhio cupido e lascivo

le bellezze del volto innamorato;

indi del’idol suo verace e vivo

forma l’essempio con lo strale aurato

e con lo stral medesimo d’Amore

se l’inchioda e confige in mezzo al core.

A piè gli siede e studia attentamente                          79

come la bella imago in sen si stampi.

In lui si specchia ed al’incendio ardente

tragge nov’esca, onde più forte avampi.

Ma dele stelle innecclissate e spente

suscitati veder vorrebbe i lampi

e consumando va tra lieta e trista

in quel dolce spettacolo la vista.

Benché’l favor de’ rami ombrosi e densi                               80

dal sol difenda il giovane che giace,

pur l’aria, impressa di vapori accensi

e ripercossa dal’estiva face

e quelche lega dolcemente i sensi

e sopisce i pensier sonno tenace,

il volto insieme ed umidetto ed arso

di fiamme tutto e di sudor gli han sparso,

onde la dea pietosa or dela vesta                              81

il lembo, or un suo vel candido e lieve

in lui scotendo, a lusingar s’appresta

dela fronte e del crin l’ambra e la neve.

E mentre l’aria tepida e molesta

move e scaccia il calor noioso e greve,

con l’aure vane a vaneggiar intesa

sfoga in sospir l’interna fiamma accesa.

– Aure o Aure (dicea) vaghe e vezzose                                82

peregrine del’aria, Aure odorate,

voi che di questa selva infra l’ombrose

cime sonore a stuol a stuol volate,

voi, cui de’ miei sospir l’aure amorose

doppian forza ale piume, Aure beate,

voi dal’estivo ingiurioso ardore

deh defendete il nostro amato amore!

Così di verno mai, così di gelo                                  83

ira nemica non v’offenda o tocchi;

e quando i monti han più canuto il pelo

dolce dale vostr’ali ambrosia fiocchi;

e securo vi presti il bosco e’l cielo

schermo dal vivo sol di que’ begli occhi;

e molle abbiate e di salute piena

ombra sempre tranquilla, aria serena. –

Indi al fiorito e verdeggiante prato,                            84

letto del vago suo, rivolta dice:

– Terreno alpar del ciel sacro e beato,

aventurosi fiori, erba felice,

cui sostener tanta bellezza è dato,

cui posseder tanta ricchezza lice,

che del’idolo mio languido e stanco

siete guanciali al volto e piume al fianco,

sia quel raggio d’amor, che vi percote,                                 85

di sole in vece a voi, fiori ben nati.

Ma che veggio? che veggio? or che non pote

la virtù de’ begli occhi ancor serrati?

Dal bel color dele divine gote,

dal puro odor di que’ celesti fiati

vinta la rosa e vergognoso il giglio,

l’una pallida vien, l’altro vermiglio. –

Volgesi agli occhi e dice: – Un degli ardenti                          86

vostri lampi, occhi cari, or mi consoli,

occhi vaghi e leggiadri, occhi lucenti,

occhi de’ miei pensieri e porti e poli,

occhi dolci e sereni, occhi ridenti,

occhi de’ miei desiri e specchi e soli,

finestre del’aurora, usci del die,

possenti a rischiarar le notti mie.

Occhi, ov’Amor sostien lo scettro e’l regno,                         87

ov’egli arrota i più pungenti artigli,

voi sol potete il mio battuto ingegno

campar dale tempeste e da’ perigli,

non men che stanco e travagliato legno

soglian di Leda i duo lucenti figli.

Già parmi in voi veder, veggio pur certo

tra due chiuse palpebre un cielo aperto.

Ma perché non v’aprite? e i dolci rai                         88

non volgete a costei, ch’umil v’inchina?

Aprigli, neghittoso, e sì vedrai

a qual ventura il fato or ti destina.

Rendi ai sensi il vigor, richiama omai

l’anima da’ bei membri peregrina.

Ah non gli aprir! che chiuso anco il bel ciglio

spira l’ardor del mio spietato figlio.

Sonno, ma tu, s’egli è pur ver che sei                                    89

viva e verace imagine di Morte,

anzi di qualità simile a lei

suo germano t’appelli e suo consorte,

come, come potresti a’ danni miei

entrar del ciel nele beate porte?

con che licenza oltre l’usato ardita

puoi negli occhi abitar dela mia vita?

E se sei pur del’ombre e degli orrori,                        90

oscuro figlio e gelido compagno,

come i cocenti raggi e i chiari ardori

soffri di quel bel viso, ond’io mi lagno?

Fuggi il rischio mortal! Semplici cori

fan tra i vezzi d’amor scarso guadagno.

Vanne vanne lontan, vattene in loco,

dove tanto non sia splendore e foco!

Ma se stender vuoi pur le brune piume                                 91

sovra il novello autor de’ miei tormenti,

deh! porgi a l’ombre tue tanto di lume,

che l’imagine mia gli rappresenti,

laqual sicome dolce io mi consume

gli mostri in atti supplici e dolenti,

onde nel pigro cor, mentre giac’egli

sonnacchioso dormendo, Amor si svegli. –

Appena ha queste note ultime espresse,                                92

che l’amico Morfeo, che l’è vicino,

fabrica d’aria e di vapori intesse

simulacro leggiadro e peregrino.

Di tai forme si veste e scopre in esse

di celeste beltà lume divino.

Donna, ch’è tutta luce e foco spira,

nel teatro del sonno Adone ammira.

Corona tal, ch’altrui la vista offende,                         93

cerchia la fronte lucida e serena

e di gemme stellata avampa e splende

e di stelle gemmata arde e balena.

E dal titolo suo ben si comprende,

che non è chi la tien cosa terrena.

Havvi scritto dintorno in lettre aurate:

«madre d’Amore e dea dela beltate.«

Mentre d’alto stupore Adon vien manco,                              94

già pargli già la bella larva udire,

che stendendo una man d’avorio bianco:

«Adon, dammi il tuo cor» gli prende a dire.

E fu quasi un sol punto aprirgli il fianco,

dispiccarglielo a forza e disparire.

Sognando il bel garzon si dole e geme,

siché la vera dea ne langue insieme,

e, traendo un sospir piano e sommesso,                                95

tempra il novo martir che la tormenta

e languisce e gioisce a un tempo istesso,

spera, teme, arde, agghiaccia, osa e paventa.

La mano e’l sen s’empie di fiori e spesso

sul viso un nembo al bel fanciul n’aventa.

Indi, ché lui destar non vuol, s’inchina

dolcemente a baciar l’erba vicina.

Poscia il bel riso entro le labra accolto,                                 96

che’n carcere di perle s’imprigiona,

contempla attentamente e del bel volto

vagheggiando la bocca a lei ragiona:

– Urna di gemme, ov’è il mio cor sepolto,

a temedesma il mio fallir perdona,

s’io troppo ardisco; orché tu taci e dormi,

l’alma, che mi rapisti, io vo’ ritormi.

Che fo (seco dicea) che non accosto                        97

volto a volto pian piano e petto a petto?

Vola il tempo fugace e seco tosto,

seguito dal dolor, fugge il diletto.

Ahi! quel diletto, a cui non vien risposto

con bel cambio d’amor, non è perfetto,

né con vero piacer bacio si prende,

cui l’amata beltà bacio non rende.

Qual dunque tregua attendo a’ miei martiri,                           98

s’occasion sì bella oggi tralasso?

Ma s’avien che si svegli e che s’adiri,

dove rivolgerò confusa il passo?

Moveranno il suo cor pianti e sospiri

purché non abbia l’anima di sasso.

Non l’avrà, s’egli è bel. – Così dubbiosa

per baciarlo s’abbassa, e poi non osa.

Come resta il villan, s’ale fresch’onde                                   99

quando più latra in ciel Sirio rabbioso

corre per bere e vede insu le sponde

la vipera crudel prender riposo,

o come il cacciator, che fra le fronde

cerca di Filomena il nido ascoso

e ficcando la man dentro la cova

in vece del’augel, l’aspe vi trova,

così lieta in un punto e timidetta                                100

trema costei, quanto pur dianzi ardia.

L’afflige la beltà, che la diletta,

il troppo stimular la fa restia.

Brama quelche l’offende ed è costretta

tuttavolta a temer quelche desia.

Pentesi, che tant’oltre erri il desire

e si pente ancor poi del suo pentire.

Tre volte ai lievi e dolci fiati appressa                                    101

la bocca e’l bacio e tre s’arresta e cede,

e sprone insieme e fren fatta a sestessa,

vuole e disvuole, or si ritragge, or riede.

Amor, che pur sollecitar non cessa,

la sforza alfine ale soavi prede,

sì ch’ardisce libar le rugiadose

di celeste licor purpuree rose.

Al suon del bacio, ond’ella ambrosia bebbe,                         102

l’addormentato giovane destossi

e poi ch’alquanto in sé rivenne ed ebbe

dal grave sonno i lumi ebri riscossi,

tanto a quel vago oggetto in lui s’accrebbe

stupor, ch’immoto e tacito restossi;

indi da lei, ch’al’improviso il colse,

per fuggir sbigottito il piè rivolse.

Ma la diva importuna il tenne a freno:                                   103

– Perché (disse) mi fuggi? ove ne vai?

Mi volgeresti il bel’guardo sereno,

se sapessi di me ciò che non sai. –

Ed egli allora abbarbagliato e pieno

d’infinito diletto a tanti rai,

a tanti rai ch’un sì bel sol gli offerse,

chiuse le luci, indi le labra aperse,

ed: – O qual tu ti sia, ch’a me ti mostri                                  104

tutta amor, tutta grazia, o donna, o diva,

diva certo immortal da’ sommi chiostri

scesa a bear questa selvaggia riva,

se van (disse) tant’alto i preghi nostri,

se reverente affetto il ciel non schiva,

spiega la tua condizion, qual sei

o fra gli uomini nata, o fra gli dei. –

Ala madre d’Amor, ch’altro non vole                                   105

ch’aver le luci a quelle luci affisse,

parve, ch’aprendo l’un e l’altro sole

de’ duo begli occhi, il paradiso aprisse.

E le calde d’amor dolci parole,

ch’a lei tremando e sospirando disse,

le furo soavissime e vitali

fiamme al cor, lacci al’alma, al petto strali.

Ma pur del’esser suo celando il vero,                                   106

mentitrice favella intanto forma.

– Così poco conosci, incauto arciero,

lei, che non solo il primo cielo informa,

ch’ha nel centro infernal non solo impero,

ma da cui queste selve han legge e norma?

E pur m’imiti e segui a tutte l’ore.

 (poco men che non disse: «e m’ardi il core».)

I’ men venia, sicome soglio spesso                           107

quando l’estivo can ferve e sfavilla,

in questo bosco a meriggiar là presso

in riva al’onda lucida e tranquilla,

ch’una bolla vivente aperta in esso

di cavernosa pomice distilla

e forma un fonticel, ch’ale vicine

odorifere erbette imperla il crine,

quando il mio piè, che per l’estrema arsura,                          108

sicome vedi, è d’ogni spoglia ignudo,

con repentina e rigida puntura

ago trafisse ingiurioso e crudo.

E bench’uopo non sia medica cura

per farmi incontr’al duol riparo e scudo,

colsi quest’erbe, il cui vigore affrena

il corso al sangue e può saldar la vena.

Ma perch’ogni mia ninfa erra lontano                                    109

e chi tratti non ho l’aspra ferita,

porgimi tu con la cortese mano,

a te ricorro, in te ricovro, aita. –

Qui del trafitto piè, del cor non sano

l’una piaga nasconde e l’altra addita

e scioglie, testimon de’ suoi martiri,

un sospiro diviso in duo sospiri.

Non era Adon di rozza cote alpina,                          110

né di libica serpe al mondo nato.

Ma quando fusse ancor d’adamantina

selce e di crudo tosco un petto armato,

ogni cor duro, ogni anima ferina

fora da sì bel sol vinto e stemprato.

Né meraviglia fia, qualor s’accosta,

ch’arda a fiamma vorace esca disposta.

Reverenza, pietate, amore e tema                             111

fan nel dubbioso cor fiera contesa;

ma perché deve ogni fortuna estrema

subitamente esser lasciata o presa,

non ricusa il favor, ma gela e trema,

mentre s’appresta a sì soave impresa,

in quel gesto pietoso ed attrattivo,

con cui ride languendo occhio lascivo.

– Santo nume (dicea) cui Cinto e Delo                                 112

porge voti, offre incensi, altari infiora,

vostra grande in abisso, in terra e’n cielo

virtù, chi non conosce e non adora?

Scusate il cor, se con perfetto zelo

celebrar non vi sa quanto v’onora

e l’ardir dela man prendete in pace,

che’n sì degn’opra è d’ubbidirvi audace.

Deh qual ventura mai, qual proprio merto                             113

d’infelice mortal tant’alto giunse?

Ben ho da benedir questo deserto,

che le fide da voi serve disgiunse

e quel, per cui m’è tanto bene offerto,

spinoso stel, che’l bianco piè vi punse;

e vo’segnar per tante glorie mie

con pietra lesbia un sì felice die.

Scintillan tante fiamme e tanti raggi                            114

nel sembiante, ch’io scorgo altero e bello

che dar poriano invidia e far oltraggi

al vostro ardente e lucido fratello.

Onde non già de’ boschi aspri e selvaggi,

ma dea de’ cori e degli amor v’appello;

che s’io m’affiso in voi, di veder parmi

al volto Citerea, Diana al’armi.–

Con questo ragionar del piè gentile                           115

si reca in grembo l’animato latte

e, poscia che con vel bianco e sottile

n’ha le gelate stille espresse e tratte,

dela destra v’accosta assai simile

quasi in bel paragon, le nevi intatte.

Disse Amor, che non era indi lontano:

– Non volea sì bel piè men bella mano! –

Tasta la cicatrice e terge e tocca                               116

morbidamente i sanguinosi avori

e, mentre un rio di nettare vi fiocca

tra cento erbe salubri e cento odori,

fan con occhio loquace e muta bocca

eco amorosa i tormentati cori,

dove invece di voce il vago sguardo

quinci e quindi risponde: «ardi, ch’io ardo».

Dicea l’un fra suo cor: – Deh! quali io miro                           117

strani prodigi e meraviglie nove?

Il ciel d’amor dal cristallino giro

di sanguigne rugiade un nembo piove.

Quando tra gli alabastri unqua s’udiro

nascer cinabri in cotal guisa o dove?

Da fonte eburneo uscir rivi vermigli,

dale nevi coralli, ostri dai gigli?

Sangue puro e divin, ch’a poco a poco                                 118

fai sovra il latte scaturir le rose,

vorrei da te saver, sei sangue o foco,

che tante accogli in te faville ascose?

O non mai più vedute in alcun loco

gemme mie peregrine e preziose,

di sì nobil miniera usciste fore,

che ben si vende a tanto prezzo un core.

E tu candido piede insanguinato,                               119

che di minio sì fino asperso sei

e ricca pompa fai così smaltato

de’ tesori d’amore agli occhi miei,

quanto più del mio cor sei fortunato,

del mio cor, che trafitto è da costei?

Langue ferita e di ferir pur vaga

impiagato m’ha il cor con la sua piaga.

A te fasciato pur di bianco invoglio                           120

efficace licor rimedio serba.

Senza fasce ei si dole, al suo cordoglio

non giova industria d’arte o virtù d’erba.

Consenta pur Amor, che s’io mi doglio,

trovi ristoro almen la doglia acerba

e, stringendomi il fianco in dolce laccio,

se mi ferisce il piè, mi sani il braccio.

Chi più giamai di me felice fia,                                   121

s’egli averrà, che questa bella essangue,

ch’al chiuder dela sua la piaga mia

apre così, che’l cor ne geme e langue,

d’omicida crudel medica pia

m’asciughi il pianto, ov’io l’asciugo il sangue?

siché tra noie e gioie e guerre e paci

quante mi dà ferite io le dia baci? –

– Lassa (l’altra dicea) che dolce pena!                                 122

Questa, che la mia piaga annoda e cinge,

non è fascia, anzi è ceppo, anzi è catena,

che mentre il piè mi lega, il cor mi stringe.

Questo purpureo umor, che’n larga vena

di vivace rossor mi verga e tinge,

ahi! ch’è l’anima mia, che’n sangue espressa

vuole a costui sacrificar sestessa.

Erbe felici, ch’ale mie ferute                          123

dolor recate e refrigerio insieme,

benché d’alto valor, quella virtute

che vive in voi, non è virtù di seme.

Vien dala bella man la mia salute,

da quella man, che vi distilla e preme,

emula de’ begli occhi e del bel viso,

che sanandomi il corpo, ha il core ucciso.

O bella mano, ond’è che curar vuoi                          124

la piaga del mio piè con tanto affetto?

Forse sol per poter farmene poi

mille più larghe e più profonde al petto?

Fors’è destin, che fuor ch’a’ colpi tuoi,

non dee corpo celeste esser soggetto.

La palma, che di me morte non ebbe,

a te sol si concede, a te si debbe.

Ma che più tardo a disvelar quest’ombra,                             125

che tiene il mio splendor di nube cinto?

S’or che le mie bellezze in parte adombra

magica benda, il mio aversario è vinto,

che fia quando ogni nebbia intutto sgombra,

verrà che ceda al vero oggetto il finto? –

Disse e squarciando le fallaci larve,

in propria effigie al giovinetto apparve.

Qual vergine talor semplice e pura                            126

s’avien, ch’astuta mano alzi e discopra

drappo, ch’alcuna in sé sacra figura

effigiata ad arte abbia di sopra,

ma secreta nasconda altra pittura,

di lascivo pennel piacevol opra,

tingendo il bel candor di grana fina,

dal’inganno confusa, i lumi inchina,

tal si smarrisce Adon, quando scoverto                                127

dela dea gli si mostra il lume intero;

e tanto più, pur di sognar incerto,

d’alta confusion colma il pensiero,

perché conosce espressamente aperto

del sogno suo nela vigilia il vero,

rivedendo colei, che poco dianzi,

rubatrice del cor gli apparve innanzi.

Al bel garzon, che stupefatto resta                            128

veduto il primo aspetto in aria sciolto,

la bella dea discopre e manifesta

in un punto medesmo il core e’l volto:

– Ben mio (dicea) qual meraviglia è questa,

che tra dubbi pensier ti tiene involto?

quel traveder, che ti fa star dubbioso,

fu di mia deità scherzo amoroso.

Or non più mi nascondo. Io mi son quella                             129

per cui d’amore il terzo ciel s’accende;

quella son io, la cui lucente stella

innanzi al sole, emula al sol risplende.

Taccio che dal mio bel, qualunque bella

bella è detta quaggiù, bellezza prende,

taccio che figlia son del sommo padre:

dirò sol ch’amo e che d’Amor son madre.

Quando ben fusse a tua notizia ignoto                                   130

quelche t’abbaglia, insolito splendore,

qual è clima sì inospito e remoto,

alma qual’è, che non conosca amore?

Che se pur poco agli altri sensi è noto,

malgrado suo n’ha conoscenza il core.

Se ti piace d’amor dunque il piacere,

dimmi il tuo stato e dammi il tuo volere. –

Sì disse e Pito il persuase e vinse,                             131

ch’entro le labra dela dea s’ascose;

Pito, ministra sua, d’ambrosia intinse

quelle faconde ed animate rose;

Pito in leggiadri articoli distinse

le note accorte e’l bel parlar compose;

Pito dala dolcissima favella

sparse catene ed aventò quadrella.

Fusse la gran soavità di queste                                  132

voci, che’l giovenil petto percosse,

o del bel cinto, ond’ella il fianco veste,

pur la virtù miracolosa fosse,

dal dolce suon del ragionar celeste

invaghito il fanciul tutto si mosse;

ma quelche’n lui più ch’altro ebbe possanza,

fu la divina oltramortal sembianza.

Un diadema Ciprigna avea gemmante,                                  133

gemme possenti a concitare amore:

v’era la pietra illustre e folgorante,

ch’ha dala luna il nome e lo splendore,

la calamita, ch’è del ferro amante

e l’giacinto, ch’a Cinzio accese il core.

Ma la virtù de’ lucidi gioielli

fu nulla appo l’ardor degli occhi belli.

La destra ella gli stese e’l vago lino                           134

scorciò, che nascondea la neve pura,

ond’implicato in un cerchietto fino,

che con mista di gemme aurea scultura

facea maniglia al gomito divino

rigido di barbarica ornatura,

fuss’arte o caso, dilicato e bianco

fece il fuso veder del braccio manco.

Tenea, com’io dicea, le membra belle                                   135

appannate d’un vel candido e netto

e, quai d’Adria veggiam donne e donzelle,

infin sotto le poppe ignudo il petto.

Fe’ vista allor tra’l seno e le mammelle

voler groppo annodar non ben ristretto

e più leggiadra e più secreta parte

fingendo di coprir, scoverse ad arte.

Mentre languia l’innamorata dea,                              136

Adon con fise ciglia in lei rivolto

tutto rapito a contemplar godea

le meraviglie del celeste volto

e quivi in vista attonito scorgea

il bel del bello in breve spazio accolto.

Fra i detti intanto e fra gli sguardi amore

gli entrò per gli occhi e per l’orecchie al core.

Nel’udir, nel mirar s’accese ed arse                          137

di non sentite ancor fiamme novelle

e del foco del cor l’incendio sparse

su per le guance dilicate e belle.

Inchinò a terra, onestamente scarse,

vergognosetto le ridenti stelle,

poi verso lei con un sospir le volse,

alfin lo spirto in queste voci sciolse:

– O dea cortese, o s’altro è pur fra noi                                 138

titol, ch’a maestà tanta convegna,

qual può mai cosa offrir vil servo a voi,

la cui pietà di cotal grazia il degna?

Lo scettro no, poiché ne’ regni suoi

povero diredato or più non regna;

la vita no, che da voi dei fatali

il vivere e’l morir pende a’ mortali.

Voi siete tal, ch’altri non può mirarvi,                                    139

che mirando d’amor non sen’accenda;

ma non può alcuno accendersi ad amarvi,

ch’amando non v’oltraggi e non v’offenda.

Offesa v’è servirvi ed adorarvi,

v’oltraggia uom vil, che cotant’alto intenda,

perché con quel, ch’ogni misura passa,

proporzion non ha scala sì bassa.

Non dee tanto avanzarsi umano ardire,                                 140

che presuma d’amar bellezza eterna,

ma curvar le ginocchia e reverire

con devota umiltà chi’l ciel governa.

È ben ver che, qualora entra in desire

d’inferior natura alma superna,

quella bontà, quella virtù sublime

nel’amato suggetto il merto imprime.

Quel merto, ch’esser suol d’amor cagione                            141

in noi mortali, è in voi celesti effetto,

siché, quando alcun dio d’amar dispone

uom terreno e caduco, il fa perfetto;

che, benché disegual sia l’unione,

l’un del’altro però sgombra il difetto;

e d’ogni indignità purgando il vile,

ciò ch’è per sé villan, rende gentile.

Amor di voi m’innamorò per fama                            142

pria ch’a veder vostra beltà giungessi

e da lunge v’amai non men che s’ama

oggetto bel, ch’ingorda vista appressi.

Orché, quanto il mio cor sospira e brama

son condotto a mirar con gli occhi istessi,

e ch’oltre il rimirarvi altro m’è dato,

vo’, contentando voi, far me beato.

Quanto darvi mi lice e quanto è mio                          143

vi sacro e del’ardir cheggio perdono.

Se degno son di voi, vostro son io

e se il cor vi fia in grado, il cor vi dono.

Se mendica è la man, ricco è il desio,

siete donna di me più ch’io non sono.

Né fuorché l’amor vostro amar potrei,

né potendo voler, poter vorrei.

Il mio volere al voler vostro è presto                         144

tanto che quasi in me nulla n’avanza.

Lo stato mio, s’a tutti è manifesto,

come a voi di celarlo avrei baldanza?

Mirra, dirollo, il cui nefando incesto

la vergogna rinova ala membranza,

fu la mia genitrice e da colui

che generolla, generato io fui.

Ed or selvaggio cacciator ramingo,                           145

sagittario di damme e di cervette,

l’arco per mio trastullo incocco e stringo

ed impenno la fuga ale saette.

Felice error, che per l’orror solingo

di quest’ombre beate e benedette

fuor di via mi tirò, né ciò mi dole,

poiché perdo una fera e trovo un sole.

Ne’ be’ vostr’occhi, per cui vivo e moro,                             146

l’anima omai depositar mi piace;

ma perché’l cor sacrificato in loro

già sento già, che’n vivo ardor si sface

e perch’a quella bocca, ov’è’l tesoro

d’amor, non è d’avicinarsi audace,

ecco, con questo bacio, ancorché indegno,

a te, candida mano, io la consegno. –

Ed ella allor: – Che tu ti sia, mia vita,                         147

esperto arcier, saettatore accorto,

altra prova non vo’che la ferita,

che’n mezzo al petto immedicabil porto.

Ma d’aver tal beltà mai partorita,

Mirra, credilo a me, si vanta a torto,

perché fra l’ombre il sol non si produce,

né può la notte generar la luce.

Ella il padre ingannò di notte oscura                          148

e tu porti negli occhi un dì sereno.

Ella di scorza alpestra il corpo indura

e tu più che di latte hai molle il seno.

Ella amara e spiacente è per natura

e tu sei tutto di dolcezza pieno.

Ella distilla lacrimosi umori

e tu fai lagrimar l’anime e i cori.

Sol quelle luci tue rapaci e ladre,                               149

ch’involando da’ petti i cori vanno,

parto furtivo di furtiva madre

t’accusan nato e con furtivo inganno.

Or se membra sì belle e sì leggiadre

fur concette di furto e furar sanno

non ti meravigliar, se voglio anch’io,

che chi mi fura il cor sia furto mio.

Non pur gli occhi e le mani a tuo talento,                              150

la bocca e’l sen t’è posseder concesso,

ma t’apro il proprio fianco e ti presento

in cambio del tuo core il core istesso.

Vedrai, che quell’amor, ch’al core io sento,

t’ha sculto no, ma trasformato in esso,

ché sei de’ miei pensieri unico oggetto

e ch’altro cor che te non ho nel petto. –

Con tai lusinghe il lusinghiero amante                         151

la lusinghiera dea lusinga e prega.

Ella arditetta poi la man tremante

gli stende al collo e dolcemente il lega.

Qui, mentr’Amor superbo e trionfante

l’amoroso vessillo in alto spiega,

strette a groppi di braccia ambe le salme,

ammutiscon le lingue e parlan l’alme.

Dolce de’ baci il fremito rimbomba                           152

e, furandone parte invido vento,

degli assalti d’amor sonora tromba,

per la selva ne mormora il concento;

a cui la tortorella e la colomba

rispondono pur con cento baci e cento.

Amor de’ furti lor dal vicin speco,

occulto spettator, sorrise seco.

Fu così stretto il nodo, onde s’avinse                        153

l’aventurosa coppia e sì tenace,

che non più forte vite olmo mai strinse,

smilace spina o quercia edra seguace.

Vaga nube d’argento ambo ricinse,

quivi gli scorse e chiuse Amor sagace,

la cui perfidia vendicando l’onta

con mille piaghe una sferzata sconta.

La bella dea, che’nsanguinò la rosa,                          154

benché trafitta il sen di colpo acerbo,

contro il figliuol non si mostrò sdegnosa

per non farlo più crudo e più superbo;

ma premendo nel cor la piaga ascosa,

si morse il dito e disse: – Io tela serbo.

Per questa volta con l’altrui cordoglio

tanta mia gioia intorbidar non voglio. –

Poi le luci girando al vicin colle,                                155

dov’era il cespo, che’l bel piè trafisse,

fermossi alquanto a rimirarlo e volle

il suo fior salutar pria che partisse;

e vedutolo ancor stillante e molle

quivi porporeggiar, così gli disse:

– Salviti il ciel da tutti oltraggi e danni,

fatal cagion de’ miei felici affanni.

Rosa riso d’amor, del ciel fattura,                             156

rosa del sangue mio fatta vermiglia,

pregio del mondo e fregio di natura,

dela terra e del sol vergine figlia,

d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,

onor del’odorifera famiglia,

tu tien d’ogni beltà le palme prime,

sovra il vulgo de’ fior donna sublime.

Quasi in bel trono imperadrice altera                         157

siedi colà su la nativa sponda.

Turba d’aure vezzosa e lusinghiera

ti corteggia dintorno e ti seconda

e di guardie pungenti armata schiera

ti difende per tutto e ti circonda.

E tu fastosa del tuo regio vanto

porti d’or la corona e d’ostro il manto.

Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,                                  158

gemma di primavera, occhio d’aprile,

di te le Grazie e gli Amoretti alati

fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.

Tu qualor torna agli alimenti usati

ape leggiadra o zefiro gentile,

dai lor da bere in tazza di rubini

rugiadosi licori e cristallini.

Non superbisca ambizioso il sole                              159

di trionfar fra le minori stelle,

ch’ancor tu fra i ligustri e le viole

scopri le pompe tue superbe e belle.

Tu sei con tue bellezze uniche e sole

splendor di queste piagge, egli di quelle,

egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,

tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.

E ben saran tra voi conformi voglie,                          160

di te fia’l sole e tu del sole amante.

Ei de l’insegne tue, dele tue spoglie

l’Aurora vestirà nel suo levante.

Tu spiegherai ne’ crini e nele foglie

la sua livrea dorata e fiammeggiante;

e per ritrarlo ed imitarlo a pieno

porterai sempre un picciol sole in seno.

E perch’a me d’un tal servigio ancora                                   161

qualche grata mercé render s’aspetta,

tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora

la favorita mia, la mia diletta.

E qual donna più bella il mondo onora

io vo’ che tanto sol bella sia detta,

quant’ornerà del tuo color vivace

e le gote e le labra. – E qui si tace.

Il palagio d’Amor ricco e pomposo                          162

da quel bosco lontan non era guari,

ma di ciò che tenea nel grembo ascoso

degni giamai non fece occhi vulgari.

Non molto andar, che di fin or squamosi

vider lampi vibrar fulgidi e chiari

il tetto, onde facea mirabilmente

l’edificio sublime ombra lucente.

Quella casa magnifica, che raro                                163

al’altrui vista i suoi secreti aperse,

al novo comparir d’oste sì caro

quanto di bello avea tutto gli offerse;

e non sol di quel loco illustre e chiaro

la gloria incomparabile scoverse,

ma l’attuffò nel pelago profondo

di quante ha gioie e meraviglie il mondo.

Nela torre primiera a destra mano                            164

entrando il bell’Adon le piante mosse

e si trovò dentro un cortile estrano,

il più ricco, il più bel, che giamai fosse.

Quadro è il cortile e spazioso e piano

ed ha di pietre il suol candide e rosse.

Par che’l pavese un tavolier somigli

scaccheggiato a quartier bianchi e vermigli.

Torreggiante nel mezzo ampia e sublime                               165

sorge lumaca, onde si scende e poggia.

Quattr’archi, ch’escon fuor dele sue cime,

fanno una croce, ch’ai balcon s’appoggia,

a cui congiunte son le stanze prime,

onde scorrer si può di loggia in loggia,

sì ch’una scala abbraccia e signoreggia

per quattro corridoi tutta la reggia.

Ne’ quattro quarti intorno, onde il cortile                              166

dala croce diviso si comparte,

havvi intagliate da scarpel fabrile

quattro illustri fontane, una per parte,

di lavor sì stupendo e sì sottile,

che ben si scorge che divina è l’arte.

Due d’alabastro e d’agata scolpite,

una di corniola, una d’ofite.

Nettuno è in una, in atto effigiato                               167

di ferir col tridente un scoglio alpino

e ne fa scaturir per ogni lato

fiume d’acqua lucente e cristallino.

Sta sovra un nicchio da delfin tirato,

vomita ancor cristallo ogni delfino.

Quattro tritoni intorno in mille rivi

versan per le lor trombe argenti vivi.

Nel’altra entr’una pila incisi e scolti,                          168

ch’a colonnetta picciola fa tetto,

stan tergo a tergo l’un l’altro rivolti

Piramo e Tisbe con la spada al petto;

e spruzzan fuor molti ruscelli e molti

per la piaga mortal di vino schietto,

onde viene a cader per doppia canna

dentro il vaso maggior purpurea manna.

Tien l’altra fonte in una conca tonda                          169

seno a seno congiunto e bocca a bocca

Ermafrodito insu la fresca sponda,

che la bella Salmace abbraccia e tocca

ed a questa ed a quello in guisa d’onda

dale membra e da’ crini ambrosia fiocca

e su i lor capi una grand’urna piena

piove nettare puro in larga vena.

La quarta esprime Amor, che sovra un sasso                                    170

quasi dormendo si riposa in pace.

Le Grazie sotto lui stan più da basso,

come per custodir l’arco e la face.

Sparge balsamo fuor per lo turcasso

l’orbo fanciul, che sonnacchioso giace;

e l’amorose sue vaghe donzelle

stillan l’istesso umor per le mammelle.

Per l’alloggio d’Adon tra quelle mura                                   171

va in volta la sollecita famiglia;

ma mentreché la dea minuta cura

degli affari domestici si piglia,

col figlio a risguardar l’alta struttura

in disparte il garzon trattien le ciglia;

e chi sia dela fabbrica che vede,

il possessor, l’abitator, gli chiede.

– Questo (con un sospiro Amor risponde)                            172

che cotante in sé chiude opre sublimi,

è il mio diletto albergo ed ho ben donde

pregiarlo sì, che sovra’l ciel lo stimi.

Qui già le dolci mie piaghe profonde,

qui, lasso, incominciar gl’incendi primi,

qui per colei, che preso ancor mi tiene,

fu il principio fatal dele mie pene.

Non creder tu che libera se n’vada                           173

dale forze amorose alma divina,

ch’a bramar quel piacer, che tanto aggrada,

forte desir naturalmente inclina.

Ch’a questa legge sottogiaccia e cada

anco il re de’ celesti, il ciel destina.

Ed io pur io, dala cui mano istessa

piove gioia e dolor, passai per essa.

Non restai di languir, perch’io possegga                               174

la face eterna, insuperabil dio,

e tratti l’arco onnipotente e regga

gli elementi e le stelle a voler mio.

E se m’ascolterai, vo’ che tu vegga,

che fui dal proprio stral ferito anch’io

e che del proprio foco acceso il core

ed arse e pianse innamorato Amore. –

Così l’arcier, che di Ciprigna nacque,                                   175

venia di Mirra al bel figliuol parlando;

e perch’assai d’udirlo ci si compiacque,

ale sue note attenzion mostrando,

il dir riprese e, poich’alquanto tacque,

non però già di passeggiar lasciando,

nel grazioso Adon gli occhi converse

e’n più lungo parlar le labra aperse.

 




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