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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto 5, allegoria

LA TRAGEDIA. Per Mercurio, che mettendo Adone in parole gli persuade con diversi essempi a ben amar Venere, si dimostra la forza d’una lingua efficace e come l’essortazioni de’ perversi ruffiani sogliono facilmente corrompere un pensier giovanile. Ne’ favolosi avvenimenti di que’ giovani da esso Mercurio raccontati, si dà per lo più ad intendere la leggerezza ed incostanza puerile. In Narciso è disegnata la vanità degli uomini morbidi e deliziosi iquali, non ad altro intesi che a compiacersi di sé medesimi e disprezzatori di Eco, ch’è figura della immortalità de’ nomi, alla fine si trasformano in fiori, cioè a dire che se ne muoiono miseramente senza alcun pregio, poiché niuna cosa più di essi fiori è caduca e corrottibile. In Ganimede fatto coppier di Giove, vien compreso il segno d’aquario, ilqual con larghissime e copiosissime piogge dà da bere a tutto il mondo. Per Ciparisso mutato in cipresso, siamo avertiti a non porre con ismoderamento la nostra affezzione alle cose mortali, accioché poi mancandoci, non abbiamo a menar la vita sempre in lagrime ed in dolori. Ila, come accenna l’importanza della voce greca, non vuol dir altro che selva ed è amato da Ercole, percioché Ercole come cacciatore di mostri, era solito di frequentar le foreste. Atide, infuriato prima e poi divenuto pino per opera di Cibele, ci discopre quanto possa la rabbia della gelosia nelle donne attempate, quando con isproporzionato maritaggio si ritrovano a giovane sposo congiunte. La rappresentazione d’Atteone ci dà ammaestramento quanto sia dannosa cosa il volere irreverentemente e con soverchia curiosità conoscere de’ secreti divini più di quelche si conviene e quanto pericolo corra la gioventù di essere divorata dalle proprie passioni, seguitando gli appetiti ferini.

 

Canto 5, argomento

Entra il garzon per dilettosa strada

nel bel palagio infra delizie nove.

Seco divisa il messaggier di Giove,

poi con scene festive il tiene a bada.

 

Canto 5

L’umana lingua è quasi fren che regge                                   1

dela ragion precipitosa il morso.

Timon ch’è dato a regolar con legge

dela nave del’alma il dubbio corso.

Chiave ch’apre i pensier, man che corregge

dela mente gli errori e del discorso.

Penna e pennello, che con note vive

e con vivi color dipinge e scrive.

Istromento sonoro, or grati, or gravi,                        2

or di latte, or di mel sparge torrenti.

Son del suo dire inun fieri e soavi

tuoni le voci e fulmini gli accenti.

Accoppia in sé del’api e gli aghi e i favi,

atti a ferire, a raddolcir possenti;

divin suggel che, mentr’esprime i detti,

imprime altrui negli animi i concetti.

Ma come spada che difende o fere                           3

s’avien che bene o male oprata sia,

secondo il divers’uso, in più maniere

qualità cangia e divien buona o ria

e, se dal dritto suo fuor del devere

in malvagio sermon torta travia,

trafige, uccide e, del mordace dente,

benché tenera e molle, è più pungente.

Seben però, qualor saetta o tocca,                           4

stampa sempre in altrui piaghe mortali,

non fa colpo maggior che quando scocca

in petto giovenil melati strali.

Versa catene d’or faconda bocca

che, molcendo e traendo i sensi frali,

tesson legame al cor dolce e tenace

ch’imprigiona e lusinga e noce e piace.

Un mezzano eloquente, un scaltro messo,                             5

paraninfo di cori innamorati,

che viene e torna e patteggiando spesso

dele compre d’Amor tratta i mercati,

con le parole sue fa quell’istesso

ne’ rozzi petti e ne’ desir gelati

che suol ne’ ferri far la cote alpina,

che non ha taglio e le coltella affina.

O vi fulmini il ciel, v’assorba Dite,                             6

infernali Imenei, sozzi oratori,

corrieri infami, al’anime tradite

di scelerati annunzi ambasciadori,

che con ragioni essortatrici ardite

di stimulare i semplicetti cori,

corrompendo i pensier con dolci inganni!

Qual ufficio più vil fa maggior danni?

Qual meraviglia, se de’ sommi eroi                           7

l’interprete immortal, l’astuto araldo,

possente ad espugnar co’ detti suoi

ogni voler più pertinace e saldo,

su’l fiore, o bell’Adon, degli anni tuoi

il tuo tenero cor rende sì caldo?

Virtù di quel ministro, ilqual per prova

nela casa d’Amor sempre si trova.

Somiglia Adone attonito villano                                 8

uso in selvaggio e poverel ricetto,

se talora a mirar vien di lontano

pompa real di cittadino tetto.

Somiglia il domator del’oceano

quando d’alto stupore ingombro il petto,

vide primiero in region remote

meraviglie novelle e genti ignote.

Volge a tergo lo sguardo e mira e spia                                  9

se calle v’ha per rinvenir l’uscita.

Ma la porta superba, ond’entrò pria,

con sue tante ricchezze è già sparita.

Né sa guado veder, né trovar via

per indietro tornar, che sia spedita;

e quasi verme di bei stami cinto

va tessendo a sestesso il labirinto.

Tosto ch’egli colà pose le piante,                              10

ben d’Amor prigioniero esser s’accorse,

ma fra delizie sì soavi e tante

dala cara catena il piè non torse;

anzi spontaneo e volontario amante

al ceppo il piede, al giogo il collo porse;

e poich’ha di tal carcere ventura,

servaggio apprezza e libertà non cura.

Non manca quivi a corteggiarlo accinta                                 11

di festevoli ninfe accorta schiera,

né con piuma qual d’oro e qual dipinta

vago drappel di gioventute arciera,

ch’al bel fanciul, da cui fu presa e vinta

la bella dea che’n quell’albergo impera,

stanno in guisa d’ancelle e di sergenti,

diversi uffici a ministrare intenti.

Chi d’ambrosia gl’impingua il crin sottile,                              12

chi di rosa l’implica e chi di persa,

chi di pomposo e barbaro monile

la bella gola e candida attraversa,

altri al’orecchie di lavor simile

gemma gli appende folgorante e tersa;

talché tutto si vede intorno intorno

di molli arnesi e feminili adorno.

Incantato da’ vezzi e tutto inteso                               13

a cose Adon sì disusate e nove,

parte d’alto stupor che l’ha sorpreso

vinto, bocca non apre, occhio non move,

parte sovra pensier, seco sospeso

volge suo stato e con cui siasi e dove;

e sparso intanto d’un gentil vermiglio

basso tien per vergogna a terra il ciglio.

Qui presente d’Atlante era il nipote,                          14

perché non pur la sua natia Cillene

lascia talor, ma dal’eterne rote

per scherzar con Amor, spesso ne viene.

Questi al garzon s’accosta e sì lo scote

ch’alzar gli fa le luci alme e serene.

Favoleggiando poi dolce il consiglia

e con modi piacevoli il ripiglia:

– O damigel, che sott’umano velo                             15

di consorzio divin sei fatto degno,

dela tua sorte invidiata in cielo

ecco ch’io teco a rallegrar mi vegno.

Così’l tuo foco mai non senta gelo,

come a curar non hai del patrio regno,

quando di sé lo scettro e del suo stato

la reina de’ regi in man t’ha dato.

Ma perché muto veggioti e pensoso,                         16

sia pensier, sia rispetto o sia cordoglio;

consolar mesto, assecurar dubbioso,

consigliar sconsigliato oggi ti voglio.

Del bel, per cui ne vai forse fastoso,

ah non ti faccia insuperbire orgoglio,

però ch’è fior caduco e, se nol sai,

fugge e fuggito poi non torna mai.

E ti vo’ raccontar, se non t’aggrava,                         17

ciò ch’adivenne al misero Narciso.

Narciso era un fanciul ch’innamorava

tutte le belle ninfe di Cefiso.

La più bella di lor, che s’appellava

Eco per nome, ardea del suo bel viso

ed adorando quel divin sembiante

parea fatta idolatra e non amante.

Era un tempo costei ninfa faconda                            18

e note sovr’ogni altra ebbe eloquenti,

ma da Giunon crucciosa ed iraconda

le fur lasciati sol gli ultimi accenti.

Pur, seben la sua pena aspra e profonda

distinguer non sapean tronchi lamenti,

supplia, pace chiedendo ai gran martiri,

or con sguardi amorosi, or con sospiri.

Ma l’ingrato garzon chiuse le porte                           19

tien di pietate al suo mortal dolore.

Porta negli occhi e nele man la morte,

dele fere nemico e più d’amore.

Arma, crudo non men che bello e forte,

d’asprezza il volto e di fierezza il core.

Di sé s’appaga e lascia in dubbio altrui

se grazia o ferità prevaglia in lui.

«Amor (dicean le verginelle amanti)                          20

o da questo sord’aspe Amor schernito,

dov’è l’arco e la face onde ti vanti?

perché non ne rimane arso e ferito?

Deh fa signor che con sospiri e pianti

ami invan non amato e non gradito!

Come più tant’orgoglio omai sopporti?

vendica i propri scorni e gli altrui torti.»

A quel caldo pregar l’orecchie porse                        21

l’arcier contro il cui stral schermo val poco

e’l cacciator superbo un giorno scorse

tutto soletto in solitario loco.

Stanco egli di seguir cinghiali ed orse

cerca riparo dal celeste foco;

tace ogni augello al gran calor ch’essala,

salvo la roca e stridula cicala.

Tra verdi colli in guisa di teatro                                 22

siede rustica valle e boschereccia;

falce non osa qui, non osa aratro

di franger gleba o di tagliar corteccia;

fonticel di bell’ombre algente ed atro

inghirlandato di fiorita treccia

qui dal sol si difende e sì traluce

ch’al fondo cristallin l’occhio conduce.

Su la sponda letal di questo fonte                              23

che i circostanti fior di perle asperge

e fa limpido specchio al cavo monte

che lo copre dal sol quando più s’erge,

appoggia il petto e l’affannata fronte,

le mani attuffa e l’arse labra immerge.

E quivi Amor, mentr’egli a ber s’inchina,

vuol ch’impari a schernir virtù divina.

Ferma nele bell’onde il guardo intento                                  24

e la propria sembianza entro vi vede;

sente di strano amor novo tormento

per lei che finta imagine non crede;

abbraccia l’ombra nel fugace argento

e sospira e desia ciò che possiede;

quelche cercando va porta in sestesso,

miser, né può trovar quelch’ha da presso.

Corre per refrigerio al’onda fresca,                           25

ma maggior quindi al cor sete gli sorge;

ivi sveglia la fiamma, accende l’esca,

dove a temprar l’arsura il piè lo scorge;

arde e perché l’ardor vie più s’accresca

la sua stessa beltà forza gli porge

e, nel’incendio d’una fredda stampa,

mentre il viso si bagna il petto avampa.

La contempla e saluta e tragge ahi folle!                                26

da mentito sembiante affanno vero.

Egli amante, egli amato, or gela, or bolle,

fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero.

Invidia a quell’umor liquido e molle

la forma vaga e’l simulacro altero

e, geloso del bene ond’egli è privo,

suo rival su la riva appella il rivo.

Mancando alfin lo spirto al’infelice,                           27

troppo a sestesso di piacer gli spiacque.

Depose a piè del’onda ingannatrice

la vita e, morto in carne, in fior rinacque.

L’onda che già l’uccise, or gli è nutrice,

perch’ogni suo vigor prende dal’acque.

Tal fu il destin del vaneggiante e vago

vagheggiator dela sua vana imago.

E così fece il ciel del grave oltraggio                          28

dela sprezzata ninfa alta vendetta.

Ma tu, credo ben io, se sarai saggio,

aborrir non vorrai quelche diletta

e, sgombro il sen d’ogni rigor selvaggio,

godrai l’età fiorita e giovinetta,

idolo d’una dea, dal cui bel viso

impara ad esser bello il paradiso;

di quella dea per cui strugger si sente                        29

lo dio del foco in maggior foco il petto

e da martel più duro e più possente

batter il cor d’amore e di sospetto,

quella che i danni del’offesa gente

vendica sol col mansueto aspetto;

ché, sel folgore suo percote altrui,

un sol guardo di lei trafige lui;

di quella dea che può col seno ignudo                                   30

vincer l’invitto dio d’armi guernito,

loqual non può sì forte aver lo scudo

che non ne resti il feritor ferito,

né di sì salde tempre il ferro crudo

che tempri il mal da que’ begli occhi uscito;

quella che può bear l’alme beate

beltà del cielo e ciel d’ogni beltate.

Giovane il mondo in altra età qual ebbe                                31

amato mai da deitate alcuna,

e qual cotanto al cielo in grazia crebbe,

che possa pareggiar la tua fortuna?

Non quegli a te paragonar si debbe

ch’accese il cor dela gelata Luna,

non l’altro che’nsu’l bel carro fiorito

fu dala bionda Aurora in ciel rapito.

Mille di mille dee, di mille dei,                                   32

che quaggiù di lassù spiegaro il volo,

amori annoverar qui ti potrei,

ma lascio gli altri e tene sceglio un solo.

Oso di dir che più felice sei

di quelche piacque al gran rettor del polo.

Non so se ti sia nota, o forse oscura,

del troiano donzel l’alta ventura.

Dal sovrano balcon rivolto avea                                33

il motor dele stelle a terra il ciglio,

quando mirò giù nela valle Idea

del re di Frigia il giovinetto figlio.

Mirollo e n’arse. Amor che l’accendea,

l’armò di curvo rostro e curvo artiglio,

gli prestò l’ali e gli destò vaghezza

di rapir la veduta alta bellezza.

La maestà d’un sì sublime amante                             34

bramoso d’involar corpo sì bello,

dela ministra sua prese sembiante,

ché non degnò cangiarsi in altro augello,

peroché tutto il popolo volante

più magnanimo alcun non n’ha di quello,

degno, daché portò tanta beltate,

d’aver di stelle in ciel l’ali gemmate.

Bello era e non ancor gli uscia su’l mento                              35

l’ombra ch’aduggia il fior de’ più begli anni.

Iva tendendo a rozze prede intento

ai cervi erranti insidiosi inganni.

Ed ecco il predator che’n un momento,

falcate l’unghie e dilatati i vanni,

in alto il trasse e per lo ciel sostenne

l’amato incarco insu le tese penne.

Mira da lunge stupido e deluso                                 36

lo stuol de’ servi il vago augel rapace.

Seguon latrando e risguardando insuso

i cani la volante ombra fugace.

Il volo oblia d’alto piacer confuso,

Giove, e di gioia e di desir si sface,

gli occhi fiso volgendo e le parole,

aquila fortunata, al suo bel sole:

«Fanciul (dicea) che piagni? a che paventi                             37

cangiar col cielo, ah semplicetto, i boschi?

con l’aure sfere e con le stelle ardenti

le tane alpestri e gli antri ombrosi e foschi?

e con gli dei benigni ed innocenti

le fere armate sol d’ire e di toschi?

Fatto, mercé di lui che’l tutto move,

di rozzo cacciator coppier di Giove?

Son Giove istesso. Amor m’ha giunto a tale:                         38

non prestar fede ale mentite piume.

Aquila fatto son; ma che mi vale,

s’aquila ancor m’abbaglio a tanto lume?

Io quel, quell’io che col fulmineo strale

tonar sovra i giganti ho per costume,

sì son pungenti i folgori che scocchi,

saettato son già da’ tuoi begli occhi.

Qual pro ti fia per balze e per caverne                                  39

seguir de’ mostri orribili la traccia?

Vienne vien meco ale delizie eterne,

maggior preda fia questa e miglior caccia.

E s’avien che colà nele superne

piagge i bei membri essercitar ti piaccia,

trarrai per le stellate ampie foreste

dietro al’orse del polo il can celeste.

Lascia omai più di ricordar, rivolto                            40

ale selve, agli armenti, Ida né Troia.

Sei celeste e felice; avrai raccolto

tra gli eterni conviti eterna gioia.

E nel’aspra stagion, quand’austro sciolto

l’aria, la terra e’l mar turba ed annoia,

visitata dal sol, lucida e bella

scintillerà la tua feconda stella.»

Così gli parla e’ntanto al sommo regno                                 41

dela gente immortal patria serena,

non però senza scorno e senza sdegno

dela gelosa dea, lo scorge e mena,

dove del nobil grado il rende degno,

ché sempre in ogni prandio, in ogni cena,

a mensa in cavo e lucido diamante

porga il nettare eterno al gran tonante.

Ebe e Vulcan, che poco dianzi quivi                          42

dela gran tazza il ministero avieno,

già rifiutati e del’ufficio privi

cedono al novo aventurier terreno.

Ei l’ama sì ch’innanzi a dive e divi,

quando il sacro teatro è tutto pieno,

ancor presente la ritrosa moglie,

da Ganimede suo mai non si scioglie.

Non gli reca il garzon giamai da bere                        43

che pria nol baci il re che’n ciel comanda

e trae da quel baciar maggior piacere

che dala sua dolcissima bevanda.

Talvolta a studio e senza sete avere,

per ribaciarlo sol, da ber dimanda,

poi gli urta il braccio o in qualche cosa intoppa,

spande il licore o fa cader la coppa.

Quando torna a portar l’amato paggio                                  44

il calice d’umor stillante e greve,

rivolti in prima i cupid’occhi al raggio

de’ bei lumi ridenti, egli il riceve

e, col gusto leggier fattone un saggio,

il porge a lui, ma mentr’ei poscia il beve,

di man gliel toglie e le reliquie estreme

cerca nel vaso e beve e bacia insieme.

Ma che? Tu sovra questo e sovra quanti                               45

più pregiati ne furo unqua tra noi

darti ben a ragion titoli e vanti

d’aventuroso e fortunato puoi,

poiché’l più bel de’ sette lumi erranti

hai potuto invaghir degli occhi tuoi

e por testesso in signoria di quella

ch’influisce ogni grazia amica stella.

E però ti consiglio e ti ricordo                                   46

che di tanto favor ringrazi il fato.

Non esser al tuo ben cieco né sordo,

sappi gioir di sì felice stato,

né cagion lieve o van desire ingordo

partir ti faccia mai dal fianco amato;

perché cose s’incontrano sovente

onde, quando non vale, altri si pente.

La fanciullesca età tenera e molle                              47

è quasi incauta e semplice fanciulla,

lo cui desir precipitoso e folle

corre a ciò che l’alletta e la trastulla.

Or piange or ride e mentr’ondeggia e bolle

suole immenso dolor tragger di nulla

e procacciar non senza gravi affanni

da leggieri accidenti eterni danni.

Troppo talvolta a vani oggetti intenta                         48

quelche rileva più, sprezza ed oblia,

e così pargoleggia e si lamenta

s’avien che perda poi ciò che desia.

Un’essempio n’avrai, se ti rammenta

degno ch’a mente ognor certo ti sia,

per cui l’alma anzi tempo uscì divisa

d’una spoglia leggiadra, odi in che guisa.

Vezzoso cervo si nutriva in Cea,                               49

di cui più bel non fu daino né damma,

sacro ala casta e boschereccia dea,

più vivace e leggier che vento o fiamma.

Quando apena lasciato il nido avea,

d’una capra poppò l’ispida mamma,

onde conforme al’alimento ch’ebbe

qualità prese e mansueto crebbe.

E canuto qual cigno e’l pelo ha bianco                                  50

più che latte rappreso o neve alpina;

sol di purpuree macchie il petto e’l fianco

sparso a guisa di rose insu la brina.

Con le ninfe conversa e talor anco

in udir chiamar Cinzia egli s’inchina,

pur come a reverir nome sì degno

umano spirto il mova, umano ingegno.

Tra fauni e driadi il dì spazia e soggiorna                               51

in aperta campagna o in chiuso ovile,

che per fregiargli le ramose corna

van dele pompe sue spogliando aprile.

D’oro l’orecchie e d’or la fronte adorna,

gli circonda la gola aureo monile

ch’un tal breve contien: «ninfe e pastori,

di Diana son io, ciascun m’onori».

Le ninfe fontaniere e le montane                                52

nela stagion ch’al cervo il corno casca,

onde povero ed orbo ei ne rimane

per più corsi di sol pria che rinasca,

gli componeano in mille forme estrane

su la vedova fronte ombrosa frasca

e con bell’arte il rifacean cornuto,

quelche già per natura avea perduto.

Tra quanti il favoriro e l’ebber caro                           53

fu Ciparisso, un pellegrin donzello,

per cui languiva il gran signor di Claro,

ché non vide giamai viso più bello.

L’età con la bellezza iva di paro

ch’era degli anni ancor sul fior novello

e del suo bel mattin l’alba amorosa

le guance gli spargea di fresca rosa.

Questo fanciul, da’ cui begli occhi acceso                             54

più che da’ propri raggi ardeva Apollo,

sempre a seguirlo, a custodirlo inteso,

in pregio l’ebbe e sovr’ogni altro amollo.

Gli avea di propria man fatto ed appeso

di squillette d’argento un serto al collo,

perché qualor da lunge il suon n’udiva

lo potesse trovar se si smarriva.

Erra il giorno con lui, la sera riede                             55

là’ve d’erbe e di fior letto l’accoglie.

Spesso in braccio gli corre, in grembo siede,

e prende di sua mano or acque, or foglie.

Orgoglioso ei ne va che lo possiede,

umil l’altro ubbidisce ale sue voglie

e, con serico fren, pronto e leggiero

si liscia maneggiar come un destriero.

Era nel tempo dele bionde spiche,                            56

quando il pianeta fervido di Delo

i raggi a piombo insu le piagge apriche

non vibra no, ma fulmina dal cielo.

Il bel garzon fra molte querce antiche,

che tessean di folt’ombra un verde velo,

dopo lungo cacciar stanco ne venne

e’l domestico suo dietro gli tenne.

Or mentre il cervo pasce ed egli porge                                 57

riposo ai membri in mezzo ala foresta,

erger vago fagian non lunge scorge

fuor d’una macchia la purpurea testa.

Prende l’arco pian pian, dal’erba sorge,

e’l miglior stral dela faretra appresta;

tende prima la corda, indi l’allenta

e la canna ferrata innanzi aventa.

Dove l’arcier l’invia, lo stral protervo,                                   58

ma dov’ei non vorrebbe, i vanni affretta.

Dopo quel cespo il suo diletto cervo

erasi posto a ruminar l’erbetta.

Onde scagliato dal possente nervo

il fianco inerme al misero saetta.

Pensati tu, s’ala mortal ferita

cade e’n vermiglio umor versa la vita.

V’accorre il suo signor, volgendo dritto                                59

verso il flebil muggito il guardo pio.

E quando vede, ahi cacciatore afflitto!

in cambio del’augel quelche ferio

e gemer sente il poverel trafitto,

che par gli voglia dir: «che t’ho fatt’io?»

stupisce e trema e da gran doglia oppresso

vorria passarsi il cor col dardo istesso.

Scende colà lo dio chiomato e biondo                                  60

dal suo carro lucente ed immortale

e gli dimostra con parlar facondo

come quelche l’afflige è picciol male.

Ma nessuna ragion che porti al mondo

a consolar lo sconsolato vale.

Del cadavere freddo il collo amato

abbraccia e bacia e vuol morirgli a lato.

Sfoga con l’innocente arco infelice                            61

il suo rabbioso e desperato sdegno.

Spezza l’empie quadrella ed «omai (dice)

non suggerete voi sangue men degno.

Ma te del fiero colpo essecutrice

mano ingrata e crudel, perché sostegno?

perché, s’hai con lo stral commesso errore,

non l’emendi col ferro in questo core?

Poiché perfido io stesso e malaccorto                                   62

di propria man d’ogni tesor m’ho privo

e, perduta ogni gioia ogni conforto,

lieti oggetti e giocondi aborro e schivo,

fa, prego, o ciel, senza il mio ben ch’è morto,

ch’io fra tanto dolor non resti vivo;

fa ch’io non senta almeno e che non miri

senon feretri e lagrime e sospiri.»

Apena egli ha vigor d’esprimer questo,                                 63

che la pelle gl’indura e’l busto ingrossa.

Sorge piramidal tronco funesto,

rozzo legno si fan le polpe e l’ossa.

Verdeggia il crin frondoso e quanto al resto

tutta da lui l’antica forma è scossa.

Funeral pianta e tragica diviene

e, quant’uom desiava, arbore ottiene.

S’un amante divin più ch’una fera,                            64

come ragion chiedea, curato avesse,

forse non avria questi in tal maniera

dato campo al destin che poi l’oppresse.

Or tu non far, ch’occasion leggiera

t’involi a lei che suo signor t’elesse,

perché lontan da chi n’ha zelo e cura

scompagnata beltà non va secura.

So che sovente per le selve errando,                         65

dove strani animali hanno ricetto,

di girne ardito e’ntrepido cacciando

o con spiedo o con stral prendi diletto.

Deh! non voler, tanto piacer lasciando,

tra i perigli de’ boschi entrar soletto.

S’al viver tuo troncar non vuoi le fila,

sovengati talor del caso d’Ila.

Era scudier del generoso Alcide                               66

Ila, il vago figliuol di Teodamante.

Più bei crin, più begli occhi il sol non vide,

più bel volto giamai, più bel sembiante.

Con la tenera man l’armi omicide

spesso stringea del bellicoso amante

e del’immensa e smisurata clava

fedelmente l’incarco in sé portava.

Quando al fier Gerion, quando ad Anteo                              67

tolse il forte campion la vita e l’alma,

quando del’idra e del leon nemeo,

del cinghiale e del tauro ebbe la palma,

fu sempre a parte d’ogni suo trofeo,

né lasciar volse mai la cara salma,

seguendo pur con pronte voglie amiche

de l’invitto signor l’alte fatiche.

S’armaro intanto per portar del’oro                          68

la ricca preda i naviganti audaci,

del primo sprezzator d’austro e di coro

quando a Colco passò fidi seguaci.

V’andar di Leda i figli, andò con loro

Teseo, andovvi il cantor de’ boschi traci

e, fra gli altri guerrier delo stuol greco,

il gran figlio d’Almena ed Ila seco.

Sorse di Misia da buon vento scorta                         69

tra i verdi lidi la famosa nave,

dove ferma su l’ancora ritorta

depose de’ suoi duci il peso grave.

Procaccia qui la gioventute accorta

per l’amene campagne ombra soave;

chi le mense apparecchia insu le sponde,

chi fa letto o sedil d’erbe e di fronde.

Ila, dal caldo e dala sete adusto,                               70

cerca ov’empir di gelid’onda un vaso,

onde d’urna dorata il tergo onusto

colà s’imbosca ove lo porta il caso.

Crescer l’ombre fa già del folto arbusto

il sol ch’omai declina inver l’occaso;

ed ei per tutto spia se d’acqua sente

alcuna scaturigine cadente.

Ed ecco giunge ove di museo e felce                         71

tutta vestita e d’edera selvaggia

pendente costa di scabrosa selce

gran parte adombra del’aprica spiaggia.

Quinci l’orno e la quercia e l’alno e l’elce

scacciano il sol qualor più caldo irraggia,

spargendo intorno dala chioma oscura,

opacata di fronde, alta frescura.

Quasi cor dela selva un fonte ombroso                                 72

mormorando nel mezzo il prato aviva

ed offre al peregrin fresco riposo

chiuso dal verde ala stagione estiva.

Dal sen profondo del suo fondo erboso

spira spirto vital d’aura lasciva

e porge al’erbe, agli arboscelli, ai fiori

per cento vene i nutritivi umori.

Sotto questa fontana a chiome sciolte                                   73

su’l bel fitto meriggio aveano usanza

le napee del bel loco in cerchio accolte

vaghe carole essercitare in danza.

Com’Ila in lor le luci ebbe rivolte,

d’infiammarle tra l’acque ebbe possanza,

onde nel vivo e lucido cristallo

rotto nel mezzo abbandonaro il ballo.

Come stella nel mar divelta cade                               74

dal’azzurro seren del cielo estivo

o qual strisciando per oblique strade

fende il notturno vel raggio festivo,

così la rara e singolar beltade

rapita ingiù dentro quel gorgo vivo,

precipitando tra le chiare linfe

trovossi in braccio ale gelate ninfe.

Dele vezzose dee l’umida schiera                              75

consolandolo aprova, in sen l’asconde;

Driope, Egeria, Nicea, Nisa, Neera

gli asciugan gli occhi con le trecce bionde.

Ei la perduta libertà primiera

piagne e col pianto amaro accresce l’onde.

Ahi che disse ahi che fè, per doglia insano,

de’ mostri intanto il domator tebano?

Lungo il pontico mar con piè veloce                          76

cerca e ricerca ogni riposto calle.

Tien la gran mazza nela man feroce,

la libica faretra ha dale spalle.

«Ila, Ila» tre volte ad alta voce,

«Ila» chiamò per la solinga valle;

né fuor ch’un mormorio debile e basso

gli fu risposto dal profondo sasso.

Poscia che’ndarno il suo ritorno attese,                                 77

gemiti desperati al ciel disciolse,

di rabbiosi sospiri il bosco accese,

dele stelle, d’amor, di sé si dolse.

Tifi, poiché le vele al’aura tese,

gl’incliti eroi su l’alta poppa accolse.

Ercol restò con dolorosi stridi

tapino amante ad assordare i lidi.

Fra tante istorie ch’io ti narro e tante                         78

un punto principal non vo’ tacere.

Non esser in amor foglia incostante

ch’al primo soffio è facile a cadere.

Non esser alga in mar lieve e tremante

che pieghi or quinci or quindi il tuo volere.

Stabile ai venti, al’onde, in te raccogli

la fermezza de’ tronchi e degli scogli.

Vago è del bello e di leggier s’accende                                 79

di duo begli occhi un giovinetto core.

Agitato vacilla, or lascia, or prende

quasi camaleonte ogni colore.

Il pianeta volubile che splende

tra le fredd’ombre del notturno orrore

tante forme non cangia incontro al sole

quant’egli in sé stampar sempre ne suole.

So che’l ben si diffonde e si diletta                            80

communicarsi altrui per sua natura.

Ma chi giunge a goder beltà perfetta

non dev’esca cercar di nova arsura.

Alma gentile in nobil laccio stretta

di pubblico giardin frutto non cura,

perché vulgare e prodiga bellezza

posseduta da molti è vil ricchezza.

Cosa non è che tanto un core irriti                            81

quando Amor da ragion vinto si sdegna,

quanto il vedersi i suoi piacer rapiti

da mano ingrata e per cagion men degna.

Tu gli altrui dolci e lusinghieri inviti

fuggir, s’hai senno, a più poter t’ingegna,

perché di te non faccia Citerea

quelche d’Atide fece un’altra dea.

Cibele, degli dei madre feconda,                               82

fu d’Ati un tempo innamorata assai

e degna n’era ben l’aria gioconda

del viso ch’avea bel come tu l’hai.

Avea bocca purpurea e chioma bionda

e sotto oscure ciglia ardenti rai,

né dele prime lane ancor vestita

la guancia vermiglietta e colorita.

Poscia che degno il fè ch’egli salisse                         83

dela scala d’amor sul grado estremo,

«Tu vedi ben (più volte ella gli disse)

sicom’io sol per te languisco e gemo.

Non far torto alo stral che mi trafisse,

sol perché troppo t’amo, io troppo temo.

Ala giurata fè non far inganno,

se non vuol che’l favor ti torni in danno.»

«No no (dicea’l garzon) beltà non veggio                              84

che mi possa adescar ne’ lacci suoi.

Dal dì ch’aveste in questo core il seggio

per altr’occhi languir non seppi poi.

Qualunque, ovunque io siami, esser non deggio

altro giamai che vostro, altro che voi.

Arderò, v’amerò, così prometto,

finch’avrò sangue in vena, anima in petto.»

Non molto andò che per riposte vie,                         85

vago di refrigerio e di quiete,

mentre nela più alta ora del die

cercava umor per ammorzar la sete,

stelle il guidaro insidiose e rie

in certe solitudini secrete,

dove ombraggio cadea gelido e fosco

dal folto crin d’un taciturno bosco.

Tra discoscese e solitarie piagge                               86

volge gran rupe al sol le spalle alpine;

ombran la fronte sua piante selvagge,

quasi del’aspra testa ispido crine;

per l’occhio d’un canal, distilla e tragge

lagrime innargentate e cristalline;

apre un antro le fauci a piè del fonte

quasi gran gola e fa la bocca al monte.

Quivi a seder Sangarida ritrova,                                87

un’amadriade assai vezzosa e bella.

L’aviso dela dea poco gli giova,

la contempla furtivo e non favella.

Scender si sente al cor dolcezza nova

e gli lampeggia il cor com’una stella,

or avampa or agghiaccia e trema come

de’ vicini arboscei treman le chiome.

Al’ombra del suo bel tronco natio,                            88

che tempesta di fior le piove in grembo,

steso su’l verde margine del rio

la vaga ninfa ha dela gonna il lembo

ed, ogni altro pensier posto in oblio,

coglie dal prato quel fiorito nembo,

dal prato, a cui più che la man non prende

con larghissima usura il guardo rende.

Mentre al’errante crin tenero freno                           89

di fior bianchi innanella e di vermigli,

si specchia e con l’umor chiaro e sereno

par che tacitamente si consigli.

Ma co’ fior del bel viso e del bel seno

perdon le rose assai, perdono i gigli

e i fiati dela bocca aventurosa

vincon l’odor del giglio e dela rosa.

Ciò fatto, nele pure onde tranquille                           90

poich’ha tre volte e quattro il volto immerso,

per le labra innaffiar di fresche stille

fa del concavo pugno un nappo terso.

Ahi! che sugge ella umori, Ati faville,

quantunque abbiano in ciò fonte diverso:

dala mano e dagli occhi a poco a poco,

mentrech’ella bev’acqua, ei beve foco.

Fuor del boschetto alfine il passo ei spinse                            91

e dal centro del cor trasse un sospiro,

un sospir che lo spirto in aura strinse

e fu muto orator del suo martiro.

L’una allor si riscosse e l’altro tinse

la pura neve del color di Tiro.

Volea parlar ma, quasi ghiaccio al sole,

venia meno la voce ale parole.

Ala leggiadra vergine dapresso                                 92

si fè pur sospirando e pur gemendo

con sì caldo desio nel volto espresso

che ne’ sospiri suoi chiedea tacendo,

ma così reverente e sì dimesso

che ne’ gemiti suoi tacea chiedendo

e spargea mille, d’aurei strali armati,

fuor de’ begli occhi spiritelli alati.

Tosto ch’a quella luce il volto volse,                          93

arse di pari ardor la giovinetta.

Depose i fiori ed ei quel fior si colse

ch’ai seguaci d’Amor tanto diletta.

Quando in letto odorifero gli accolse

la fresca, molle e rugiadosa erbetta,

ne sussurrar, ne bisbigliar le fronde

e dolce mormorio ne fu tra l’onde.

Ma la gelosa dea, che’l fallo ascolta                          94

di quel suo disleal che l’ha tradita,

tosto ale Furie infuriata e stolta

ricorre e’ncontr’al giovane l’irrita.

Già di squallide serpi il crine involta

vibra le faci sue, d’Averno uscita,

e con foco e con tosco ecco ch’Aletto

gli coce il core e gli flagella il petto.

Ferve d’insana ed arrabbiata voglia                          95

di tartaree fiammelle Atide acceso,

spuma, freme, il piè scalza, il manto spoglia,

sì lo strugge il velen che’l cor gli ha preso;

la feconda radice ond’uom germoglia

e l’un e l’altro suo pendente peso,

rei del suo mal, da gran furore indutto,

miser, di propria man si tronca intutto.

Testimonio pietoso al caso tristo                               96

fu di Sinade allora il vicin colle

che d’ognintorno rosseggiar fu visto

del sangue del garzon rabbioso e folle;

del sangue bel che con la rupe misto

tutto il sasso lasciò macchiato e molle,

onde Frigia dipinti ancor ritiene

i marmi suoi di preziose vene.

Per trarsi poscia a precipizio, ascende                                  97

ripida cima d’aspro monte alpino;

ma mentre ingiù trabocca e in aria pende

co’ piedi in alto e con la fronte al chino,

la dea che l’ama ancor, pietosa il prende,

l’affige in terra e lo trasforma in pino.

Ed or da quel di pria cangiato tanto

in tenace licor distilla il pianto. –

Con queste fole e favolette avea                               98

del sommo Giove il messaggier sagace

persuaso il garzon; né qui ponea

freno al garrir, novellator loquace.

Ma troncando il cianciar, stese la dea

la man di neve al foco suo vivace

e parve il cor con un sospiro aprisse,

mentre queste parole ella gli disse:

– Adon cor mio, mio core, omai serena                                99

la mente ombrosa e lascia ogni altra cura.

O tre volte mio cor, deh, prego, affrena

quel desio di cacciar ch’a me ti fura.

Non far, se m’ami, ch’acquistata apena

perdano gli occhi miei tanta ventura;

non voler dato a me, da me disgiunto

e ricca farmi e povera in un punto.

Non sottopor de’ boschi ai duri oltraggi                                100

le dilicate membra e giorno e notte;

lascia a più rozzi cori e più selvaggi

dele fere il commercio e dele grotte.

Che ti giova menar tra l’elci e i faggi

spezzati i sonni e le vigilie rotte

e in ozio travagliato e faticoso

inquieta quiete, aspro riposo?

Che ti val la faretra ognor di strali                             101

e di mostri la selva impoverire?

Dele dive celesti ed immortali

bastiti co’ begli occhi il cor ferire,

senza voler de’ rigidi animali

con tuo danno e mio duol l’orme seguire.

Perché di questo sen denno le selve

e di me più felici esser le belve?

Soffrir dunque poss’io che dale braccia                                102

rapita, oimé, mi sia tanta bellezza,

per darla a tal, che con l’artiglio straccia

e col dente ferisce e la disprezza?

O crude fere, o maledetta caccia,

o ricetti d’orrore e di fierezza,

indegne di mirar luci sì pure,

contumaci del sol, foreste oscure,

possiate sempre le rabbiose strida                            103

e i furori sentir d’Euro baccante.

Fiero fulmine i rami a voi recida,

sfrondi il crin, sfiori i fior, spianti le piante.

Rigorosa secure in voi divida

dal’amato arboscel l’arbore amante,

sicome voi spietatamente il mio

dividete da me dolce desio.

Sovra tutto il timor m’agghiaccia e coce                                104

dela triforme dea, ch’è donna anch’ella;

e seben tanto incrudelì feroce

nela misera sua già ninfa or stella,

lascio il suo loco al ver, corre pur voce

che non fu sempre al mio figliuol rubella,

e, coprendo il piacer con la vergogna,

sa goder e tacere quando bisogna.

Ma siasi pur qual i mortali sciocchi                            105

la fanno apunto, e santa e casta ed alma;

che fia, s’egli averrà, che’l sen le tocchi

quello stral che di me portò la palma?

Fiamma di questo cor, sol di quest’occhi,

vita dela mia vita, alma del’alma,

sappi ch’un raggio sol de’ tuoi sembianti

può romper marmi e calcinar diamanti. –

Risponde Adone: – O caramente cara,                                 106

certo a me quanto cara ingrata sei,

se creder puoi che possa, ancorché rara,

altra beltà di me portar trofei.

Il sol degli occhi tuoi sol mi rischiara,

occhi più cari a me che gli occhi miei.

Là si gira il mio fato e la mia sorte,

essi son la mia vita e la mia morte.

Benché tutto di luci il ciel sia pieno,                           107

solo il sole è però che’l mondo alluma.

Non ha più face Amor per questo seno,

sarò qual sono al foco ed ala bruma,

di sì dolce fontana esce il veleno,

che dolcissimamente mi consuma.

Giunga il mio corso a riva, o presto o tardo,

vivrò qual vivo ed arderò com’ardo.

Ma se costume e naturale instinto,                            108

che di fere affrontar mi dà baldanza,

dala beltà che m’ha legato e vinto

talor di desviarmi avrà possanza,

non tene caglia no, ch’a ciò son spinto

sol dal’antica e dilettosa usanza;

né sdegnar tene dei, ché chi ben ama

il piacer del su’amor seconda e brama.

Non sia prodigo amor, perché talora                         109

suole il cibo aborrir sazio appetito.

Passa l’uso in disprezzo e spesso ancora

frequentato diletto è men gradito,

né sì aspettato e desiato fora

s’april d’ogni stagion fusse fiorito;

sempre quelch’è vietato e quelch’è raro

più n’invoglia il desire e più n’è caro.

Non ch’io d’amarti, o fastidito o stanco                                110

possa aver mai di te l’anima sgombra;

anzi quando il tuo sol mi verrà manco,

sarò qual ciel cui fosca notte adombra,

senz’occhi in fronte e senza core al fianco,

senz’alma un corpo e senza corpo un’ombra.

Ma se questo è destin, porta il devere

che quelche vole il ciel vogli volere. –

Soggiunse allor Ciprigna: – Assai di questo                           111

il saggio dio del Nilo oggi t’ha detto.

Ma per darti a veder più manifesto

che non fuor di ragione è il mio sospetto,

vo’ che tu miri il guiderdon funesto

che dà Diana a ciascun suo soggetto.

Molto move l’essempio e per la vista

maggior che per l’udir fede s’acquista. –

Qui tace e poi di quella torta scala                            112

che di mezzo al cortil gli archi distende,

gli eburnei gradi, onde si monta e cala,

preme e col bell’Adone in alto ascende.

Qui per cento finestre immensa sala

di polito cristallo il giorno prende

e in un bel quadro di mosaico terso

la figura contien del’universo.

Per quattro porte a quattro venti esposte                              113

s’entra e tutte son d’or schietto e forbito.

Ha quattro mura le cui ricche croste

del fondo interior celano il sito.

Nele facciate tra sestesse opposte

l’ordin degli elementi è compartito

ed ha ciascun nela sua propria sfera

ogni pesce, ogni augello ed ogni fera.

In ogni spazio v’ha quel dio ritratto                           114

che di quell’elemento ha sommo impero,

e ciascuno elemento è sculto e fatto

d’una materia somigliante al vero.

Vermiglio il foco è d’un rubino intatto,

ceruleo l’aere è d’un zaffir sincero,

di smeraldo ridente e verdeggiante

fatta è la terra e l’acqua è di diamante.

Occupa il campo poi del pavimento                          115

la region del tartaro profondo,

ch’a fogliami di gitto ha un partimento

fatto d’or fino e dilatato in tondo;

e quivi in atto tal che dà spavento,

vedesi il re del tenebroso mondo;

seco ha l’orride dee di Flegetonte,

cui fa pompa di serpi ombra ala fronte.

Nel’ampio tetto un ciel sereno è finto,                                   116

opra maggior non lavorò ciclopo.

Appo tante e tai gemme ond’è distinto,

povero è l’Indo e scorno ha l’Etiopo;

tutto di smalto, in mezzo è di giacinto,

dove in forma di sol raggia un piropo;

di crisoliti intorno e di balassi

splendon di stelle in vece alti compassi.

Veder si può d’ogni lumiera ardente                         117

il fermo stato e’l peregrino errore.

V’ha quel co’ mostri suoi torto e serpente,

che tre cerchi contien, cerchio maggiore.

V’ha l’un e l’altro tropico lucente,

che del lume e del’ombra adeguan l’ore.

V’ha gli altri duo che girano congiunti

co’ duo fissi del’orbe estremi punti.

V’ha l’equator, la cui gran linea eguale                                  118

tra le quattro compagne in mezzo è posta,

di cui l’estreme due l’una al’australe

l’altra al confin di borea è troppo esposta.

Havvi degli alti dei la via reale

di spesse stelle e picciole composta,

lo cui candor che’l ciel per mezzo fende

da’ gemelli al centauro il tratto stende.

Nel centro dela sala un vasto atlante                         119

tutto d’un pezzo di diaspro fino

sostien la volta e ferma ambe le piante

sovra un gran piedestallo adamantino

e sotto l’alta cupula pesante

stassi con tergo curvo e volto chino;

tutto quel ciel che si ripiega in arco

appoggia a questo il suo gravoso incarco.

La Notte intanto al rimbombar de’ baci                                120

invida quasi, in ciel fece ritorno

e, portata da lievi Ore fugaci

e di tenebre armata, uccise il Giorno.

Il feretro del sol con mille faci

le stelle amiche accompagnaro intorno

e’l mondo pien di nebbie e d’ombre tinto

parea fatto sepolcro al lume estinto.

Erano i cari amanti entrati a pena                              121

l’un l’altro a braccio in quella sala altera,

quand’ecco aprirsi una dorata scena,

ch’emula al giorno illuminò la sera.

Fora di luce e d’or men ricca e piena,

se s’aprisse, cred’io, la quarta sfera;

selve, statue, palagi agli occhi offerse

la cortina real quando s’aperse.

Spettacolo gentil Mercurio in questa                         122

presentar vuole al fortunato Adone.

Mercurio è quei che i personaggi appresta

ed essercita e prova ogn’istrione

e ciascun d’essi in lieta parte o mesta

secondo l’attitudine dispone,

né seco già di recitar consente

turba vulgar di mercenaria gente.

L’Invenzion, la Favola, il Poema                               123

e l’Ordine e’l Decoro e l’Armonia

dela tragedia sua stendono il tema,

la Facezia e l’Arguzia e l’Energia,

l’Eloquenza è l’artefice suprema,

sovrastante con lei la Poesia;

seco il Numero, il Metro e la Misura

si prendon dela Musica la cura.

Dansi ala coppia bella i seggi d’oro,                          124

donde quanto si fa tutto si scerne;

ed ecco il primo uscir di tutti loro

il portator del’ambasciate eterne,

ch’a spiegar l’argomento in stil canoro

mostra venir dale magion superne

e’l suggetto proposto e persuaso

è d’Atteone il miserabil caso.

Ed Atteone al Prologo succede,                               125

che vien con archi e dardi e cani e corni

e da molti scudier cinto si vede

di spiedo armati e nobilmente adorni;

e mentre ch’ei dele selvagge prede

parte d’essi a spiar manda i soggiorni,

e squadra i passi ed ordina la traccia,

con diverse ragion loda la caccia.

Ed ecco ad un squillar d’avorio torto                        126

sbucar repente da cespugli e vepri

di mansuete fere Adone ha scorto

più d’uno stuol tra mirti e tra ginepri;

e dal palco saltar con gran diporto

damme e camozze e cavriuoli e lepri

e parte dela dea fuggirsi al lembo

e parte a lui ricoverarsi in grembo.

Ma poco stante si dilegua a volo                               127

la caccia e nova effigie il palco prende,

perché librato in un volubil polo,

sestesso insu quel cardine sospende,

loqual in giro e ben confitto al suolo

volgesi agevolmente, or poggia or scende,

e’l mobil peso suo portando intorno,

viene alfine a serrar corno con corno.

Come congiunti in un sol globo il mondo                               128

duo diversi emisperi insieme lega,

per l’orizzonte che dal sommo al fondo

la rota universal per mezzo sega,

così l’ordigno che si gira in tondo

vari teatri in un teatro spiega,

senon che dove quel n’abbraccia duo,

questo più ne contien nel cerchio suo,

sì ché, quantunque volte un novo gioco                                 129

agli occhi altrui rappresentar si vole,

fa mutar faccia in un instante al loco

l’orbicolare e spaziosa mole,

ch’entro concava vite a poco a poco

senza strepito alcun mover si suole,

e con tanto artificio or cala or sorge,

che l’occhio spettator non sen’accorge.

Reggon l’opra maggior vari sostegni,                        130

e correnti e pendenti ed asse e travi

e di bronzo ben saldo armati legni,

dure catene e grossi ferri e gravi

e, con argani mille e mille ingegni

del medesmo metallo, e chiodi e chiavi;

e questo ordine a quel sì ben risponde

che nel numero lor non si confonde.

Ed or che per cacciar dal verde prato                                   131

il tebano garzone il piè ritira,

tosto che su’l gran vertice forato

il ferrato baston mosso si gira,

cangia sito la scena e l’apparato

in altro aspetto trasformar si mira

ed, al cader dela primiera tela,

differenti apparenze altrui rivela.

Spelonche opache v’ha, foreste amene,                                132

piagge fresche, ombre fosche e chiari fonti.

Vivi argenti colà sparge Ippocrene,

qui Parnaso bicorne erge due fronti.

Con le sue dotte e vergini sirene

discende Apollo da que’ verdi monti,

imitando quaggiù, vaghe e leggiere,

le danze che lassù fanno le sfere.

Ciascuno accorda al’organo che tocca                                 133

i passi e i salti inun, gli atti e le note

e con la man, col piede e con la bocca

l’aure a un punto e le corde e’l suol percote.

Finito il ballo, in un momento scocca

il magistero del’occulte rote

e, volgendosi il perno a cui s’appoggia,

riveste il palco di novella foggia.

Dopo il primo intermedio, un’altra volta                                134

videsi il bosco e quivi Cinzia apparse,

che venne stanca ala verd’ombra e folta

dela valle Gargafia a rinfrescarse

e, d’ogni spoglia sua discinta e sciolta,

lavò le membra affaticate ed arse

e, tra le pure e cristalline linfe,

si stette a divisar con l’altre ninfe.

Gira la scena e in un balen girando                            135

di centauri guerrier piena è la piazza;

chi d’acuto trafier la destra armando,

chi d’asta lieve e chi di grave mazza.

Salvo in braccio lo scudo, in armeggiando

non han che copra il resto elmo o corazza.

Grida la tromba in bellicosi carmi:

«ala guerra, ala guerra, al’armi, al’armi.»

Già par che con furor l’un l’altro assaglia,                             136

già già par che di sangue il suol si sparga.

Armonica e per arte è la battaglia,

or s’intreccia, or fa testa ed or s’allarga

e, mentre contra quel questo si scaglia,

fan cozzar clava a clava e targa a targa

e, battendosi a tempo or tergo or petto,

fan di mezzo al’orror nascer diletto.

Mentre Adone al bel gioco è tutto intento,                            137

Amor pietoso a rinfrescarlo viene

e gli reca, una d’oro una d’argento,

coppe d’ambrosia e nettare ripiene.

Ei quanto basta al debito alimento

n’assaggia sol per ristorar le vene,

ch’altr’esca, onde maggior gusto riceve,

pasce con gli occhi e per l’orecchie beve.

Nel’atto terzo insu’l girevol fuso                               138

la machina versatile si volve,

e ritorna Atteon sparso e diffuso

il volto di sudor tutto e di polve,

onde di dar al veltro ed al seguso

alquanto di quiete alfin risolve;

coglie le reti e nel’ombrosa e fosca

selva per riposar solo s’imbosca.

Or tra i confin di questo e del’altr’atto                                  139

non men bel si frapon novo intervallo:

ondeggiar vedi un mar, non so se fatto

di zaffiro o d’argento o di cristallo

e le sponde vestir tutte in un tratto

d’alga e di limo e d’ostro e di corallo

e tremar l’onde con ceruleo moto

e delfini guizzar per entro a nuoto,

e quinci e quindi per l’instabil campo                         140

spiegar turgide vele antenne alate,

urtar gli sproni e con rimbombo e vampo

venir in pugna due possenti armate.

Di Giove intanto il colorato lampo

listando il fosco ciel di linee aurate,

fa per l’aria vibrar con lunghe strisce

mille lingue, di fiamma oblique bisce.

Folgora il cielo e folgoran le spade,                           141

gonfiansi l’onde tempestose e nere

ed acqua e sangue per l’ondose strade

piovon le nubi e piovono le schiere.

Chi fugge il ferro e poi nel foco cade,

chi fugge il foco e poi nel’acqua pere,

chi di sangue e di foco e d’acqua asperso

more ucciso, in un punto arso e sommerso.

Tale è la guerra e la procella e’l gelo,                                    142

ch’agguagliato è quelch’è da quelche pare;

ma in breve poi rasserenarsi il cielo

vedi e in un punto implacidirsi il mare,

ed Iri il suo dipinto umido velo

stender per l’aure rugiadose e chiare;

spariscon le galee, svanisce il flutto,

struggesi l’arco e si dilegua il tutto.

Ciò fatto, il bel teatro ancor si chiude,                                   143

poi si vede sgorgar vaga fontana,

dove tra molte sue seguaci ignude

stassi Atteone a vagheggiar Diana.

Ed ella con le man leggiadre e crude

gli toglie dopo il cor la forma umana;

con pelo irsuto e con ramose corna

il miser cacciator cervo ritorna.

Nel fin di questo in un azzurro puro                           144

al’improviso il ciel si discolora,

e fregiando d’argento il campo oscuro,

con le stelle la luna ecco vien fora.

Poi, dando volta il neghittoso arturo,

col giorno a mano a man sorge l’aurora;

vero il sol crederesti e vera l’alba,

che le nebbie rischiara e l’ombre inalba.

S’alza il palco di sotto a un tempo istesso                             145

e mezzo anfiteatro in giro spande.

Prospettiva superba appare in esso

con ricca mensa e sontuosa e grande,

e v’ha de’ sommi dei tutto il consesso

con tal pompa d’arnesi e di vivande,

tanto tesor, tanto splendor disserra,

che sembra apunto il ciel calato in terra.

Concerto allor di musici concenti                              146

da basso incominciò, d’alto e da lato

e concordi s’udir vari istromenti,

qual da man, qual da gamba e qual da fiato,

ed acuti e veloci e gravi e lenti

alternar versi al pasteggiar beato,

e rispondersi insieme in molti cori

mute di ninfe e sinfonie d’amori.

La notte il sesto grado avea fornito                           147

dela scala onde poggia al’orizzonte,

quando da cani e cacciator seguito

comparve il cervo attraversando il monte.

Ma più non pote Adone instupidito

sollevare gli occhi o sostener la fronte,

onde in grembo a colei che gli è vicina

sovravinto dal sonno il capo inchina.

In quella guisa che, dal primo sole                             148

tocco talor, papavero vermiglio

piegar la testa sonnacchiosa suole

e tramortire infra la rosa e’l giglio,

abbassa in braccio a lei, che non si dole

di tal incarco, addormentato il ciglio;

né certo aver potea questa né quello

peso più dolce, né guancial più bello.

Questa fu la cagion che non poteo                            149

dela tragica strage il fin sentire,

né con che strazio doloroso e reo

venne sbranato il giovane a morire,

né d’Autonoe i lamenti e d’Aristeo,

né del’antico Cadmo i pianti udire,

ché la pietosa dea che’n sen l’accolse

infino al novo dì destar nol volse.

Già richiamava i corridori alati                                  150

al giogo, al morso il portator del lume

e già desta dal suon de’ freni aurati

e serena e ridente oltre il costume,

la nutrice bellissima de’ prati

sorta era fuor dele purpuree piume

ad allattar de’ suoi celesti umori

l’erbe e le piante e nele piante i fiori,

quando svegliossi Adone e sì s’accorse                                151

che già chiaro i balconi il sol feriva.

Si terse i lumi col bel dito e sorse

da Mercurio invitato e dala diva.

La bella Citerea la man gli porse

e, per la via che nela corte usciva,

menollo in un giardin, presso il cui verde

degli Elisi beati il pregio perde.

 




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