Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giovan Battista Marino
Adone

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

Canto 9, allegoria

LA FONTANA D’APOLLO. Nella persona di Fileno, nome dell’amore, il poeta descrive sestesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita. Fingesi pescatore per aver egli il primo, almeno in quantità, composte in volgar lingua poesie marittime. La fontana d’Apollo in Cipro altro non importa che la copia della vena poetica, laquale oggidì sovrabonda pertutto, massime in materie liriche ed amorose. L’armi intagliate in essa son simulacri di nove famiglie d’alcuni prencipi principali d’Italia, protetori delle muse italiane, cioè Savoia, Este, Gonzaga, Rovere, Farnese, Colonna, Orsino e precisamente Medici, sicome l’insegna de’ gigli scolpita a piè d’Apollo istesso rappresenta lo scudo della casa reale di Francia: La lite de’ cigni esprime il concorso d’alcuni buoni poeti toscani che gareggiano nella eccellenza, cioè il Petrarca, Dante, il Boccaccio, il Bembo, il Casa, il Sannazzaro, il Tansillo, l’Ariosto, il Tasso ed il Guarini. Nel gufo e nella pica si adombrano qualche poeta goffo e moderno e qualche poetessa ignorante.

 

Canto 9, argomento

Vanno al fonte d’Apollo i fidi amanti,

mirano l’armi de’ più degni eroi;

quivi in forma di cigni ascoltan poi

de’ toscani poeti i versi e i canti.

 

Canto 9

Occhi, in cui nutre Amor fiamma gentile                                1

ond’io quest’alma in vital rogo accesi,

volgete, prego, ala mia cetra umile,

mentre al canto l’accordo, i rai cortesi.

Voi mi deste l’ingegno e voi lo stile,

da voi le carte a ben vergare appresi,

e se v’ha stilla di purgato inchiostro,

prende sol qualità dal nero vostro.

Voi siete i sacri fonti, ove per bere                            2

corro sovente e gli arsi spirti immergo.

Sotto i begli archi dele ciglia altere,

più ch’al’ombra de’ lauri, i fogli vergo;

ch’aver ben denno entro le vostre sfere,

poiché v’abita il sol, le Muse albergo,

e sento con favor pari ala pena,

donde nasce l’ardor, piover la vena.

Altri colà, dove Parnaso al cielo                               3

erge in due corna le frondose cime,

per coronarsi del più verde stelo

sudi a poggiar per calle erto e sublime.

Io sol del vostro altero orgoglio anelo

su’l monte alpestro a sollevar le rime,

e vo’ che’l guiderdon de’ miei sudori

sia corona di mirti e non d’allori.

Amor solo è il mio Febo ed Amor solo                                 4

con l’arco istesso onde gli strali ei scocca,

perché la gloria si pareggi al duolo,

dela mia lira ancor le corde tocca.

Dal’ali del pensier che spiega il volo

là donde poi qual Icaro trabocca,

anzi pur dala sua, svelse la penna

con cui scrivo talor quant’ei m’accenna.

Se fossi un degli augei saggi e canori,                                    5

ch’oggi innanzi ala dea vengono in lite

e’n que’ vitali e virtuosi umori

osassi d’attuffar le labra ardite,

io spererei non pur de’ vostri onori

note formar men basse o più gradite,

ma con stil forse, a cui par non rimbomba,

cangiar Venere in Marte, il plettro in tromba;

e’l duce canterei famoso e chiaro                              6

che, di giusto disdegno in guerra armato,

vendicò del Messia lo strazio amaro

nel sacrilego popolo ostinato;

e canterei col Sulmonese al paro

il mondo in nove forme trasformato;

ma poich’a rozzo stil non lice tanto,

seguo d’Adone e di Ciprigna il canto.

Ecco già dala porta aurea del mondo                                    7

dele fiamme minori il sommo duce,

coronato de’ raggi il capo biondo,

esce sui monti a publicar la luce.

Gli fa festa Natura e dal fecondo

grembo erbette la terra e fior produce.

L’Alba il corteggia e’n queste parti e’n quelle

gli fan per tutto il ciel piazza le stelle.

Poich’amboduo di quel piacer divino                        8

han cibato il desio, ma non satollo,

sorgon col sole e prendono il camino

verso il fonte mirabile d’Apollo.

Giungon là, dove chiaro e cristallino

stagna un laghetto, insieme a bracciacollo,

cinto d’un prato, che di fior novelli

serba in ogni stagion mensa agli augelli.

Stranio carro era qui di gemme adorno                                 9

in sembianza di barca al lido avinto.

Quel dela bionda Aurora o quel del giorno

e di materia e di lavor n’è vinto.

Gran compassi ha di perle e i chiodi intorno

tutti son di diamante e di giacinto.

Il vaso tutto è d’una conca intera,

ch’apre il capace ventre in mezza sfera.

Altra di questa mai forse Nereo                                10

non vide opra maggior di meraviglia

o nel ricco Oceano o nel’Egeo,

dala cerulea Teti ala vermiglia.

Nacque del fertilissimo Eritreo,

prodigio di natura, unica figlia.

L’Arte i fregi v’aggiunse e l’orlo e’l giro

Le’ncoronò d’oriental zaffiro.

Su basi di smeraldo e di rubino                                 11

talamo ben guernito in mezzo stassi;

i seggi intorno ha di topazio fino,

d’ametisto indian le rote e gli assi;

duo mostri il tranno: han d’uomo e di delfino

questi le membra e d’ambo un misto fassi;

umana forma ha quella parte ch’esce

del’acque, il deretan termina in pesce.

Così talor vid’io pianta feconda                                12

quinci e quindi spiegar varia la chioma,

s’avien ch’arte cultrice in lei confonda

l’uve natie con l’adottive poma;

ché, mescolando il pampino e la fronda,

curva le verdi braccia a doppia soma,

onde congiunte inun vagheggia Autunno

le ricchezze di Sacco e di Vertunno.

Una, i’ non saprei dir se ninfa o diva,                        13

dal tronco, ov’è legato, il carro slega,

e dritto, ov’è la coppia, inver la riva

le redine rivolge e’l corso piega.

Poi con favella affabile e festiva

la ricca poppa ad aggravar lor prega.

Idrilia ha nome e già la bella salma

introdotta nel legno, il legno spalma.

Per la tranquilla e placida peschiera                          14

ne vanno insieme a tardo solco e lento,

dove guizzano i pesci a schiera a schiera

quasi in ciel cristallin stelle d’argento.

Adon l’amenità dela costiera

e dela conca i fregi ammira intento,

e la bella nocchiera invitatrice,

mentre siede al timon, così gli dice:

– La machina, signor, dov’entro or sei,                                 15

fu del fabro di Lenno alto sudore.

Con questa in grazia venne e di costei,

ch’è la madre d’Amor, comprò l’amore.

Per trarla ai poco amabili imenei

questa in dono l’offerse inun col core.

Nettuno aggiunse ai preziosi doni,

vago poi di piacerle, i duo tritoni.

Né sol, come tu vedi, in acqua è nave,                                  16

ma carro, ov’ella il voglia, in aria e’n terra.

Spinta talor da dolce aura soave

per le piagge del mar trascorre ed erra.

Talor, lasciando l’elemento grave,

quand’ella il volo al terzo ciel disserra,

v’accoppia e scioglie ai zefiri benigni

le dipinte colombe o i bianchi cigni. –

Così ragiona e’ntanto attorce e stende                                  17

contesti di fin or serici stami,

ond’ai figli del’acque ordisce e tende

minuti e sottilissimi legami.

Ma mentre appresta il calamo ed intende,

pescatrice leggiadra, a trattar gli ami,

Amor con altro laccio e con altr’esca

di Ciprigna e d’Adon l’anime pesca.

In un scoglio approdò la navicella                             18

che quasi isola siede al lago in grembo.

Questo non osò mai ferir procella,

teme ogni austro appressarlo ed ogni nembo,

né sentì mai latrar fervida stella,

né d’algente pruina asperse il lembo,

ma sprezza, avampi Sirio o tremi Cauro,

l’inclemenza del Cancro e del Centauro.

Sporge la curva riva infuor due braccia                                 19

e forma un semicircolo capace,

dove quando il ciel arde e quando agghiaccia

sempre ha lo stagno inalterabil pace.

Placido quivi e con serena faccia

la dea bella imitando il vento tace,

e vi fan l’acque aprova e gli arboscelli

ai pesci padiglion, specchio agli augelli.

Fiori e conche un sol margine confonde,                               20

erba e limo congiunge un sol confine;

spiegano l’alghe e spiegano le fronde

in un sito commune il verde crine.

Tra smeraldi e zaffir l’ombre con l’onde

scherzano gareggiando assai vicine;

ed han commercio insu le ripe estreme

le verdi dee con le cerulee insieme.

O quante volte, allor che rosso e biondo                               21

ride in braccio ala vite il lieto dio,

dal’arenoso suo gelido fondo

la vezzosa nereida al lido uscìo,

e sotto il velo, onde ricopre il mondo

la madre del silenzio e del’oblio,

con pampini asciugando i membri molli

rapì l’uve mature ai dolci colli.

Quante cadder tra perle e tra coralli                          22

i pomi che pendean poco lontani

e la vendemmia accolsero i cristalli,

già di vivo rubin gravida i grani.

Spesso, strisciando per gli ondosi calli,

sdrucciolaste nel’acque, o dei silvani;

spesso voi, fauni, entro le chiare linfe

correste ad abbracciar l’umide ninfe.

Loco soviemmi aver veduto ancora,                         23

senon quanto è su’l fiume, apunto tale

là dove trae la bella Polidora

dala Dora e dal Po nome immortale,

del’augusto signor ch’Augusta onora

delizia serenissima e reale;

e vi vidi sovente in ricche scene

celebrar liete danze e liete cene.

Su per la riva i lucidi secreti                          24

del bel lago spiando, ignudi cori

van di fanciulli lascivetti e lieti,

anzi di lieti e lascivetti Amori.

Chi fuor del’onde trae con lacci e reti

chi con tremula canna il pesce fuori,

altri con lunghe fila e ferri adunchi

altri con gabbie di contesti giunchi.

Qui venne a scaricar l’onda tranquilla                                   25

del suo bel peso la barchetta estrana;

qui scesero a veder quella che stilla

dotto licor sì celebre fontana;

Vulcan, divino artefice, scolpilla

e vinse in essa ogni scultura umana.

Così grato esser volse al biondo dio

quando i celesti adulteri scoprio.

Febo poi tanto di sua grazia infuse                            26

in quel marmoreo e limpido lavacro

che la virtù poetica vi chiuse

del suo furor meraviglioso e sacro;

e’n compagnia dele canore Muse,

di cui tutte v’è sculto il simulacro,

sovente visitandolo, con esso

suol le rive cangiar del bel Permesso.

L’onda intanto gorgoglia ed ecco allora                                27

sirenetta leggiadra in alto s’erge

e, veduta colei cui Cipro adora,

un’altra volta poi si risommerge;

la man carca di perle indi vien fora

e’l bel lido vicin tutto n’asperge,

perle rapite al’ostriche native

vie maggior dele noci e del’olive.

Disse la dea: – Se pur di perle mai                            28

fia ch’avaro talento il cor ti tocchi,

a tua voglia sbramar qui ben potrai

l’appetito vulgar degli altri sciocchi.

Per me non ne chegg’io; n’han pur assai

la tua bocca ridente e i miei trist’occhi.

E se nulla curiam fregi men belli,

restinsi cibo a’ miei lascivi augelli.

Sappi che di ricchissime rugiade                               29

l’India, l’Arabia, Eritra e Taprobana

tanta copia non hanno o Paro o Gade,

o d’austro il mare o il mar di tramontana,

quanta in queste felici alme contrade

ne versa ognor del ciel grazia sovrana;

poscia in minuti globi il sol le’ndura

e son de’ miei colombi esca e pastura.

Le perle, perché son d’egual bianchezza,                              30

ama la schiera immacolata e bianca.

Così quello splendor, quella finezza,

ch’ai lor primi natali in parte manca,

con doppia luce e con maggior bellezza

nel lor ventre s’adempie e si rinfranca,

e le rimandan fuor con gli escrementi

più perfette, più pure e più lucenti.

Il coro poi, ch’è d’adornarmi avezzo,                                   31

dele mie vaghe e leggiadrette ancelle,

per fabricar pendente o compor vezzo,

sceglie tra lor le più polite e belle;

ed io più ch’altra una tal pompa apprezzo

perché la stirpe lor vien dale stelle

e del cielo e del mare hanno il colore

là dove nacque e dove regna Amore.

Sì per lo generoso alto concetto,                              32

la cui primiera origine è celeste,

sì per la gran virtù del bell’oggetto,

possente a confortar l’anime meste,

sì perché lo splendor reca diletto,

sogliomi compiacer forte di queste.

Queste diero la cuna al nascer mio,

queste per barca e carro ancor vols’io.

Quando l’Aurora il suo purpureo velo                                  33

lava con l’onda ch’i fioretti aviva,

di mattutino umor piove dal cielo

picciola stilla in temperata riva

e condensata in rugiadoso gelo,

l’accoglie in cavo sen conca lasciva,

del cui seme gentil vien poi produtto,

pari ala madre sua, candido frutto.

Quel soave licor, ch’avida beve,                               34

è seme, onde tal prole al mondo nasce,

ed è latte in un punto, onde riceve

virtù, che’l parto suo nutrica e pasce.

La propria spoglia dilicata e lieve

l’avolge quasi in argentate fasce,

e con la purità de’ suoi splendori

vince del’alba i luminosi albori.

Pregiasi molto in lor l’esser sincere                           35

e d’un candor di nulla macchia offeso,

né la grossezza men, pur che leggiere

non abbian pari ala misura il peso.

Quella forma è miglior che con le sfere

più si conforma, ond’ogni lume han preso;

e quelle son tra lor le più lodate

che soglion per natura esser forate.

Ma però ch’ogni bella e ricca cosa                           36

con gran difficoltà sempre s’acquista,

questa sì cara preda e preziosa

con la fatica e col periglio è mista.

Stassene parte entro l’albergo ascosa

la perla, e parte esposta al’altrui vista;

su l’orlo del covil che la ricetta

ala rapina il pescatore alletta.

L’ingordo pescator, ch’aperte scorge                                   37

le fauci allor dela cerulea bocca,

stende la destra,ahi temerario! e sporge

troppo a sì nobil furto incauta e sciocca,

però che come prima ella s’accorge

che man rapace il suo tesor le tocca,

comprimendo gelosa il proprio guscio,

dela casa d’argento appanna l’uscio.

Con tanta forza l’affilato dente                                  38

stringe in un punto la mordace conca,

che tanaglia o coltel forte e tagliente

men gagliardo e men ratto afferra o tronca.

Restan l’audaci dita immantenente

recise del meschin nela spelonca,

ben giusta pena alo sfrenato ardire

del troppo avaro e cupido desire.

Costei però, che n’arricchì l’arene,                           39

tutte sa di tal pesca e l’arti e i modi,

e del pesce brancuto apprese ha bene

le scaltre insidie e l’ingegnose frodi,

quando il sasso tra’ nicchi a metter viene,

che son del’altrui viscere custodi,

onde passa securo entro la scorza

la sua nemica a divorar per forza.

Quindi suole avenir che la cocchiglia,                        40

nel cui grembo si cria la margarita,

quando vede la man che già la piglia,

spesso il castor perseguitato imita,

e dela bianca sua lucida figlia,

che generata ha sì, non partorita,

fa prodiga a colei di cui ragiono

di spontaneo voler libero dono.

E se saver vuoi pur chi costei sia                               41

ch’è destinata ad abitar quest’acque,

figlia fu d’Acheloo che’n compagnia

di due gemelle sue d’un parto nacque;

ma da fortuna ingiuriosa e ria

la coppia a lei congiunta oppressa giacque,

e ch’ella sol giungesse a queste sponde

fu grazia mia che signoreggio l’onde.

Gli altri duo del Tirren mostri guizzanti                                  42

eran di qualità simili a questo,

attrattivi negli atti e ne’ sembianti,

donne il petto e la faccia e coda il resto,

soavissimo rischio a’ naviganti,

doloroso piacer, scherzo funesto,

il cui cantar ne’ salsi ondosi regni

era morte a’ nocchier, naufragio a’ legni.

Ma poich’ogni arte lor vinse e deluse                                    43

di là passando il peregrin sagace,

quando con cera impenetrabil chiuse

le caute orecchie al’armonia tenace,

d’ira arrabbite e di dolor confuse

le disperse del mar l’onda rapace,

e, salvo questa che campò per sorte,

per disperazion si dier la morte.

Dele tre mezzo pesci e mezzo dive                            44

quella che’n questo mar gittata venne

qui, come vedi, immortalmente vive:

ciò per pietà dal mio gran nume ottenne.

L’altre per vari lidi e varie rive

corser, né so ben dir ciò che n’avenne.

So ben ch’una di lor dal’onde spinta

presso Cuma e Pozzuol rimase estinta

e, trasportata a quella nobil sede,                              45

miglior che’n vita in morte ebbe ventura,

perché de’ Calci il popolo le diede

il paradiso mio per sepoltura.

Dico il lieto paese, ove si vede

sì di sestessa innamorar Natura,

a cui cinto di colli il mar fa piazza,

ch’a Nettuno è teatro, a Bacco è tazza.

Dal’ossa dela vergine canora,                                   46

che’n quel terren celeste ebbe l’avello,

spirto di melodia pullula ancora,

quasi d’antico onor germe novello.

Più d’una lira vi si sente ognora,

e più d’un bianco mio musico augello;

e che sia vero, un de’ suoi figli ascolta,

a che dolce canzon la lingua ha sciolta. –

Volgesi a quella parte ond’esce il canto                                47

Adone, e vede un pescator su’l lito:

di semplice duaggio ha gonna e manto,

ed ha di polpo un capperon sdruscito;

ampio cappel che si ripiega alquanto

gli adombra il crin, di sottil paglia ordito;

tiene a piè la cistella, in man la canna

con cui del’acque il popol muto inganna.

– Lilla (dicea) che sì fastosa e lieta                            48

ognor ne vai del mio tormento acerbo,

deh! vienne al’ombra orché’l maggior pianeta

scalda il Leon feroce e’l Can superbo;

qua vienne, ove leggiadra e mansueta

un’anguilla domestica ti serbo

che di limo si nutre entro un forame

di questo scoglio e non ha spine o squame.

Più bel non vide o più vezzoso pesce                        49

del Mincio mai la celebrata pesca.

Spesso qualora il mar si gonfia e cresce

salta dal fondo insu la riva fresca,

va per l’erba serpendo e tant’oltr’esce

che vien fin nel mio grembo a prender l’esca;

di fin or al’orecchie ha duo pendenti

e mi vomita in man perle lucenti.

Ha lunga coda e larga testa e grossa,                        50

bocca aperta e viscosa ed ampie terga;

la schiena è di color tra bruna e rossa,

d’auree macchie smaltata a verga a verga;

si dibatte per l’acqua e per la fossa,

né pur in pace un sol momento alberga;

lubrica scorre, entra pertutto e guizza,

e se la tocca alcun tosto si drizza.

Tua sarà se l’accetti e se ti piace                               51

deporre alquanto il dispietato orgoglio;

del tuo vivaio entro l’umor vivace

io di mia mano imprigionar la voglio.

O di quest’animal vie più fugace,

più dura al mio pregar di questo scoglio,

vienne a temprar deh! vienne un doppio ardore

e se’l pesce non vuoi prenditi il core. –

Chiede a Venere Adon chi sia colui                          52

che sì ben col cantar l’aure lusinga.

– È de’ nostri (risponde) Amor di lui

non avrà mai chi più fort’arda o stringa.

Fileno ha nome, e dal’insidie altrui

è qui giunto a menar vita solinga.

Naque colà nela felice terra

che la morta sirena in grembo serra.

Ma se ti cal più oltre intender forse                           53

di sue fortune, andianne ov’egli stassi. –

Così sen giro ed ei, quando s’accorse

ver lui drizzar la bella coppia i passi,

di cotanta beltà stupido sorse

per reverirla da que’ rozzi sassi;

ma con man gli accennò l’amica dea

che di là non partisse ove sedea.

– Per romper (dice) o per turbar non vegno                          54

i tuoi dolci riposi o i bei lavori.

Sai ben che quando del mio patrio regno

prendesti in prima a celebrar gli onori,

io diedi forza al tuo affannato ingegno,

svegliandolo a cantar teneri amori,

onde il nome immortale ancor pertutto

serban di Lilla tua l’arena e’l flutto,

Del foco tuo con mormorio sonoro                           55

farà’l mar dov’io nacqui eterna fede;

e come Apollo ti donò l’alloro

così l’alga Nettuno or ti concede.

Lodanti i muti pesci e tu di loro

fai dilettose e volontarie prede;

anzi con soavissime rapine

prendi l’anime umane e le divine.

Fortunato cantor, la nobil arte                                   56

quanto più gradirei del tuo concento,

se i diletti e i dolor spiegassi in carte

che per costui, non più sentiti, io sento;

per costui, ch’è di me la miglior parte,

amaro mio piacer, dolce tormento,

mezzo del’alma mia, vita mia vera,

anzi di questa vita anima intera.

Deh! tene prego, così’l ciel secondo                         57

sempre e benigno a’ tuoi desir si mostri,

fa nel’età futura udire al mondo

la bella istoria degl’incendi nostri.

So che, se quest’ardor lieto e giocondo

sarà materia a’ tuoi vitali inchiostri,

passerà l’onda oscura e chiara fia,

non senza gloria tua, la fiamma mia.

Farò, se ciò farai, per te colei                                   58

languir per cui languisci, amante amata;

e quando il nodo onde legato sei

verrà poscia a troncar Parca spietata,

nel felice drappel de’ cigni miei

ti porrò, candid’ombra, alma beata,

dove l’Eternità che sempre vive

nel libro suo l’altrui memorie scrive.–

Risponde: – O degna dea dela beltate,                                 59

imperadrice d’ogni nobil petto,

canterò, scriverò, se voi mi date

vena corrispondente al bel suggetto.

Da voi viemmi lo stile e voi levate

sovra sestesso il debile intelletto,

poiché la cetra mia rauca e discorde

s’ha de’ lacci d’Amor fatte le corde.

Questo cor che si strugge a poco a poco                              60

languendo di dolcissima ferita,

la mercé vostra, in ogni tempo e loco

sarà fonte d’amor più che di vita,

somministrando al suo celeste foco,

nele pene beato, esca infinita;

con tal piacer per la beltà ch’adoro

sperando vivo e sospirando moro.

Nacque nel nascer mio, né fia ch’estinto                               61

manchi per volger d’anni ardor sì caro.

Quelle catene ond’io son preso e cinto

insieme con le fasce mi legaro.

Que’ lini istessi, in ch’io fui prima avinto,

la piaga del mio petto anco fasciaro;

lavato apena dal materno bagno,

fui lavato dal pianto onde mi lagno.

Amor fu mio maestro, appresi amando                                 62

a scriver poscia ed a cantar d’amore.

Di duo furori acceso arsi penando,

l’un mi scaldò la mente e l’altro il core,

l’uno insegnommi a lagrimar cantando,

l’altro a far le mie lagrime canore.

Amor fè con la doglia amaro il pianto,

Febo con l’armonia soave il canto.

Negar non voglio né negar poss’io                            63

ch’ai dolci studi, agli onorati affanni

che rapiscono i nomi al cieco oblio

e fanno al tempo ingordo eterni inganni,

fatale elezzion l’animo mio

non inclinasse assai fin da’ prim’anni.

In qualunque martir grave e molesto

refugio unqua non ebbi altro che questo.

Ma da questa di vezzi arte nutrice                             64

ecco le spoglie alfin ch’altri riporta,

ecco qual frutto vien di tal radice,

un guarnel di zigrin, l’amo e la sporta.

Trofei del nostro secolo infelice,

in cui di gloria ogni favilla è morta.

L’età del ferro è scorsa e sol di questa

la vilissima rugine ne resta.

Tempo fu ch’ai cultor de’ sacri rami                          65

favorevoli fur molto i pianeti.

Or sol regnano in terra avare fami

e copia v’ha di principi indiscreti,

de’ quai s’alcuno è pur che’l canto n’ami,

ama le poesie, non i poeti;

né fia poca mercé quand’egli applaude

premiando talor laude con laude.

Di me non parlo e, se pur canto o scrivo,                              66

d’Amor, non di Fortuna io mi lamento,

che non intutto di ricchezze è privo

chi trae la vita povero e contento.

In tale stato volentier mi vivo,

bastami sol che d’oro ho lo stromento.

Lo stromento ch’io suono, a quell’alloro

vedilo là sospeso, è di fin oro.

Ha di gigli dorati intorno i fregi                                  67

ed ha gemmato il manico e le chiavi,

dono ben degno del gran re de’ regi,

rege, amor de’ soggetti, onor degli avi.

Sì non indegni di cantar suoi pregi

fussero i versi miei poco soavi,

com’egli è tale infra gli eroi maggiori

qual è il suo giglio infra i più bassi fiori.

Ma questo è il men, senon che’l vulgo, a cui                         68

fosco vel d’ignoranza i lumi appanna,

prendendo a scherno i bei sudori altrui,

nel conoscere il meglio erra e s’inganna,

e seben io tra que’ miglior non fui,

sovente chi più val biasma e condanna.

Miser, di colpì tali ognor fu segno

il mio battuto e travagliato ingegno!

Più d’una volta il genitor severo,                               69

in cui d’oro bollian desiri ardenti,

stringendo il morso del paterno impero,

«studio inutil (mi disse) a che pur tenti?»

ed a forza piegò l’alto pensiero

a vender fole ai garruli clienti,

dettando a questi supplicanti e quelli

nel rauco foro i queruli libelli.

Ma perché pote in noi natura assai,                           70

la lusinga del genio in me prevalse,

e, la toga deposta, altrui lasciai

parolette smaltir mendaci e false.

Né dubbi testi interpretar curai,

né discordi accordar chiose mi calse,

quella stimando sol perfetta legge

che de’ sensi sfrenati il fren corregge.

Legge omai più non v’ha, laqual per dritto                            71

punisca il fallo o ricompensi il merto.

Sembra quanto è fin qui deciso e scritto

d’opinion confuse abisso incerto.

Dale calunnie il litigante afflitto

somiglia in vasto mar legno inesperto.

Reggono il tutto con affetto ingordo

passion cieca ed interesse sordo.

La rota eletta a terminar le liti                                    72

qual nova d’Ission rota si volve

e con giri perpetui ed infiniti

trattien l’altrui ragion né la risolve.

Pur que’ lunghi intervalli alfin spediti,

spesso il buon si condanna e’l reo s’assolve.

Del’oro, al cui guadagno è il mondo inteso,

la bilancia d’Astrea trabocca al peso.

Tennemi pur assai la patria bella                               73

dentro i confin dele native soglie,

dico Napoli mia, che la sorella

dela sirena tua sepolta accoglie.

Ma perché l’uom nel’età sua novella

è pronto a variar pensieri e voglie,

vago desio mi spinse e mi dispose

a cercar nove terre e nove cose.

Mossemi ancor con falsi allettamenti                         74

la persuasion dela speranza,

ed al sacro splendor degli ostri ardenti

mi trasse pien di giovenil baldanza,

sich’al’altrice dele chiare genti

chiesi mercé di riposata stanza,

credendo Amor vi soggiornasse come

par che prometta il suo fallace nome.

Parte colà de’ più liet’anni io spesi                            75

e de’ colli famosi al’ombra vissi

e sotto stelle nobili e cortesi,

or l’altrui lodi or le mie pene scrissi;

stelle i cui raggi d’alta gloria accesi

vinceano i maggior lumi in cielo affissi,

ma l’influenze lor pertutto sparse

ad ogni altro benigne, a me fur scarse.

Vidi la corte e nela corte io vidi                                76

promesse lunghe e guiderdoni avari,

favori ingiusti e patrocini infidi,

speranze dolci e pentimenti amari,

sorrisi traditor, vezzi omicidi

ed acquisti dubbiosi e danni chiari

e voti vani ed idoli bugiardi,

onde il male è securo e’l ben vien tardi.

Ma come può vero diletto? o come                          77

vera quiete altrui donar la corte?

Le diè la cortesia del proprio nome

solo il principio, il fine ha dala morte.

Io volsi dunque, pria che cangiar chiome,

terra e cielo cangiar, per cangiar sorte.

Ma lung’ora però del loco, in cui

ricovrar mi devessi, in dubbio fui.

Sperai di tanti danni alcun ristoro                               78

trovar là dove ogni valor soggiorna,

nela città che’l nome ebbe dal toro

sicome il fiume suo n’ebbe le corna.

Venni ala Dora che di fertil oro,

come il titol risona, i campi adorna.

Ma’n prigion dolorosa ove mi scorse,

lasso, che’n vece d’or ferro mi porse.

Di quel signor, che generoso e giusto                        79

regna colà del’Alpi ale radici,

non mi dogl’io; così pur sempre augusto

goda, al valor devuti, anni felici.

Sol del destino accuso il torto ingiusto,

e’l finto amor de’ disleali amici,

per la cui sceleragine si vede

là dove nasce il Po morir la fede.

Venne sospinta da livor maligno                                80

ancor quivi l’Invidia a saettarmi,

che sua ragion con scelerato ordigno

difender volse e disputar con l’armi

e rispondendo col fucil sanguigno

e col tuon dele palle al suon de’ carmi,

mosse l’ingiurie a vendicar non gravi

dele penne innocenti i ferri cavi.

M’assalse insidiosa e, com’avante                            81

lingua vibrò di fiele e di veleno,

così poi vomitò foco sonante

per la bocca d’un fulmine terreno.

Con la canna forata e folgorante

tentò ferirmi e lacerarmi il seno,

come la fama mi trafisse e come

mi lacerò con le parole il nome.

Non meritava un lieve scherzo e vano                                   82

d’arguti risi e di faceti versi,

ch’altri devesse armar l’iniqua mano

di sì perfidi artigli e sì perversi

e scoccar contro me colpo villano,

ch’inerme il fianco ala percossa offersi.

Che non fa, che non osa ira e furore

d’animo desperato e traditore?

Pensò forse il fellon, quando m’offese,                                  83

per atto tal di migliorar ventura

e con la voce del ferrato arnese

d’acquistar grido appo l’età futura.

Sperò col lampo che la polve accese

di rischiarar la sua memoria oscura

e, fatto dala rabbia audace e forte,

si volse immortalar con la mia morte.

Girò l’infausta chiave e le sue strane                          84

volgendo intorno e spaventose rote

abbassar fe’ la testa al fiero cane,

che’n bocca tien la formidabil cote,

siché toccò le machine inumane

ond’avampa il balen ch’altrui percote,

e con fragore orribile e rimbombo

aventò contro me globi di piombo.

Ma fusse pur del ciel grazia seconda                         85

ch’innocenza e bontà sovente aita,

o pur virtù di quella sacra fronda

che da folgore mai non è ferita,

fra gli ozi di quest’antro e di quest’onda

fui riservato a più tranquilla vita.

Forse com’amator di sua bell’arte,

campommi Apollo da Vulcano e Marte.

Quindi l’Alpi varcando, il bel paese                          86

giunsi a veder dela contrada franca,

dove i gran gigli d’oro ombra cortese

prestaro un tempo ala mia vita stanca.

La virtù vidi e la beltà francese;

v’abonda onor né cortesia vi manca.

Terren sì d’ogni ben ricco e fecondo

ch’i’ non so dir se sia provincia o mondo.

Ma però che’l furor suole in gran parte                                 87

di que’ petti guerrieri esser tiranno,

e le penne pacifiche e le carte

con aste e spade conversar non sanno,

e tra gli scoppi e i timpani di Marte

i concenti d’Amor voce noti hanno,

questo scoglio romito e questo lido

feci de’ miei pensier refugio e nido.

Qui mi vivo a mestesso e’n quest’arena                                88

che cosa sia felicità comprendo,

e qui purgando la mia rozza vena,

da’ tuoi candidi cigni il canto apprendo,

con cui sfogar del cor la dolce pena

la pescatrice mia m’ode ridendo.

Vena povera certo ed infeconda,

ma schietta e natural com’è quest’onda.

Così vinto il rigor del fier destino,                              89

con cui vera virtù sempre combatte,

di Pausilippo e Nisida e Pioppino

risarcisco le perdite ch’ho fatte.

Il puro stagno e’l bel fonte vicino,

le lor rive fiorite e l’onde intatte

son mia corte e mia reggia; altro non bramo

che l’erba e l’acqua e la cannuccia e l’amo.

Uom ch’anelante a vani acquisti aspira                                  90

e’n cose frali ogni suo studio ha messo,

fa qual turbo o paleo che mentre gira,

la sepoltura fabrica a sestesso

e, dopo molte rote, alfin si mira

aver al moto il precipizio appresso.

Che val tanto sudar, gente inquieta,

s’angusta fossa ale fatiche è meta?

Il meglio è dunque in questa vita breve                                  91

procacciar contro morte alcun riparo,

e poiché’l corpo incenerir pur deve,

rendere almeno il nome eterno e chiaro.

Chi da fortuna rea torto riceve

specchisi in me ch’a disprezzarla imparo.

Sol beato è chi gode in ore liete

tra modesti piacer bella quiete. –

– Virtù non men ch’amor di sé s’appaga                               92

 (dice la dea, ch’intenta il parlar ode)

sicome amor sol con amor si paga,

così virtù sol di virtù si gode.

Altro premio, altro prezzo ed altra paga

non richiede né vuol ch’onore e lode.

Ella è merce e mercé sola a sestessa. –

Così dicendo al bel fonte s’appressa.

Nel’isoletta un picciol pian ritondo                            93

da siepe è cinto di fin oro eletto,

che col metallo prezioso e biondo

difende il praticel che vi fa letto.

E di germi odoriferi fecondo,

d’aromatiche piante havvi un boschetto

che fan con l’ombre lor frondose e spesse

il loco insuperbir di ricca messe.

Un Parnasetto d’immortal verdura                            94

nel centro del pratel fa piazza ombrosa,

in mezzo al cui quadrangolo a misura

la pianta dela fabrica si posa.

Fermansi a contemplar l’alta struttura

la vaga e’l vago insu la sponda erbosa,

e van mirando i peregrini intagli

cui nulla è sotto il sole opra ch’agguagli.

Di terreno scultor scarpelli industri                            95

formar non saprien mai sì bella fonte;

e ben fece molt’anni e molti lustri

ai tre giganti etnei sudar la fronte.

Nove di marmo fin figure illustri

cerchiano un sasso e’l sasso assembra un monte.

E quel monte ha due cime e’nsu le cime

alato corridor la zampa imprime.

Deh! perdoniti il ciel sì grave fallo                             96

per cui men caro il buon licor si tiene,

zoppo fabricator del bel cavallo

che ne venne ad aprir novo Ippocrene.

Bastar ben ti devea che’l suo cristallo

scaturisse Elicona in larghe vene,

senza far di quell’acque elette e rare

l’uso a pochi concesso, omai vulgare.

Quanti da indi in qua del nome indegni                                  97

poeti il chiaro studio han fatto vile?

Quanti con labra immonde audaci ingegni

vanno a contaminar l’onda gentile?

Non si turbi il bel coro e non si sdegni

se venale e plebeo divien lo stile,

poiché del mondo ogni contrada quasi

di Caballini abonda e di Parnasi.

È sì ben finto il zappador destriero,                           98

ch’alo spuntar del giorno in oriente

i corsieri del sol credendol vero

ringhiando gli annitrirono sovente.

Piove dal sasso in un diluvio intero

la piena in pila concava e lucente;

e la pila ch’accoglie in sé la pioggia

dele Muse su gli omeri s’appoggia.

Ha lo stromento suo ciascuna Musa,                         99

ed a ciascun stromento in ogni parte

l’onda canora in cavo piombo chiusa

per molte canne l’anima comparte.

Strangolata gorgoglia, indi diffusa

volge machine e rote ordite ad arte

e, con tenor di melodia mentita,

dela man, dela bocca il suono imita.

Sta sotto l’ombra dela cava pietra,                           100

che sottogiace al volator Pegaso,

il bel signor dela cornuta cetra,

il gran rettor di Pindo e di Parnaso.

In testa il lauro, al fianco ha la faretra

e versa l’acqua in più capace vaso.

L’acqua, che d’alto vien lucida e tersa,

per l’armonico plettro ingiù riversa.

Intorno al labro spazioso e grande                            101

dela conca che copre il re di Delo,

s’intesse il fonte da tutte le bande

di traslucido argento un sottil velo,

e’n tal guisa il suo giro allarga e spande

che vien quasi a formar coppa di gelo,

in guisa tal ch’a chi per ber s’appressa

tazza insieme e bevanda è l’acqua istessa.

Par che quel chiaro velo innargentato,                                   102

che di liquidi stami ordì Natura,

abbia l’Arte tessuto e lavorato

per guardar dala polve onda sì pura;

o sia per asciugar forse filato

l’acqua, che’n sostener quella scultura

le dee del tempo e del’oblio nemiche

stillan, quasi sudor dele fatiche.

Volgon le Muse l’una al’altra opposte                                  103

le spalle al fonte ed alo stagno il viso,

e’n diverse attitudini composte

fanno corona al’armentier d’Anfriso.

In piè levate e’n vago ordin disposte

grondan perle dal crin, brine dal viso,

e scalze e mezzo ignude accolte in cerchio

dela gran conca reggono il coverchio.

Dala conca più alta ala più bassa,                             104

che’n baccino maggior l’acque ricetta,

dele bell’onde il precipizio passa,

laqual pur le riceve e le rigetta.

Nel cerchio inferior cader le lassa,

dove l’acqua divisa a bere alletta.

In quattro fonti piccioli è divisa,

ed ogni fonte ha la sua statua incisa.

Quattro le statue son; la Gloria in una,                                  105

la Fama in altra parte incise stanno;

la Virtù quindi e quinci la Fortuna

vaghi al vago lavor termini fanno;

e’n cima a tre scaglion posta ciascuna,

ch’agiato al’altrui sete adito danno,

l’acqua in vaso minor versa e ripone

o per urna o per tromba o per cannone.

Chi può dir poi sicome scherza e’n quante                            106

guise si varia la volubil vena?

Or per torto sentier serpendo errante

tesse di bei meandri ampia catena,

or con dirotta aspergine saltante

bagna lambendo il ciel l’aura serena;

e poiché quanto può s’inalza e poggia,

sparge l’accolto nembo in lieta pioggia.

Piovuta si ringorga e si nasconde                              107

l’acqua, e’n cupo canal suppressa alquanto,

singhiozza sì che’l mormorio del’onde

sembra di rossignuol gemito e pianto.

Poi per secrete vie sboccando altronde,

esce con forza tal, con furor tanto,

che si disfiocca in argentata spuma

e somiglia a veder candida piuma.

Meraviglia talor, mentre s’estolle,                             108

arco stampa nel ciel simili ad iri.

Trasformasi l’umor liquido e molle:

volto in raggi, in comete, in stelle il miri.

Miri qui sgorgar globi, eruttar bolle,

là girelle rotar con cento giri,

spuntar rampolli e pullular zampilli

e guizzi e spruzzi e pispinelli e spilli.

Nelo spazio, che l’orlo a cerchiar viene                                109

tra cornice e cornice al maggior vase,

havvi un fregio di scudi, ilqual contiene

l’insegne in sé dele più chiare case

e di cigni scherzanti e di sirene

varie trecce ogni scudo ha nella base,

che distendendo van su i bianchi marmi

l1’ali e le code e fan cartiglio al’armi.

Posto è in tal guisa intorno ala bell’opra                                110

l’ordin de l’armi più famose al mondo,

che dele Muse, che stan lor disopra,

reggon l’incarco, compartite in tondo.

Come l’una sostenga e l’altra copra,

son tra lor con bel cambio appoggio e pondo.

Ogni statua uno scudo ha sotto il piede

e in ogni scudo un simbolo si vede.

Per distinguer l’imprese il fabro egregio                                111

del’ornamento nobile e sublime,

mischi di più color ma d’egual pregio

scelse e polì con ingegnose lime.

Talché d’ogni divisa il vario fregio

le differenze in color vario esprime

e con pietre diverse inun commesse

e scultura e pittura accoppia in esse.

– Vedi marmi colà vivi e spiranti                               112

 (disse al suo bell’Adon Venere allora)

son famiglie d’eroi, de’ cui sembianti

Virtù si pregia e Poesia s’onora.

Hanno molto a girar gli anni rotanti

pria ch’abbian vita e non son nati ancora.

Mosso Vulcan da spirito presago,

innanzi tempo n’adombrò l’imago.

Tu dei saver che sotto’l ciel, secondo                                   113

il giro di quel fuso adamantino

che la Necessità rivolge a tondo,

mossa però dal gran Motor divino,

la serie dele cose al basso mondo

muta immutabil sempre alto destino,

e fra queste vicende anco le lingue

l’una nasce di lor, l’altra s’estingue.

La dotta cetra argiva udrassi pria                              114

su’l Cefiso spiegar melati accenti,

e trarre ala dolcissima armonia

del mare oriental sospesi i venti.

Privilegio fatal di questa fia

di sacre cose innebriar le menti,

sollevando ai secreti alti misteri

de’ numi eterni i nobili pensieri.

Moverà non men dolce il Tebro poi                          115

su le corde latine il plettro d’oro,

onde da’ cigni miei ne’ poggi suoi

fia ripiantato il trionfale alloro.

Grave e ben atto a celebrar eroi

sarà del Lazio il pettine canoro,

ed a sonar con bellicosi carmi

di guerrieri e di luci imprese ed armi.

Succederà la tosca lira a queste,                               116

di queste assai più dilicata e pura,

che di tutti gli onor s’adorna e veste

onde l’altre arricchiro Arte e Natura.

Intenerito dal cantar celeste

l’Arno al corso porrà freno e misura

e, da’ versi allettato e trattenuto,

porterà tardo al mare il suo tributo.

Questa, con vaghi metri e dolci note                         117

e con numeri molli accolti in rima,

fia che per propria e singolar sua dote

meglio ch’altra non fa gli amori esprima.

Or ale tosche Muse, ancorché ignote,

fu il nobil fonte dedicato in prima;

né certo edificar si devean cose

nel paese d’Amor fuorch’amorose.

Ma perch’è ver che dele Muse afflitte                                   118

sono Invidia e Fortuna emule antiche,

uopo d’alte difese e d’armi invitte

avran contro sì perfide nemiche.

Le case dunque che qui son descritte

sosterran l’onorate altrui fatiche,

e questi fien tra’ principi più degni

che daran fida aita ai sacri ingegni.

Beato mondo allor, mondo beato,                            119

cui tanta amico ciel gloria destina,

beatissima Italia a cui fia dato

per costor risarcir l’alta ruina

e tornar trionfante al primo stato

dele provincie universal reina. –

Sì dice e dela schiera ivi scolpita

le generose imagini gli addita.

– Ferma (dicea) la vista in quella parte                                  120

dove il bianco corsier su’l rosso splende.

Questo, seben feroce il fiero Marte

ama, e foco guerrier nel petto accende,

talor d’Apollo a vie più placid’arte

inerme ancora e mansueto intende,

ond’aprendo la vena a novi fonti

fia che novo Pegaso il ciel sormonti.

Sappi che fra que’ mostri onde s’adorna                              121

del sommo ciel la lucida testura,

oltre il Pegaso altro destrier soggiorna

adombrato però di luce oscura.

Pur di segno minor, maggior ritorna

sol per esser di questo ombra e figura;

e le sue fosche e tenebrose stelle

tempo verrà che saran chiare e belle.

Né speri alcun giamai con sprone o verga                             122

domarlo a forza o maneggiarlo in corso,

con dura sella premergli le terga

o con tenace fren stringergli il morso.

Spirito in lui sì generoso alberga

ch’intolerante ha di vil soma il dorso.

Chi crede averlo o soggiogato o vinto

con fatal precipizio a terra è spinto.

Pur deposto talor l’impeto audace                            123

ch’avrà di sangue ostil versati rivi,

chiuderà Giano ed aprirà la Pace

ed ai cipressi innesterà gli olivi.

Germoglieran dal cenere che giace

de’ cadaveri morti i lauri vivi

e diverran sol per lodarlo allora

l’Alpi Parnaso e Caballin la Dora.

Dal chiaro armento di Sassonia uscito                                   124

carco n’andrà di scettri e di diademi;

né pur la bella Italia al fier nitrito,

ma fia che l’Asia sbigottisca e tremi.

Poi di spoglie e trofei tutto arricchito

verrà dela mia Cipro ai lidi estremi.

Ma che? fiero destin, perfido trace... –

E qui scioglie un sospiro e pensa e tace.

– Tu vedi (segue poi) l’aquila bianca                         125

che divide del’aria i campi immensi

e le nubi trascende e lieve e franca

su i propri vanni in maestà sostiensi.

Quella in opre d’onor giamai non stanca

l’insegna fia de’ gloriosi Estensi,

il cui volo magnanimo e reale

per vie dritte e sublimi aprirà l’ale.

Non tanto le verrà la bella insegna                            126

per la divina origine d’Ettorre,

quanto perché con lei fia che convegna

l’inclita augella che viltate aborre.

Quella però ch’ogni bassezza sdegna

assai presso ale sfere il ciel trascorre;

questa dal vulgo allontanando i passi

non fia ch’a vil pensier l’animo abbassi.

Quella, la spoglia del’antiche piume                          127

dentro puro ruscel ringiovenita,

di rinovar sestessa ha per costume

a molti e molti secoli di vita;

questa purgata entro’l Castalio fiume,

quasi fenice del bel rogo uscita,

verrà lire del tempo a curar poco,

fatta immortal dal’acque e non dal foco.

E come quella ognor con guardo fiso                        128

avezzar ala luce i figli suole,

in quel modo ch’a’ rai del tuo bel viso

anch’io sempre mi volgo, o mio bel sole,

così da questa con accorto aviso

imparerà la generosa prole,

di Febo amica ed a’ suoi raggi intesa,

di celeste splendor mostrarsi accesa.

Ben s’agguaglian tra lor, senon che quella                             129

i cigni d’oltraggiar prende diletto,

ma da questa ch’io dico aquila bella

avran gli augei canori esca e ricetto.

E s’altr’aquila in ciel conversa in stella

d’una cetera sola adorna il petto,

questa n’avrà fra l’altre in terra due

possenti ad eternar le glorie sue.

Vedi quell’altre poi quattro seguenti,                         130

emule dela prima, aquile nere,

per accennar ch’a tutti quattro i venti

hanno il volo a spiegar del’ali altere.

A semplici colombe ed innocenti

non saran queste ingiuriose e fiere,

ma spirti avran di guerreggiar sol vaghi

con nibbi ed avoltoi, vipere e draghi.

Rapì cangiato in queste forme istesse                        131

il mio gran genitor vago garzone,

benché, cred’io, se te veduto avesse,

preposto avrebbe a Ganimede Adone.

Ma se costume è naturale in esse

satollar di rapine il curvo unghione,

queste, pronte a donar, non a rapire,

sol di prede di cori avran desire.

Predice a queste l’indovina Manto                            132

il favor tutto del’aonie dive;

per queste il Mincio con eterno vanto

popolate di cigni avrà le rive,

mormorando concorde al nobil canto

de’ suoi Gonzaghi le memorie vive,

che vivran sempre in più d’un stil facondo

e non morran finché non more il mondo.

Sotto l’ali di queste il maggior cigno                          133

che darà vita al mio Troian pietoso,

da mollir, da spezzar duro macigno

formerà canto in ogni età famoso.

E già da queste ancor destro e benigno

giunto in Italia a procacciar riposo,

ebbe lo stesso Enea presagio e segno

di felice vittoria e lieto regno.

Mira quel tronco, a cui di fronde aurate                                134

fanno pomposo il crin germi felici.

È la quercia d’Urbin, che’n altra etate

tali e tante aprirà rami e radici,

che, poich’avrà di spoglie assai pregiate

arricchiti di Roma i colli aprici,

in riva porterà del bel Metauro

con suoi frutti lucenti un secol d’auro.

Questa più ch’altra pianta irrigar l’onde                                135

denno del fecondissimo Elicona.

Di questa Apollo ale sue chiome bionde

di lauro in vece intesserà corona.

Al mormorio dele soavi fronde

il suono invidiar potrà Dodona.

Avranno al’ombra sua tranquillo e fido

i miei candidi augei ricovro e nido.

La bella scorza, che seccar non pote                        136

ardor d’estate né rigor di verno,

porterà al ciel con mille incise note

de’ suoi chiari cultori il nome eterno.

Il ceppo altier, che fulmine non scote,

prendendo d’aquilon l’ingiurie a scherno,

sempre maggiore acquisterà fermezza,

come fa nel mio cor la tua bellezza.

Or colà volgi gli occhi ai sei giacinti,                          137

nel cui lieto ceruleo apunto miri

quell’azzurro sereno onde son tinti

dele tue luci i lucidi zaffiri.

Sì chiaro è quel color che gli ha dipinti,

che s’egli avien che’n essi il guardo giri,

non sa il pensier, che dubbio alterna ed erra,

dir se sien gigli in cielo o stelle in terra.

Gigli celesti e fortunati, o quale                                 138

seme d’alte speranze in voi s’accoglie.

Qual d’odori di gloria aura immortale

trarrà la Fama dale vostre foglie.

E quant’api da voi porteran l’ale

ricche di ricche e preziose spoglie,

onde illustre lavor fia poi costrutto

ch’empierà di dolcezza il mondo tutto.

Voi piantati e nutriti in que’ begli orti                         139

dove non son da bruma i fiori offesi,

darete per sottrarle agli altrui torti

ale sante sorelle ombre cortesi.

Per voi non men magnanimi che forti

cresceran tanto in pregio i gran Farnesi

ch’a qual fiume più celebre e più chiaro

la palma usurperan la Parma e’l Taro.

Quella colonna, il cui candor lucente                         140

del tuo seno assomiglia il bel candore,

sostegno fia dela virtù cadente,

stabil come la fede è nel mio core.

E se tra le colonne in occidente

la gran lampa del sol tramonta e more,

da questa, invitta e salda ad ogni crollo,

rinascerà con la sua luce Apollo.

Quante volte quand’io, folle ch’io m’era,                              141

di Gradivo l’amor gradir solia,

«questa, diceami, la mia reggia altera,

questa de’ miei trionfi il trono fia.

Cesari e Mecenati in lunga schiera

per lei rinoverà la città mia,

né figli mai tra’ suoi famosi e chiari

la gran lupa latina avrà più cari».

L’altro scudo vicin, che per traverso                         142

di tre strisce vermiglie il bianco inostra,

e di rose purpuree il campo terso,

simile al volto tuo, fregiato mostra,

di stirpe fia, splendor del’universo,

pompa del Tebro e meraviglia nostra,

a cui, come a miglior fra le migliori,

ben converrassi il fior degli altri fiori.

Fior che del sangue mio superbo vai,                        143

fior, pupilla d’Amor, tesor di maggio,

tu de’ prati di Pindo onor sarai,

né dei d’ombra o di sol temere oltraggio.

Quella ch’onora il ciel romano e mai

non tuffa in torbid’onda il chiaro raggio,

de’ fregi tuoi, non più di stelle inteste

porterà le ghirlande, orsa celeste.

Ecco del gran tonante, ecco poi nero                                    144

un altro egregio imperiale augello.

Del Doria, a cui di Dori il salso impero

destinato è dal ciel, lo scudo è quello.

Fido ministro del gran Giove ibero

arderà, ferirà lo stuol rubello,

sicome tu con tuoi pungenti sguardi

i ritrosi d’Amor ferisci ed ardi.

Non ha questo a vibrar del cielo in terra                               145

il tripartito folgore vermiglio,

ma del’altro infernal, che’n nova guerra

fia temprato di bronzo, armar l’artiglio.

Quanto il lembo del mar circonda e serra

tremerà tutto e correrà periglio.

Solo il verde arboscel, nonché ferito,

fia difeso da questo e custodito.

Dela progenie, ch’io ti conto e mostro,                                 146

aquila peregrina alzerà’l volo

che’mporporata del più lucid’ostro

le brune penne, andrà da polo a polo.

Progenie degna di famoso inchiostro,

del mondo onor, non di Liguria solo,

degna più ch’altra assai del favor mio,

che darà legge al mar dove nacqu’io.

Ma deh! pon mente ale purpuree palle,                                 147

di que’ Medici illustri arme sovrana,

per cui, se’l chiaro antiveder non falle,

le piaghe antiche ha da saldar Toscana.

Da fortuna battute, al ciel faralle

balzar virtù sovr’ogni gloria umana.

Con esse al giogo del’instabil sorte

vinceranno i lor duci invidia e morte.

Palle d’alto valor fulminatrici                         148

onde tempesta uscir deve sì fatta,

che de’ rubelli esserciti nemici

fia ch’ogni forza, ogni riparo abbatta,

per cui non sol de’ barbari infelici

la superbia cadrà rotta e disfatta,

ma delo scoppio il gran rimbombo solo

tutto de’ vizi atterrirà lo stuolo.

Sono i bei globi simili ai celesti                                  149

e simulacri dele sfere eterne

e ben pari e conforme in quelle e’n questi,

tranne sol uno, il numero si scerne,

a dinotar ch’agli onorati gesti

tutte quante n’ha il ciel rote superne

volgeranno propizie amico lume,

solo escluso Saturno, infausto nume.

Fiorir l’arti più belle e rischiararsi                              150

allor d’Arno vedrem le torbid’acque,

e risorger la luce e rinfrancarsi

del’italico onor ch’estinta giacque,

e molti ingegni a nobil volo alzarsi

su l’ali di colui che da me nacque,

e con chiari concenti addolcir l’aura

dietro ai cantor di Beatrice e Laura. –

E qui rapita ai secoli lontani                           151

la bella Citerea la mente aperse,

onde l’istoria de’ successi umani

quasi in teatro al suo pensier s’offerse

e ne’ più cupi e più profondi arcani

del’età da venir tutta s’immerse.

– O qual (dicea) vegg’io, correndo i lustri,

nascer di ceppo tal germogli illustri.

Io veggio quinci dopo molto e molto                         152

volger di ciel, girar di mesi e d’anni,

del secol tristo in tenebre sepolto

spuntare un sole a ristorare i danni,

sol ch’avrà sol di donna il sesso e’l volto,

ma’l cor sempre viril tra i regi affanni.

Ogni nobil virtù sol da costei

verrà che nasca o sorgerà per lei.

Non fia mai che di questa un più bel manto                           153

alma copra più saggia o più pudica.

Ma dele lodi sue basti sol tanto,

uopo non è ch’io più di ciò ti dica,

che qual proprio ella siasi e come e quanto

vinca di pregio ogni memoria antica,

in parte ov’io condur ti voglio in breve,

esserne l’occhio tuo giudice deve. –

Così gli dice ed ala bella il bello                                154

le parole interrompe in tal maniera:

– Deh! dimmi, o fida mia, che scudo è quello

loqual posto non è con gli altri in schiera

ma nela base sta che fa scabello

al gran motor dela più chiara sfera?

In quell’azzur ch’al ciel par si somigli

che voglion dir que’ tre dorati gigli? –

– Dela casa di Francia è la divisa                              155

e tal loco a ragion Vulcan le diede,

però ch’apunto a quella istessa guisa

fia di Febo (risponde) albergo e sede.

E sicome dal numero divisa

starsi sola in disparte ivi si vede,

così d’ogni valor ricca e possente

sen’andrà singolar dal’altra gente.

Ragion è ben che del’Italia aggiunga                          156

questa sola straniera onore ai fregi,

ch’altra giamai, cui virtù scaldi e punga,

non fra ch’i cigni suoi cotanto appregi.

Troppo fora a contar la serie lunga

che n’uscirà de’ gloriosi regi,

e senz’annoverar sì folto stuolo

basta per tutti ad illustrarla un solo.

Come tutte nel cor raccolte sono                              157

del’altre membra le virtuti insieme,

così tutta il signor di cui ragiono

raccorrà in sé de’ suoi l’unica speme.

Né men materia a qual più chiaro suono

darà da celebrar sue glorie estreme,

che premio a’ bei sudor, che i sacri monti

stillar vedran dale più dotte fonti.

Con man tenera ancor, legata e stretta                                  158

terrà Fortuna mobile e vagante,

siché resa a Virtù serva e soggetta

faralla a suo favor tornar costante.

E’l veglio alato, che con tanta fretta

fugge e fuggendo rompe anco il diamante,

perché gli onori suoi non sene porti,

con groppi stringerà tenaci e forti.

Oltre il buon zelo e la giustizia, a cui                          159

dritto è che Gallia ogni speranza appoggi,

fia che tra’ gigli d’or sol per costui

dele Muse toscane il coro alloggi.

Il Tago e’l Gange irrigheran per lui

in vece del Castalio i sacri poggi,

onde per fecondar l’arido alloro

l’acque, ch’or son d’argento, allor fien d’oro.

Nasci nasci o Luigi, amica stella                                160

quant’onor, quanto pregio a te promette.

Vibri pur quanto sa cruda e rubella

l’altrui perfidia in te lance e saette.

Taccio l’altre tue glorie, e passo a quella,

che le Muse da te non fian neglette.

De’ dolci studi e dela sacra schiera

te rettore e tutore il mondo spera.

Cresci cresci o Luigi, inclita prole                             161

d’alme eccelse e reali e giuste e pie.

Il tuo gran nome ove l’altrui non suole

si spargerà per disusate vie;

e dove sorge e dove cade il sole,

e dove nasce e dove more il die

la Fama il porterà leggiera e scarca

e romperà le forbici ala Parca.

Tra molte e molte cetre, onde rimbomba                              162

de’ tuoi vanti immortali il chiaro grido,

dal Sebeto traslata odo una tromba

dela tua Senna al fortunato lido.

Questa trar ti potrà d’oscura tomba

e darti infra le stelle eterno nido,

ch’empiendo il ciel d’infaticabil suono

sarà lira al concento e squilla al tuono.

E seben chi la suona e chi la tocca                            163

sosterrà di fortuna oltraggi e scherni,

quando l’invidia altrui maligna e sciocca

fia che’n lui sparga i suoi veleni interni,

mentr’avrà spirto in petto e fiato in bocca

non però cesserà che non t’eterni,

di te narrando meraviglie tante

che ne suoni Parnaso e tremi Atlante. –

Allor Venere tace e dove folta                                  164

stendon la verde chioma allori e faggi

mille intorno al bel fonte e mille ascolta

poeti alati e musici selvaggi,

che con rime amorose a volta a volta

e con infaticabili passaggi

intrecciando sen van per la verdura

di lasciva armonia dolce mistura.

Il vago stuol de’ litiganti augelli                                  165

per riportar de’ primi onori il fasto

innanzi a Citerea tra gli arboscelli

cominciò gareggiando alto contrasto

e concenti formò sì novi e belli

ch’a pareggiargli io col mio stil non basto.

Giurò Venere istessa in ciel avezza

che le sfere non han tanta dolcezza.

O perch’assai piacesse a questa diva                                    166

il canto che’nsu’l fine è più sollenne,

o perché monda e di sozzure schiva

amasse il bel candor di quelle penne,

gregge di bianchi cigni ella nutriva

nel’isoletta ove quel giorno venne,

ch’ambiziosi allor dele sue lodi

a cantar si sfidaro in mille modi.

Infiniti da strani ermi confini                           167

guerrier facondi e musici campioni

e domestici aprova e peregrini

vi concorsero insieme a far tenzoni.

Tra’ frondosi s’udir mirti vicini

vibrar accenti e saettar canzoni,

e dela pugna lor che fu concento,

fu steccato la selva e tromba il vento.

Vari di voce e nelo stil diversi,                                  168

tutti però delpar leggiadri e vaghi

e tutti ala gentil coppia conversi,

cantan com’Amor arda e come impiaghi.

Cantan molti il futuro e forman versi

del’opre altrui fatidici e presaghi,

che quel ch’ivi si bee furor divino

sveglia ne’ petti lor spirto indovino.

– Stiamo ad udir (la dea di Pafo disse)                                 169

degli alati cantor le dolci gare.

Tener l’orecchie attentamente affisse

si denno a quell’insolito cantare,

perché sì belle ed onorate risse

saranno in altra età famose e chiare.

Gli augelli autor di sì soavi canti

son di sacri poeti ombre volanti.

L’anime di costor, poiché disciolte                            170

son da’ legami del corporeo velo,

passano in cigni, e che’n tal forma involte

vivan poi sempre ha stabilito il cielo.

E tra questi mirteti in pace accolte

le fa beate il gran rettor di Delo,

là dove ognor, sicome fer già quando

tenner corpo mortal, vivon cantando.

Molte ven’ha ch’ancor rinchiuse e strette                              171

non son tra’ sensi, e queste pur son tali

a cantar qui per mia delizia elette

finché’n carcer terreno implichin l’ali. –

Adone il canto ad ascoltar si stette

di que’ felici spiriti immortali,

che già venian con voci in vece d’armi

nel verde agone al paragon de’ carmi.

Fu benigno favor, grazia cortese                               172

di lei ch’è de’ suoi lumi unico sole,

e miracol del ciel ch’Adone intese

di quel linguaggio i sensi e le parole

e ben distinto ogni concetto apprese

espresso fuor dele canore gole.

Nela scola d’Amor che non s’apprende,

se’l parlar degli augelli anco s’intende?

Era tra questi augei l’ombra d’Orfeo,                                   173

che fè dei versi suoi seguace il bosco,

Pindaro v’era ed eravi Museo,

e Teocrito v’era e v’era Mosco.

Eravi Anacreonte, eravi Alceo

e Safo, alto splendor del secol fosco,

che non portò di quanti io qui ne scrivo

luce minore al’idioma argivo.

V’era lo stuol di que’ Latini primi                              174

che’n amoroso stil meglio cantaro:

Gallo, Orazio, Catullo, alme sublimi,

Tibullo, Accio, Properzio e Tucca e Varo

ed Ovidio di cui non è chi stimi

ch’altro cigno d’Amor volasse al paro.

V’era la schiera poi de’ più moderni

del’italica lingua onori eterni.

E seben gli altri che le bianche piume                        175

per le piagge spiegar di Roma e d’Argo

fur lor maestri, ond’ebber spirto e lume,

mercé ch’a quelli il ciel ne fu più largo,

questi, però che di Parnaso il nume

gli ha destinati a posseder quel margo,

cantano soli ala gran dea presenti,

tacciono gli altri ad ascoltare intenti.

Aristofane, tu ch’ornasti tanto                                   176

là ne’ greci teatri il socco d’oro,

tu, che d’interpretar ti desti vanto

il ragionar del popolo canoro,

e’n scena il novo inesplicabil canto

spiegar sapesti e le favelle loro,

tanta or dal biondo dio mercé m’impetra,

che distinguerlo insegni ala mia cetra.

Un vene fu, che sovra un verde lauro                                   177

fece col suo cantar l’aura immortale,

ed illustrò dal Battriano al Mauro

quel foco che d’Apollo il fè rivale,

dicendo pur ch’ale quadrella d’auro

cede la forza del fulmineo strale,

poiché nel’arbor sacra al ciel diletta,

dove Giove non pote, Amor saetta.

Altro, il cui volo pareggiar non lice,                           178

ben su l’ali liggier, tre mondi canta,

e la beltà beata e Beatrice

che da terra il rapisce essalta e vanta.

Un suo vicin con stil non men felice

seco s’accorda in una istessa pianta,

perché Certaldo ammiri e’l mondo scerna

la sua fiamma e la fama a un punto eterna.

Havvi poi d’Adria ancor canoro mostro,                              179

purpureo cigno e nobile e gentile,

che la lingua ha di latte e’l manto d’ostro,

rossa la piuma e candido lo stile.

Apre non lunge augel d’Etruria il rostro,

salvo il capo ch’è verde, a lui simile,

appellando il suo amor su’l verde stelo

scoglio in mar, selce in terra, angelo in cielo.

Accompagna costor soavemente                              180

il sonator dela sincera avena,

che le Muse calar fece sovente

di Mergellina ala nativa arena.

Le cui dolci seguir note si sente

anco un altro figliuol dela sirena

che con qual arte i rami a spogliar vegna

lo sfrondator dela vendemmia insegna.

Donne insieme ed eroi, guerre ed amori                                181

quel che nacque insu’l Po’ cantar s’udia,

immortalando di Ruggier gli onori

con pura vena e semplice armonia;

e di dolcezza innebriava i cori,

i circostanti tronchi inteneria.

Arder facea d’amor le pietre e l’onde,

sospirar l’aure e lagrimar le fronde.

Testor di rime eccelse e numerose                            182

di Partenope un figlio a lui successe,

e prese a celebrar l’armi pietose,

liberatrici dele mura oppresse

e i suoi pensier sì vivamente espose,

i versi suoi sì nobilmente espresse,

che fe’ del nome di Goffredo e Guelfo

sonar Cipro non sol, ma Delo e Delfo.

Né tu con voce men gradita e cara                           183

favoleggiando il canto tuo sciogliesti,

dico a te, che di gloria oggi sì chiara

il tuo fido pastore adorni e vesti.

Seguir voleano, e dela nobil gara

dubbia ancor la vittoria era tra questi,

quand’ecco fuor d’un cavernoso tufo

sbucar difforme e rabbuffato un gufo.

– O quanto o quanto meglio, infame augello,                         184

ritorneresti al infelici grotte,

nunzio d’infausti auguri, al sol rubello,

e del’ombre compagno e dela notte.

Non disturbar l’angelico drappello,

vanne tra cave piante e mura rotte

a celar quella tua fronte cornuta,

quegli occhi biechi e quella barba irsuta.

Da qual profonda e tenebrosa buca,                         185

nottula temeraria, al giorno uscisti?

Torna là dove sol mai non riluca

tra foschi orrori e lagrimosi e tristi.

Tu trionfi cantar d’invitto duca?

tu di mondi novelli eccelsi acquisti?

tu, del’Invidia rea figlio maligno,

di pipistrel vuoi trasformarti in cigno? –

Così parla al’augel malvagio e brutto                        186

la dea, sdegnando un stil sì rauco udire,

e i chiari onor del domator del flutto,

dov’ella ebbe il natal, tanto avilire.

Spiace de’ cigni al concistoro tutto

la villana sciocchezza e’l folle ardire,

che l’alte lodi ad abbassar si metta

del colombo a lei sacro una civetta.

Mentre a garrir s’appresta, acconcio in atto                          187

che dela nobil turba il gioco accresce,

e scote l’ali e in un medesmo tratto

gli urli tra’ canti ambizioso ei mesce,

loquacissima pica il contrafatto

uccellato uccellone a sfidar esce,

e con strilli importuni in rozzi carmi

dassi anch’ella a gracchiar d’amori e d’armi.

Ma che? non prima a balbettar si mise                                  188

quel suo, canto non già, strepito e strido,

ch’alto levossi in mille e mille guise

infra i volanti ascoltatori un grido,

ed empiè sì, che Citerea ne rise,

quasi di festa popolare il lido.

Tacque alfine e fuggi non senza rischio,

del vulgo degli augei favola e fischio.

– Non è gran fatto che l’audacia stolta                                  189

di questa gazza che sì mal borbotta,

l’adunanza gentil ch’è qui raccolta

 (disse Venere bella) abbia interrotta.

Già volse in altra forma un’altra volta

con la schiera pugnar famosa e dotta,

ma con l’altre Pieridi confuse,

vergogna accrebbe a sé, gloria ale Muse. –

Amor che vede di quel canto lieto                             190

la madre intesa ala piacevol guerra,

volando intanto ove’l vicin mirteto

insidiosa chiave asconde e serra,

volge anelletto picciolo e secreto

e con gagliardo piè batte la terra;

ed ecco d’acqua un repentino velo

che fa pelago al suolo e nube al cielo.

Apena il piede il pavimento tocca                             191

e l’ordigno volubile si move,

che’l fonte traditor subito scocca

saette d’acqua inaspettate e nove,

e prorompe in più scherzi e mentre fiocca

tempesta par, quand’è sereno e piove.

Spicciano l’onde ed aventate in alto

movono a chi nol sa furtivo assalto.

Come qualora a Roma il sesto giorno                                   192

del suo sommo pastor riporta l’anno,

le fusette volanti a mille intorno

col fermamento a gareggiar sen vanno,

ma ne riedon poi vinte, e nel ritorno

lucido precipizio a terra fanno,

e fanno le cadenti auree fiammelle

un diluvio di folgori e di stelle;

così’l bel fonte in più fonti si sparse,                          193

senon quanto diverso è l’elemento.

Questo gioco bagnò, quel talor arse,

e l’una pioggia è d’or, l’altra d’argento.

Alcun non sa di lor come guardarse

da quel furor ch’assale a tradimento.

Altrui persegue e quanto più lo schiva,

dov’uom crede salvarsi ivi l’arriva.

Ahi crudo Amor, versar fontane e fiumi                                194

arte non è che tu pur ora impari,

avezzo già per soliti costumi

le tue fiamme a spruzzar d’umori amari.

E non ti basta ognor da’ nostri lumi

lagrimosi stillar ruscelli e mari,

ma spesso vuoi che gl’infelici amanti

spargano il sangue ove son scarsi i pianti.

Fugge la dea di mille rivi e mille                                 195

bagnata il sen col suo bel foco in braccio.

– E queste (dice a lui) gelide stille,

che m’han tutta di fuor sparsa di ghiaccio,

tosto rasciugherò con le faville

di que’ sospiri ond’io per te mi sfaccio. –

Va poi seco in disparte e così, lassa,

in penoso piacer l’ore trapassa.

Già tramontar volea la maggior stella                         196

e del giorno avanzava ancora poco,

quando col bell’Adon Venere bella

partì da quel delizioso loco.

– Doman, dolce mio ben (gli soggiuns’ella)

ai primi lampi del diurno foco

ne verrai meco a visitare insieme

de’ regni miei le meraviglie estreme.

E’l mio carro immortal vo’ che ti porti                                  197

su i sereni del ciel campi lucenti,

a più vaghi giardini, a più begli orti,

dove in vece di fiori ha stelle ardenti.

Magion d’incorrottibili diporti,

patria beata dele liete genti,

non deve a te mia gloria essere ascosa

che degna è ben del ciel celeste cosa.

Quivi data per me ti fia licenza                                  198

di contemplar con mortal’occhi impuri

quante d’alta beltà somma eccellenza

donne avran mai ne’ secoli futuri.

Benché m’ingombri il cor qualche temenza

e vo’ che la tua fè men’assecuri,

non alcuna di lor, mentre la miri,

a me ti tolga ed al suo amor ti tiri. –

Seben la dea d’amor così dicea,                               199

non n’era la cagion solo il diletto,

ma perché desviarlo indi volea,

non senza aver di Marte alto sospetto,

sapendo ben, che la sua stella rea

il risguardava con maligno aspetto,

e temea non le fusse al’improviso

dentro le braccia un dì colto ed ucciso.

Sorgea la notte intanto e l’ombre nere                                  200

portava intorno e i pigri sogni in seno.

Del’immortali sue lucenti fere

tutto il campo celeste era già pieno

e di quelle stellanti e vaghe schiere

per le piagge del ciel puro e sereno

la cacciatrice dea che fugge il giorno

l’orme seguia con argentato corno.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

IntraText® (V89) Copyright 1996-2007 EuloTech SRL