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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 10

Le MARAVIGLIE. Che Adone sotto la condotta di Mercurio e di Venere saglia in cielo, ci disegna che con la favorevole costellazione di questi due pianeti può l’intelletto umano sollevarsi alle più alte specolazioni eziandio delle cose celesti. La grotta della Natura, posta nel cielo della luna, con tutte l’altre circostanze, allude all’antica opinione che stimava in quel cerchio ritrovarsi l’idee di tutte le cose; ed essendo ella così prossima al mondo elementare, madre della umidità e concorrente insieme col sole alla generazione, meritamente le si attribuisce la giuridizione sopra le cose naturali. L’isola de’ sogni, che nel medesimo luogo si finge, esprime il dominio e la forza che ha quel pianeta sopra l’ombre notturne e sopra il cerebro umano. La casa dell’Arte, situata nella sfera di Mercurio, lo studio delle varie scienze, la biblioteca de’ libri segnalati, l’officina de’ primi inventori delle cose, il mappamondo, dove si scorgono tutti gli accidenti dell’universo ed in particolare le moderne guerre della Francia e della Italia, sono per darci ad intendere la qualità di quella stella, potentissima, quando è ben disposta, ad inclinare gli uomini alla virtù e ad operare effetti mirabili in coloro che sotto le nascono.

 

Canto 10, argomento

Di sfera in sfera colassù salita

Venere con Adone in ciel sen viene,

a cui Mercurio poi quanto contiene

il maggior mondo in picciol mondo addita.

 

Canto 10

Musa, tu che dal ciel per torti calli                             1

infaticabilmente il corso roti

e, mentre de’ volubili cristalli

qual veloce e qual pigro accordi i moti,

con armonico piede in lieti balli

del’Olimpo stellante il suol percoti,

onde di quel concento il suon si forma

ch’è del nostro cantar misura e norma,

tu, divina virtù, mente immortale,                               2

scorgi l’audace ingegno, Urania saggia,

ch’oltre i propri confin si leva e sale

a spaziar per la celeste piaggia.

Aura di tuo favor mi regga l’ale

per sì alto sentier, sich’io non caggia;

movi la penna mia, tu che’l ciel movi

e detta a novo stil concetti novi.

Tifi primier per l’acque alzò l’antenne,                                  3

con la cetra sotterra Orfeo discese,

spiegò per l’aure Dedalo le penne,

Prometeo al cerchio ardente il volo stese.

Ben conforme al’ardir la pena venne

per così stolte e temerarie imprese;

ma più troppo ha di rischio e di spavento

la strada inaccessibile ch’io tento.

Tento insolite vie dal nostro senso                             4

e dal nostro intelletto assai lontane,

onde, qualor di sollevarvi io penso

o di questo o di quel le voglie insane,

quasi debil potenzia a lume immenso

ch’abbaccinata in cecità rimane,

l’uno abbagliato e l’altro infermo e zoppo

si stanca al sommo e si confonde al troppo.

E se pur che nol vinca e nol soverchi                         5

l’infinito splendor talvolta aviene

e che’l pensier vi poggi e che ricerchi

del non trito camin le vie serene,

imaginando que’ superni cerchi

non sa senon trovar forme terrene.

So ben che senza te toccar si vieta

a sì tardo cursor sì eccelsa meta.

Tu, che di Beatrice il dotto amante                            6

già rapisti lassù di scanno in scanno

e’l felice scrittor, che d’Agramante

immortalò l’alta ruina e’l danno,

guidasti sì che su’l destrier volante

seppe condurvi il paladin brittanno,

passar per grazia or anco a me concedi

del tuo gran tempio ale secrete sedi.

Già per gli ampi del ciel spazi sereni                          7

dinanzi al sol lucifero fuggiva

e quei scotendo i suoi gemmati freni

l’uscio purpureo al novo giorno apriva;

fendean le nebbie a guisa di baleni

anelando i destrier di fiamma viva

e vedeansi pian pian nel venir loro

ceder l’ombre notturne ai frati d’oro.

Dale stalle di Cipro, ove si pasce                              8

gran famiglia d’augei semplici e molli,

sei ne scelse in tre coppie e in auree fasce

al timon del bel carro Amor legolli.

Torcer lor vedi incontr’al dì che nasce

le vezzose cervici e i vaghi colli

e le smaltate e colorite gole

tutte abbellirsi e variarsi al sole.

Vengon gemendo e con giocondi passi                                 9

movon citati al bel viaggio il piede,

al bel viaggio ov’apprestando vassi

Venere con colui che’l cor le diede;

al governo del fren Mercurio stassi

e del corso sublime arbitro siede;

sovra la principal poppa lunata

posa la bella coppia innamorata.

Sciolser d’un lancio le colombe a volo,                                 10

legate al giogo d’or, l’ali d’argento;

s’apriro i cieli e serenossi il polo,

sparver le nubi ed acquetossi il vento;

di canori augelletti un lungo stuolo

le secondò con musico concento

e sparser mille passere lascive

di garriti d’amor voci festive.

Quelle innocenti e candide angelette                          11

da’ cui rostri s’apprende amore e pace

non temon già, d’Amor ministre elette,

lo smerlo ingordo o’l peregrin rapace;

con lor l’aquila scherza, altre saette

nel cor che nel’artiglio aver le piace;

i più fieri dintorno augei grifagni

son di nemici lor fatti compagni.

Precorre e segue il carro ampia falange,                                12

parte il circonda, di valletti arcieri;

ed altri a consolar l’Alba che piange

col venir dela dea, volan leggieri;

altri al sol, che rotando esce di Gange,

perché sgombri la via van messaggieri;

ciascuno il primo ale fugaci stelle

procura annunziar l’alte novelle.

- O tu che’n novo e disusato modo                           13

saggia scorta mi guidi a quel gran regno

 (disse a Mercurio Adone) ove non odo

ch’altri di pervenir fusse mai degno,

pria ch’io giunga lassù, solvimi un nodo

che forte implica il mio dubbioso ingegno:

è fors’egli corporeo ancora il cielo,

poiché può ricettar corporeo velo?

Se corpo ha il ciel, dunque materia tiene;                              14

s’egli è material, dunque è composto;

se composto me’l dai, ne segue bene

ch’è de’ contrari ale discordie esposto;

se soggiace a’ contrari, ancor conviene

ch’ala corrozzion sia sottoposto;

e pur, del ciel parlando, udito ho sempre

ch’egli abbia incorrottibili le tempre. –

Tace e’n tal suono ai detti apre la via                        15

il dotto timonier del carro aurato:

- Negar non vo’ che corpo il ciel non sia

di palpabil materia edificato,

ché far col moto suo quell’armonia

non potrebbe ch’ei fa mentr’è girato;

è tutto corporal ciò che si move

e ciò ch’ha il quale e’l quanto, il donde e’l dove.

Ma sappi che non sempre è da natura                                  16

la materia a tal fin temprata e mista

perch’abbia a generar cotal mistura

quelche perde mutando in quelch’acquista,

ma perché quantità prenda e figura

e del corpo ala forma ella sussista,

né di material quanto è prodotto

dee necessariamente esser corrotto.

Materia dar questa materia suole                              17

al discorso mortal, che sovent’erra:

chi fabricata la celeste mole

di foco e fumo tien, chi d’acqua e terra;

s’arrivassero al ver sì fatte fole,

sarebbe quivi una perpetua guerra.

Così, di quelche l’uom non sa vedere,

favoleggiando va mille chimere.

La materia del ciel, seben sublima                             18

sovra l’altre il suo grado in eminenza,

non però dala vostra altra si stima:

nulla tra gl’individui ha differenza.

Ogni materia parte è dela prima,

sol la forma si varia e non l’essenza;

varietà tra le sue parti appare

secondo ch’elle son più dense o rare.

Bastiti di saver che peregrina                         19

impressione in sé mai non riceve

la perfetta natura adamantina

di quel corpo lassù lubrico e lieve;

paragonarsi, ancorché pura e fina,

qualità d’elemento a lei non deve:

un fiore scelto, una sostanza quinta,

da cui di pregio ogni materia è vinta.

La sua figura è circolare e tonda,                              20

periferia continua e senza punto;

termin non ha, ma spazio egual circonda,

il principio col fin sempre ha congiunto;

linea ch’apien d’ogni eccellenza abonda,

ala divinità simile apunto,

e la divina eternitate imita,

perpetua, indissolubile, infinita.

Or, a questa del ciel materia eterna                           21

l’anima che l’informa è sempre unita;

questa è quella virtù santa e superna,

spirto che le dà moto e le dà vita;

senza lei, che la volge e la governa

fora sua nobiltà troppo avilita;

miglior foran del ciel le pietre istesse

se la forma motrice ei non avesse.

Questa, con lena ognor possente e franca                             22

dela machina sua reggendo il pondo,

le rote mai di moderar non manca

di quel grand’oriuol che gira a tondo;

per questa, in guisa tal che non si stanca,

l’organo immenso ond’ha misura il mondo,

con sonora vertigine si volve

né si discorda mai né si dissolve. –

Così dicea di Giove il messaggiero,                           23

né lasciava d’andar perch’ ei parlasse.

De’ campi intanto, ov’ha Giunone impero

lasciate avea le region più basse

e già verso il più attivo e più leggiero

elemento drizzava il lucid’asse,

la cui sfera immortal mai sempre accesa

passò senza periglio e senz’offesa.

Varcato il puro ed innocente foco                             24

ch’ala gelida dea la faccia asciuga,

l’etra sormonta ed a più nobil loco

già presso al primo ciel prende la fuga

e’l suo lume incontrando a poco a poco

che par specchio ben terso e senza ruga,

in queste note il favellar distingue

il maestro del’arti e dele lingue:

- Adon, so che saver di questo giro                          25

brami i secreti, ove siam quasi ascesi,

con tanta attenzion mirar ti miro

nel volto dela dea madre de’ mesi;

ché, seben tu mi taci il tuo desiro

e la dimanda tua non mi palesi,

ti veggio in fronte ogni pensier dipinto

più che se per parlar fusse distinto.

Questo, a cui siam vicini, è dela luna                         26

l’orbe che’mbianca il ciel con suoi splendori,

candida guida dela notte bruna,

occhio de’ ciechi e tenebrosi orrori;

genera le rugiade, i nembi aduna

ed è ministra de’ fecondi umori;

dagli altrui raggi illuminata splende,

dal sol toglie la luce, al sol la rende.

Di questo corpo la grandezza vera                            27

minor sempre è del sol, né mai l’adombra,

ché dela terra a misurarla intera

la trentesima parte apena ingombra;

ma se s’accosta ala terrena sfera,

egual gli sembra e gli può far qualch’ombra;

sol per un sol momento allor si vede

vincer il sol, d’ogni altro tempo cede.

Ha varie forme e molti aspetti e molti,                                   28

or è tonda, or bicorne, or piena, or scema

e sempre tien nel sol gli occhi rivolti

che la percote dala parte estrema,

onde sempre almen può l’un de’ duo volti

partecipar di sua beltà suprema;

fa ciascun mese il suo periodo intero

e, circondando il ciel, cangia emispero.

Perché s’appressa a voi più che gli altri orbi,                         29

suol sovra i vostri corpi aver gran forza;

donna è de’ sensi e dea di mali e morbi,

ella sol gli produce, ella gli ammorza.

Quanto, o padre Ocean, nel grembo assorbi,

quanto in te vive sotto dura scorza

e’l moto istesso tuo, cangiando usanza,

altera al moto suo stato e sembianza.

Il frutto e’l fior, la pianta e la radice,                          30

il mare, il fonte, il fiume e l’onda e’l pesce

prendon da questa ogni virtù motrice

e’l moto ancor quand’ella manca o cresce;

del cerebro ella è sol governatrice,

di quanto il ventre chiude e quanto n’esce

e tutto ciò che’n sé parte ritiene

d’umida qualità, con lei conviene.

Cosa, non dico sol Saturno o Giove                         31

nel mondo inferior propizia o fella,

ma qual’altra o che posa o che si move,

stabil non versa o vagabonda stella,

che non passi per lei; quante il ciel piove

influenze laggiù, scendon per quella,

per quella chiara lampada d’argento

ch’è del’ombre notturne alto ornamento.

Onde s’avien che giri il bel sembiante                                   32

collocato e disposto in buono aspetto,

ancorché variabile e vagante,

partorisce talor felice effetto.

Ma fortuna non mai fuorché incostante

speri chiunque a lei nasce soggetto,

che con perpetuo error fia che lo spinga

fuor di patria a menar vita raminga. –

Con più diffuso ancor lungo sermone                        33

il fisico divin volea seguire,

quando a mezzo il discorso il bel garzone

la favella gli tronca e prende a dire:

- D’una cosa a spiar l’alta cagione

caldo mi move e fervido desire,

cosa, che daché pria l’occhio la scorse

sempre ha la mente mia tenuta in forse.

D’alcune ombrose macchie impressa io veggio                                 34

dela triforme dea la guancia pura;

dimmi il perché; tra mille dubbi ondeggio,

né so trovarne opinion secura.

Qual immondo contagio, i’ ti richeggio,

di brutte stampe il vago volto oscura? –

Così ragiona; e l’altro un’altra volta

la parola ripiglia e dice: - Ascolta,

poiché cotanto addentro intender vuoi,                                 35

al bel quesito sodisfar prometto;

ma di ciò la ragion ti dirà poi

l’occhio vie meglio assai che l’intelletto.

Non mancan già filosofi tra voi

che notato hanno in lei questo difetto;

studia ciascun d’investigarlo aprova,

ma chi s’apponga al ver raro si trova.

Afferma alcun che d’altra cosa densa                                   36

sia tra febo e febea corpo framesso,

laqual delo splendor ch’ei le dispensa

in parte ad occupar venga il reflesso.

Ilche se fusse pur, com’altri pensa,

non sempre il volto suo fora l’istesso,

né sempre la vedria chi’n lei s’affisa

in un loco macchiata e d’una guisa.

Havvi chi crede che, per esser tanto                         37

Cinzia vicina agli elementi vostri,

dela natura elementare alquanto

convien pur che partecipe si mostri.

Così la gloria immacolata e’l vanto

cerca contaminar de’ regni nostri,

come cosa del ciel sincera e schietta

possa di vil mistura essere infetta.

Altri vi fu ch’esser quel globo disse                           38

quasi opaco cristal che’l piombo ha dietro

e che col suo reverbero venisse

l’ombra dele montagne a farlo tetro.

Ma qual sì terso mai fu che ferisse

per cotanta distanza acciaio o vetro?

e qual vista cerviera in specchio giunge

l’imagini a mirar così da lunge?

Egli è dunque da dir che più secreta                          39

colà s’asconda ed esplorata invano

altra cagion, che penetrar si vieta

al’ardimento del’ingegno umano.

Or io ti fo saver che quel pianeta

non è, com’altri vuol, polito e piano,

ma ne’ recessi suoi profondi e cupi

ha, non men che la terra, e valli e rupi.

La superficie sua mal conosciuta                               40

dico ch’è pur come la terra istessa,

aspra, ineguale e tumida e scrignuta,

concava in parte, in parte ancor convessa.

Quivi veder potrai, ma la veduta

nol può raffigurar se non s’appressa,

altri mari, altri fiumi ed altri fonti

città, regni, province e piani e monti.

E questo è quel che fa laggiù parere                          41

nel bel viso di Trivia i segni foschi,

bench’altre macchie, ch’or non puoi vedere,

vo’ ch’entro ancor vi scorga e vi conoschi,

che son più spesse e più minute e nere

e son pur scogli e colli e campi e boschi;

son nel più puro dele bianche gote,

ma da terra affisarle occhio non pote.

Tempo verrà che senza impedimento                        42

queste sue note ancor fien note e chiare,

mercé d’un ammirabile stromento

per cui ciò ch’è lontan vicino appare

e, con un occhio chiuso e l’altro intento

specolando ciascun l’orbe lunare,

scorciar potrà lunghissimi intervalli

per un picciol cannone e duo cristalli.

Del telescopio, a questa etate ignoto,                                    43

per te fia, Galileo, l’opra composta,

l’opra ch’al senso altrui, benché remoto,

fatto molto maggior l’oggetto accosta.

Tu, solo osservator d’ogni suo moto

e di qualunque ha in lei parte nascosta,

potrai, senza che vel nulla ne chiuda,

novello Endimion, mirarla ignuda.

E col medesmo occhial, non solo in lei                                  44

vedrai dapresso ogni atomo distinto,

ma Giove ancor, sotto gli auspici miei,

scorgerai d’altri lumi intorno cinto,

onde lassù del’Arno i semidei

il nome lasceran sculto e dipinto.

Che Giulio a Cosmo ceda allor fra giusto

e dal Medici tuo sia vinto Augusto.

Aprendo il sen del’ocean profondo,                          45

ma non senza periglio e senza guerra,

il ligure argonauta al basso mondo

scoprirà novo cielo e nova terra.

Tu del ciel, non del mar Tifi secondo,

quanto gira spiando e quanto serra

senza alcun rischio, ad ogni gente ascose

scoprirai nove luci e nove cose.

Ben dei tu molto al ciel, che ti discopra                                 46

l’invenzion del’organo celeste,

ma vie più’l cielo ala tua nobil opra,

che le bellezze sue fa manifeste.

Degna è l’imagin tua che sia là sopra

tra i lumi accolta, onde si fregia e veste

e dele tue lunette il vetro frale

tra gli eterni zaffir resti immortale.

Non prima no che dele stelle istesse                          47

estingua il cielo i luminosi rai

esser dee lo splendor, ch’al crin ti tesse

onorata corona, estinto mai.

Chiara la gloria tua vivrà con esse

e tu per fama in lor chiaro vivrai

e con lingue di luce ardenti e belle

favelleran di te sempre le stelle. –

Non avea ben quel ragionar fornito                           48

il secretario de’ celesti numi,

quando il carro immortal vide salito

sovra il lume minor de’ duo gran lumi.

Trovossi Adone in altro mondo uscito,

in altri prati, in altri boschi e fiumi.

Quindi arrivò per non segnato calle

presso un speco riposto in chiusa valle.

Circonda la spelonca erma e remota                         49

verdeggiante le squame angue custode,

angue ch’attorce in flessuosa rota

sue parti estreme e semedesmo rode.

Donna canuta il crin, crespa la gota,

del cui sembiante il ciel s’allegra e gode,

del’antro venerabile e divino

siede su’l limitare adamantino.

Pendonle ognor da queste membra e quelle                          50

mille pargoleggiando alme volanti

e tutta piena intorno è di mammelle

ond’allattando va turba d’infanti.

Misurator de’ cieli e dele stelle

e cancellier de’ suoi decreti santi,

le leggi, al cui sol cenno il tutto vive,

ne’ gran fasti del fato un veglio scrive.

Calvo è il veglio e rugoso e spande al petto                          51

dela barba prolissa il bianco pelo;

severo in vista e di robusto aspetto

e grande sì che quasi adombra il cielo;

è tutto ignudo e senza vesta, eccetto

quanto il ricopre un variabil velo;

agil sembra nel corso, ha i piè calzati

ed, a guisa d’augel, gli omeri alati.

Tien divisa in duo vetri insu la schiena                                   52

lucida ampolla, onde traspar di fore

sempre agitata e prigioniera arena,

nunzia verace dele rapid’ore;

a filo a filo per angusta vena

trapassa e riede al suo continuo errore

e, mentre ognor si volge e sorge e cade,

segna gli spazi del’umana etade.

Di servi e serve ad ubbidirgli avezza                          53

moltitudine intorno ha reverente,

di quella maestà che’l tutto sprezza

provida essecutrice e diligente.

Mostrava Adon desio d’aver contezza

qual si fusse quel loco e quella gente,

onde così di que’ secreti immensi

il suo conducitor gli aperse i sensi:

- Sacra a colei che gli ordini fatali                             54

ministra al mondo è questa grotta annosa,

non solo impenetrabile a’ mortali,

agli occhi umani ed ale menti ascosa,

sich’alzarvi giamai la vista o l’ali

intelletto non può, sguardo non osa,

ma gl’interni recessi anco di lei

quasi apena spiar sanno gli dei.

Natura, universal madre feconda,                             55

è la donna ch’assisa ivi si mostra.

In quella cava ha sua magion profonda,

occulto albergo e solitaria chiostra.

Giust’è ch’ognun di voi le corrisponda,

vuolsi onorar qual genitrice vostra;

e ben le devi tu, come creato

più bel d’ogni altro, Adone, esser più grato.

Quell’uomo antico, ch’ale spalle ha i vanni                            56

è quei ch’ogni mortal cosa consuma,

domator di monarchi e di tiranni,

con cui non è chi contrastar presuma;

parlo del Tempo, dispensier degli anni,

che scorre il ciel con sì spedita piuma

e sì presto sen fugge e sì leggero

ch’è tardo a seguitarlo anco il pensiero.

Con l’ali, che sì grandi ha su le terga                         57

vola tanto che’l sol l’adegua apena;

sola però l’Eternità, ch’alberga

sovra le stelle, il giunge e l’incatena;

la penna ancor, che dotte carte verga

passa il suo volo e’l suo furore affrena;

così, chi’l crederebbe? un fragil foglio

può di chi tutto può vincer l’orgoglio.

Di duro acciaio ha temperati i denti,                          58

infrangibili, eterni, adamantini;

dele torri superbe ed eminenti

rode e rompe con questi i sassi alpini;

de’ gran teatri i porfidi lucenti,

degli eccelsi colossi i marmi fini;

divorator del tutto, alfin risolve

le più salde materie in trita polve.

Di sua forma non so se t’accorgesti                          59

che non è mai l’istessa ala veduta:

faccia ed età di tre maniere ha questi,

l’acerba, la virile e la canuta.

Tu vedi ben come sembiante e gesti

varia sovente e d’or in or si muta;

l’effigie che pur or n’offerse innanzi

altra ne sembra e non è più qual dianzi.

Vedigli assiso a piedi un potentato,                           60

da cui tutte le cose han vita e morte,

con un gran libro, le cui carte è dato

volger com’ella vuol, solo ala Sorte:

a questo nume, che s’appella Fato,

detta quant’ei determina in sua corte;

quegli lo scrive ed ordina al governo

Primavera ed Autunno, Estate e Verno.

Comandan questi al secolo e palese                          61

gli fan ciò che far dee di punto in punto.

Il Secol, poi ch’ha le sue voglie intese,

al Lustro impon che l’esseguisca apunto;

il Lustro al’Anno e l’Anno al Mese, il Mese

al Giorno, il Giorno al’Ora e l’Ora al Punto;

così dispon gli affari e con tal legge

signoreggia i mortali e’l mondo regge.

Vedi que’ duo, l’un giovinetto adorno,                                  62

candido e biondo e con serene ciglia;

l’altra femina e bruna, e vanno intorno

e si tengono in mezzo una lor figlia;

son color, se nol sai, la Notte e’l Giorno

e l’Aurora è tra lor bianca e vermiglia;

or mira quelle tre, che tutto han pieno

di gomitoli d’accia il lembo e’l seno;

quelle le Parche son, per cui laggiuso                        63

è filata la vita a tutti voi;

nel suo volto guardar sempre han per uso,

tutte dependon sol da’ cenni suoi;

quella tien la conocchia e questa il fuso,

l’altra torce lo stame e’l tronca poi.

Vedi la Verità, figlia del vecchio,

ch’innanzi agli occhi gli sostien lo specchio.

Quanto in terra si fa, là dentro ei mira                                   64

e del’altrui follie nota gli essempi;

vede l’umana ambizion ch’aspira

in mille modi a fargli oltraggi e scempi;

crede fiaccargli alcun la forza e l’ira

ergendo statue e fabricando tempi;

altri contro gli drizza archi e trofei,

piramidi, obelischi e mausolei.

Ride egli allora e sì se’l prende a gioco                                 65

scorgendo quanto l’uom s’inganna ed erra

e, poiché’n piedi ha pur tenute un poco

quelle machine altere, alfin l’atterra;

dalle in preda del’acqua over del foco,

or le dona ala peste, or ala guerra;

le sparge in fumo in quella guisa o in questa

siché vestigio alcun non vene resta.

E di ciò la ministra è sol quell’una                             66

ch’è cieca e d’un delfin su’l dorso siede,

calva da tergo e’l crine in fronte aduna,

alata e tien sovr’una palla il piede;

guarda se la conosci: è la Fortuna,

ch’al paterno terren passar ti diede.

Mira quanti tesor dissipa al vento:

mitre, scettri, corone, oro ed argento.

Quattro donne reali a piè le miri                                67

e son le monarchie del’universo:

d’or coronata è quella degli Assiri,

d’argento l’altra ch’ha l’impero perso;

la Grecia appresso con men ricchi giri

porta cerchiato il crin di rame terso;

l’ultima, che di ferro orna la chioma

è la guerriera e bellicosa Roma.

Ma ciò che val, se’l tutto è un sogno breve?                         68

Stolto colui che’n vanità si fida.

Dritto è ben che d’un ben che perir deve

l’un filosofo pianga e l’altro rida;

sola Virtù, del Tempo avaro e lieve

può l’ingorda sprezzar rabbia omicida;

tutto il resto il crudel, mentre che fugge,

e rapace e vorace invola e strugge.

Guarda su l’uscio pur dela caverna                           69

e vedrai due gran donne assise quivi

e quinci e quindi dala foce interna

di qualità contraria uscir duo rivi;

siede l’una da destra e luce eterna

le fregia il volto di bei raggi vivi,

ridente in vista e d’un aspetto santo,

in man lo scettro ed ha stellato il manto:

è la Felicità, de’ cui vestigi                            70

cerca ciascun, né sa trovar la traccia,

ma, da larve deluso e da prestigi,

di quella invece la Miseria abbraccia;

stanno molte donzelle a’ suoi servigi

d’occhio giocondo e di piacevol faccia:

Vita, Abondanza e ben contente e liete

Festa, Gioia, Allegria, Pace e Quiete.

Lungo il suo piè con limpid’onda e viva                                71

mormorando sen va soavemente

il destro fiumicel, da cui deriva

di letizia immortal vena corrente;

ella un lambicco in man sovra la riva

colmo del’acque tien di quel torrente

e, come vedi ben, fuor dela boccia

in terra le distilla a goccia a goccia.

A poco a poco ingiù versa il diletto                           72

perch’altri non può farne intero acquisto;

scarso è l’uman conforto ed imperfetto

e qualche parte in sé sempre ha di tristo;

quel ben che qui nel cielo è puro e schietto

piove laggiù contaminato e misto,

peroché pria che caggia, ei si confonde

con quell’altro ruscel ch’amare ha l’onde.

L’altro ruscel, che men purgato e chiaro                               73

passa da manca, è tutto di veleno,

vie più che fiel, vie più ch’assenzio amaro

e sol pianti e sciagure accoglie in seno.

Vedi colei che’l vaso, onde volaro

le compagne d’Astrea, tutto n’ha pieno

e con prodiga man sovra i mortali

sparge quanti mai fur malori e mali.

Pandora è quella; il bossolo di Giove                        74

folle audacia ad aprir le persuase;

fuggì lo stuol dele Virtuti altrove,

le Disgrazie restaro in fondo al vase;

sol la Speranza in cima al’orlo, dove

sempre accompagna i miseri, rimase:

ed è quella colà, vestita a verde,

che’n ciel non entra e nel’entrar si perde.

Or vedi come fuor del’ampia bocca                          75

del’urna rea ch’ogni difetto asconde,

in larga vena scaturisce e fiocca

il sozzo umor di quelle perfid’onde.

Del’altro fiume, onde piacer trabocca,

questo in copia maggior l’acque diffonde,

perché’n quel nido di tormenti e guai

sempre l’amaro è più che’l dolce assai.

Vedi Morte, Penuria e Guerra e Peste,                                 76

Vecchiezza e Povertà con bassa fronte,

Pena, Angoscia, Fatica, afflitte e meste

figlie appo lei d’Averno e d’Acheronte.

V’è l’empia Ingratitudine tra queste,

prima d’ogni altro mal radice e fonte;

e tutte uscite son del vaso immondo

per infestar, per infettar il mondo.

Non ti meravigliar ch’affanni e doglie                        77

in questo primo ciel faccian dimora,

perché la diva onde’l suo moto ei toglie

è d’ogni morbo e d’ogni mal signora;

in lei dominio e potestà s’accoglie

e sovra i corpi e sovra l’alme ancora;

ma se d’ogni bruttura iniqua e fella

vuoi la schiuma veder, volgiti a quella. –

Sì disse e gli mostrò mostro difforme                        78

con orecchie di Mida e man di Cacco;

ai duo volti parea Giano biforme,

ala cresta Priapo, al ventre Bacco;

la gola al lupo avea forma conforme,

artigli avea d’arpia, zanne di Ciacco;

era iena ala voce e volpe ai tratti,

scorpione ala coda e simia agli atti.

Chiese ala guida Adon di che natura                         79

fusse bestia sì strana e di che sorte

ed intese da lui ch’era figura

vera ed idea dela moderna corte:

portento orrendo del’età futura,

flagel del mondo assai peggior che morte,

del’Erinni infernali aborto espresso,

vomito del’inferno, inferno istesso.

- Ma di questa (dicea) meglio è tacerne                                80

poich’ogni pronto stil vi fora zoppo.

Ben mille lingue e mille penne eterne

in mia vece di lei parleran troppo.

Mira in quel tribunal, dove si scerne

di gente intorno adulatrice un groppo,

donna con torve luci e lunghe orecchie

che da’ fianchi si tien due brutte vecchie.

L’Autorità tirannica dipigne                           81

quella superba e barbara sembianza

e l’assistenti sue sciocche e maligne

son la Sospezzione e l’Ignoranza.

Labra ha verdi e spumanti e man sanguigne,

mostra rigor, furor, fasto, arroganza;

porge la destra ad una donna ignuda

di cui non è la più perversa e cruda.

Questa tutta di sdegno accesa e tinta                        82

e di dispetto e di fastidio è piena

e, da turba crudel tirata e spinta,

giovinetta gentil dietro si mena,

che l’una e l’altra mano al tergo avinta

porta di dura e rigida catena,

smarrita il viso e pallidetta alquanto

ed ha bianca la gonna e bianco il manto.

La Calunnia è colei, ch’al trono augusto                                83

per man la tragge e par d’astio si roda;

bella la faccia ha sì, ma dietro al busto

le s’attorce di serpe orrida coda.

L’altra, condotta nel giudicio ingiusto,

a cui le braccia indegno ferro annoda,

è l’incorrotta e candida Innocenza,

sovrafatta talor dal’Insolenza.

Il Livor l’è dincontra, ilqual approva                         84

la falsa accusa e la risguarda in torto;

aconito infernal nel petto cova

e di squallido bosso ha il viso smorto,

simile ad uom ch’afflitto ancor si trova

da lungo morbo, onde guarì di corto.

Coppia d’ancelle ala Calunnia applaude,

testimoni malvagi, Insidia e Fraude.

Segue costoro addolorata e piange                           85

di tal perfidia il torto e la menzogna

la Penitenza, che s’afflige ed ange

presso la Verità, che la rampogna

e si squarcia la vesta e’l crin si frange

e di duol si despera e di vergogna

e col flagel d’una spinosa verga

si batte il corpo e macera le terga.

- Oimé, non stiam più qui, lasciam per Dio                            86

di questi mostri abominandi il nido! –

Tacquesi e lungo un tortuoso rio

quindi sviollo il saggio duce e fido.

D’una oscura isoletta Adon scoprio

non molto lunge, ancor incerto, il lido;

l’aria avea d’ognintorno opaca e bruna

qual fosca notte in nubilosa luna.

Giace in mezzo d’un fiume, ilqual sì roco                               87

dilaga l’acque sue placide e chete

e va sì lento e mormora sì poco

che provoca in altrui sonno e quiete.

- Ecco (Mercurio allor soggiunse) il loco

dove discorre il sonnacchioso Lete,

da cui la verga mia forte e possente

prende virtù d’addormentar la gente.

L’isola d’ogni parte abbraccia e chiude,                               88

come scorger ben puoi, l’onda letale;

sembra oziosa e livida palude

onde caligin densa in alto sale;

vedi quante in quell’acque anime ignude

vanno a lavarsi ed a tuffarvi l’ale

pria che le copra il corrottibil velo

per obliar ciò ch’han veduto in cielo.

Vedine molte ch’a bagnar le piume                           89

vengon pur nele pigre onde infelici

e perdon pur dentro il medesmo fiume

la conoscenza de’ cortesi amici.

Son gl’ingrati color, ch’han per costume

dimenticar favori e benefici

e scriver nele foglie e dar ai venti

gli oblighi, le promesse e i giuramenti.

Altre ne vedi ancor quassù dal mondo                                  90

salir ador ador macchiate e brutte,

lequai non pur di quel licore immondo

corrono a ber, ma vi s’immergon tutte;

genti son quelle che da basso fondo

son per fortuna ad alto grado addutte,

dove ciascun divien sì smemorato

che più non gli sovien del primo stato.

O de’ terreni onor perfida usanza                             91

con cui l’oblio di subito si beve,

onde con repentina empia mutanza

viensi l’uomo a scordar di quanto deve,

e non solo d’altrui la rimembranza

in lui s’offusca e si smarrisce in breve,

ma sì deltutto ogni memoria ha spenta

che di sestesso pur non si rammenta.

Il paese de’ sogni è questo a cui                               92

pervenuti noi siamo a mano a mano.

Vedi ch’apunto ne’ sembianti sui

simile al sogno ha non so che del vano,

ch’apparisce e sparisce agli occhi altrui

e visibile apena è di lontano.

Qui, da Giove scacciato, il Sonno nero,

contumace del ciel, fondò l’impero.

Ma per poter varcar l’onda soave                            93

sarà buon ch’alcun legno or si prepari. –

Ed ecco allora in pargoletta nave

strania ciurma apparir di marinari;

Itatone e Tarassio il remo grave

e Plutocle e Morfeo movean del pari;

era il vecchio Fantasio il galeotto,

al mestier del timone esperto e dotto.

Presero un porto, ove d’elettro puro                         94

al’augel vigilante un tempio è sacro;

quindi scolpito sta l’Erebo oscuro,

quinci d’Ecate bella il simulacro.

Insu l’entrar, pria che si passi il muro,

v’ha di duo fonti un gemino lavacro

che fan cadendo un mormorio secreto:

Pannicchia è detto l’un, l’altro Negreto.

Fa cerchio ala città selva frondosa                            95

che dà grato ristoro al corpo lasso.

La mandragora stupida e gravosa

e’l papavere v’ha col capo basso.

L’orso tra questi languido riposa

e riposanvi al’ombra il ghiro e’l tasso,

né d’abitar que’ rami osano augelli

fuorché nottule e gufi e pipistrelli.

D’un’iri a più color case e contrade                          96

stansi tra lumi tenebrosi occulte;

quattro porte maestre ha la cittade,

due di terra e di ferro incise e sculte,

lequai rispondon per diritte strade

dela Pigrizia ale campagne inculte

e per queste sovente, o falsi o veri,

escono i sogni spaventosi e fieri.

Del’altre due, ciascuna il fiume guarda,                                 97

l’una è d’avorio e si disserra allora

ch’è nel suo centro la stagion più tarda;

l’altra di corno e s’apre insu l’aurora;

per quella a schernir l’uom turba bugiarda

d’ingannatrici imagini vien fora;

da questa soglion trar l’anime vaghe

visioni del ver spesso presaghe.

La bella coppia entrò per l’uscio eburno                               98

e fur quell’ombre da’ suoi raggi rotte;

il suo palagio ombroso e taciturno

nela piazza maggior tenea la Notte;

dal’altra parte, di vapor notturno

velato e chiuso tra profonde grotte,

l’albergo ancor del Sonno si vedea,

che sovra un letto d’ebeno giacea.

O di quante fantastiche bugie                        99

mostruose apparenze intorno vanno!

sogni schivi del sol, nemici al die,

fabri d’illusion, padri d’inganno;

minotauri, centauri, idre ed arpie

e gerioni e briarei vi stanno;

chi sirena chi sfinge al corpo sembra,

chi di ciclopo e chi di fauno ha membra.

Chi par bertuccia ed è qual bue cornuto,                              100

chi tutto è capo e’l capo poi senz’occhi;

altri han, com’hanno i mergi, il becco acuto,

altri la barba aguisa degli alocchi;

altri con faccia umana è sì orecchiuto

che convien ch’ogni orecchio il terren tocchi;

altri ha piè d’oca e di falcone artiglio,

l’occhio nel ventre e nel bellico il ciglio.

Vedresti effigie angelica e sembiante,                        101

poi si termina il piede in piedestallo;

visi di can con trombe d’elefante,

colli di gru con teste di cavallo,

busti di nano e braccia di gigante,

ali di parpaglion, creste di gallo,

con code di pavon grifi e pegasi,

fusi per gambe e pifferi per nasi.

Alcun di lor, quasi spalmato legno,                            102

vola a vela per l’aure e scorre a nuoto,

ma di due rote ha sotto un altro ingegno

onde corre qual carro e varia moto;

con un mantice alcun di vento pregno

gonfia e sgonfia soffiando il corpo voto

e tanti fiati accumula nell’epa

che come rospo alfin ne scoppia e crepa.

E questi ed altri ancor più contrafatti                         103

ven’ha, piccioli e grandi, interi e mozzi,

quasi vive grottesche o spirti astratti,

scherzi del caso e del pensiero abbozzi.

Parte ale spoglie, ale fattezze, agli atti

son lieti e vaghi e parte immondi e sozzi;

molti al gesto, al vestir vili e plebei,

molti di regi in abito e di dei.

Tra gli altri Adon vi riconobbe quello                        104

che’n Cipro già quand’ei tra’ fior dormiva

rappresentogli il simulacro bello

dela sua bella ed amorosa diva.

E già quel pigro e lusinghier drappello

dietro ala Notte, che volando usciva,

gli s’accostava in mille forme intorno

per gravargli le ciglia e torgli il giorno,

ma’l suo dottor sì sen’accorse e presto                                 105

gli fè le luci alzar stupide e basse;

Vener sorrise, ed ei, poscia che desto

l’ebbe, non volse più ch’ivi indugiasse,

ma, mostrandogli a dito or quello or questo,

al’altra riva un’altra volta il trasse.

Dimandavalo Adon di molte cose

ed a molte dimande egli rispose.

E giunta a mezzo di suo corso omai                          106

l’umida notte al’ocean scendea

e con tremanti e pallidetti rai

più d’un lume dal ciel seco cadea;

cinto di folte stelle e più che mai

chiaro il pianeta innargentato ardea,

vagheggiando con occhio intento e vago

in fresca valle addormentato il vago.

Deh! perdonimi il ver s’altrui par forse                                  107

ch’io qui del ciel la dignitate offenda,

poiché là dove tempo unqua non corse

l’ore non spiegan mai notturna benda;

facciol, perché così quelche non scorse

il senso mai, l’intendimento intenda,

non sapendo trovar fuor di natura

agli spazi celesti altra misura.

In questo mezzo il condottier superno                                   108

le sei vaghe corsiere al carro aggiunse;

fece entrarvi gli amanti ed, al governo

assiso poi, ver l’altro ciel le punse

ed al bel tetto del suo albergo eterno

in poche ore rotando appresso giunse.

Intanto, parlator facondo e saggio,

la noia alleggeria del gran viaggio.

- Eccoci (gli diceva) eccoci a vista                            109

dela mia stella, che più sù si gira,

candida no, ma variata e mista

d’un tal livor ch’al piombo alquanto tira,

picciola sì che quasi apena è vista

e talor sembra estinta a chi la mira

e nele notti più serene e chiare

del’anno, sol per pochi mesi appare.

Questo l’avien non sol perché minore                                   110

del’altre erranti e dele fisse è molto,

ma però che da luce assai maggiore

l’è spesso il lume innecclissato e tolto.

Sotto i raggi del sole il suo splendore

nasconde sì, che vi riman sepolto

e tra que’ lampi onde si copre e vela

quasi in lucida nebbia altrui si cela.

Ma dal’esser al sol tanto vicina                                 111

maggior forza e vigor prende sovente,

com’ancor questa, del tuo cor reina,

per l’istessa cagione è più possente.

Seco e col sole in compagnia camina,

seco la rota sua compie egualmente

benché tra noi sia gran disagguaglianza,

ch’assai di lume e di beltà m’avanza.

La qualità di sua natura è bene                                  112

mutabile, volubile, inquieta;

si varia ognor né mai fermezza tiene,

or infausta, or seconda, or trista, or lieta.

Ma questa tanta instabiltà le viene

dala congiunzion d’altro pianeta,

perch’io son tal che negli effetti miei

buon co’ buoni mi mostro e reo co’ rei.

Nascon per la virtù di questa luce                             113

luminosi intelletti, ingegni acuti;

senno altrui dona ed uomini produce

cauti agli affari e nel’industrie astuti.

Vago desio di nove cose induce

e d’incognite al mondo arti e virtuti.

Per lei sol chiaro e celebre divenne

dele lingue lo studio e dele penne.

E quando questa tua dolce lumiera                            114

v’applica il raggio suo lieto e benigno,

quel fortunato al cui natale impera

riesce in terra il più famoso cigno. –

Così lo dio dela seconda sfera

parla al vago figliuol del re ciprigno

e tuttavia, mentre così gli conta

le proprie doti, il patrio ciel sormonta.

Avean l’aureo timon per la via torta                          115

drizzato già le mattutine ancelle;

già sui confin dela dorata porta

giunto era il sole e fea sparir le stelle,

la cui leggiadra messaggiera e scorta

sgombrando intanto queste nubi e quelle,

per le piagge spargea chiare ed ombrose

dela terra e del ciel rugiade e rose,

quando vi giunse e con la coppia scese                                 116

sovra le soglie del lucente chiostro.

Come fu dentro Adon, vide un paese

con più bel giorno e più bel ciel che’l nostro;

poi dietro ale sue scorte il camin prese

per un ampio sentier che gli fu mostro

e in un gran pian si ritrovaro adagio

nel cui mezzo sorgea nobil palagio,

palagio ch’al modello, ala figura                                117

quasi d’anfiteatro avea sembianza;

ogni edificio, ogni artificio oscura,

ogni lavoro, ogni ricchezza avanza.

- Vista nel primo giro hai di Natura

 (disse Cillenio) la secreta stanza;

or ecco, o bell’Adon, sei giunto in parte

dove l’albergo ancor vedrai del’Arte.

Del’Arte, emula sua, la casa è questa,                                  118

eccola là, se di vederla brami;

di gemme in fil tirate è la sua vesta

trapunta di ricchissimi riccami.

Mira di che bei fregi orna la testa,

come l’intreccia de’ più verdi rami;

di stromenti e di machine ancor vedi

qual e quanto si tien cumulo a’ piedi.

Mira penne e pennelli e mira quanti                           119

v’ha scarpelli e martelli, asce ed incudi,

bolini e lime e circini e quadranti,

subbi e spole, aghi e fusi e spade e scudi. –

Così diceagli, e procedendo avanti,

la gran maestra tralasciò suoi studi

e reverente e con cortese inchino

umiliossi al messaggier divino.

Dal divin messaggiero Adon condutto,                                  120

la porta entrò dela celeste mole.

Di diamante ogni muro avea costrutto

che, lampeggiando, abbarbagliava il sole;

e l’immenso cortile era pertutto

intorniato di diverse scole

e molte donne in catedra sedenti

vedeansi quivi ammaestrar le genti.

- Queste, d’etate e di bellezza eguali                         121

 (Mercurio ripigliò) vergini elette

sono ancelle del’Arte e liberali,

peroché l’uom fan libero, son dette,

fonti inessausti, oracoli immortali

del saper vero; e non son più che sette;

fidate guide, illustratrici sante

del senso cieco e del’ingegno errante.

Colei ch’è prima e tiene in man le chiavi                                122

dela sublime e spaziosa porta,

di tutte l’altre facoltà più gravi

agli anni rozzi è fondamento e scorta.

Quella che con ragion belle e soavi

loda, biasma, difende, accusa, essorta,

è la diletta mia, che dala bocca,

mentreché versa il mel, l’aculeo scocca.

V’è l’altra poi con la faretra alato,                            123

sottil arciera a saettar intenta,

che ben acuti ognor dal’arco aurato

di strali in vece i sillogismi aventa.

Passa ogni petto d’aspri dubbi armato,

nega, prova, conferma ed argomenta,

scioglie, dichiara e dale cose vere

distingue il falso, alfin conchiude e fere.

Vedi quell’altre ancor quattro donzelle                                  124

di sembiante e di volto alquanto oscure;

tutte d’un parto sol nacquer gemelle

e trattan pesi e numeri e misure:

l’una contemplatrice è dele stelle

e suol vaticinar cose future;

vedi ch’ha in man la sfera e de’ pianeti

si diletta d’espor gli alti secreti.

L’altra, che con la pertica disegna                             125

e triangoli e tondi e cubi e quadri,

con linee e punti il ver mostrando, insegna

righe e piombi adoprar, compassi e squadre,

La terza di sua man figura e segna

tariffe egregie e calcoli leggiadri;

sottrae la somma, la radice trova,

moltiplica il partito e fa la prova.

Instruisce a compor l’ultima suora                             126

e fughe e pause e sincope e battute

e temprar note al’armonia sonora

or lente e gravi, or rapide ed acute.

Altre vederne non men sagge ancora

oltre queste potrai fin qui vedute,

benché le sette ch’io t’ho conte e mostre

sien le prime a purgar le menti vostre.

Ecco altre due sorelle e del Disegno                         127

e dela Simmetria pregiate figlie.

L’una con bei colori in tela o in legno

sa di nulla formar gran meraviglie;

l’altra, che nel’industria e nel’ingegno

non ha, trattane lei, chi la somiglie,

sa dar col ferro al sasso anima vera,

al metallo, alo stucco ed ala cera.

Eccoti ancor, col mappamondo avante                                 128

e con la carta un’altra giovinetta

che, scoprendo i paesi e quali e quante

regioni ha la terra, altrui diletta.

Sentenze poi religiose e sante

damigella celeste altrove detta;

di Dio discorre e del’eterna vita

ai discepoli suoi la strada addita.

Mira colà quella matrona augusta                              129

che per toga e per laurea è veneranda:

è la Legge civil, che santa e giusta

sol cose oneste e lecite comanda.

Quella che porge al’altrui febre adusta

amara e salutifera bevanda

è d’ogni morbo uman medicatrice,

cui sua virtù non chiude erba o radice.

Guarda or colei che spiriti divini                                130

spira, seben fattezze alquanto ha brutte

e par ch’ognun l’onori, ognun l’inchini

qual madre universal del’altre tutte:

quella è Sofia che, rabbuffata i crini,

magra e con guance pallide e distrutte,

con scalzi piedi e con squarciati panni

pur di dotti scolari empie gli scanni.

Azzion, passione, atto e potenza,                              131

qualità, quantità mostra in ogni ente,

genere e specie, proprio e differenza,

relazion, sostanza ed accidente;

con qual legge Natura e providenza

cria le cose e corrompe alternamente;

la materia, la forma, il tempo, il moto

dichiara e’l sito e l’infinito e’l voto.

Tien due donne da’ fianchi. Una che siede                            132

sovra quel sasso ben quadrato e sodo,

è la Dottrina, ch’a chiunque il chiede

d’ogni difficoltà discioglie il nodo.

L’altra che con la libra in man si vede

pesar le cose ed ha il martello e’l chiodo,

è la Ragion, che con accorto ingegno

a nessun crede e vuol da tutti il pegno.

Ma quell’altra colà ch’ha sì leggiere                          133

le penne, è dea del mondo, anzi tiranna;

di fallace cristallo ha due visiere

che l’occhio illude e’l buon giudicio appanna

e la fa guatar torto e travedere

sich’altrui spesso e semedesma inganna:

d’un tal cangiacolor la spoglia ha mista

che l’apparenze ognor muta ala vista,

né di tanti color gemmanti e belle                              134

suol l’augel di Giunon rotar le piume,

né di tanti arricchir l’ali novelle

quel del sole in Arabia ha per costume,

né di tanti fiorir veggionsi quelle

del’alato figliuol del tuo bel nume,

di quante ell’ha le sue varie e diverse,

verdi, bianche, vermiglie e rance e perse:

Opinion s’appella e molte ha seco,                           135

ministre infami e meretrici infide,

larve ch’uscite del tartareo speco

vengon del’alme incaute a farsi guide;

ed è lor capo un giovinetto cieco

ch’Errore ha nome e lusingando ride;

d’un licore incantato innebria i sensi

e, lui seguendo, a precipizio viensi.

Mira intorno astrolabi ed almanacchi,                                   136

trappole, lime sorde e grimaldelli,

gabbie, bolge, giornee, bossoli e sacchi,

labirinti, archipendoli e livelli,

dadi, carte, pallon, tavole e scacchi

e sonagli e carrucole e succhielli,

naspi, arcolai, verticchi ed oriuoli,

lambicchi, bocce, mantici e crocciuoli,

mira pieni di vento otri e vessiche                              137

e di gonfio sapon turgide palle,

torri di fumo, pampini d’ortiche,

fiori di zucche e piume verdi e gialle,

aragni, scarabei, grilli, formiche,

vespe, zanzare, lucciole e farfalle,

topi, gatti, bigatti e cento tali

stravaganze d’ordigni e d’animali;

tutte queste che vedi e d’altri estrani                         138

fantasmi ancor prodigiose schiere,

sono i capricci degl’ingegni umani,

fantasie, frenesie pazze e chimere.

V’ha molini e palei mobili e vani,

girelle, argani e rote in più maniere;

altri forma han di pesci, altri d’uccelli,

vari sicome son vari i cervelli.

Or mira al’ombra dela sacra pianta,                          139

fregiata il crin del’onorate foglie,

la Poesia, che mentre scrive e canta

il fior d’ogni scienza insieme accoglie.

La Favola è con lei, ch’orna ed ammanta

le vaghe membra di pompose spoglie;

l’accompagna l’Istoria, ignuda donna,

senza vel, senza fregio e senza gonna.

Vedi la Gloria che qual sol risplende,                        140

vedi l’Applauso poi, vedi la Lode,

vedi l’Onor ch’a coronarla intende

di luce eterna, onde trionfa e gode.

Ma vedi ancor coppia di furie orrende

che di rabbia per lei tutta si rode:

la persegue l’Invidia empia e crudele,

ch’ha le vipere in mano, in bocca il fiele;

la maligna Censura ognor l’è dietro                           141

e quant’ella compone emenda e tassa;

col vaglio ogni suo accento, ogni suo metro

crivella e poi per la trafila il passa;

posticci ha gli occhi in fronte e son di vetro,

or segli affige, or gli ripone e lassa;

nota con questi gli altrui lievi errori,

né scorge intanto i suoi molto maggiori. –

Ciò detto di diaspri e d’alabastri                               142

gli mostra un arsenal capace e grande

che sovr’alte colonne e gran pilastri

le sue volte lucenti appoggia e spande.

Turba v’ha dentro di diversi mastri,

ingegner d’opre illustri e memorande.

- Qui di lavori ancor non mai più visti

soggiornan (dice) i più famosi artisti.

Di quanto mai fu ritrovato in terra                             143

o si ritroverà degno di stima,

o sia cosa da pace o sia da guerra,

qui ne fu l’essemplar gran tempo prima;

qui pria per lunghi secoli si serra,

ignoto ad ogni gente, ad ogni clima,

poi si publica al mondo e si produce

al’umana notizia ed ala luce.

Vedi Prometeo, figlio di Iapeto,                                144

che di spirto celeste il fango informa;

e vedi Cadmo, autor del’alfabeto,

da cui prendon le lingue ordine e norma;

vedi il Siracusan che ‘l gran secreto

trova, ond’un picciol cielo ha moto e forma,

e’l Tarentin che la colomba imita

e’l grand’Alberto ch’al metal dà vita.

Ecco Tubal, primo inventor de’ suoni,                                  145

il tebano Anfione e’l trace Orfeo;

ecco, con altre corde ed altri tuoni

Lino, Iopa, Tamira e Timoteo;

ecco con nove armoniche ragioni

il mirabil Terpandro e’l buon Tirteo,

fabri di nove lire e nove cetre,

animatori d’arbori e di pietre.

Mira Tesibio e mira Anassimene                               146

su la mostra segnar l’ore correnti;

mira Pirode poi, che dale vene

trae dela selce le scintille ardenti.

Anacarsi è colui, mira che tiene

in mano il folle e dà misura ai venti;

mira alquanto più in là metter in uso

Esculapio lo specchio e Clostro il fuso.

E Gige v’ha che la pittura inventa                              147

ed havvi col pennello Apollodoro

e Corebo è con lor, che rappresenta

dela plastica industre il bel lavoro

e Dedal, ch’agguagliar non si contenta

con sue penne nel volo e borea e coro,

ma machinando va d’asse e di legni,

ingegnoso architetto, alti disegni.

Epimenide, Eurialo, Iperbio e Dosso                         148

templi e palagi ancor fondano a prova

e Trasone erge il muro e cava il fosso

Danao che’l primo pozzo in terra trova;

navi superbe edifica Minosso,

Tifi il timon con cui l’affreni e mova;

Bellorofonte è tra costor ch’io narro

ed Erittonio co’ cavalli e’l carro.

Guarda Aristeo con quanta util fatica                        149

del mel, del latte ala cultura intende;

Trittolemo a’ mortai mostra la spica,

Bige l’aratro che la terra fende;

Preto alo scudo, Midia ala lorica

travaglia, Etolo il dardo a lanciar prende;

Scite pon l’arco in opra e la saetta,

l’asta Tirren, Pantasilea l’accetta.

Havvi poi mille fabricati e fatti                                   150

da Cretensi, da Siri e da Fenici,

mossi da rote impetuose e tratti

altri arnesi guerrieri, altri artifici;

vedi arpagoni e scorpioni e gatti,

machine di cittadi espugnatrici

e da cozzar con torri e con pareti

catapulte, baliste ed arieti.

Bertoldo vedi là, nato insu’l Reno                             151

che, per strage del mondo e per ruina,

l’irreparabil fulmine terreno

fonde, temprato al’infernal fucina.

Quegli è Giovanni, o fortunato apieno!

che le stampe introduce in Argentina:

e ben gli dee Magonzia eterna gloria,

com’eterna egli fa l’altrui memoria. –

Così parlando, per eccelse scale                               152

sovr’aureo palco si trovar saliti

e quindi entraro in galeria reale

che volumi accogliea quasi infiniti;

eran con bella serie in cento sale

riposti in ricchi armari e compartiti,

legati in gemme, ed ogni classe loro

distinguea la cornice in linee d’oro.

Ceda Atene famosa, a cui già Serse                          153

rapì gli archivi d’ogni antico scritto,

che poi dal buon Seleuco al’armi perse

ritolti, in Grecia fer novo tragitto;

né da’ suoi Tolomei, d’opre diverse

cumulato museo, celebri Egitto,

né di tai libri in quest’etate e tanti

Urbin si pregi o il Vatican si vanti.

Molti n’eran vergati in molle cera,                             154

molti in sottili e candide membrane;

parte in fronde di palma e parte n’era

di piombo in lame ben polite e piane.

In caldeo ven’avea scritta una schiera,

altri in lettre fenicie e soriane,

altri in egizzi simboli e figure,

altri in note furtive e cifre oscure.

- Quest’è l’erario in cui si fa conserva                                   155

 (seguì Mercurio) de’ più scelti inchiostri,

di quanti mai scrittor Febo e Minerva

sapran meglio imitar tra’ saggi vostri,

i nomi, a cui non noce età proterva,

vedi a caratter d’or scritti ne’ rostri:

qui stan le lor fatiche e qui son state

pria che composte sieno e che sien nate.

Quanti d’illustri e celebrati autori                               156

si smarriscon per caso empio e sinistro

degni di vita e nobili sudori

ed or Nettuno or n’è Vulcan ministro?

or qui di tutti quei ricchi tesori

che si perdon laggiù, si tien registro:

sacre memorie ed involate agli anni,

che traman morte agli onorati affanni.

La libreria del dotto stagirita                         157

che’l fior contien d’ogni scrittura eletta,

di cui Teofrasto insu l’uscir di vita

lascerà successore, è qui perfetta.

D’Empedocle, Pittagora ed Archita

v’ha le dottrine e qualunqu’altra setta

di Talete, Democrito e Solone,

Parmenide, Anassagora e Zenone.

Petronio v’ha, di cui gran parte ascose                                 158

torbido Lete in nebbie oscure e cieche;

di Tacito vi son l’ultime prose,

tutte di Livio le bramate deche,

la Medea di Nasone ed altre cose

de’ Latini miglior non men che greche:

Cornelio Gallo con Lucrezio Caro,

Ennio ed Accio e Pacuvio e Tucca e Varo.

D’Andronico e di Nevio i drammi lieti,                                 159

di Cecilio e Licinio anco vi stanno

e di Publio Terenzio i più faceti

sali, ch’ale sals’acque in preda andranno;

e non pur d’altri istorici e poeti

le disperse reliquie albergo v’hanno,

ma gli oracoli ancor dele Sibille

campati dal furor dele faville. –

Tacque e, volgendo Adon l’occhio in disparte,                                 160

vide gran quantità di libri sciolti

ch’avean malconce e lacere le carte,

tutti sossovra in un gran mucchio accolti.

Giacean negletti al suol, la maggior parte

rosi dal tarlo e nela polve involti.

- Or perché (disse) esposti a tanto danno

dal bell’ordine questi esclusi stanno?

e perché senza onor, senza ornamento                                  161

di coverta o di nastro io qui gli trovo?

Un fra gli altri gittato al pavimento

ne veggio là, fra Drusiano e Bovo,

che, se creder si deve al’argomento,

porta un titolo illustre: Il mondo novo;

ma sì logoro par, s’io ben discerno,

che quasi il mondo vecchio è più moderno. –

- Di scusa certo e di pietà son degni                         162

 (sorridendo l’interprete rispose)

quei che, d’ogni valor poveri ingegni,

si sforzan d’emular l’opre famose,

ch’ingordigia d’onor non ha ritegni

nele cupide menti ambiziose

e, quand’alto volar ne veggion uno,

a quel segno arrivar vorria ciascuno.

Non mica a tutti è di toccar concesso                                   163

dela gloria immortal la cima alpina;

chi volar vuol senz’ali, accoppia spesso

al’audace salita alta ruina.

Ma, quantunque avenir soglia l’istesso

quasi in ogni bell’arte e disciplina,

non si vede però maggior tracollo

che di chi segue indegnamente Apollo.

Dietro ai chiari scrittor di Smirna e Manto,                            164

per cui sempre vivranno i duci e l’armi,

tentando invan di pareggiargli al canto

più d’uno arroterà lo stile e i carmi.

O quanti poi, con quanto studio e quanto

del’italico stuol di veder parmi

tracciar con poca loda i duo migliori

che’nsu’l Po canteran guerre ed amori.

Che di poemi in quella lingua cresca                          165

numerosa ferragine e di rime,

la facil troppo invenzion tedesca

n’è cagion, che per prezzo il tutto imprime.

Ma s’alcuna sarà che mal riesca,

l’opra che tu dicesti è tra le prime.

Così figliano i monti e’l topo nasce,

ma poi, nato ch’egli è, si more in fasce.

Poiché sì fatti parti un breve lume                              166

visto apena han laggiù nel vostro mondo,

il vecchiarel dale veloci piume,

quelche vedesti già nel’altro tondo,

qui ridurle in un monte ha per costume

per sepelirle in tenebroso fondo;

alfin le porta ad attuffar nel rio

che copre il tutto di perpetuo oblio.

Ma più non dimoriam, ché poi ch’a questi                             167

t’ho scorto eterni e luminosi mondi,

converrà ch’altro ancor ti manifesti

de’ secreti del fato alti e profondi,

e vie molto maggior che non vedesti

meraviglie vedrai, se mi secondi. –

Qui tacque e’n ricca loggia e spaziosa

il condusse a mirar mirabil cosa.

Vasto edificio d’ingegnosa sfera                               168

reggea, quasi gran mappa, un piedestallo,

che s’appoggiava ad una base intera

tutta intagliata del miglior metallo.

Era d’ampiezza assai ben grande ed era

fabricata d’acciaio e di cristallo;

la cerchiavan pertutto in molti giri

fasce di lucidissimi zaffiri.

Forma avea d’un gran pomo e risplendea                             169

più che lucente e ben polito specchio

e d’aurei seggi intorno intorno avea

per risguardarla un commodo apparecchio.

Quivi, mentre ch’intento Adon tenea

l’occhio ala palla, al suo parlar l’orecchio,

Mercurio seco e con la dea s’assise,

indi da capo a ragionar si mise.

- Questa (dicea) sovramortal fattura,                        170

laqual confonde ogni creato ingegno,

opra mirabil è, ma di Natura

e di divin maestro alto disegno.

L’artefice di tanta architettura

che d’ogni altro artificio eccede il segno

fu questa mia, del gran fattor sovrano,

benché imperfetta, imitatrice mano.

Sudò molto la man, né l’intelletto                              171

poco in sì nobil machina sofferse

e lungo tempo, inabile architetto,

sue fatiche e suoi studi invan disperse;

ma quei ch’è sol tra noi fabro perfetto

del bel lavor l’invenzion m’aperse

e’l secreto mi fè facile e lieve

di raccorre il gran mondo in spazio breve.

E che sia ver, rivolgi a questa mia                             172

adamantina fabrica le ciglia;

dì se vedesti o s’esser può che sia

istromento maggior di meraviglia.

Composta è con tant’arte e maestria

ch’al globo universal si rassomiglia;

mirar nel cerchio puoi limpido e terso

quanto l’orbe contien del’universo.

Formar di cavo rame un cielo angusto                                  173

fia forse in alcun tempo altrui concesso,

dove or sereno or di vapori onusto

l’aere vedrassi e’l tuono e’l lampo espresso

e tener moto regolato e giuto

la bianca dea con l’altre stelle appresso

e con perpetuo error per l’alta mole

di fera in fera ir tra le sfere il sole;

ma dove un tal miracolo si lesse                                174

o chi senno ebbe mai tanto profondo,

che compilar, compendiar sapesse

la gran rota del tutto in picciol tondo?

Al magistero mio sol si concesse

far un vero model del maggior mondo,

loqual del mondo insieme elementare,

nonché sol del celeste, è l’essemplare;

onde di quante cose o buone o ree                           175

passate ha il mondo in qualsivoglia etade

e di quante passar poscia ne dee

per quante ha colaggiù terre e contrade,

qui son le prime e originarie idee

dove scorger si può ciò che v’accade.

Riluce tutto in questo vetro puro

col passato e’l presente, anco il futuro.

Vedi le zone fervide e l’algenti                                  176

e dove bolle e dove agghiaccia l’anno;

vedi con qual misura agli elementi

tutti i corpi celesti in giro vanno;

vedi il sentier, là dove i duo lucenti

passaggieri del ciel difetto fanno;

vedi come veloce il moto gira

del ciel, ch’ogni altro ciel dietro si tira.

Ecco i tropici poi, quindi discerni                              177

volgersi il cancro e quinci il capricorno,

dove agguaglian delpari i corsi alterni

la notte al sonno, ala vigilia il giorno.

Ecco i coluri, uniti ai poli eterni,

che sempre il ciel van discorrendo intorno;

ecco con cinque linee i paralelli

e nel bel mezzo il principal tra quelli.

Eccoti là sotto il più basso cielo                                178

il foco che sempr’arde e mai non erra;

mira del’acque il trasparente gelo,

che’l gran vaso del mar nel ventre serra;

mira del’aria molle il sottil velo,

mira scabrosa e ruvida la terra,

tutta librata nel suo proprio pondo,

quasi centro del ciel, base del mondo.

Rimira e vi vedrai distinti e chiari                               179

boschi, colli, pianure e valli e monti;

vedrai scogli ed arene, isole e mari

e laghi e fiumi e ruscelletti e fonti;

province e regni e di costumi vari

genti diverse e d’abiti e di fronti;

vedrai con peli e squame e penne e rostri

e fere e pesci ed augelletti e mostri.

Vedi la parte ove l’Aurora al Tauro                          180

il capo indora e l’oriente alluma;

vedi l’altra ove lava al vecchio mauro

il piè di sasso l’africana spuma;

vedi là dove sputa il fiero Cauro

su le balze rifee gelida bruma;

vedi ove il Negro con la negra gente

suda sotto l’ardor del’asse ardente.

Ecco le rupi onde trabocca il Nilo                             181

che la patria e’l natal sì ben nasconde;

ecco l’Eufrate che per dritto filo

le due gran region parte con l’onde;

l’Indo è colà che per antico stilo

fa di tempeste d’or ricche le sponde;

quell’è il terren, là dove sferza e scopa

le sue fertili piagge il mar d’Europa.

Vuoi l’Arabie veder per te famose?                          182

la petrea, la deserta e la felice?

eccoti il loco apunto, ove t’espose

la trasformata già tua genitrice.

Ve’ le rive di Cipro ambiziose

d’una tanta bellezza abitatrice;

conosci il prato ove perdesti il core?

è quello il tetto ove t’accolse Amore?

Grande è il teatro e ne’ suoi spazi immensi                            183

chi langue in pena e chi gioisce in gioco,

ma per non ti stancar la mente e i sensi

in cose omai che ti rilevan poco,

tanto sol mostrerò quanto appartiensi

ala bell’esca del tuo dolce foco;

sai pur che protettrice è questa dea

dela stirpe di Dardano e d’Enea.

Le diede sovra Pallade e Giunone                             184

Paride già dele bellezze il vanto,

benché tragico n’ebbe il guiderdone

e corser sangue il Simoenta e’l Santo.

Questa, ma non già sola, è la cagione

ch’ella il seme troiano ami cotanto. –

Mirolla in questo dir Mercurio e rise,

l’altra arrossì col rimembrar d’Anchise.

- Or mentre (seguì poi) del cavo fianco                                 185

uscito del destrier ch’insidie chiude

stuol di greci guerrieri, il frigio stanco

assai con armi impetuose e crude,

sotto la scorta del buon duce Franco

ricovra ala meotica palude

una gran parte di reliquie vive,

essuli, peregrine e fuggitive.

Taccio il corso fatal di queste genti                           186

e de’ suoi vari casi il lungo giro,

per quanti fortunevoli accidenti

in Germania passar con Marcomiro;

come di Marcomiro i discendenti

nel gallico terren si stabiliro

dapoiché Feramondo al mondo venne,

che delo scettro il primo onor vi tenne.

Né fia d’uopo additarti ad uno ad uno                                  187

di quest’ampia miniera i gran monarchi

e le palme e le spoglie e di ciascuno

l’eccelse imprese e gli onorati incarchi;

la folta selva degli eroi ch’aduno

consenti pur che brevemente io varchi

e scelga sol del numero ch’io dico

col degno figlio il valoroso Enrico.

Volgi la vista ove’l mio dito accenna                         188

e la Lega vedrai l’insegne sciorre

e, quasi armata ed animata Ardenna,

tre foreste di lance inun raccorre.

Ma d’altra parte il paladin di Senna

vedile pochi e scelti a fronte opporre;

vedi con quanto ardire oltre Garona

fa le truppe marciar contro Perona.

Montagna che del ciel tocchi i confini,                                   189

selva d’antiche e condensate piante,

fiume che d’alta rupe ingiù ruini,

tempesta in nembo rapido e sonante,

neve indurata in freddi gioghi alpini,

fiamma ch’euro ale stelle erga fumante,

mar, cielo, inferno al’animosa spada

forano agevol guado e piana strada.

Guerrier, destrieri atterra, armi, stendardi                              190

spezza e, sprezzando gli urti, apre le strade;

nembi di sassi, grandini di dardi,

turbini d’aste, fulmini di spade

piovongli sovra ed ei de’ più gagliardi

sostien gl’incontri, agl’impeti non cade,

né stanco posa, né ferito langue,

fatto scoglio di ferro in mar di sangue.

Tutto del sangue ostil molle e vermiglio                                 191

abbatte, impiaga uccide ovunque tocchi;

vedil vibrando aprova il ferro e’l ciglio

ferir col brando e spaventar con gli occhi.

S’altri talor nel’orrido scompiglio

si rivolge a mirar qual colpi ei scocchi,

dal guardo è pria che dala spada ucciso

e chi fugge la man non campa il viso.

Chi gli contenderà l’alto diadema                              192

s’un oste tal d’ogni poter disarma?

né sol dapresso il Rodano ne trema,

ma fa da lunge impallidir la Parma?

Ecco del Tago la speranza estrema

il signor degli Allobrogi che s’arma;

ecco che’n prova al paragon concorre

con l’italico Achille il gallo Ettorre.

Odi, Parigi, i fieri tuoni e vedi                                    193

quanti l’irata man fulmini aventa.

Deh! che pensi? o che fai? perché non cedi?

Già co’ giganti suoi Flegra paventa.

Stendi stendi le palme e pietà chiedi

e l’auree chiavi al regio piè presenta;

stolta sei ben s’altro pensier ti move;

così si vince sol l’ira di Giove.

Vedilo entrar nele famose mura                                194

ed occupar le maldifese porte.

Van con la Fuga cieca e malsecura

declinando il furor del braccio forte

l’ignobil Pianto e la plebea Paura:

chi non fugge da lui, segue la Morte;

battuto dal Timor cade il Consiglio

e l’Ordine confuso è dal Periglio.

Eccolo alfin ch’è con applauso eletto                        195

de’ Galli alteri a governare il freno,

né studia quivi con tiranno affetto

beni usurpati accumularsi in seno:

con larga man, con gioviale aspetto

versa d’oro, ov’è d’uopo, il grembo pieno

e d’or in or regnando, altrui più scopre

generosi pensier, magnanim’opre.

Non v’ha più loco ambizione ingorda,                                   196

non più stolto furor, discordia fiera;

non v’ha prudenza cieca o pietà sorda,

pace e giustizia in quell’impero impera;

sa far, sì ben le repugnanze accorda,

autunno germogliar di primavera,

mentre fra gli aurei gigli a Senna in riva

pianta dopo la palma anco l’oliva.

Virtù, quanto è maggior, tanto è più spesso                           197

del’invidia maligna esposta ai danni,

laqual suol quasi a lei far quello istesso

che’l tarlo ai legni e la tignuola ai panni;

qual ombra che va sempre al corpo appresso,

la perseguita ognor con vari affanni,

ma son gli oltraggi suoi, ch’offendon poco,

lime del ferro e mantici del foco.

Mira il fior de’ migliori, al cui gran lume                                198

l’altrui sciocco livor divien farfalla;

mercé di quel valor che per costume

quanto s’affonda più, più sorge a galla,

malgrado di chi nocergli presume

ai pesi è palma, ale percosse è palla,

onde di novo onor doppiando luce

è fatto inclito re d’inclito duce.

Del guerrier forte, i cui gran pregi essalto                              199

fia tale e tanta la sublime altezza,

che come Olimpo oltra le nubi in alto

non teme i venti e i fulmini disprezza;

così d’invidia o pur d’insidia assalto

danneggiar non potrà tanta grandezza,

anzi ogni offesa ed ogni ingiuria loro

sarà soffio ala fiamma e fiamma al’oro.

Senon ch’io veggio di furor d’inferno                        200

d’una furia terrena il petto acceso

e, punto dale vipere d’averno,

un cor malvagio a perfid’opra inteso.

Non vedi là come colui ch’a scherno

prese esserciti armati, a terra ha steso,

mosso da folle e temeraria mano,

con un colpo crudel ferro villano?

Quando al’alte speranze in sen concette                               201

tenendo il mondo già tutto converso,

cinto d’armi forbite e genti elette

spaventa il moro ed atterrisce il perso

e gli appresta Fortuna e gli promette

lo scettro universal del’universo,

pria ch’egli vada a trionfar d’altrui

vien Morte iniqua a trionfar di lui.

Vansi le Virtù tutte a sepelire                        202

nel sepolcro che chiude il sol de’ Franchi,

salvo la Fama, che non vuol morire

perch’ale glorie sue vita non manchi

e, come al caso orribile a ridire

i suoi tant’occhi lagrimando ha stanchi,

così, per farlo ancor sempre immortale,

s’apparecchia a stancar le lingue e l’ale.

Ma che? se da colei che vince il tutto                                    203

è vinto alfin il sempr’invitto Enrico,

l’alto onor de’ Borbon quasi distrutto

in parte a ristorar vien Lodovico,

che, da sì degno stipite produtto,

aggiunge gloria al gran legnaggio antico

e, sotto l’ombra del materno stelo,

alza felice i verdi rami al cielo.

Or mi volgo colà dove Baiona                                  204

smalta di gigli i fortunati lidi;

veggio superbo il mar che s’incorona

di gemme e d’or qual mai più ricco il vidi;

già già l’arena sua tutta risona

di lieti bombi e di festivi gridi;

veggio per l’onde placide e tranquille

sfavillar lampi e lampeggiar faville.

Né l’indico oceano orientale                         205

tante aduna nel sen barbare spoglie,

né lo stellato ciel cumulo tale

di bellezze e di lumi in fronte accoglie.

O spettacol gentil, pompa reale,

o bennato consorte, o degna moglie!

Qual concorso di regi e di reine

scende a felicitar l’acque marine.

Risguarda in mezzo al fiume ov’io ti mostro:                          206

vedrai colonne eburnee, aurei sostegni

con un gran sovraciel di lucid’ostro

far ricca tenda a un’isola di legni

che, fianco a fianco aggiunti e rostro a rostro,

porgono il nobil cambio ai duo gran regni,

mentre prendono e dan Spagna e Parigi

Lisabetta a Filippo, Anna a Luigi.

Ma vedi opporsi agl’imenei felici                               207

suddite al gallo e ribellanti schiere

e coprir di Guascogna i campi aprici

quasi dense boscaglie, armi guerriere.

Quinci e quindi, aversarie e protettrici,

spiegan Guisa e Condé bande e bandiere;

ma del figlio d’Enrico il novo Enrico

si mostra sì, non è però nemico.

L’uno è colui che sotto ha quel destriero                               208

baio di pelo, italian di razza;

di tre vaghi alironi orna il cimiero

e di croci vermiglie elmo e corazza;

benché misto di bigio abbia il crin nero,

gli agi abbandona ed esce armato in piazza

e, carco inun d’esperienza e d’anni,

torna di Marte ai già dismessi affanni.

L’altro è quei più lontan, che la campagna                            209

scorre, di ferro e d’or grave e lucente;

è sul verde degli anni e l’accompagna

fiera e di novità cupida gente;

ha nelo scudo i gigli e di Brettagna

cavalca ubero un corridor possente

e tien dal fianco attraversata al tergo

una banda d’azzurro insu l’usbergo.

Già già numero immenso ingombra il piano                           210

di tende armate e di trabacche tese;

piagne disfatto il misero Aquitano

e le messi e le moli al bel paese;

già tinto il giglio d’or di sangue umano

ch’è pure, ahi ferità! sangue francese,

sembra quel fior che del suo re trafitto

nele foglie purpuree il nome ha scritto.

Gallia infelice, ahi qual s’appiglia, ahi quale                           211

nele viscere tue morbo intestino!

Rode il tuo sen profondo interno male

di domestico tosco e cittadino;

pugnan discordi umori in corpo frale

sich’io preveggio il tuo morir vicino

ed al tuo scampo ogni opra, ogni arte è vana

se Medica pietà non ti risana.

Pon colà mente ala gran donna d’Arno                                 212

con qual valor la sua ragion difende,

né con petto tremante o viso scarno

fra tante cure sue posa mai prende.

Vorrebbe, e’l tenta ben, ma’l tenta indarno,

senza ferro estirpar le teste orrende,

le teste di quell’idra empia ed immonda,

di veleno infernal sempre feconda.

Che non fa per troncarle? ecco pospone                              213

ale publiche cose il ben privato

ed al’impeto ostil la vita espone

per salvar del gran pegno il dubbio stato:

ad accordo venir pur si dispone

e sospende tra l’ira il braccio armato

pur che’l furor s’acqueti e cessi quella

d’orgoglio insano aquilonar procella.

Ma quando alfin la gran tempesta scorge                              214

che l’aria offusca e’l mar conturba e mesce

e che l’onda terribile più sorge

e che’l vento implacabile più cresce,

al ben saldo timon la destra porge,

drizzasi al polo e di camin non esce,

or con forza reggendo or con ingegno

tra tanti flutti il travagliato legno.

Fisa dritto colà meco lo sguardo                               215

dove l’ampia riviera il passo serra;

quivi campeggia il gran campion Guisardo

contro cui non si tien torre né terra,

e par che dica intrepido e gagliardo:

«Chi la pace ricusa, abbia la guerra»,

e, con prodezza ala baldanza eguale

del’aversario i miglior forti assale.

L’essercito real cauto provede                                 216

di genti e d’arme e non s’allenta o stanca

in esseguir quanto giovevol crede

o necessario ala corona franca.

O senza essempio incomparabil fede!

quando ai casi oportuni ogni altro manca,

sol questi alpar dele più forti mura

mostra petto costante, alma secura.

Fa gran levate di cavalli e fanti;                                 217

che può contro costor l’oste nemica?

gente miglior non vide il sol tra quanti

cinser spada giamai, vestir lorica;

non sanno, in guerra indomiti e costanti,

o temer rischio o ricusar fatica,

usi in ogni stagion con l’armi grevi

bere i sudori e calpestar le nevi.

O qual fervor di Marte, o qual già tocca                               218

al re crescente il cor foco d’ardire;

brama di gir tra’ folgori che scocca

più d’un cavo metallo a sfogar l’ire;

ma dapoiché non può, là dove fiocca

la tempesta del sangue, in pugna uscire,

vassene, o caccia essercitando o giostra,

ch’una effigie di guerra almen gli mostra.

Così leon dala mammella irsuta                                 219

uso ancor a poppar cibi novelli,

tosto che l’unghia al piè sente cresciuta,

ala bocca le zanne, al collo i velli,

già la rupe natia sdegna e rifiuta

la tana angusta e le vivande imbelli,

già segue già tra le cornute squadre

per le getule selve il biondo padre.

Ma quella dea, ch’altro che dea non deve                             220

dirsi colei ch’a divin opre aspira,

smorza intanto quel foco e non l’è greve

per la commun salute il placar l’ira;

i congiurati principi riceve

e l’accampato essercito ritira

ed al popol fellone e contumace

perdonando il fallir, dona la pace.

Ecco d’astio privato ancor bollire                             221

de’ duci istessi gli animi inquieti

e’n stretta lega ammutinati ordire

di novelle congiure occulte reti;

ecco l’accorto re viene a scoprire

di quel trattato i taciti secreti

e da’ sospetti d’ogni oltraggio indegno

con la prigione altrui libera il regno.

Poiché’l pensier del machinato danno                                   222

vano riesce e d’ogni effetto voto,

del capo afflitto le reliquie vanno

qual polve sparsa alo spirar di noto.

Ma per nove cagion pur anco fanno

novo tra lor sedizioso moto

e, pur con nove forze e genti nove,

la regia armata a’ danni lor si move.

Fuor de’ materni imperi intanto uscito                                   223

passa il re novo a possedere il trono,

da cui, pria calcitrante e poi pentito,

chi pur dianzi l’offese ottien perdono.

Richiamata è virtù, Marte sbandito

per quell’alto donzel di cui ragiono,

l’alto donzel che sostener non pave

con sì tenera man scettro sì grave.

Il Tamigi, il Dannubbio, il Beti, il Reno                                  224

l’ama, il teme, l’ammira anco da lunge,

anzi fin nel’italico terreno

a dar le leggi col gran nome giunge.

E se pur di vederne espresso apieno

un degno essempio alcun desio ti punge,

risguarda in riva al Po come si face

arbitro dela guerra e dela pace.

Io dico ove tra’l Po, che non lontano                        225

nasce, e la Dora e’l Tanaro risiede

il bel paese, al cui fecondo piano

la montagna del ferro il nome diede.

Vedrai Savoia con armata mano

che due cose in un punto a Mantoa chiede:

il pegno dela picciola nipote

e de’ confin la patteggiata dote.

Vedi di Cadmo il successor che viene                                   226

in campo a por le sue ragioni antiche

e, perché l’una nega e l’altra tiene,

case unite in amor tornan nemiche.

Forse nutrisci, o Mincio, entro le vene

il seme ancor dele guerriere spiche,

poiché veggio dal sen dela tua terra

pullular tuttavia germi di guerra?

Veder puoi di Torin l’invitto duce,                            227

cui non ha Roma o Macedonia eguale,

che carriaggi e salmerie conduce

con varie sovra lor machine e scale.

Su lo spuntar dela diurna luce

a Trino arriva e la gran porta assale.

Vedi stuol piemontese e savoiardo

Quivi attaccar l’espugnator pettardo.

Ecco, rotto il rastel, passato il ponte,                        228

non però senza sangue e senza morti,

le genti alloggia al’alta rocca a fronte,

prende i quartier più vantaggiosi e forti,

manda la valle ad appianar col monte

i picconieri e i manovali accorti,

mette i passi a spedir scoscesi e scabri

con vanghe e zappe e guastadori e fabri.

Fa con gabbie e trincee steccar dintorno                               229

de’ miglior posti i più securi siti;

col sembiante real vergogna e scorno

accresce ai vili ed animo agli arditi;

par fiamma o lampo, or parte or fa ritorno

cercando ove conforti ed ove aiti,

mentre il cannon, che fulminando scoppia,

nel rivellin la batteria raddoppia.

Ed egli, inun co’ generosi figli,                                   230

studia come talor meglio si batta,

sempre occupando infra i maggior perigli

la prima entrata e l’ultima ritratta.

Convien che pur di ceder si consigli

la terra alfin, per non restar disfatta,

ed apre al vincitor, che l’assecura

dala preda, dal ferro e dal’arsura.

Moncalvo a un tempo espugna anco e conquista;                             231

ma chi può qui vietar che non si rube?

va il tutto a sacco. O qual confusa e mista

scorgo di fumo e polve oscura nube.

E, se pari l’udir fusse ala vista,

risonar v’udirei timpani e tube.

Rendersi i difensor già veder parmi,

salve le vite con gli arnesi e l’armi.

Pur nel’alba medesma Alba è sorpresa                                 232

e pur dale rapine oppressa langue.

Il miser cittadin non ha difesa,

per doglia afflitto e per paura essangue;

va il soldato ove’l trae fra l’ire accesa

fame d’or, sete d’or più che di sangue;

suscita l’oro ch’è sotterra accolto

e sepelisce poi chi l’ha sepolto.

Di buon presidio il gran guerrier fornisce                               233

le prese piazze; ed ecco il campo ha mosso,

nova milizia assolda e’ngagliardisce

di gente elvezia e valesana il grosso;

ecco, dela città che’mpaludisce

là tra’l Belbo e la Nizza, il muro ha scosso;

ecco a difesa del signor di Manto

il vicino spagnuol movesi intanto.

Per reverenza dele insegne ibere                               234

toglie a Nizza l’assedio e si ritragge.

Quindi van di cavalli armate schiere

d’Incisa e d’Acqui a disertar le piagge.

Tragedia miserabile a vedere,

le culte vigne divenir selvagge

e dal furor del foco e dele spade

abbattuti i villaggi, arse le biade.

Trema Casale; a temprar armi intesi                          235

sudano i fabri ale fucine ardenti;

l’acciar manca a tant’uopo, onde son presi

mille dagli ozi lor ferri innocenti;

rozzi non solo e villarecci arnesi,

ma cittadini artefici stromenti

forma cangiano ed uso, e far ne vedi

elmi e scudi, aste ed azze e spade e spiedi.

Il vomere già curvo, or fatto acuto                            236

a Bellona è donato, a Cerer tolto;

su la sonante incudine battuto,

d’aratore in guerrier vedi rivolto;

l’antico agricoltor rastro forcuto,

nel fango e nela rugine sepolto,

vestendo di splendor la viltà prima

ringiovanisce al foco ed ala lima.

Intanto e quinci e quindi ecco spediti                         237

vanno e vengono ognor corrieri e messi,

ché’l buon re ch’io dicea vuol che sopiti

sieno i contrasti e la gran pugna cessi;

ed accioché gli affar di tante liti

in non sospetta man restin rimessi,

ai deputati imperiali e regi

fa consegnar dela vittoria i pregi.

S’induce alfin, capitulati i patti,                                  238

l’eroe del’Alpi a disarmar la destra

e de’ diffinitor de’ gran contratti

tra le mani il deposito sequestra.

Ma qual rio sacrilegio è che non tratti

l’empia Discordia, d’ogni mal maestra?

ecco da capo al rinovar del’anno

nov’interessi a nove risse il tranno.

Tornano a scorrer l’armi, ov’ancor stassi                              239

la prateria sì desolata e rasa,

che ne stillano pianto e sangue i sassi

poiché fabrica in piè non v’è rimasa,

né resta agli abitanti afflitti e lassi

villa, borgo, poder, castello o casa;

già s’appresta la guerra e già la tromba

altri chiama ala gloria, altri ala tomba.

Colui ch’è primo e la divisa ha nera                          240

e su l’usbergo brun bianca la croce,

ben il conosco ala sembianza altera,

e Carlo, il cor magnanimo e feroce;

di corno in corno e d’una in altra schiera

il volo impenna al corridor veloce,

pertutto a tutti assiste e’l suo valore

intelletto è del campo, anima e core.

Spoglia di grosso e malcurato panno,                                   241

lacerata da lance e da quadrella,

l’armi gli copre e fregio altro non hanno,

né vuol tanto valor vesta più bella;

spada, splendido don del re brittanno,

cinge, né v’ha ricchezza eguale a quella;

ricca, ma più talor suo pregio accresce,

ch’i rubin tra i diamanti il sangue mesce.

Mira colà dove distende e sporge                             242

Asti verso aquilon l’antiche mura:

poco lunge difuor vedrai che sorge

un picciol colle in mezzo ala pianura;

quindi, fuorché la testa, armato ei scorge

le classi tutte e’l suo poter misura;

quindi del campo in general rassegna

rivede ogni guerrier, nota ogn’insegna.

Quasi pastor che le lanose gregge                             243

con la provida verga a pasco adduca,

con leggiadre ordinanze altrui dà legge

il coraggioso, il bellicoso duca;

per mostrar quivi a chi l’affrena e regge

come di ferro e di valor riluca,

spiega ogni stuol vessilli e gonfaloni,

gonfia stendardi e sventola pennoni.

Quanto d’Insubria il bel confin circonda                                244

fin sotto le ligustiche pendici,

quanto di Sesia e Bormia irriga l’onda,

voto riman di turbe abitatrici.

Quei che nela vallea cupa e profonda

soggiornan del Monviso ale radici

vengonvi e di Provenza e di Narbona

quei che bevon Durenza, Isara e Sona.

Né pur d’Augusta solo e di Lucerna                         245

le valli inculte e le montagne algenti

e dagli aspri cantoni Agauno e Berna

mandanvi copia di robuste genti,

ma giù dal’Alpi, ove maisempre verna,

v’inondan, quasi rapidi torrenti,

per le vie di Bernardo e di Gebenna

quei che lasciano ancor Ligeri e Senna.

Un che con armi d’or va seco alparo                        246

è l’Aldighiera, il marescial temuto,

che sotto giogo di pesante acciaro

doma il corpo rugoso e’l crin canuto.

Ecco di Damian l’eccidio amaro,

da’ duo franchi guerrier preso e battuto;

ed ecco d’Alba la seconda scossa;

chi fia ch’impeto tanto affrenar possa?

Pon mente a quel cimier, che con tre cime                            247

di bianca piuma si rincrespa al vento:

è di Vittorio, il principe sublime,

del Piemonte alta speme, alto ornamento.

Ben l’interno valor negli atti esprime,

ha di latte il destrier, l’armi d’argento

e, d’un aureo monil ch’al petto scende,

groppo misterioso al collo appende.

Vedi con quanto ardire e’n che fier atto                                248

inaspettato a Messeran s’accampa

e, giunto a Cravacor quasi in un tratto,

di ruina mortal segni vi stampa.

Già questo e quel, poiché del giusto patto

non fur contenti, in vive fiamme avampa;

già d’amboduo con esterminio duro

spianato è il forte e smantellato il muro.

Vuoi veder un, che nato a grandi imprese,                            249

d’emular il gran padre s’affatica?

Mira Tomaso, il giovane cortese,

che tinta di sanguigno ha la lorica

e’l cuoio del leon sovra l’arnese

porta, del’avo Alcide insegna antica;

di seta ha i velli e con sottil lavoro

mostra il ceffo d’argento e l’unghie d’oro.

Vedilo in dubbia e perigliosa mischia                         250

passar tra mille picche e mille spade;

già dal volante fulmine che fischia

trafitto il corridor sotto gli cade;

ma ne’ casi maggior vie più s’arrischia

quel cor, che col valor vince l’etade

e, pien d’ardir più generoso ed alto,

preso novo destrier, torna al’assalto.

Miralo poi mentre il maggior fratello                          251

con gran guasto di morti e di prigioni

rompe il soccorso e’l capitan di quello

uccide, che confuso è tra’ pedoni,

dela cavalleria giunto al drappello

torre i regi stendardi a duo campioni,

indi mandargli per eterno essempio

d’alta prodezza ad appiccar nel tempio.

Solo il gran Filiberto altrove intanto                           252

dubbioso spettator stassi in disparte;

ma’l buon Maurizio con purpureo manto

regge il paterno scettro in altra parte

e l’alte leggi del governo santo

con giusta lance ai popoli comparte;

talor, pio cacciatore, ai fidi cani

del devoto Amedeo dispensa i pani.

O se mai prenderà, Tifi celeste,                                253

il gran timon dela beata nave,

da guai scogli secura, a guai tempeste

sottratta, correrà calma soave.

Già la vegg’io per quelle rive e queste

portar, nov’Argo, di gran merci grave,

scorta da divin zefiro secondo,

il vello d’oro a vestir d’oro il mondo.

Ma vedi or come freme e come ferve                                   254

contro costoro il fior d’Italia tutta?

genti a l’ibero o tributarie o serve,

gioventù ben armata e meglio instrutta.

Ben a tante e sì fiere armi e caterve

s’oppon l’inclito estense e le ributta;

alfin pur al’essercito che passa

libero il camin cede e’l varco lassa.

Passan l’ardite schiere e di Milano                            255

il prefetto maggior tra’ suoi l’accoglie;

eccolo là sovra un corrente ispano

che l’insegne reali al’aura scioglie;

il baston general di capitano

tien nela destra e veste oscure spoglie;

mira poi come inun feroci e vaghi

s’arman dal’altro lato i gran Gonzaghi.

Quel ch’ha d’un verdescuro a fiocco a fiocco                                   256

la sovravesta, è di Niverse il pregio.

Vedi un ch’ha d’or lo scudo e d’or lo stocco?

quegli è Vincenzo, il giovinetto egregio;

l’altro che splende di lucente cocco

e’n sembiante ne viene augusto e regio

riposato nel gesto e venerando,

quegli, s’io ben comprendo, è Ferdinando.

Lascia i bei studi e prende a guerra accinto                           257

da’ tranquilli pensier cura diversa;

Manto che’l fior de’ lucid’ostri ha tinto,

fa ricca pompa al’armatura tersa;

groppo di gemme in cima il tiene avinto

sì ché l’omero e’l petto gli attraversa,

ma pur l’acciar con argentata luce

sotto la fina porpora traluce.

Vedi il Toledo che Vercelli affronta,                          258

già l’ha di stretto assedio incoronata;

la città tutta ale difese pronta

sta su le mura e su le torri armata;

vedi lo scalator che su vi monta

e’l cittadino a custodir l’entrata;

ma, poich’assai resiste e si difende,

per difetto di polve alfin si rende.

In questo mezzo il capitano alpino                             259

di far gualdane e correrie non resta;

Filizano ed Annone e’l Monferrino

con mille piaghe in mille guise infesta;

oltre il frutto perduto, il contadino

forza è che paghi or quella taglia or questa;

corre l’altrui licenza, ove l’alletta

desire o di guadagno o di vendetta. –

Così divisa e del’istorie ignote                                  260

svela il fosco tenor lo dio d’Egitto,

quando nel terso acciar, tra le cui rote

quanto creò Natura è circoscritto,

Adone, in parti alquanto indi remote

volgesi e vede un non minor conflitto

dove la gente in gran diluvio inonda

e, diffuso in torrenti, il sangue abonda;

onde, rivolto al messaggier volante,                           261

dela bella facondia arguto padre,

disse: - O nunzio divin, tu che sai tante

meraviglie formar nove e leggiadre,

l’altra guerra che fan quindi distante

l’altre, ch’altrove io veggio, armate squadre,

fammi conto ond’avien, poich’ancor quivi

par si combatta e corra il sangue in rivi. –

- Io ti dirò (risponde): altra cagione                           262

Austria in un tempo a guerreggiar sospinge

con la donna real del gran leone

che per Adria guardar la spada stringe;

né pur del sangue di più d’un squadrone

la terra sola si colora e tinge,

ma’l mare istesso in non men fiero assalto

rosseggia ancor di sanguinoso smalto.

Se gola hai di vederlo, or meco affisa                                   263

dritto le luci ov’io l’affiso e giro. –

Egli girolle, e’n disusata guisa

vide ondeggiar lo sferico zaffiro;

già d’Anfitrite a man a man ravisa

i vasti alberghi entro l’angusto giro

e di gran selve di spalmati legni

popolati rimira i salsi regni.

Dale rive adriatiche e dal porto                                 264

di Partenope bella alate travi

già del ferro mordace il dente torto

spiccano onuste di metalli cavi;

già quinci e quindi a par a par s’è scorto

un navilio compor di molte navi,

le cui veloci e volatrici antenne

per non segnate vie batton le penne.

Volan per l’alto e de’ cerulei chiostri                         265

arano i molli solchi i curvi abeti;

rompon co’ remi e co’ taglienti rostri

dele prore ferrate il sen di Teti;

i fieri armenti de’ marini mostri

fuggono spaventati ai lor secreti;

sotto l’ombra del’arbori, ch’aduna

questa armata e quell’altra, il mar s’imbruna.

Apena omeri quasi ha il mar bastanti                         266

il peso a sostener di tanti pini;

apena il, vento istesso a gonfiar tanti

può co’ fiati supplir, candidi lini;

fugaci Olimpi e vagabondi Atlanti,

Alpi correnti e mobili Appennini

paion, svelti da terra e sparsi a nuoto,

i gran vascelli ala grossezza, al moto.

Veder fra tanti affanni in tanta guerra                         267

la vergin bella a Citerea dispiacque,

la vergin bella che s’annida e serra

tra’ lucenti cristalli ov’ella nacque,

ond’hanno insieme il mar lite e la terra,

l’una l’offre le rive e l’altro l’acque;

pugnan con belle ambiziose gare

per averla tra lor la terra e’l mare.

Ecco che gorghi già di foco e polve                          268

vomita il bronzo concavo e forato,

scoccando sì che i legni apre e dissolve

con fiero bombo il fulmine piombato;

nebbia d’orror caliginoso involve

e mare e ciel da questo e da quel lato;

sembra ogni canna, tante fiamme spira,

la gola di Tifeo quando s’adira.

Già viensi ad afferrar poppa con poppa,                               269

già spron con sprone impetuoso cozza,

già vota il fuso e’l fil che Cloto aggroppa

di mille vite a un punto Atropo mozza;

spada in spada, asta in asta urtando intoppa,

l’acqua già ne divien squallida e sozza

e, del sangue commun tinta, somiglia

del gran golfo eritreo l’onda vermiglia.

L’una classe nel’altra aventa e scaglia,                                  270

pregni d’occulto ardor, globi e volumi,

onde, mentre più stretta è la battaglia,

incendio repentin vien che s’allumi.

Scoppian le cave palle e fan che saglia

turbo ale stelle di faville e fumi;

tra’l bitume e la pece e’l nitro e’l zolfo

chi sbalza al ciel, chi sdrucciola nel golfo.

Scorre Vulcano e mormorando rugge                                   271

e tra’ ruggiti suoi vibra la lingua;

gabbie intorno e castella arde e distrugge,

né sa Nettuno omai come l’estingua;

l’esca del sangue, che divora e sugge,

alimento gli porge onde s’impingua;

vince, trionfa e, con la man rapace

depreda il tutto imperioso e sface.

In ben mille piramidi vedresti                         272

sorger la fiamma dagli ondosi campi,

alzar le punte ed a que’ venti e questi

crollar le corna e scaturirne i lampi.

Tra sì fieri spettacoli e funesti

par che la fiamma ondeggi e l’onda avampi,

par che torni ala lite onde pria nacque,

fatto abisso di foco il ciel del’acque.

L’eccelse poppe e le merlate rocche                         273

son cangiate in feretri e fatte tombe;

con rauche voci e con tremende bocche

romoreggian tamburi e stridon trombe;

lanciansi i dardi e votansi le cocche,

vibransi l’aste e rotansi le frombe;

chi muor trafitto e chi malvivo langue,

solcan laceri busti il proprio sangue.

Tremendi casi la spietata zuffa                                  274

mesce di ferro inun, d’acqua e di foco,

chi nel fondo del pelago s’attuffa,

chi nel sale spumante è fatto gioco,

chi galeggia risorto e’l flutto sbuffa,

chi tenta risalir, ma gli val poco,

chi ricade ferito ed a versare

vien di tepido sangue un mar nel mare.

Strepito di minacce e di querele,                               275

di percosse e di scoppi i lidi assorda;

altri con man dele squarciate vele

s’attien sospeso in aria a qualche corda,

ma, giunto dal’arsura empia e crudele,

vassi a precipitar nel’onda ingorda,

onde con strana e miserabil sorte

prova quattro elementi in una morte.

Or quando più crudel bolle la guerra                         276

e va baccando la Discordia stolta,

quando di qua, di là l’onda e la terra

tutta è nel sangue e nel’orrore involta,

ecco del fier bifronte il tempio serra

colui ch’anco il serrò la prima volta;

placa gli animi alteri e fa che cada

l’ira da’ cori e dala man la spada.

E per fermar con sempre stabil chiodo                                  277

la Pace, ch’è gran tempo ita in essiglio,

Cristina bella in sacrosanto nodo

stringe del re de’ monti al maggior figlio.

Vedrassi il groppo onde si gloria Rodo

insieme incatenar la palma e’l giglio;

e tu di gigli allor, non più di rose

tesserai, dea d’Amor, trecce amorose.

Già d’età, già di senno e già cresciuto                                   278

tanto è di forze il giovinetto augusto,

ch’ottien, delpari amabile e temuto,

vanto di buono e titolo di giusto.

Ma l’orgoglio de’ principi abbattuto

sorge ancor più superbo e più robusto

e’l bel regno da lor stracciato a brani

rassomiglia Atteon tra’ propri cani.

Movesi al’armi e ne va seco armato                          279

Enrico, il primo fior del regio seme,

quei che pur dianzi andò, quasi sdegnato,

co’ men fedeli a collegarsi insieme;

sdegno fu, ma fu lieve; orch’alo stato

del gran cugino alto periglio ei teme,

gli sovien quand’è d’uopo in tanta impresa

di consiglio, d’aiuto e di difesa.

Va con poche armi ad assalir la fronte                                  280

de’ nemici dispersi e gli sorprende.

Non vedi Can, che volontarie e pronte

gli disserra le porte e gli si rende?

vedi di Sei nel sanguinoso ponte

quante squadre rubelle a terra stende?

poi, per domar la scelerata setta,

ver l’estrema Biarne il campo affretta.

Cede lo sforzo e l’impeto nemico,                            281

ingombra Navarrin terrore e gelo;

già v’entra e nel’entrarvi il re ch’io dico

non men che di valor s’arma di zelo;

rende ai distrutti altari il culto antico,

a sestesso l’onor, la gloria al cielo;

ogni passo è vittoria, ovunque ei vada

e vince senza sangue e senza spada.

Qual’uom che pigro e sonnacchioso dorme,                         282

giace col corpo insu le piume molli,

con l’alma del pensier seguendo l’orme,

varca fiumi e foreste e piani e colli,

tal, rivolgendo Adon gli occhi ale forme,

dela cui vista ancor non son satolli,

non sa se vede o pargli di vedere

tra lumi ed ombre imagini e chimere.

Mentrech’ei pur de’ simulacri accolti                        283

nel mondo cristallin l’opre rimira,

del silenzio in tal guisa i nodi ha sciolti

l’alto inventor dela celeste lira:

- Sappi che dietro a molti corsi e molti

del gran pianeta che’l quart’orbe gira,

pria ch’abbia effetto il ver, staranno ascose

le qui tante da te vedute cose.

Ma que’ successi ch’ancor chiude il fato                               284

t’ho voluto mostrar come presenti,

accioché miri alcun fatto onorato

dele più degne e gloriose genti.

Fin qui Giove permette; e non m’è dato

più in là scoprirti de’ futuri eventi;

or tempo è da fornir l’opra che resta;

vedi il sol che nel mar china la testa.

Vedi ch’armata d’argentati lampi                              285

per le campagne del suo ciel serene

la stella inferior, ch’omai degli ampi

spazi del’orizonte il mezzo tiene,

mentre del’aria negli aperti campi

a combatter col dì la notte viene,

prende a schierar dele guerriere ardenti

i numerosi esserciti lucenti.

Lungo troppo il camino e breve è l’ora,                                286

onde convien sollecitare il passo

per poter, raccorciata ogni dimora,

tornar per l’orme nostre al mondo basso,

peroché’l suo bel lume ha già l’aurora

due volte acceso ed altrettante casso

daché partimmo e qui, fuorch’a felice

gente immortale, il troppo star non lice. –

Così Mercurio; e l’altro allor dintorno                                   287

dove l’occhio il traea volgendo il piede,

le ricche logge del’albergo adorno

di parte in parte a contemplar si diede

e, daché prese a tramontare il giorno,

ch’ivi al’ombra però giamai non cede,

non seppe mai da tal vista levarse

finché l’altr’alba in oriente apparse.

 




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