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Giovan Battista Marino
Adone

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Canto, allegoria 12

La FUGA. Dalla Gelosia, che va col suo veleno ad infettare il cor di Marte nel colmo de’ maggior trionfi, si conosce che niun petto, per forte che sia ed in qualsivoglia stato, può resistere alla violenza di questa rabbia. Dal cagnolino che lusinga e guida Adone si discopre l’affetto verso le cose terrene, da cui si lascia l’uomo assai sovente trasportare alla traccia de’ beni temporali, ombreggiati nella cerva dalle corna d’oro. Il serpente guardiano del passo, cangiato dalla maga in sì fatta forma, dimostra il misero stato di chi cerca l’occasioni del peccare, per laqual cosa perdendo l’umana effigie, ch’è ritratto della divina somiglianza, vien condannato a vivere bestialmente nelle tenebre come cieco. Nel giardino della fata de’ tesori, tutto piantato d’oro e seminato di gemme, ci viene espressa la commodità delle ricchezze, che son di notabile importanza a conseguir le lascivie. Falsirena travagliata da due contrari pensieri, vuol dinotarci l’anima umana, agitata quindi dalla tentazione dell’oggetto piacevole e quinci dal rispetto dell’onesto. Le due donzelle che la consigliano, ci figurano la ragionevole e la concupiscibile, che ci persuadono quella il bene e questa il male.

 

Canto, argomento 12

Dala tartarea sua caverna oscura

la Gelosia pestifera si parte

e, mentre col suo tosco infuria Marte,

Adon sen fugge e trova alta ventura.

 

Canto 12

O di buon genitor figlia crudele                                 1

che’l proprio padre ingratamente uccidi

e le dolcezze altrui spargi di fiele

e le gioie d’amor rivolgi in stridi,

infame Scilla ch’a spiegar le vele

sol per lor danno i naviganti affidi,

sfinge arrabbiata, abominanda Arpia,

per cui virtù si perde, onor s’oblia,

spaventevol Medusa, empia Medea,                         2

che’l senso impetri e la ragione incanti,

Circe malvagia, iniqua maga e rea,

possente in belve a trasformar gli amanti,

qual più mai dal’abisso uscir potea

infelice cagion de’ nostri pianti?

Cruda ministra di cordogli e pene,

propizia al male ed aversaria al bene,

ombra ai dolci pensier sempre molesta,                                3

cura ai lieti riposi aspra nemica,

del sereno del cor turbo e tempesta,

del giardino d’amor loglio ed ortica,

gel per cui secco in fiore il frutto resta,

falce che’nsu’l granir tronchi la spica,

rigido giogo ed importuno morso,

che ne sforzi a cadere a mezzo il corso,

acuto spron che stimulando affligi,                             4

putrido verme che rodendo ammorbi,

sferza mortal che l’anime trafigi,

vorace mar che le speranze assorbi,

nebbia che, carca di vapori stigi,

rendi i più chiari ingegni oscuri ed orbi,

velo che dela mente offuschi i raggi,

sogno de’ desti e frenesia de’ saggi,

qual ria megera o scelerato mostro                           5

ti manda a noi da’ regni oscuri e tristi?

Vattene vanne a quell’orribil chiostro

onde rigore a’ tuoi veleni acquisti.

Non più contaminar lo stato nostro,

torna, torna a Cocito onde partisti;

ch’aver dove ben s’ama in nobil petto

non può basso timor lungo ricetto.

Ma nel misero ancor mondo perduto                        6

non so se sì gran peste entrar ardisca

e negli alberghi suoi l’istesso Pluto

non ti voglia cred’io, ma t’abborrisca,

perché teme al tuo ghiaccio il re temuto

non forse il regno eterno incenerisca

o la fiamma ch’ognor dolce il tormenta

per Proserpina sua non resti spenta.

Giace del freddo Tanai insu le sponde                                  7

là nela Scizia una foresta negra.

Non di fior, non di pomi e non di fronde

spoglia mai veste in alcun tempo allegra,

ma fulminate piante, alpi infeconde

peggior la fan ch’Acrocerauno o Flegra.

D’aure invece e d’augelli han le sue sterpi

pianti di gufi e sibili di serpi.

L’infausto noce e di nocente tosco                            8

consperso il tasso e’l funeral cipresso

rendon quel sempre al sol nemico bosco

con le pallide chiome ispido e spesso.

Per entro il sen caliginoso e fosco

d’ogni intricato suo calle e recesso

marciscon l’ombre e l’aria è densa e nera

quasi meno che notte e più che sera.

Van per burroni cavernosi e cupi,                             9

per balzi inaccessibili ed inculti,

per erme sempre e solitarie rupi

o popolate sol d’aspri virgulti,

draghi a tutt’ore immansueti e lupi

sotto tenebre eterne errando occulti.

Piangono i fonti e’n flebile concento

sospira e spira ancor spavento il vento.

Quivi col piede antico una grand’elce                                   10

al monte il manco lato apre e scoscende,

nel cui spiraglio di pungente selce

s’incurva un arco, che ruina e pende

là’ve turato d’edera e di felce

precipitoso baratro si fende,

del cui lavor, roso dagli anni e scabro,

il caso sol fu l’architetto e’l fabro.

Nele viscere cave ignoto speco                                11

rifiuta il sole e fugge i suoi splendori.

Muti qui sempre e quasi in carcer cieco

tacciono i mesti e desolati orrori.

Raro fra lor s’ascolta accento d’eco,

troppo rigidi alberghi a’ suoi dolori.

Se la chiaman talor tigri o leoni,

son le risposte sue fulmini e tuoni.

Oltre, così nel sotterraneo sasso                               12

con profonda voragine s’interna

che va l’estremo del confin più basso

a terminar nela palude inferna;

onde si crede che sia quindi il passo

del rege oscuro al’infima caverna

e che colei che l’abita sovente

conversi ancor con la sepolta gente.

I latrati di Cerbero custode                           13

scaccian dala contrada armenti e greggi,

pianger del’alme ree la turba s’ode

di Radamanto ale severe leggi,

s’odon gli angui fischiar, batter le code

del’empie Erinni entro i tartarei seggi

e si sente bollir nel proprio fonte

il gorgoglio di Stige e d’Acheronte.

Tra queste solitudini s’imbosca                                 14

non so s’io deggia dir femina o fera.

Alcun non è che l’esser suo conosca

o ne sappia ritrar l’effigie vera;

e pur ciascun col suo veleno attosca,

si ritrova pertutto ed è chimera,

un fantasma sofistico ed astratto,

un’animal difforme e contrafatto.

D’antica donna ha la sembianza e’l nome,                             15

squallida, estenuata e macilenta.

Le mostruose e scompigliate chiome

tutte son serpi ond’ogni cor spaventa.

Dipse, anfisbene e dragoncelli o come

inasprano il dolor che la tormenta,

cencri, chelidri; ed ondeggiando al tergo

colman di doppio orror l’orrido albergo.

Fronte ha severa, né giamai rischiara                         16

sotto il concavo ciglio il guardo torto,

guance spolpate e le rincrespa ed ara

di spessi solchi arido labro e smorto;

versa un assenzio dala bocca amara

ch’amareggia ogni gioia, ogni conforto;

dala fetida gola un fiato l’esce

che pestilenza al’aere oscuro accresce.

Come Giano ha duo volti ed apre e gira                                17

cento lumi qual Argo e piangon tutti,

sguardi di basilisco e dove mira

fa gli umani piacer languir distrutti.

D’aspido ha la virtù, ch’apena spira

ch’appesta il core e cangia i risi in lutti.

Di cervo il capo e la natura e l’atto

che si rivolge indietro a tratto a tratto.

Tolse le parolette ala fè greca,                                  18

la lingua mentitrice ala bugia.

È il suo veder, come veder di cieca,

un vano imaginar di fantasia.

Tende l’orecchie a chi novelle arreca

ed ha piè di ladron, passi di spia.

D’alchimista il color pallido e mesto

e i dolori del parto in ogni gesto.

Più veloce che folgore o che strale,                           19

dovunque il cieco arcier soggiorna o regna

col pensier vola; ha nel pensier mill’ale

e mille strane machine disegna.

Per trar dal’altrui bene il proprio male,

secrete cifre interpretar s’ingegna.

Corre dietro al periglio e sa che’n breve

quelche segue e che brama uccider deve.

L’occhio aguzza pertutto e move il piede                              20

tacita al’ombra e sconosciuta al sole.

Si riduce a temer ciò che non vede

e studia procacciar ciò che non vole.

Non men che’l vero, il falso afferma e crede,

cercando quel che di trovar le dole;

e sta sempre sì dubbia e sospettosa

che la notte non dorme, il dì non posa.

Un rospo ha in bocca ed un pestifer angue                            21

su la poppa sinistra il cor le sugge.

Giamai non ride, al’altrui rider langue

e ciò che non è doglia aborre e fugge.

Così sempre dolente e sempre essangue

per distrugger amor, sestessa strugge.

Tra foco e ghiaccio si consuma e pasce,

vivendo more e nel morir rinasce.

Piagne, freme, vaneggia e trema e pave,                               22

l’universo conturba ed avelena,

e’n sé di buono in somma altro non have

ch’esser flagello a semedesma e pena.

Nel’antro istesso, entro l’istesse cave

vive altra gente ancor d’affanni piena,

squadra di morbi e legion di mali

suoi perpetui compagni e commensali.

Va il cieco Error per l’aria cieca a volo,                                23

spiando il tutto vigila il Sospetto,

sta in disparte il Pensier tacito e solo

con gli occhi bassi e con la barba al petto,

l’unghie si rode e’l proprio cor per duolo

l’Invidia in divorar sfoga il dispetto

e di nascosto con occulte frodi

lo Scandalo fellon semina chiodi.

L’Odio con lingua amara e labro sozzo                                 24

di sputar fiele ador ador non cessa;

la Desperazion si stringe il gozzo

con una fune e si sospende ad essa;

la Follia trae de’ sassi e dentro un pozzo

ratto a precipitar corre sestessa;

bestemmia il Pentimento e per angoscia

si percote con man la destra coscia.

La Miseria sospira a tutte l’ore,                                25

rotta la gonna e lacero il mantello;

tiene il Travaglio un avoltoio al core,

una lima inquieta ed un martello;

trangugia coloquintida il Dolore

e bee cicuta, aconito e napello;

il Pianto insu la man la guancia appoggia

e stilla i lumi in lagrimosa pioggia.

Questa del’empia vecchia è la famiglia,                                 26

di lei ben degna, a lei conforme anch’ella.

Dal’erebo la rea l’origin piglia,

del’eumenidi dee quarta sorella.

Del tiranno del’alme antica figlia,

nacque col mondo e Gelosia s’appella.

Non so come tal nome avesse in sorte,

devendosi chiamar piutosto Morte.

Levò costei dala magion profonda                            27

al ciel la fronte livida e maligna.

Sbiecò le luci ove di tosco immonda

luce fiammeggia torbida e sanguigna

e la vita mirò lieta e gioconda

che’n braccio al caro Adon traea Ciprigna,

né cotanta in altrui quiete e pace

fu senza rabbia a tollerar capace.

Già si risolve, al bel seren celeste                              28

passando, abbandonar l’eterna notte.

D’un cilicio di spine il corpo veste

e vola fuor dele solinghe grotte.

Di spine il manto ha le sue fila inteste,

ma le fibbie e i botton son bisce e botte;

di tai fregi laggiù per lor diletto

soglionla ornar Tesifone ed Aletto.

Tosto che fuor dela spelonca oscura                         29

uscì quel sozzo vomito d’inferno,

sentiro i fiori intorno e la verdura

fiati di peste ed aliti d’averno.

Poria col ciglio instupidir natura,

inorridire il bel pianeta eterno,

intorbidar le stelle e gli elementi

senon gliel ricoprissero i serpenti.

I vaghi augelli in dolci versi e lieti                               30

i lor semplici amori a sfogar usi,

fer pausa al canto e sbigottiti e cheti

volar tra’ rami più nascosti e chiusi.

I destrieri d’Apollo in grembo a Teti,

per tema ombrosi e di terror confusi,

tuffaro il capo e sen’andar fuggendo

la brutta vista del’oggetto orrendo.

Fu per sottrarsi e vacillando torse                             31

gli omeri Atlante al suo celeste pondo

siché fu Giove di caderne in forse

e tutto minacciò ruina il mondo.

Proteo a celarsi con sua greggia corse

nel cupo sen del’ocean profondo,

né con l’umide figlie impaurite

uscir degli antri suoi volse Anfitrite.

Là sotto l’arto il mostro il passo move                                  32

ver l’albergo del’orse e de’ trioni,

dove gli algori e le pruine e dove

fan perpetua battaglia i nembi e i tuoni

e fiocca il ciel sempr’adirato e piove

alo spesso ruggir degli aquiloni,

né spoglia il verno mai né giamai rompe

le sue di smalto adamantine pompe.

Mentre la region malvagia e trista                              33

che di piogge e di ghiacci è tutta greve

trascorre, ecco dal ciel discender mista

gran tempesta di grandine e di neve.

Strillano gli aspi e forza il tosco acquista

ed ella alto piacer di ciò riceve,

perché molto conforme è la freddura

ala sua fredda e gelida natura.

Tra due montagne discoscese ed erte,                                  34

dove il sol di passar non ha possanza,

cinta di selve sterili e deserte

trova di Marte la spietata stanza.

Dale fatiche in guerreggiar sofferte

quivi ha talor di ritirarsi usanza

e scinto il brando crudo e sanguinoso,

dopo molti sudor, prender riposo.

Di gran lastre di ferro ha tutti onusti                           35

la fiera casa e pavimento e tetto.

L’alte colonne e gli archi suoi robusti

tutti di ferro son sodo e perfetto.

Ferro son de’ balconi i balausti,

ogni loggia, ogni palco è ferro schietto

e mostran pur di ferro usci e pareti

sculte l’imprese del gran re de’ Geti.

Stanno nel colmo dela volta appese                          36

e’n guisa di trofei sotto le travi

vote spoglie di genti uccise e prese,

tavole rotte d’espugnate navi,

adusti merli di cittati accese,

porte abbattute e gran catene e chiavi,

tende, stendardi e mille insegne e mille

d’osti disfatte e di distrutte ville.

Havvi ancor vari arnesi e vari ordigni,                                   37

timpani audaci e bellicose trombe,

mazze, pali, troncon, stocchi sanguigni,

balestre, archi, zagaglie e dardi e frombe,

corde, rote, roncigli, azze e macigni

e granate volanti e palle e bombe,

scale, gatti, arieti e quanto in terra

guerriero adopra o può servire a guerra.

Non era l’empia dea giunta ala corte                         38

quando udì di lontan batter la cassa.

L’aria s’offusca e cresce assai più forte

il temporal che gli arbori fracassa.

Ed ecco aprir le strepitose porte,

ecco lo dio che fulminando passa.

Tremando il monte e’l pian, l’onda e la riva,

dan segno altrui che’l gran campione arriva.

Come qualor de’ suoi ministri alati                            39

i vagabondi esserciti insolenti

scatena fuor con procellosi fiati

il crudo re che tiranneggia i venti,

spoglia le selve, disonora i prati,

scaccia i pastor, disordina gli armenti

ed ingombrando il ciel di nembi foschi

saccheggia i monti e discapeglia i boschi,

così, mentre il crudel scorre l’arene,                          40

geme il lido biston, Strimone stride

e fa per tutto intorno, ovunque viene,

mormorar le minacce e le disfide.

Trema la terra istessa che’l sostiene,

s’apron le nevi e l’onda si divide

e come passi o la saetta o il foco

ogn’intoppo gli cede e gli dà loco.

De’ popoli che domi avea con l’armi                        41

la pompa trionfal traea quel giorno

e da’ vinti Geloni e da’ Biarmi

al suo tracio terren facea ritorno.

Le sue vittorie in gloriosi carmi

iva la Fama promulgando intorno

e piangendo seguian querule schiere

di genti incatenate e prigioniere.

Sovra un tronco di lancia il braccio appoggia,                                   42

fuma la chioma, il fianco anela e suda.

Bellona dietro gli sostiene a foggia

di fidato scudier la spada ignuda

che gocciolante di sanguigna pioggia

fulmina l’aria d’una luce cruda.

Il Terror, suo valletto, insu la testa

l’elmo gli assetta e del cimier la cresta.

Lampeggia sangue e d’un pallore oscuro                              43

tinto lo scudo, smisurata mole,

vibra balen che torbido ed impuro

le stelle attrista e discolora il sole.

Guernito il busto ha pur di ferro duro

e preme il carro in cui combatter suole;

e duo corsieri e duo, legati al paro,

tirano il carro ch’è di terso acciaro.

Viensene accompagnato il fiero auriga                                  44

da trombe infauste e da funeste squille.

Macchia il suolo in passando e sparge e riga

tutto il sentier di sanguinose stille.

Rossa vie più che fiamma è la quadriga

e dale nari ognor spira faville

e pieno il carro tutto è di sculture

animate di nobili figure.

Opre ancor non seguite, istorie e cose                                  45

non avenute e di non nate genti

ch’or sono in quest’età le più famose,

eranvi incise allor come presenti.

E l’indovino artefice vi pose

note assai note e ben intesi accenti

che scritti conteneano i nomi eterni

de’ maggior duci antichi e de’ moderni.

Non so in qual sacro fonte immerse il labro                           46

o in qual libro divin gli annali lesse,

siché’l fato precorse il dotto fabro

quando il futuro in vivo intaglio espresse.

Imprese varie nel metallo scabro

molt’anni pria che fussero successe

finte avea con tant’arte e magistero

che gli occhi dubitavano del vero.

Havvi Alessandro che d’allor la chioma                                47

circonda intorno e Cesare e Pompeo

ed Annibal che l’Alpi espugna e doma

e Scipio che gli toglie ogni trofeo,

Muzio, Orazio, Marcello e qual mai Roma

celebra eroe più chiaro o semideo;

indi i più degni de’ più degni inchiostri

capitani e guerrier de’ tempi nostri.

Enrico il grande inprima èvvi scolpito                        48

che da fanciul s’avezza a’ gravi incarchi

e’n ben cento giornate a pugna uscito

sempre palme n’ottiene e statue ed archi.

V’è Carlo Emanuel, non meno ardito,

che non è rege ed emula i monarchi,

solo in guerra possente a sostenere

pria le galliche forze e poi l’ibere.

V’è il Farnese Alessandro, ilqual di gigli                                49

fregia l’insegna e pur i gigli assale

né tra’ suoi più pregiati antichi figli

può’l Tebro annoverarne un altro tale.

Far poi Durenza e Lisara vermigli

con fortuna al valor scorgesi eguale

Francesco Bona, il marescial di Francia

dela gloria francese e scudo e lancia.

Animoso garzon poscia si vede                                 50

ale tartare squadre il petto opporre

e le sbaraglia ed ha tai lettre al piede,

Gismondo invitto, il Transilvano Ettorre.

Segue un eroe che la cesarea sede

difende al Turco e l’Ungheria soccorre

e’l gran Giovanni Medici di sotto,

novo Achille d’Etruria, espone il motto.

Sculto v’è di Liguria anco un marchese                                 51

cui l’ambrosia e la spina il nome diero,

e’n ferir forte, in addolcir cortese,

ben l’opre al nome suo conforma invero.

Emulo al’alte ed onorate imprese

di Belgia a fronte ha un inclito guerriero.

Maurizio il breve dice, illustre in guerra

Ercol del Reno e Marte dela terra.

V’era dopo costoro un giovinetto                             52

più d’ogni altro feroce e’n vista umano,

ma sbozzato dal mastro ed imperfetto

che data non gli avea l’ultima mano.

Parea davante a quel reale aspetto

tremar il mondo e rimbombar lontano;

e mille avea dintorno ombre e disegni

d’osti sconfitte e d’acquistati regni.

A piè gli stava il vigilante augello                               53

ch’ha purpureo cimier, dorati sproni

e parea publicando un sol novello

i draghi spaventar nonché i leoni.

V’avea poscia il fatidico scarpello

accennate da lunge altre azzioni,

non ben distinte ancor né terminate,

secondoché crescendo iva l’etate.

Vedeasi ancor che lo scultor volea                            54

il nome di costui far manifesto,

ma perch’acerbi in lui gli anni scorgea,

il principio n’espresse e tacque il resto.

Lodo sol senza più scritto v’avea

e stimò che bastar devesse questo,

che quando a dir di lui lingua si snodi

nominar non si può che non si lodi.

Innanzi al carro e d’ognintorno vanno                                   55

turbe perverse e di sembiante estrano.

L’altero Orgoglio, il traditore Inganno,

l’Omicidio crudel, lo Sdegno insano,

l’Insidia che’l coltello ha sotto il panno

e la Discordia con due spade in mano,

il Furor cieco, il Rischio desperato,

il Timor vile e l’Impeto sfrenato.

La Stizza v’ha che di dispetto arrabbia,                                56

l’Ira vi sta che batte dente a dente,

la Vendetta si morde ambe le labbia

ed ha verde la guancia e l’occhio ardente,

la Crudeltà d’imporporar la sabbia

gode del sangue del’uccisa gente

e fra strazi e dolori e pianti e strida

rota la falce sua Morte omicida.

Tremò la furia a quella vista e n’ebbe                                    57

pentita del suo ardir tema ed orrore

e tant’oltre venuta esser le increbbe,

ché per natura ha paventoso il core,

e’n dietro ritornar quasi vorrebbe

che’n somma altro non è senon timore,

pur ripreso coraggio, audace e pronta

tra’ suoi trionfi il forte duce affronta.

Quella larva in mirando orrida e pazza                                  58

del carro ogni destrier s’arretra e sbuffa

e’l crin che quinci e quindi erra e svolazza

s’erge lor sovra il collo e si rabbuffa.

Ma nel’entrar dela tremenda piazza

il vincitor d’ogni dubbiosa zuffa

gli affrena e volge in lei qual face o dardo

pien di bravura e spaventoso il guardo:

– La tua diva, il tuo ben, quella che’ntatta                             59

sol per te (gli diss’ella) arder s’infinge,

eccola là che’ndegna preda è fatta

d’un selvaggio garzon che’n sen la stringe;

d’un ch’apena sostien l’arco che tratta,

guarda a che bassi amori amor la spinge;

e quando in braccio a lui talor s’asside

de’ tuoi vani furor seco si ride. –

Tacque e crollò, poiché così gli disse,                                   60

l’empia ceraste onde fea selva al crine

ed al signor dele sanguigne risse

il fianco punse di secrete spine.

Poi nel core una vipera gli affisse

dele chiome mordaci e serpentine

e, ferito che l’ebbe in un momento,

si sciolse in ombra e si disperse in vento.

Come con sua virtù sottile e lenta                              61

ch’ha vigor di velen, rigor di ghiaccio,

s’al’esca la torpedine s’aventa

toccando l’amo e penetrando il laccio,

scorre ratto ala canna ed addormenta

del pescatore assiderato il braccio

e, mentre per le vene al cor trapassa,

tutto immobile e freddo il corpo lassa,

così la furia col suo tosco orrendo                            62

di gelido stupor Marte consperse,

loqual di fibra in fibra andò serpendo

e’n profondo martir l’alma sommerse,

sich’ogni senso, ogni color perdendo,

lasciò di man le redine caderse,

né dal’assalto di quel colpo crudo

valse punto a schermirlo usbergo o scudo.

Ma quel rabbioso e rigoroso gelo                             63

già già fiamma diviene a poco a poco,

onde l’abitator del quinto cielo

sembra da venti essercitato foco.

Passato il cor di velenoso telo

vendicarsi desia, né trova loco.

Quell’astio omai superbo ed iracondo

non cape il petto e lui non cape il mondo.

D’un tenace sudore è tutto molle,                             64

fosca nebbia infernal gli occhi gli abbaglia,

e soffia e smania e di dolor vien folle,

tal passion l’afflige e lo travaglia.

Fatto è il suo sen, che gela insieme e bolle,

campo mortal di più crudel battaglia

per le nari a un punto e per le labbia

gitta fumi d’orror, schiume di rabbia.

La noderosa e formidabil asta                                   65

ch’ha nela destra allor contorce e scote,

rovere immensa e sì pesante e vasta

che nessun altro dio mover la pote.

Poi dal seggio elevato a cui sovrasta

lunge la scaglia e i nuvoli percote.

Guizza per l’aure il grave tronco e fugge,

ne rimbomba la terra e’l ciel ne mugge.

L’Emo al bombo risponde e l’Ato insieme                            66

con orribil romor tutto risona;

il Rodope vicin n’ulula e geme

e’l nevoso Pangeo ne trema e tuona;

si scote l’Ebro dale corna estreme

la canicie del gel che l’incorona

e con le brume, onde sovente agghiaccia,

lega al’Istro il timor l’umide braccia.

Rompe le nubi e i turbini disserra                              67

l’antenna folgorante e sanguinosa,

mari e monti travalca ed ira e guerra

porta vibrata dala man crucciosa

e vola a Cipro e si conficca in terra

onde ne piagne l’isola amorosa

e con chioma sfrondata e volto essangue

la rosa e’l mirto impallidisce e langue.

Tolse il carro ferrato e’n vista oscura                        68

a quella volta il nume altier si mosse.

Toccò i cavalli e dela sferza dura

sentir fè loro i fischi e le percosse.

Volge le luci sì che fa paura,

di foco e sangue orribilmente rosse.

Al lume infausto de’ maligni lampi

perdono il verde i boschi, il fiore i campi.

Con quel furor, con quel fragor ne venne                              69

l’orribil dio degli elmi e dele spade

con cui dal ciel su le vermiglie penne

vigorando sestesso il folgor cade,

qualor dala prigion che chiuso il tenne

fugge e, serpendo per oblique strade,

con tre denti di foco in rauco suono

sbrana le nubi e fa scoppiarne il tuono.

Udì del mostro dispietato e fiero                               70

Amor l’inique e temerarie voci

e vide nel terribile guerriero

minacciosi sembianti e sguardi atroci,

onde del militar carro leggiero

precorrer volse i corridor veloci

e spiegò tosto dal gelato polo

la bella madre ad avisarne il volo.

Tremando, ansando ed anelando arriva                                71

e ben mostra il timor la faccia smorta

e con voce interrotta e semiviva

del duro caso la novella porta.

La stupefatta e sbigottita diva

o come allor si turba e si sconforta

ed or volta al’amico ed or al figlio

non sa ne’ dubbi suoi prender consiglio.

Non con tanto spavento in fragil pino                                    72

spinto da borea iniquo in mar turbato

il nocchier di Sicilia ode vicino

dela cagna del faro il fier latrato,

con quanto Citerea del suo divino

guerrier, di ferro e di disdegno armato,

teme la furia e la possanza immensa

e mille scuse e mill’astuzie pensa.

Pensa alfin ricorrendo ale menzogne                         73

d’un’audacia sfacciata armar la fronte

e spera con lusinghe e con rampogne

tutte in lui riversar le colpe e l’onte.

Ma per meglio celar le sue vergogne

e le scuse aiutar che son già pronte,

dando pur loco a quel furore stolto,

non vuol che’l vago suo seco sia colto.

Chiama Adone in disparte e lagrimando                                74

l’essorta a declinar l’ira di quella,

quella che posta ogni pietate in bando,

governa il quinto ciel barbara stella.

Il giovinetto attonito tremando

nele spalle si stringe e non favella

e per sottrarsi agl’impeti di Marte

al partir s’apparecchia e pur non parte.

Pallido più che marmo e freddo e muto                                 75

mentre ch’apre la bocca e parlar vole

in quella guisa che talor veduto

dala lupa nel bosco il pastor suole,

come spirito e senso abbia perduto,

gli muoion nela lingua le parole

ed è sì oppresso dal dolor che l’ange

ch’al pianger dela dea punto non piange.

– Or prendi (ella gli dice) eccoti questo                                76

cerchietto d’or che tien due destre unite,

in segno che del’alme il caro innesto

scior non si può, sciolgansi pur le vite.

Ricco è il lavor; ma vie più vale il resto

per sue virtù mirabili inudite.

Ponlo al dito del cor, né mai lasciarlo,

che non possa per fraude altri involarlo.

Giova agl’incanti, incontr’a lui non hanno                              77

malie possanza o magiche fatture.

Né poco util ti fia per qualch’inganno

nel corso dele tue varie aventure.

Mentre teco l’avrai, nulla potranno

nocerti i neri dei del’ombre oscure,

né la fede e l’amor che mi giurasti

cosa sarà ch’a violar mai basti.

Di più la gemma ch’è legata in esso                           78

è d’un diamante prezioso e fino.

Quasi picciolo specchio ivi commesso

fu da Mercurio artefice divino.

Qualor colà fia che t’affisi espresso

il mio volto vedrai come vicino.

Saprai come mi porto e con cui sono,

dove sto, ciò che fo, ciò che ragiono.

Non è picciol conforto al mal che sente                                79

dal’amata bellezza un cor lontano,

aver almen l’imagine presente

ch’Amor scolpita in esso ha di sua mano.

Qui vo’ pregarti a rimirar sovente

ché non vi mirerai, credimi, invano.

Qui meco ognor ne’ duri essili tuoi

e consigliare e consolar ti puoi.

Vanne, non aspettar che cagion sia                           80

l’indugio tuo del mio perpetuo pianto.

Ritratti in salvo per occulta via

finché questo furor si sfoghi alquanto;

né dubitar che l’assistenza mia

non t’accompagni in ogni parte intanto.

Un nume tutelar d’ogni arte instrutto

invisibil custode avrai pertutto. –

Sospirando a minuto e’n su’l bel volto                                  81

filando a stilla a stilla argento puro,

la prega Adon, poiché’l bel dono ha tolto,

di vera fè nel’ultimo scongiuro.

Ella, che’n braccio ancor sel tiene accolto

risponde che di ciò viva securo;

ond’egli alfin con cinque baci e sei

prese congedo e si spedì da lei.

Vener di Giove il nunzio allor dimanda                                  82

tra mill’aspri pensier tutta sospesa

e del’anima sua gli raccomanda

e lo scampo e la cura e la difesa,

pregandol quanto può, mentre ch’el manda

spia fidata e secreta a questa impresa,

che’n ogni rischio il suo intelletto astuto

gli sia saldo riparo e fido aiuto.

Promette il saggio egizzio, indi si parte                                  83

ed a tant’opra apparecchiando vassi.

Ella ciò fatto, al furiar di Marte,

ch’a lei rivolge impetuoso i passi,

con gli occhi molli e con le trecce sparte

su la soglia del’uscio incontro fassi

e va dolente e lusinghiera avante

al suo feroce e furibondo amante.

Sicome il mar per zefiro che torna,                            84

già da borea commosso, sì tranquilla

o come umilia l’orgogliose corna

fiamma se larga mano umor vi stilla,

così, a que’ vezzi ond’ella il viso adorna

ed a que’ pianti ov’entro amor sfavilla,

già Gradivo si placa e vinto a forza

l’ira depone e l’alterigia ammorza.

Ella asciugando con pietosi gesti                               85

degli occhi molli il liquido cristallo:

– Che strani modi di venir son questi

carco (dicea) di sangue e di metallo?

Ben ti conosco: incredulo credesti

con qualche drudo mio trovarmi in fallo,

poiché con atti sì sdegnosi e schivi

inaspettato e repentino arrivi.

Sì sì gli è vero. Io mi tenea pur ora,                           86

pur or partissi, un garzon vago in grembo.

Come già fece a Cefalo l’Aurora

l’ascosi dianzi in nubiloso nembo.

Che dico? Io mento, anzi l’ho meco ancora,

tra le falde il ricopro e sotto il lembo.

Aprimi il petto e cerca il cor nel centro;

forse no credi? il troverai là dentro.

In che miseri ceppi oimé ristretta                               87

m’ha quell’amor che teco mi congiunge,

ch’io deggia ad ogni dubbio esser soggetta

che ti move a volar così da lunge.

Né la mia lealtà candida e netta

di men gelosi stimuli ti punge

che s’una mi fuss’io, non dico dea,

meretrice vulgar, femina rea.

Alcun’altra ha da te gioia e diletto,                            88

altra con scherzi e con sorrisi abbracci.

Quando a me vien, divien poi campo il letto,

m’atterrisci con gli occhi e mi minacci.

Né con più torvo o più severo aspetto

i più fieri nemici in guerra cacci

di quelche fai talor chi non t’offende,

la tua fedel ch’a compiacerti intende.

Con qual pegno or più deggio o con qual prova                                89

dela mia fede assecurar costui,

quando l’essermi ancor nulla mi giova

tolta al mio sposo e soggiogata a lui?

Crudel, fia dunque ver che non ti mova

più l’amor mio che la perfidia altrui?

fia ver che’n te più possa un van sospetto

di quelche pur con man tocchi in effetto?

Io credo e giurerei che quanta bruma                                    90

la tua Tracia ricetta, il cor t’agghiaccia.

E pur tanto è l’amor che mi consuma;

malgrado mio t’accolgo in queste braccia.

Deh, s’egual nel tuo petto ardor s’alluma

e s’egual nodo l’anima t’allaccia,

come può farlo ognor tepido e lento

ogni foglia che’n aria agita il vento?

Pur il mio zoppo e povero marito                              91

di contentarmi almen mostra desio

e rozzo qualqual siasi e malpolito

pende in ogni atto suo dal cenno mio;

e, quantunque da me poco gradito,

pur non ricuserà, se’l comand’io,

nele fornaci in Mongibello accese

a temedesmo edificar l’arnese.

E tu per cui schernita ir mi conviene                          92

con infamia immortal fra gli altri dei,

sol intento a recarmi affanni e pene,

nulla curi giamai gli oltraggi miei,

anzi ver me, con l’odio entro le vene,

rigido sempre ed implacabil sei,

onde benché d’Amor sia genitrice,

tra le felicità vivo infelice. –

Con tai lamenti lo garrisce e sgrida                            93

la baldanzosa adultera sagace,

onde il meschin, che crede a cieca guida,

tutto confuso la rimira e tace.

A pena d’acquetarla si confida

né gli par poco se n’ottien la pace

ed ha per grazia alfin, quantunque accorto,

chiamarsi ingrato e confessare il torto.

Così qualor più furioso il piede                                 94

move ringhiando e di superbia pieno

unicorno selvaggio, apena vede

vergine bella che le mostra il seno,

che de’ suoi spirti indomiti le cede

dimesso intutto e mansueto il freno,

lascia l’orgoglio ed a lambir si piega

la bella man che l’imprigiona e lega.

Intanto Adon, ch’errante e fuggitivo                          95

sen va piangendo e tapinando intorno,

lunge dala sua vita apena vivo

non cessa di vagar tutto quel giorno

e di riposo e di conforto schivo,

di cibo non gli cal né di soggiorno.

In duo begli occhi è il nido suo, né cura

fuor la dolce membranza, altra pastura.

Teme sestesso e di sestesso l’ombra                         96

al suo proprio timore anco è molesta.

Ad ogni sterpo che’l sentiero ingombra,

volgesi e’l moto immantenente arresta.

Quasi destrier che spaventato adombra

s’ode picciol romor per la foresta,

se tronco il calle gli attraversa o sasso,

Marte sel crede e risospende il passo.

Già del sol cominciavano i cavalli                              97

verso ponente ad abbassar le fronti

e d’ognintorno ad occupar le valli

già già l’ombre maggior cadean da’ monti.

Tra quegli orrori al romper de’ cristalli

s’udia più alto il lagrimar de’ fonti

e succedean ne’ lor silenzi muti

i rauchi grilli agli augelletti arguti.

Querule ador ador voci interrotte                              98

sparger con essi aprova Adon si sente

quai suol di primavera a mezzanotte

formar tra’ rami il rossignuol dolente.

L’abitatrice del’opache grotte

ch’invisibile altrui parla sovente

mentr’ei si lagna addolorato e geme

replica per pietà le note estreme.

Ma poiché per lo ciel la bruna benda                        99

che vela il dì la notte umida stese

e tutta risonar la selva orrenda

d’urli ferini il giovinetto intese,

qual uom che strane visioni attenda,

tacque e doppio spavento il cor gli prese.

Non sa dove si vada o quelche faccia,

d’amor avampa e di timore agghiaccia.

Giunto ove tra duo colli è più riposta                         100

la spessura del bosco e più profonda

e versa il monte dala rotta costa

gorgo di pura vena in limpid’onda,

lo sconsolato al fonticel s’accosta

e’l fianco adagia insu la fresca sponda.

Quivi abbattuto dala doglia acerba

si fa tetto del ciel, letto del’erba.

Così tra quelle macchie erme ed oscure,                               101

di selvaggi abitanti orride case,

soletto se non sol dele sue cure,

de’ suoi tormenti in compagnia rimase.

Vinselo alfin pur la stanchezza e pure

ai languid’occhi il sonno persuase

e malgrado del duol, poich’egli giacque

addormentossi al mormorar del’acque.

Non prima si svegliò che mattutino                            102

già fusse Apollo insu’l bel carro assiso

e dato avesse già del sol vicino

l’augel nunzio del dì l’ultimo aviso,

del sol, che’n oro omai volto il rubino,

avea mezzo dal’onde alzato il viso

e dala luce sua percosse e sgombre

facea svenir le stelle e svanir l’ombre.

Le palpebre disserra al novo lume                            103

né sa dove drizzar l’orme raminghe.

Ode i vaghi augellin batter le piume

e col canto addolcir l’ombre solinghe.

Vede rincrespar l’onde al picciol fiume

l’aura ch’alletta altrui con sue lusinghe

e degli arbori i rami agita e piega

e le cime de’ fior lega e dislega.

Lasso, ma quelch’altrui diletta e giova,                                  104

accresce al mesto cor pianto novello

onde, poiché refugio altro non trova,

si mette a contemplar l’idol suo bello;

e mentre gli occhi d’ingannar fa prova

col virtuoso ed efficace anello,

per la selva non lunge ascolta intorno

stridula rimbombar voce di corno.

Vien dopo’l suon, che par che i veltri a caccia                                  105

chiamando irriti, una cervetta estrana,

che stanca e come pur gli abbia ala traccia

anelando ricovra ala fontana,

ma visto Adon gli salta entro le braccia,

né sapendo formar favella umana

con gli occhi almen, con gli atti e co’ muggiti

prega che la difenda e che l’aiti.

Non crederò tra le più vaghe fere                             106

fera mai più gentil trovar si possa.

Brune le ciglia e le pupille ha nere,

bianca la spoglia e qualche macchia rossa.

Ma più ch’altro mirabili a vedere

son dela fronte in lei le lucid’ossa:

son tutti i rami dele corna grandi

del più fin or che l’oriente mandi.

Nel tempo istesso, bello oltra i più belli,                                107

ecco apparire un cagnolin minuto;

sparge prolissi infino a terra i velli

sovr’armellino candido e canuto;

son di seta le fila e’n crespi anelli

vagamente si torce il pel ricciuto;

spezzato in cima il naso e gli occhi allegri

più che mai moro ha rilucenti e negri.

Radon l’orecchie il suol lunghe e cadenti                               108

e sospesi vi tien duo fiocchi d’oro,

onde di qua di là brilli pendenti

gli fanno intorno un tremolio sonoro.

Cerchiagli il collo di rubini ardenti

monil ch’eccede ogni mortal lavoro,

dove sculto di smalti un breve porta:

«D’ogni lieta ventura io son la scorta.»

Ed ecco a un punto insu’l medesmo prato                             109

cacciatrice leggiadra uscire infretta;

ha l’arco in spalla, ha la faretra a lato

e nele man la lassa e la saetta;

su le terga si sparge il crin dorato

e le pende dal collo la cornetta;

e vie più verde che d’autunno foglia,

sparsa di fiori d’or, veste la spoglia.

– To to, Perricco mio, to to – ben alto,                                 110

chiamando a nome il picciol can, dicea,

tuttavia rincorandolo al’assalto

contro la cerva che seguita avea.

Ella in grembo al garzon già preso il salto

con gemiti e sospir pietà chiedea;

ed ei, perché non fusse o morta o presa,

ogni sforzo adoprava in sua difesa.

– Tu non fai cortesia, qualunque sei,                         111

 (fortemente gridando ella veniva)

impedir caccia publica non dei,

né negar la sua preda a chi l’arriva.

Giusto non è che de’ travagli miei

altri il frutto si goda,io ne sia priva.

Di vedermi usurpar non ben sopporto

quelche tanto ho sudato a sì gran torto. –

Confuso a quelle voci Adon rimane                          112

ché sa ben che la cerva è a lei devuta;

ma s’egli pur del pargoletto cane

non la sottragge al dente e non l’aiuta,

di commetter s’avisa opre inumane

poich’a salvarsi è nel suo sen venuta;

onde la ninfa altera e peregrina

con questi preghi a supplicar s’inchina:

– Ninfa, se ninfa pur sei dela selva,                           113

ché più tosto del ciel diva ti credo,

di qualunqu’altra qui fera s’inselva

senz’altra lite ogni ragion ti cedo;

di questa sol sì mansueta belva

la vita in dono e inun perdon ti chiedo,

s’ala rabbia canina oso di torre

un vezzoso animal ch’a me ricorre.

Incrudelir ne’ semplici innocenti                                114

non conviensi a beltà celeste e santa.

Vive pietà nele divine menti

né di gloria maggior Giove si vanta.

Ben, s’in me fien giamai forze possenti

a compensarti di mercé cotanta,

potrai del mio voler come ti piace

sempre dispor. – Così le parla e tace.

Quand’ella gli occhi in que’ begli occhi affisa                        115

che fan la dea d’amor d’amor languire,

si sente il cor subitamente in guisa

tutto d’alta dolcezza intenerire,

ché stupida e da sé quasi divisa

più oltre di parlar non prende ardire;

ma poich’alfin dal suo stupor si scote,

accompagna un sorriso a queste note:

– Dela preda il trofeo, non so se’l sai,                                   116

è del buon cacciator la cura prima.

Vie più l’onor, vie più’l diletto assai

d’una rustica spoglia ei pregia e stima

che qualunqu’altro ben possa giamai

d’ogni eccelsa grandezza alzarlo in cima.

Dela caccia però ch’oggi qui vedi

l’importanza è maggior che tu non credi.

Questa il cui scampo curi umana fera                        117

è tal ch’altra non n’ha valle o pendice.

Dela fata del’oro è messaggiera

siché’l suo possessor può far felice.

Da chi dietro le va, fugge leggiera,

d’ogni occulto tesoro esploratrice.

Muta le corna sue due volte il giorno

e cento libre d’or pesa ogni corno.

Morir non può perch’immortale è nata                                  118

ma ben ha chi la prende alta fortuna.

Non è pertanto, se non vuol la fata,

chi la sappia pigliar sotto la luna.

Onde di te cred’io più fortunata

creatura mortal non vive alcuna,

poiché non sol da te non si diparte,

ma di proprio voler viene a cercarte.

Se le fere innamori a tuo talento,                               119

qual fia cosa giamai ch’altri ti neghi?

In grazia tua sua libertà consento,

cedo d’un tanto intercessore ai preghi.

Con un tuo sguardo sol, con un accento

ogni core imprigioni, ogni alma leghi;

onde vinta da te qual io mi sono,

tutta mestessa e quanto è in me ti dono.

Né dale stelle, il ver convien ch’io dica,                                120

l’origin piglio, né dal ciel discendo.

Driade son io che, cittadina antica

di questo bosco, a seguir fere intendo.

Ma benché sia del’aspre cacce amica,

con gli uomini talor piacer mi prendo.

Silvania ho nome e’n ruvida corteccia

traggo inospita vita e boschereccia.

Non pensar tu che ne’ silvestri spirti                          121

cortesia pur non regni e gentilezza.

Non siam noi senza core, anzi vo’ dirti

ch’anco fra i rozzi tronchi amor s’apprezza.

Aman le palme, aman gli allori e i mirti

e conoscono ancor ciò ch’è bellezza,

né vive in pianta né germoglia in piaggia

priva di questo senso, alma selvaggia.

Il contracambio poi che mi prometti                          122

vo’ che senza indugiar mi sia concesso.

Ma, come in prova mostreran gli effetti,

fia l’util tuo, fia’l tuo guadagno istesso.

Vo’ che la mia reina entro i’ suoi tetti

ti piaccia visitar ch’è qui dapresso;

né pur la cerva ch’è sì bella in vista

ma’l cane ancor avrai che la conquista.

Non lunge alberga ancorch’altrui coverta                              123

sia la strada e non trita ond’a lei vassi.

Ma se tu meco vien, son più che certa,

non perderai del tuo viaggio i passi.

Ti fia la porta del palagio aperta

dove la dea dele delizie stassi,

che d’Iasio è sorella e di Mammone,

di Proserpina figlia e di Plutone.

Quant’oro involge tra le pallid’onde                          124

il Gange che levar vede il sol primo,

quanto di prezioso il Tago asconde

perentro il letto suo palustre ed imo,

a lei perviene. A lei le ninfe bionde

filan del’Ermo in stami il ricco limo.

A lei del bel Pattolo entro le vene

sudan mill’altre a crivellar l’arene.

Prodigo ognor suo dritto offre a costei,                                 125

il Sangario ove Mida ebbe a lavarsi.

Lidia, Frigia, Cilicia, Ircania a lei

cumulan solo i lor tesori sparsi.

I Pannoni, i Fenici e gli Eritrei

dele ricchezze lor non le son scarsi.

L’auree Molucche e Manzanara e Norte

ebbe dal ciel di dominare in sorte.

Il gran Nettuno e la cerulea moglie                            126

tesorieri le sono e tributari

e quanto in grembo l’oceano accoglie

mandano a lei da’ più remoti mari;

e quante merci estrane e quante spoglie

furano ai gran naufragi i flutti avari

tutte son poi per vie chiuse e celate

dai folletti del’acque a lei recate.

Oltre l’avere ond’ella abonda tanto                           127

ch’ogni voglia può far contenta e paga;

oltre il saver, per cui riporta il vanto

dela più dotta e più famosa maga,

vedrai beltà di cui non mira in quanto

circonda il sol la più leggiadra e vaga;

beltà che con colei contende e giostra

ch’adora per sua dea l’isola nostra.

Falsirena s’appella ed è ben tale                               128

che non le manca ogni perfetta cosa,

se non che’l fasto in lei tanto prevale

che non la scaldò mai fiamma amorosa.

Non cura amante, ch’al suo merto eguale

degno non sia di sì pregiata sposa;

né trovando di sé suggetto degno

non vuole a basso amor piegar l’ingegno.

Vero è ch’ell’ha per l’arti sue previsto                                  129

ch’amar pur dee; non so se’n ciò s’inganni.

Amerà pur, ma non con altro acquisto

che di rabbiosi e desperati affanni.

Quindi per evitar fato sì tristo,

si dispose solinga a menar gli anni.

Quindi escluder da sé sempre le piacque

ogni commercio. – E qui Silvania tacque.

Dal desio di veder ciò che’l destino                          130

porti di novo il giovane invaghito,

dela ninfa gentil, del cagnolino,

che gli mostran la via, segue l’invito.

Il cane adulator prende il camino

per l’ampia valle agevole e spedito

e, declinando il calle erto ed alpestro,

sceglie sempre in andando il piano e’l destro.

Del vago animaletto ammira e loda                           131

Adon la strana e barbara ricchezza.

Quei gli saltella intorno e come goda

ambizioso pur di sua bellezza,

con la lingua festiva e con la coda

lusinghevole il lecca e l’accarezza.

Erge in alto le zampe e non mordaci

co’ lascivi latrati alterna i baci.

Per ombroso sentier ne vanno insieme                                  132

traversando la selva e la campagna

fin colà dove ale radici estreme

si termina il vallon d’una montagna;

né dal fanciul che pur alquanto teme,

si dilunga la guida o la compagna.

Quivi a piè d’un gran noce ella s’arresta

ch’è un’arbor sola e sembra una foresta.

Grande è la pianta ed oltre l’esser grande,                            133

ciò che d’ogni stupor trascende i modi,

e che ne’ rami che dintorno spande,

son d’oro i frutti ben massicci e sodi.

Ma quattro vaghe arciere ha dale bande

che sempre notte e di ne son custodi

e, vestite ed armate al’uso istesso

dela scorta d’Adon, le stanno appresso.

Adon le dimandò chi fusser quelle                             134

ch’erano del bel tronco in guardia messe;

s’eran dee di quel loco o pur donzelle

e chi lor poste in tal ufficio avesse.

Dimandò se di lei fusser sorelle,

poich’avean l’armi e le fattezze istesse.

Cennò l’altra ale ninfe, indi ale cose

dimandate da lui, così rispose:

– Egli si trova una natura a parte                               135

ch’è tra’l semplice spirto e l’uom composto,

però ch’ir non si può da parte a parte

senza il debito lor mezzo interposto.

L’uno è sempre immortale in ogni parte,

l’altro il corpo ala morte ha sottoposto.

Il terzo che non è questo né quello,

fa in sé d’entrambo un imeneo novello.

Quasi mezzane dunque infra gli estremi                                 136

volse Giove crear queste fatture,

onde sicome degli dei supremi

gli uomini son quaggiù vive figure,

questi del divin stato in parte scemi

son degli uomini ancor vere pitture

e, come loro imagini e ritratti,

si somigliano ad essi in tutti gli atti.

Han corpo sì, ma più sottile e raro                            137

che’l vostro, e nulla o poco ha del terreno.

Non è sì lieve nube in aer chiaro

ch’ei non sia denso e solido assai meno.

Col vento va di leggerezza al paro,

apparisce e sparisce in un baleno,

né visibil giamai si rende agli occhi,

senon quand’egli vuol, benché si tocchi.

Per esser dunque la materia in essi                            138

grossa non già ma dilicata e pura,

non fan lor resistenza i corpi spessi,

ogni cosa lor cede ancorché dura.

Ponno senza lasciarvi i segni impressi

falsar le porte e penetrar le mura,

come folgore suol che, quando scende,

la vagina non tocca e’l ferro offende.

La mistura però di cui son fatti                                  139

d’ogni accidente e passion capace,

a differenza degli spirti astratti

al’alterazioni anco soggiace.

Ad infermarsi, anzi a morir son atti,

poich’ogni misto si corrompe e sface;

ma perché più perfetta è la sostanza,

molto di vita il viver vostro avanza.

Una sol qualità non si conforma                                140

vosco né par ch’al’esser vostro arrivi,

ché l’uom di corpo ed anima s’informa,

ma questi intutto d’anima son privi;

onde seben per la più nobil forma

restan di voi più lungamente vivi,

essendo sol corporei e spiritali

nascono corrottibili e mortali.

Nascon diss’io, perché com’han communi                            141

con l’uomo intutto e le parole e i gesti,

com’han nele freddure e ne’ digiuni,

quai tal corpo richiede, e cibi e vesti,

quantunque negli affar loro oportuni

sien più pronti e vivaci, agili e presti,

così non è di generar lor tolto

e del consorzio uman godono molto.

Hanno anco il sonno e la vigilia ed hanno                              142

providi al’opre i naturali instinti

e, com’api o formiche, in ordin vanno

non senza industria ale fatiche accinti.

La notte e’l giorno e la stagion del’anno

e tutti i tempi han come voi distinti;

aman la luce e le lumiere belle

del sole e dela luna e dele stelle.

Partecipano assai degli elementi                                143

e più di quello ov’hanno albergo e loco.

Com’amano il terren talpe e serpenti,

come pirauste e salamandre il foco,

come son l’aure molli e l’acque algenti

de’ pesci e degli augei trastullo e gioco,

così sono a costor care e gioconde

la terra e l’aria e le faville e l’onde.

Abita alcun di lor l’eterea sfera,                                144

altri la region sottoceleste,

altri fonte, ruscel, lago o riviera,

altri rupi, vallee, boschi e foreste.

Tutte dela selvaggia ultima schiera

son le ninfe che vedi ed io con queste;

ed a ciascuna un’arbore è commessa

quasi del vivo legno anima istessa.

V’ha fauni e lari e satiri e sileni,                                 145

tutti han fronte cornuta e piè caprigno.

Siam noi pur come lor, numi terreni,

ma di sesso men rozzo e più benigno.

Ingombran l’altre ad altre piante i seni,

io qui con queste in questo tronco alligno

e per legge di fato e di natura

dele noci a me sacre ho sempre cura. –

Tacque e le ninfe del frondoso monte                                   146

verso Adone affrettando il piè veloce,

cortesemente gli chinar la fronte,

affabilmente il salutaro a voce.

Poi lo guidaro ufficiose e pronte

con mille ossequi al’ammirabil noce;

e, lasciato lo stral, deposto l’arco,

gli apriro il passo e gli spediro il varco.

Repente allor del’arbore ch’io dissi                           147

crepò la scorza e’l voto ceppo aperse.

Tutta per mezzo, o meraviglia! aprissi

ed ala coppia il cavo ventre offerse.

Quindi per una via che’nver gli abissi

scender parca, Silvania il piè converse

e, passando ale viscere più basse

dela buccia capace, Adon vi trasse.

Entra ed ha seco il precursor foriero                         148

quelche tanto gli mostra amore e fede,

io dico il cagnolin che già primiero

trovò posando in quella selva il piede.

Questo per disusato ermo sentiero

non l’abbandona mai, sempre il precede;

e chiuso il tronco, ei che’l camino intende,

per una scala a chiocciola discende.

Per mille obliqui e tortuosi giri                                   149

serpendo senza termine la scala

e senza che di ciel raggio si miri,

tra profonde ruine ingiù si cala.

Sente Adon quasi greve aura che spiri

adora adora alcun vapor ch’essala

e sussurrando scotersi sotterra

i venti che’l gran monte in grembo serra.

Un’ora e più per l’alta gola angusta                           150

di quel gran labirinto andaro al basso,

finché trovar concavità vetusta

dove a scarpelli era tagliato il sasso.

A quella buca, omai dagli anni frusta,

sempre al buio e tenton drizzaro il passo,

e nele foci lor spicciar da’ monti

videro in vivi gorghi i fiumi e i fonti.

Vider pertutto in congelate gocce                             151

pender masse di vetro e di cristallo

e fuso fuor dele forate rocce

in varie vene spargersi il metallo,

quanto ne purgan poi coppelle e bocce,

nero, livido, rosso e bianco e giallo,

e giallo e verde ancor, vermiglio e perso

in ciascun mineral color diverso.

Tra quelle spesse e condensate stille                         152

e quelle zolle a più color dipinte,

vedeansi sparse mille pietre e mille

di varia luce colorate e tinte,

ch’a guisa pur di tremule scintille

o di fiaccole fioche e quasi estinte

intorno e per la volta e per le mura

faceano balenar la notte oscura.

Tosto ch’Adon dela calata alpestra                           153

giunto al’ultimo grado il fondo tocca,

passa dietro a colei ch’è sua maestra

dela cieca caverna entro la bocca,

quando sente scrosciar dala man destra

gran fiume che con impeto trabocca;

ed ecco rimbombar l’atre spelonche

d’un orribil romor come di conche.

Di quelle gemme che per l’antro ombroso                             154

lampeggiando facean l’aria men nera

ed affisse nel sasso aperto e roso

illustravan la grotta e la riviera,

il barlume indistinto e tenebroso

gli servì di lucerna e di lumiera

e vide a gola aperta un crocodilo

di cui forse maggior non nutre il Nilo.

Vennegli incontro e cominciò parole                         155

minacciose a formar d’uman linguaggio.

– Taci bestia malvagia, odiosa al sole,

non impedir nostro fatal passaggio.

Così vuol chi quaggiù può quanto vole –

disse Silvania, e seguitò’l viaggio.

Fuggì la fera ubbidiente e tacque

e ritornossi ad appiattar nel’acque.

– Uom fu già questi, or è dragon (soggiunse)                        156

apprendan da lui senno i più discreti.

Soverchia audacia follemente il punse

dela fata a spiar gli alti secreti.

Fusse caso o sciocchezza un giorno ei giunse

contro gl’inviolabili divieti

là dov’ella talor suol per diletto

cangiar la spoglia e variar l’aspetto.

Videla apunto allor che per vaghezza                        157

di provar qual natura hanno i serpenti

forma di serpe al’immortal bellezza

dava con incantate acque possenti.

Ella è sì spesso a trasformarsi avezza,

che non vo’ che tu fugga o che paventi

s’avien mai che t’appaia in altre membra,

che non è però tal, sebene il sembra.

In mal punto costui videla apunto                              158

quando prendea la serpentina imago,

né tutto il corpo avea bagnato ed unto

ch’era ancor mezzo donna e mezzo drago.

Sdegnosa come prima il vide giunto

il volto gli spruzzò del licor mago,

«stolto (dicendo) i premi tuoi sien questi,

vanne, e narra se puoi ciò che vedesti».

Poich’a tai detti lo scaglioso manto                           159

gli coprì d’ognintorno il tergo e’l seno,

rimase, astretto da perpetuo incanto,

a guardar questo guado ond’io ti meno. –

Disse, e del’antro Adone uscito intanto

giunse in paese oltre gli ameni ameno

e trovò, più ridente e più giocondo,

novo ciel, nova terra e novo mondo.

Ghirlandato di pergole costrutte                                160

di viti e d’uve un gran giardin s’inquadra.

Quattro vie dritte a dritto fil condutte

con trecciere di cedri in doppia squadra,

vanno un sferico spazio a ferir tutte

e di sestesse a far croce leggiadra.

Ai seggi che coronano il bel cerchio

fa vago padiglion verde coverchio.

In mezzo a questo spazio e sotto questa                               161

cupula ombrosa che di fronde è densa,

dodici grifi d’or reggono in testa

di cristallo di rocca un’urna immensa,

che’n larga pioggia a guisa di tempesta

l’acque ala conca inferior dispensa.

D’alabastro è la conca e forma un stagno

che dela bella fata è fonte e bagno.

Quel fonte è il centro onde la linea piglia                               162

ciascuna dele vie che dianzi ho detto,

talché la vista è bella a meraviglia

e scopre di lontan qualunque oggetto.

Circonda il bel giardin ben quattro miglia

e’n ciascun capo è un bel palagio eretto

e i palagi non son di rozzi sassi,

ma tutti di diaspri e di balassi.

Cristalline son l’acque, auree l’arene,                                    163

smalto le sponde, i lor canali argento

e dove l’onda a dilagar si viene

fan grosse perle ai margini ornamento;

gli orti, invece di fior, le siepi han piene

di cento gemme peregrine e cento

e sempre verdi al freddo e fresche al caldo

l’erbe e le fronde lor son di smeraldo.

La rosa le sue foglie ha tuttequante                           164

fatte di puro oriental rubino,

il bianco giglio d’indico diamante,

di lucido cameo l’ha il gelsomino,

di zaffir la viola e fiammeggiante

il bel giacinto è di giacinto fino.

Di topazio il papavere si smalta

e di schietto crisolito la calta.

Non so poscia in qual guisa o per qual via                            165

fassi il duro metallo abile al culto,

o di natura o d’arte industria sia,

o miracol del cielo al mondo occulto.

L’oro ne’ campi genera e si cria,

pullula in sterpo e germina in virgulto

e, fondando radici, alzando bronchi,

vegeta a poco a poco e cresce in tronchi.

In quel terren che forse è più ferace                          166

e vie più ch’altro di miniere abonda,

dele stelle e del sol vie più efficace

passa la forza e la virtù feconda,

siché la gleba fertile e vivace

si nutrisce, s’abbarbica e s’infronda

e di tanto splendor veste il suo stelo

che può quasi abbagliar gli occhi del cielo.

Pompa non vista e non creduta altrove                                 167

veder sorger da terra i bei rampolli

e tra ricchi cespugli in verghe nove

folgorar gli arboscei teneri e molli.

Or mentre Adon sotterra i passi move,

Amor, i cui desir non son satolli,

bramoso apien di vendicar l’offesa

apparecchia nov’armi a nova impresa.

È ver ch’a Citerea recò l’aviso                                 168

del sospetto di Marte e delo sdegno,

accioch’Adon non ne restasse ucciso

ch’unica luce e gloria è del suo regno;

ma vuol perché da lei viva diviso

machinargli tra via qualche ritegno;

onde fin colaggiù dov’egli intende

starsi la fata a saettarla scende.

Stava a seder la fata inculta e scalza                          169

quando Adon sovragiunse a piè del fonte,

ché per uso non pria dal letto s’alza

che sia ben alto il sol su l’orizzonte.

Con la fresc’onda che dal vaso sbalza

tergesi gli occhi e lavasi la fronte,

e’l fonte istesso ch’è fatale e sacro

le serve inun di specchio e di lavacro.

La gonna, ch’era ancor disciolta e scinta,                              170

i bei membri copria senz’alcun manto.

Di broccato e di raso era distinta

d’alto a basso inquartata in ogni canto.

Quello di verde brun la trama ha tinta,

questo nel rancio porporeggia alquanto;

intorno al’orlo un triplicato fregio

aspro di gemme e d’or l’aggiunge pregio.

Trovò ch’allor apunto avea disfatta                           171

la trecciatura del bel crine aurato

e con l’avorio dela mano intatta

pur d’avorio movea rastro dentato.

Piovon perle dal’oro e mentre il tratta

semina di ricchezze il verde prato;

mentre i biondi capei pettina e terge

tutto di gemme il suol vicino asperge.

Giuntole appresso Adone il piè ritenne                                  172

reverente a mirar tanta beltade,

e ne trasse un sospir, ché gli sovenne

d’esser lontan dale bellezze amate.

Falsirena gentil contro gli venne

con accoglienze sì gioconde e grate,

che parea dire al portamento, al viso:

– Così si fan gl’inchini in paradiso. –

Non fu fratanto Amor che stava al varco                              173

a corre il tempo o trascurato o tardo,

ma pose allor su l’infallibil arco

de’ più pungenti e trafittivi un dardo.

L’averlo teso e poi scoccato e scarco

fu solo un punto al balenar d’un guardo,

onde la bella ammaliata maga

senza sentir il colpo ebbe la piaga.

Tosto ch’ella in Adon fermò le ciglia,                        174

pria ferita che vista esser s’accorse.

Stupor, timor, vergogna e meraviglia

la tenner dubbia e dela vita in forse.

Pallida pria divenne, indi vermiglia

e per le vene un gran tremor le corse.

Sente quasi per mezzo il core aprirsi

né sa con l’arti sue punto schermirsi.

Falsirena, che miri? a che più stai                              175

sospesa sì? Quest’è il sembiante istesso

lungo tempo temuto. Eccoti omai

del’ombra il ver. Che miri? egli è ben desso.

Questi son pur que’ luminosi rai

che già tanto fuggivi, or gli hai dapresso.

Perché non schivi il tuo dolor fatale?

dov’è il tuo senno? o tua virtù che vale?

Mira e non sa che mira e mira molto                         176

ma poco pensa e sospirando anela.

Varia il colore, il favellar l’è tolto,

sta confusa e smarrita, avampa e gela.

Tien fiso il guardo in quel leggiadro volto,

non palesa i desiri e non gli cela.

Abbassa gli occhi per fuggir l’assalto,

poi le mani incrocicchia e gli erge in alto.

Fan l’occhio insieme e’l cor dura contesa,                            177

quel si rivolge a vagheggiar la luce,

questo per non languire in fiamma accesa,

vorria fuggir l’ardor ch’ella produce.

L’un brama gioia e l’altro teme offesa

e, perché’l cor del’occhio è guida e duce,

di ritirarlo a più poter si sforza,

ma l’oggetto del bello il tragge a forza.

Saetta è la beltà che l’alma uccide                            178

subitamente e passa al cor per gli occhi.

Fu la beltà ch’ella in mal punto vide

apunto come folgore che scocchi.

Fu l’occhio che seguì scorte mal fide

qual ghiaccio fin, s’avien che raggio il tocchi,

ch’arid’esca vicina accender suole

e ferir di scintille il viso al sole.

Da lei fu in un palagio Adon condutto,                                  179

loqual fra tutti i quattro era il più bello,

né gli mancava il compimento tutto

di quanto può mai dar squadro o modello;

ed oltre con tant’arte esser costrutto

quanto conviensi a ben formato ostello,

gli aggiungea tuttavia fregi maggiori

la lussuria degli ostri e degli odori.

E va pur seco e mai da lui non parte                         180

il falso duce, il lusinghier latrante,

quelche da prima in solitaria parte

dietro ala cerva gli comparve avante;

ed or di stanza in stanza a parte a parte

d’Adon guidando le seguaci piante,

par voglia a lui di quell’albergo lieto

mostrar piano ed aperto ogni secreto.

Era d’arnesi di sottil lavoro                           181

tutta guernita la magion reale

e di bei razzi avea di seta e d’oro

corredate le camere e le sale.

Veduto non fu mai maggior tesoro

ne’ tetti, nele mura e nele scale.

Usci e sbarre avea d’oro ed asse e travi

e chiodi e fibbie e chiavistelli e chiavi.

Nel salir dela sera, apparecchiata                             182

fu la sollenne e sontuosa cena

che di tutto quel lusso ond’è lodata

la più morbida vita, apien fu piena.

Ma la pompa più bella e più pregiata

di quel pasto real fu Falsirena,

ch’ovunque o piatto tocchi o tazza libi,

addolcisce i licor, condisce i cibi.

Tal forse apparve la superba e molle                         183

donna del faro al dittator romano,

quand’ella vincer co’ begli occhi volle

chi vinse il mondo con l’invitta mano;

tai di splendor magnifico satolle

mense apprestò per adescarlo invano

poiché degli anni il traditor del Nilo

ebbe al’oste latin reciso il filo.

Vaghi fanciulli a suon di cetre e lire                           184

proclamaro il festin lieto e giocondo.

Altri vennero il desco ad imbandire,

di cui fasto maggior non vide il mondo.

Il loco ch’a quell’uso ebbe a servire

era un gran tabernacolo ritondo

e spazioso sì, ch’ancorché immense,

capir potea nel sen ben cento mense.

Forman cento colonne un’ampia loggia                                 185

locate in cerchio e son di bronzo a gitto,

sovra cui l’epistilio alto s’appoggia

che folce del cenacolo il soffitto.

Per mezzo in giro si dispiega a foggia

di curva tenda un padiglion d’Egitto.

Reggon cento arpioni intorno appese

auree lucerne in molli odori accese.

Ombran festoni di dorate fronde                               186

lo spazio ch’è tra le colonne altere,

la cui materia un paramento asconde

di mirabili spoglie e di spalliere.

Havvi bianche, purpuree, azzurre e bionde

e d’altri più color pelli di fere.

Fere non note altrui, che quinci e quindi

mandan di rado o gli Etiopi o gl’Indi.

Presso que’ vaghi e variati velli,                                187

sovr’alte basi a piè dele colonne

scolpite da’ più celebri scarpelli

v’ha cento statue d’uomini e di donne.

Son d’alabastro i simulacri belli,

lunghi manti hanno intorno e lunghe gonne.

Ciascuno in man con un parlar che tace

tiene o lamina o libro o verga o face.

Di quante fate ha il mondo havvi i sembianti,                         188

i cui nomi nel marmo il fabro scrisse,

d’indovini, stregoni e negromanti,

maghe, lamie, sibille e pitonisse,

e l’opre lor co’ lor più chiari incanti

in altrettante poi tavole affisse

tra l’una e l’altra imagine distinte

eccellenti maestri avean dipinte.

Or dele laute e splendide vivande                             189

chi descriver poria le meraviglie?

Di gemme e d’or con artificio grande

sculte son le vasella e le stoviglie,

coronate di trecce e di ghirlande

e perse e gialle e candide e vermiglie.

Gran tripodi e triclini adamantini

serbano in ricche coppe eletti vini.

Tapeti d’Alessandria al pavimento,                           190

di Persia, di Damasco e di Soria

facean sì strano e ricco addobbamento

ch’apena il piè di calpestargli ardia.

Ma di quel vago e nobile ornamento

poco si discernea la maestria,

ché tutti eran di sopra i lor lavori

lastricati di rose e d’altri fiori.

Sicome sempre al gran pianeta errante                                  191

Clizia si volge e suoi bei raggi adora

e col guardo e col cor, sorga in levante

o tramonti al’occaso, il segue ognora

e, del suo corso esploratrice amante,

a quel foco immortal che l’innamora

e di cui piagne la veloce fuga

degli umid’occhi le rugiade asciuga,

così la donna a quelle luci care                                  192

fisava intenta onde pendea suo fato,

dolce principio a lunghe pene amare,

il famelico sguardo innamorato.

Dopo il nobil convito il fè lavare

in un bagno di balsamo odorato

e v’infuse di mirra urne lucenti

con altri fini e preziosi unguenti.

Porian tante delizie onde l’adesca                             193

ogni altro, eccetto Adon, rendere allegro,

ma qual uomo in cui grave ognor più cresca

la febre ria che’l tiene afflitto ed egro,

non perché giaccia in molle piuma e fresca

sente al’interno ardor ristoro integro,

tal’ei, che d’amor langue, alcun diletto

non può quivi goder che sia perfetto.

Ei del lavacro uscito, in più secreta                           194

stanza ricovra e si riposa in quella.

Trabacca v’ha cui fa di frigia seta

sovraletto moresco opaca ombrella.

Ma non riposa intanto e non s’acqueta

l’addolorata e misera donzella,

ch’un mordace pensier, tarlo d’amore,

l’è sprone al fianco e l’è saetta al core.

Arde ma non ardisce e teme e spera                         195

tutta in ciò ferma e d’altro a lei cal poco

e, come dritto ala sua patria sfera

s’alza da terra il peregrino foco,

così l’ali amorose apre leggiera

verso i begli occhi ov’è suo proprio loco

l’anima innamorata e dolcemente

rimembrando e pensando erra sovente.

Tacea la notte e la sua vesta bruna                            196

tutta di fiamme d’oro avea trapunta

e senza velo e senza benda alcuna

questa treccia a quell’altra inun congiunta,

sì chiara e bella in ciel sorgea la luna

che detto avresti «è certo il sol che spunta;

forse indietro rivolto a noi col giorno

fa per novo miracolo ritorno».

Lascia le piume impaziente e sorge,                          197

poi del chiuso balcon gli usci spalanca,

e’l pianeta minor per tutto scorge

che le nubi innargenta e l’ombre imbianca.

In un verron che nel giardin si sporge

con la guancia s’appoggia insu la manca,

con l’altra asciuga de’ begli occhi l’onde

e soletta fra sé parla e risponde:

– Ardo, lassa, o non ardo? Ahi qual io sento                        198

stranio nel cor non conosciuto affetto?

È forse ardore? ardor non è, ché spento

l’avrei col pianto; è ben d’ardor sospetto.

Sospetto no, più tosto egli è tormento.

Come tormento fia, se dà diletto?

Diletto esser non può, poich’io mi doglio,

pur congiunto al piacer sento il cordoglio.

Or, se non è piacer, se non è affanno,                                   199

dunque è vano furor, dunque è follia.

Folle non è chi teme il proprio danno;

ma che pro se nol fugge, anzi il desia?

Forse amor? non amor. S’io non m’inganno,

odio però non è; che dunque fia?

Che fia, misera, quel che’l cor m’ingombra?

Certo è pensiero o di pensiero un’ombra.

Ma se questo è pensier, deh perché penso?                          200

Crudo pensier, perché pensar mi fai?

Perché, s’al proprio mal penso e ripenso

torno sempre a pensar ciò ch’io pensai?

Perché, mentre in pensar l’ore dispenso

non penso almen di non pensar più mai?

Penso, ma che poss’io ? se penso, invero

la colpa non è mia, ma del pensiero.

Colpa mia fora ben s’amar pensassi,                         201

amar però non penso, amar non bramo.

Ma non è pur come s’amar bramassi

s’amar non penso e penso a quelch’io amo?

Non amo io no. Ma che saria s’amassi?

Io dir nol so; so ben ch’io non disamo.

Non disamo e non amo. Ahi vaneggiante,

fuggo d’amar, non amo e sono amante.

Amo o non amo? Oimé ch’amor è foco                                202

che’nfiamma e strugge ed io tremando agghiaccio.

Non amo io dunque. Oimé ch’a poco a poco

serpe la fiamma ond’io mi stempro e sfaccio.

Ahi ch’è foco, ahi ch’è ghiaccio, ahi che’n un loco

stan, perch’io geli ed arda, il foco e’l ghiaccio.

Gran prodigi d’amor, che può sovente

gelida far l’arsura, il gelo ardente.

Io gelo dunque, io ardo e non sol ardo,                                203

son trafitta e legata e’nsieme accesa.

Sento la piaga e pur non veggio il dardo,

le catene non trovo e pur son presa.

Presa son d’un soave e dolce sguardo

che fa dolce il dolor, dolce l’offesa.

Se quelch’io sento è pur cura amorosa,

amor per quelch’io sento è gentil cosa.

È gentil cosa amor. Ma qual degg’io                         204

in amando sperar frutto d’amore?

io frutto alcun non spero e non desio;

dunque ama invan, quando pur ami, il core.

Cor mio, deh, non amar. Quest’amor mio

se speme nol sostien, come non more?

Lassa, a qual cor parl’io, se ne son priva?

e se priva ne son, come son viva?

Io vivo e moro pur; misera sorte,                              205

non aver core e senza cor languire,

lasciar la vita e non sentir la morte;

ahi! che questo è un morir senza morire.

O dal’anima il core è fatto forte

o anima è del cor fatto il martire

o quel che’l cor dal’anima divide

è stral che fere a morte e non uccide.

Ucciso no, ma di mortal ferita                                   206

impiagato il mio cor vive in altrui.

Quei ch’è solo il mio core e la mia vita

l’aviva sì ch’egli ha sol vita in lui.

Meraviglia ineffabile inudita,

io non ho core e lo mio cor n’ha dui

e, per quella beltà ch’amo ed adoro

sempre vivendo, immortalmente io moro.

Or amiamo e speriamo. Amor vien raro                                207

senza speranza; io chiederò mercede.

Credi che deggia Amor d’amor avaro

a tant’amor mostrarsi, a tanta fede?

Io credo no, io credo sì: l’amaro

nel cor pugna col dolce. Il cor che crede?

Spera ben, teme mal. Misero core,

fra quanti rei pensier t’aggira amore. –

Mentr’ella in guisa tal s’affligge e piagne                               208

e d’indugio soverchio accusa il giorno,

vaghe d’investigar perché si lagne

le son due donne al’improviso intorno.

Use son queste pur come compagne

seco in camera sempre a far soggiorno,

fidate ancelle e consigliere amiche,

care ministre e secretarie antiche.

Sofrosina è la prima. In grave aspetto                                   209

ritien costei maturità senile,

carca d’anni e di senno e chiude al petto

d’onorati pensier schiera gentile,

sprezzatrice del gioco e del diletto,

sdegnatrice d’ogni opra indegna e vile,

senza alcun fregio semplice e modesta,

bianca il crin, bianca il vel, bianca la vesta.

L’altra Idonia s’appella, agli atti, agli anni                              210

tutta diversa, agli abiti, ai sembianti;

dele cure nemica e degli affanni,

sol degli amori amica e degli amanti.

Di più colori ha variati i panni,

lieta fronte, auree chiome, occhi festanti.

Porta ognor senza legge e senza freno

il riso in bocca e la lascivia in seno.

Al costoro apparir, trema e paventa,                         211

come suole a gran soffio arida canna,

l’immortal damigella e coprir tenta

l’occulto incendio che’l suo petto affanna.

Dissimula il dolor che la tormenta,

tronca i sospiri e l’altrui vista inganna.

Ma chi celar può mai fiamma rinchiusa

se col proprio splendor sestessa accusa?

È nudo Amor né sa coprirsi e poco,                         212

quand’abbia un’alma accesa, un cor ferito,

secreto colpo e sconosciuto foco

da qualunque cautela è custodito.

Il sospirar sovente, il parlar fioco,

il volto lagrimoso e scolorito

osserva attenta Idonia e del suo male

accorta alfin con questo dir l’assale:

– Madonna, ha voce in suo silenzio il core                            213

e la lingua degli occhi invan s’affrena.

Già del’istoria del’interno ardore

fatta è la fronte tua publica scena,

là dove scopre e rappresenta amore

la tragedia crudel dela tua pena.

Di ciò ch’altrui tacendo il guardo dice,

che ti vale il negar? son spettatrice.

Deh quell’aspro dolor che t’addolora,                                  214

non voler che sepolto abondi e cresca.

Deh, nol tacer. Suole il tacer talora

esser de’ mali il nutrimento e l’esca.

Leggiermente si salda e si ristora

mentre la piaga è sanguinosa e fresca,

ma lunghissima chiede opra e fatica

doglia suppressa e cicatrice antica.

Se pur foco amoroso è quelch’acceso,                                 215

sicom’io stimo, entro le vene ascondi,

ché non riveli a me (partito peso

fassi men grave) i tuoi dolor profondi?

Pasci pur di speranza il core offeso,

ché ne’ campi d’amor lieti e fecondi

stan dolci frutti sott’amare foglie,

e di seme di duol gioia si coglie. –

A quel parlar la bella donna il volto                           216

veste di fina porpora vivace

e con guardo dimesso e’n sé raccolto

inchina a terra i vaghi lumi e tace.

Ma pur alquanto assecurata e sciolto

dela nobil vergogna il fren tenace,

in queste note ala profonda pena

trangugiando un singulto, apre la vena:

– Fedel mia cara, e che noiose larve                         217

e che duri pensier guerra mi fanno?

E qual è questo che quaggiù comparve

novamente di me fatto tiranno?

Veder nel suo bel viso Amor mi parve

che con leggiadro e dilettoso inganno,

saettandomi gli occhi, il cor m’uccise,

indi del’alma in signoria si mise.

L’alte bellezze e le sembianze oneste                        218

che fan di sé meravigliar natura,

il dolce sguardo, il ragionar celeste

che con stranio piacer l’anime fura,

il riso a tranquillar l’aspre tempeste

possente e rischiarar la notte oscura,

l’andar, lo star piacquero, oimé, sì forte

agli occhi miei ch’io ne languisco a morte.

Senon ch’altre maggior pene future                           219

mi minaccian dal ciel influssi rei

e da luci nemiche alte sciagure

veggio prefisse ai desideri miei,

a questo solo error, s’errore è pure

amar tanta beltà, sotto cadrei.

Ben conosco il mio fallo e men’aveggio,

ma qual egro assetato, amo il mio peggio. –

Soggiunge Idonia allor: – Perché cotanto                              220

abbi teco a dolerti io non comprendo,

quando libera donna, apien di quanto

brami hai l’arbitrio; e che non puoi volendo?

se potendo gioir ti stilli in pianto,

pietà non ti si dee, statti piangendo.

L’influenze paventi infauste e felle?

e non sai che’l saver vince le stelle?

O temi forse tu che tanta asprezza                            221

in un tenero cor soggiorni e regni

che di divina ed immortal bellezza

lusinghevole invito aborra e sdegni?

e non più tosto pien d’alta vaghezza

tanto tesor per acquistar s’ingegni?

o che di donna tal giovane errante

non si rechi a gran sorte essere amante?

Or non fora il miglior, mentre ch’oppresso                            222

dal notturno letargo il mondo tace

e t’è di girne occulta agio concesso,

assalire il nemico e chieder pace?

Ecco la via colà, l’uscio è qui presso

ch’esce dritto ala stanza ov’egli giace.

Tronca gl’indugi e in uso omai migliore

sappi, se saggia sei, spender quest’ore. –

Così favella e volentier l’orecchia                              223

porge la fata a quel parlar soave;

ma mentre al’altra in fronte ella si specchia

sestessa affrena e sbigottisce e pave.

Dela severa ed onorata vecchia

teme lo sdegno e’n reverenza l’have.

Da lei si guarda e sue lascivie immonde

che communica a quella, a questa asconde.

Ai detti del’iniqua instigatrice                        224

costei con torto sguardo e torvo ciglio

veggendo a sciolto fren quella infelice

correr per via sinistra alto periglio,

a sé la chiama e: – Figlia, odi (le dice)

odi, ti prego, il mio fedel consiglio.

Non gir dove costei t’alletta e sprona,

ch’è contrario a ragion quanto ragiona.

Mille onor chiari assai sovente annera                                   225

picciola macchia. Oimé, che fai? che pensi?

non sai ch’a un punto sol la gloria intera

in molt’anni acquistata a perder viensi?

Figlia è dela ragion la gioia vera

non del piacer allettator de’ sensi.

Con quella onore e pro maisempre vanno,

questo produce sol vergogna e danno.

Qual insania sospigne i tuoi desiri?                            226

che vuoi tu far d’un vagabondo amico?

Un che non ha, se con dritt’occhio il miri,

tetto né suolo? un peregrin mendico?

ma qual certezza hai tu ch’ei non s’adiri?

che sai se quanto è bel tanto è pudico?

Che sai se, d’altro foco acceso prima,

il tuo amor nulla cura e nulla stima?

Dunque un vil fante, uno stranier donzello,                             227

veduto apena, avratti in sua balia?

S’avien ch’ad altrui grato, a te rubello,

ti rifiuti e discacci, oimé che fia?

Dal fier Demogorgon con qual flagello

punita allor sarai di tua follia?

Qual castigo n’avrai grave e severo

dal tuo gran padre ch’ha sotterra impero? –

Qual peregrin che per oscura valle                            228

move notturno e malsecuro il piede

e per la cupa nebbia il torto calle

del vicin precipizio orbo non vede,

s’improviso balen gli occhi o le spalle

squarciando l’ombre o luce altra gli fiede,

volge con passo ancor dubbio e tremante

fuggendo il rischio a buon camin le piante,

tal proprio, a quel parlar verace e saggio                              229

dela cieca d’amor l’animo afflitto

che, smarrito d’onor l’alto viaggio,

l’orme seguia del vago cor trafitto,

quasi riscosso da celeste raggio

subito si rivolse al sentier dritto.

Già sestessa riprende e già s’appiglia

ala scorta leal che la consiglia.

Di tutto ciò l’adulatrice accorta,                                230

di contrario licor tempra l’unguento

e con più dolce medicina apporta

refrigerio al’ardor, tregua al tormento.

Le sorride sott’occhio e la conforta

così parlando: – E che sciocchezze io sento?

Odi sano parer, consiglio degno

di saggia mente e di maturo ingegno.

Portar spavento a chi le chiede aita,                          231

impor gran peso a chi le forze ha frali,

predicar fole e del’altrui ferita

venir con ciance ad inasprire i mali.

Sì sì, di chi goder cerca la vita

han per dio gran pensier l’ombre infernali;

gli abitator del tartaro profondo

curano assai ciò che si fa nel mondo.

Ma dele regioni orride e crude                                  232

non ama anch’egli il rigido tiranno?

Forse chi tant’ardor nel petto chiude

non scuserà l’altrui mortale affanno?

L’ampia legge d’amor nessuno esclude,

gl’istessi dei schermir non sene sanno.

Sotto questo destin l’alme son nate,

sono al fato soggette anco le fate.

Il basso stato poi del giovinetto                                 233

toglier non deve al’altre doti il vanto.

Non può dunque adempirne il suo difetto

chi di beni e ricchezze abonda tanto?

Pur come un vago e signorile aspetto

non curi amor, ma sol riguardi al manto

e, benché in vesta lacera si chiuda,

beltà non s’ami più, quant’è più nuda.

O come è lieve a chi dolor non sente                        234

non sano poverel rendere accorto.

Costei che del’età lieta e ridente

passato ha il verde e di suo corso è in porto,

sazia omai del piacer, severamente

nega al’altrui digiun picciol conforto

e, ciò ch’aver non può, contende e vieta

a giovenil desio vecchia discreta.

Ma credi tu che questa tua pudica                            235

che sì schiva d’amor si mostra in detti,

se richiamar nela sua scorza antica

gli anni freschi potesse e giovinetti,

o s’amante trovasse, a lui nemica

come in parole appar fusse in effetti?

o che’n su’l fior dela beltà perduta

tant’avesse onestà quant’ha canuta?

Bellezza, gioventù, grazia amorosa,                           236

ma non goduta in donna avara e stolta

è qual luce di sol tra nubi ascosa,

è qual sotterra o in mar gemma sepolta,

è qual vermiglia ed odorata rosa,

che dal bel cespo in sua stagion non colta,

cadendo arida poi, vedesi alfine

di sue ricchezze impoverir le spine.

E sebene il tuo fior giamai non cade                          237

né da bruma senil seccar si lassa

poiché’l tuo corpo in qualsivoglia etade

è come il ciel d’incorrottibil massa,

non deve in ozio star tanta beltade,

perché’ndietro non torna il ben che passa,

né perché la stagion sia sempre verde

si racquista più mai quelche si perde. –

Come fra duo talor fisici esperti                                238

nel consiglio discordi, infermo stanco

a pensier vari e di salute incerti

dubbio si volge e d’or in or vien manco,

così costei, de’ duo rimedi offerti,

amaro e dolce, al tormentato fianco,

il miglior non distingue: afferma e nega,

or a questo, or a quel s’inchina e piega.

Tace né dà, fuorché sospiri e strida,                          239

la combattuta donna, altra risposta.

Pur le terga volgendo ala più fida,

tacitamente a quel parer s’accosta

e fra suo cor dela fallace guida

l’empie lusinghe di seguir disposta,

al partito che piace alfin si volve

e quanto ha detto effettuar risolve.

Là dove giace Adon, perché la doglia                                   240

si sfoghi in parte e più non la consumi,

vassene ignuda e senza alcuna spoglia

tutta tutta spirante arabi fumi.

Vigilavano accesi entro la soglia

quattro in aurei doppieri ardenti lumi,

ma sparsi, de’ begli occhi i raggi intorno,

vinser le faci e mutar l’ombra in giorno.

Troppo dura battaglia, o bell’Adone,                                    241

al tuo stabil pensier, veggio, si move.

Amor ti sfida a sì dolce tenzone

con armi in man sì disusate e nove

che ben’altro di te maggior campione

vi perderia le gloriose prove.

Pertinace è la pugna, angusto il campo,

grave il periglio e non leggier lo scampo.

Move pian pian per lo pavese i passi                        242

e piede innanzi piede oltre camina.

Timida e rispettosa alquanto stassi

dove si fende in due l’ampia cortina.

Indi arditetta alza le coltre e fassi

al suo stesso guancial molto vicina,

vicina sì che può da’ labri amati

coglier, se non i baci, almeno i fiati.

Chinasi per baciar, ma par che tremi,                                    243

che non si sdegni poi quando si desti.

Folle che pensi? misera che temi?

Se sapessi quai doglie il ciel t’appresti,

per mitigar tanti cordogli estremi

da’ bei rubini un bacio almen torresti.

Fallo non è poiché d’amor t’accendi,

furto non è se quanto dai ti prendi.

Ei, che leggier dormiva e’n parte tratto                                 244

s’avea del sonno il natural desio,

a quel moto si scosse e stupefatto

le luci in prima e poi le labra aprio.

– Chi se’ tu? – disse. Ed ella in languid’atto

e’n suon piano e sommesso: – Io mi son io. –

Stupisce Adon quando di lei s’accorge

e dale piume a reverirla sorge.

L’accesa donna dele braccia belle                            245

ai bei membri gli fa groppi tenaci;

il bel garzon sene sottragge e svelle

e dà repulsa a quegli assalti audaci.

Le vive rose allor, le vive stelle

spargon preghi, sospir, lagrime e baci

da far, nonché gentil tenero core,

adamantino ghiaccio arder d’amore.

– Fia dunque ver ch’un raggio amato e caro                         246

mi neghi almen (dicea) de’ lumi tuoi?

E sarai sì crudel, sarai sì avaro

a chi più t’ama assai che gli occhi suoi?

Sì poco curi il mio tormento amaro

che’n tale stato abbandonar mi vuoi?

Angue già non son io crudo e maligno,

né tu sei di diaspro o di macigno.

Ma se nato di quercia aspra e villana                        247

fossi là tra Rifei, tra gli Arimaspi

e se bevuto del’estrema Tana

l’onde gelide avessi o i ghiacci caspi,

se te di sangue e di velen l’ircana

tigre e’n grembo nutrito avesser gli aspi,

ancor devresti al mio mortal cordoglio

temprar lo sdegno e moderar l’orgoglio.

Già non cheggio che m’ami, i’ cheggio solo                           248

ch’amar ti lasci; e non ch’a me ti pieghi,

ma ch’almen non disprezzi il mio gran duolo;

piacciati udir, non essaudire i preghi;

sol che’n pace m’ascolti io mi consolo;

non mi negar pietà s’amor mi neghi,

fonte d’ogni mia gioia, unico mio

dolce ben, dolce mal, dolce desio.

Intenerisci il tuo selvaggio ingegno,                            249

prendi il crin che Fortuna or t’offre in dono,

ch’altro amor non conviensi ad uom sì degno

che di tal semidea qual io mi sono.

Possessor del mio cor, nonché del regno

farotti e ne terrai lo scettro e’l trono

e se l’oro è re grande oltre i più grandi,

a chi comanda al’or vo’ che comandi.

Che più dimori? a che pensoso stai?                         250

perché ti mostri al proprio ben sì tardo?

Stendimi quella man, lascia ch’omai

baci sol que’ begli occhi ond’io tutt’ardo;

volgimi da’ que’ dolci amati rai

men crudo almen se non pietoso un guardo,

luce mia, fiamma mia cara e gradita,

bene, speranza, core, anima e vita. –

Poiché tra lo stupore e la pietate                               251

Adon dubbio tra sé ristette alquanto

e prestò più benigne e men turbate

l’orecchie a quel pregar, le luci al pianto,

in sua voglia ostinossi al’ascoltate

note non men che soglia aspe al’incanto;

sopir però quelle faville accese

volse, se non pietoso, almen cortese.

Un non so che di molle il cor gli stringe,                                252

ma la somma beltà ch’entro v’è chiusa

l’ingombra sì, ch’ogni altro amor ne spinge,

onde vezzi ed offerte odia e ricusa.

Fiamma di sdegno e di vergogna il tinge,

dala cui forza è l’altra fiamma esclusa;

onde con un parlar rigido e dolce

così dicendo or la corregge, or molce:

– Donna, assai ti degg’io; pria che si scioglia                         253

questo dever, si disciorrà la vita;

finché chiusa fia l’alma in questa spoglia

Falsirena nel petto avrò scolpita.

Così signor fuss’io d’ogni mia voglia,

come pronto m’avresti a darti aita.

Ma che poss’io? forza d’onor mi move

e tenor di destin mi chiama altrove.

Teco meglio amerei, lecito fosse,                              254

rimaner fra tant’agi a trastullarmi

che quanto mai dal’onde azzurre o rosse

oro l’instabil dea possa recarmi.

Fama a venir di tua virtù mi mosse

sol per vederti e poi lassù tornarmi;

ché se gli affari miei ti fusser noti,

compatiresti ai miei perpetui moti.

Sappi e credi ch’io t’amo e gli amor miei                              255

non fia mai che dal cor tempo mi svella.

Ma devi amar, se vera amante sei,

ch’altri ami in te quel bel che ti fa bella.

Ah! ch’avessi già tu mai non credei

sì di sì vile amor l’anima ancella

ch’oscurar ne devessi il lume e’l pregio

del chiaro ingegno e del costume regio.

Dove rotto ogni morso, ogni catena                          256

di ragion, d’onestà, per torti errori

corri precipitosa? Affrena affrena

cotesti tuoi licenziosi ardori.

L’alta follia ch’a vaneggiar ti mena

volgi a più puri e più lodati amori.

Dunque, terrena dea, donna divina

non saprà di sestessa esser reina?

Schiva ben nato cor nobile amante                            257

d’illegittimo amor sozzo diletto.

L’appetito ferin nel senso errante

s’arresta e mortal esca ha per oggetto.

Quelle sol quelle son veraci e sante

fiamme che di virtù scaldano il petto,

qualor malgrado dela fragil salma

s’ama insieme e si gode alma con alma.

Consenti omai ch’io de’ tuoi regni il piede                             258

tragga e prendi da me l’ultimo a dio.

Teco a me dimorar non si concede,

sostien, s’ami ch’io t’ami, il partir mio.

Portalo in pace e, come il tempo chiede,

vinci la passion, doma il desio.

Sappi esser saggia e con miglior consiglio

rasciuga il pianto e rasserena il ciglio. –

Muta, confusa, attonita mentr’egli                             259

in tal guisa parlò, tacque e sofferse

Falsirena infelice e gli occhi begli

rugiadosi di perle al suol converse.

L’aria notturna e l’ombra de’ capegli

dela sua nudità parte coverse

e’l bel rossor dela vergogna ascose

che fiamme a fiamme aggiunse e rose a rose.

Nel cor di grave doglia oppresso e carco                             260

palpitaro gli spiriti infelici.

Se non lasciò, che non potea, l’incarco,

l’alma, cessò da’ suoi vitali uffici.

Chiuso trovando allor l’usato varco

le calde dela vita aure nutrici,

in preda la meschina al duolo amaro

viva, ma semiviva abbandonaro.

E l’abbandona ancor in quel cordoglio                                  261

colui che può sol darle anima e vita.

Ma che sia crudeltà creder non voglio

se la lascia in tal caso e non l’aita,

quando avrebbe a pietà mosso uno scoglio

e qual selce più dura intenerita;

forse per non mirarla afflitta e trista

è costretto a fuggir dala sua vista.

Uscito Adon dele dorate soglie,                                262

Idonia v’entra che’l successo attende

e quando immersa in sì profonde doglie

la trova, la cagion ben ne comprende.

Poiché la fata alfin la lingua sciolse,

apena creder vuol quelche n’intende,

né ciò reca a virtù, ch’è fuor d’usanza

in sì fragile età tanta costanza.

– Non tosto a’ primi colpi, a’ primi venti                               263

 (diceale) antica rovere s’atterra.

Altri non mancheran mezzi possenti

da far cader questa grande pianta a terra.

Lo stimulo del’or prima si tenti,

campion che vince ogni ostinata guerra.

Sai che questo è del’uomo il sangue e l’alma

e di petti più forti ebbe la palma.

Non con tanto vigor dal ciel trabocca                                   264

il fulmine né fa tanto fracasso,

quanto fa l’or, quando s’aventa e scocca,

né cosa v’ha che gli rinchiuda il passo:

abbatte ogni ripar, spiana ogni rocca,

rompe il legno, apre il ferro e spezza il sasso.

Se pur alfin non gioveran quest’armi,

giova la forza, il tutto ponno i carmi.

Da possanza infernal senno terreno                           265

come guardar, come schermir si pote?

Toglie al’angue, al leon l’ira e’l veleno

il mormorio dele tremende note.

Può dela terra e può del ciel non meno

mover il centro ed arrestar le rote,

torcer le stelle e, sanguinosa e bruna,

far giù dal cerchio suo scender la luna. –

Partesi e nel giardino Adone arriva                           266

che tra quelle verdure erme e riposte

al fresco del mattin si rivestiva

le spoglie che la notte avea deposte

e seco dela femina lasciva

discorrea le lusinghe e le proposte.

Uscir quindi vorria, romper quel nodo

ma non scorge il sentier, né trova il modo.

Con acerbe doglienze ed importune                          267

Idonia allor il damigel ripiglia

dicendogli ch’ell’ama il ben commune

e che per util suo solo il consiglia,

che conoscer devria le sue fortune

e che forte di lui si meraviglia

che con cambio ingratissimo disprezza

tant’onor, tant’amor, tanta bellezza.

– Se non sei (gli dicea) privo di sensi,                                   268

contro guerriera tal come resisti?

Ma s’al’amor, s’ala beltà non pensi

di lei, da cui sì subito partisti,

come almen non rimiri i beni immensi

ch’acquistando costei per sempre acquisti?

T’insegnerà le qualitati ignote

dele pietre, del’erbe e dele note.

Ti scoprirà l’occulta arte verace                                269

che può supplire ove mancò natura:

in qual modo, arrestando il piè fugace,

l’imperfetto metallo si matura

e come dando il vento ala fornace

con moderato mantice misura,

tempra in guisa il calor, ch’a poco a poco

l’efficacia del sol s’usurpa il foco.

Oltre questa virtù rara e secreta                                270

ch’a tutti conseguir non si concede,

onde vita trarrai contenta e lieta

come colui che quanto vuol possiede,

dono poi ti farà d’una moneta

che sempre a chi la spende indietro riede;

se la spendessi mille volte il giorno,

mille volte in tua man farà ritorno.

Una sua borsa ancor vo ch’abbi appresso,                           271

la cui virtù meravigliosa è molto:

dentro vi cresce ognor ciò che v’è messo

e rende al doppio più che non n’è tolto;

vedrai se l’apri tosto da sestesso

moltiplicarsi quel che v’è raccolto;

se poi vota la lasci e d’oro scarca

vene ritrovi almen sempre una marca.

La lucertola avrai dale due code,                              272

perché giocando a guadagnar ti serva;

poi quel can fia tua guida e tuo custode,

quel cacciator dela mirabil cerva.

Godrai quelche nel mondo altri non gode,

saprai dovunque d’or si fa conserva.

Potrai, nonch’altro, con tal mezzo avere

le più belle fanciulle a tuo piacere. –

Così dicea l’incitatrice astuta,                                   273

ma’l garzone a quel dir non più si scalda

che soglia debil sol, quando più sputa

gelo il settentrion, nevosa falda,

falda in ruvido sen d’alpe canuta

per lunga età ben indurata e salda:

non si piega agli assalti e non si rende,

ma come il meglio può sene difende.

– Alma ingorda (risponde) il ciel non diemme,                                  274

sempre del troppo i miei desir fur schifi.

Se di quante ricchezze e quante gemme

guardan colà su gli Arimaspi i grifi,

se di quant’or dal’indiche maremme

per le liquide vie conduce Tifi

mi facesse signor prodigo cielo,

non torceria de’ miei pensieri un pelo.

Quest’or che fitte tanto ha le radici                           275

ne’ petti umani e che tu tanto estolli,

è se non servitù d’alme infelici,

miseria illustre, idolatria di folli?

Quei che ricchi son più, son più mendici,

quanto divoran più son men satolli.

Con fatica s’acquista e con sudore,

rischio è il serbarlo, il perderlo dolore.

Giuro che di costei l’amor non sprezzo,                                276

suoi tesori appo me son ombre e fumi.

Più sua beltà, più sua virtute apprezzo

che ciò che dar mi ponno o monti o fiumi,

né qualunque torrei cosa di prezzo

più ch’uno sguardo sol de’ suoi bei lumi.

Quant’or portan dal’India o navi o some

non pagherebbe un fil dele sue chiome.

Uopo non fora di sospiri e pianti                               277

a disporre il mio cor, s’ei fusse mio.

Mancheran forse a sì gran donna amanti

d’altro pregio maggior che non son io?

quanti sovrani fien principi e quanti

che porranno ogni studio, ogni desio

per ottener quel ben che senza merto

vien sol per grazia a chi nol chiede offerto? –

Disse, e da lei fu replicato a questo                           278

e per più vie con più ragion l’assalse,

ma poich’alfin col suo parlar molesto

quell’alpestra mollir selce non valse,

di Falsirena il cor doglioso e mesto

a pascer venne di speranze false,

cercando in parte alleggerir gli ardori

de’ malgraditi e sconsolati amori.

Ella che ben conobbe esser negletta                          279

in quel grave martir vie più s’afflisse

e di sì acuta e sì crudel saetta

ira amorosa il petto le trafisse,

che far de’ torti suoi giusta vendetta

deliberossi infuriata e disse:

– Or con costui ch’è d’ogni grazia indegno,

ciò che non può l’amor, faccia lo sdegno. –

Posto fu quella notte in ben agiata                             280

camera Adon, ché tal sembrava e ricca.

Porta non ha che serri altrui l’entrata,

ma quand’uom v’entra poi, d’alto si spicca

e’n guisa di graticola ferrata

con aguzzi spuntoni al suol si ficca

e forma atra prigione, ov’introduce

ben angusto sportel torbida luce.

Qui, come in gabbia augello, in rete pesce                            281

preso rimane o pur qual damma in laccio.

Ma l’esser prigionier men gli rincresce

che ritrovarsi ad altra donna in braccio.

Sa che’n carcere entrando almen pur esce

libero fuor di quel noioso impaccio:

– Ombre cieche (dicea) tenebre orrende,

mal vostro grado un più bel sol mi splende.

Soffri in pace, o mio cor, nodi e legami,                                282

soffri e vivi felice infra le pene.

Qual altra luce in quest’orror più brami

che la memoria del tuo sommo bene?

Purché la fè non rompa a chi tant’ami,

non si rompan più mai ceppi e catene.

Ma catene maggior temer non devi

quando quelle d’amor ti son sì lievi.

Se la gloria che’l fato or mi destina                           283

non fusse da quel duol turbata in parte

d’aver la bella ed unica reina

di questo cor lasciata in preda a Marte,

ilche pur dela gemma adamantina

chiaro mi mostra l’infallibil’arte,

quanto più volentier gli aspri ritegni

sopporterei di questi ferri indegni?

O viva imago del mio nume amato,                           284

che’n bel diamante effigiata spiri,

che fa teco il mio cor? quanto beato

vidi condotti a fin gli alti desiri,

in quella rete d’oro imprigionato,

dolcissima prigion de’ miei sospiri

quando superbo di sì nobil palma

nele tue braccia imprigionai quest’alma?

Ahi quando fuor dele tue belle braccia,                                 285

carcer felice, in libertà fu messa,

perché dal mortal groppo onde s’allaccia

non si discarcerò l’anima anch’essa?

Deh perch’io viva sì che non mi spiaccia

la vita omai senza la vita istessa,

dammi conforto tu, dammi possanza

tu del bell’idol mio vera sembianza. –

La custodia del carcere rimise                                  286

l’irata donna ad un suo schiavo armeno.

Degno supplicio al mal che poi commise

portò costui fin dal materno seno.

Giusto ferro gli svelse e gli recise

dala gemina sede il peso osceno

e gli tolse ala luce apena uscito

ufficio inun di padre e di marito.

Corse l’Arabie e per l’Assiria appresso                                287

essercitossi in ministeri vili.

Solcan la guancia, ch’al mutar del sesso

sicom’uva appassì, rughe senili,

là dove il conio egizzio ha il marchio impresso

degl’infami caratteri servili.

E ben mostra la voce e la statura

l’effeminata sua steril natura.

Sicome uom più fellon, così più sozza                                   288

figura non uscì giamai del’alvo.

Mezza un’orecchia e l’altra intutto ha mozza,

l’occhio destro ha perduto, il manco è salvo.

Salvo un fiocco di crin che’n treccia accozza

su la cima del capo, il resto è calvo;

ma la calvicie è d’una tigna brutta

quasi a mosaico intarsiata tutta.

La superbia d’Idraspe e l’inclemenza,                                   289

tal nome avea l’eunuco aspro e severo,

non tralasciò tirannica insolenza

mentre in sua guardia Adon fu prigioniero.

Ma con egual costanza e sofferenza

soggiacque ei sempre al rigoroso impero,

quando per fargli ognor scherni più gravi

l’indiscreto portier movea le chiavi.

Atti usò sì ferini e sì selvaggi                          290

col bel garzone il carcerier villano,

che se non era da’ celesti raggi

soccorso del suo sol, benché lontano,

ai duri strazi, ai dispettosi oltraggi

di quel giogo cadea troppo inumano,

sotto il cui fiero e barbaro governo

quasi il corso passò di tutto il verno.

Poco o nulla gli nocque il verno algente,                                291

mercé del divin foco onde sempr’arse.

In mano il fido anel prendea sovente

né sapea da tal vista unqua levarse.

Sovra la bella effigie egro dolente,

o quante notte e dì lagrime sparse!

Cotal vita menò tanto ch’a fine

venne l’aspra stagion dele pruine.

Tornava Idonia con assedio duro                              292

a combatterlo ognor senza riposo.

Ma del suo cor l’inespugnabil muro

trovò sempre più forte e più scabroso.

In somma d’un parer le donne furo

ch’altro amor lo facea così ritroso,

onde la fata di lasciar i pianti

e di tentar determinò gl’incanti.

 




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