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Giovan Battista Marino Adone IntraText CT - Lettura del testo |
Canto, allegoria 16
La CORONA. Nella descrizzione del tempio di Venere si ombreggiano diversi effetti d’amore. Nelle due porte principali, l’una d’oro fiorita, l’altra di ferro spinosa, si dimostra il suo incominciamento dilettevole col fine doloroso. Così nell’altre particolarità di esso tempio si discoprono parimente l’altre condizioni della sua natura. Nella elezzione d’Adone assunto al reame si allude all’antico costume de’ popoli persiani, iquali non solevano accettare re che di bella presenza non fusse, perché dai sembianti del corpo argomentavano le qualità dell’animo. Nella malizia di Barrino che rubando la corona ad Adone s’ingegna di preoccupargli il regno, si disegna il vero ritratto della fraude, laqual cerca di prevalere al merito, ma alla fine ne riesce con danno e con infamia. Nella insolenza di Luciferno, saettato ed ucciso da Cupidine per voler contravenire alla disposizione dell’oracolo, si manifesta quanto invano tenti l’umana audacia di resistere alla divina volontà, a cui opponendosi ne viene severamente punita. Nella difformità di Tricane Cinofalo, nano, zoppo e contrafatto, ilqual trasformato dagl’incanti di Falsirena, viene in apparenza di bello a concorrere con gli altri all’acquisto della corona, ma discoverto poi per opera di Venere, ne riceve vergogna e ludibrio, si figurano le brutture de’ vizi e de’ costumi bestiali, nascoste dalla ipocrisia sotto velo di bontà, lequali però non fanno che gli scelerati non vogliano talora ambire le dignità ed aspirare agli onori, ma conosciuti mercé del lume della verità per quelche sono, non solo le più volte ne rimangono esclusi, ma ne sono scherniti dal mondo.
Canto, argomento 16
Di graziosi e nobili donzelli
concorre al paragon diverso stuolo,
ma, mercé dela diva, Adone è solo
essaltato alo scettro infra i più belli.
Canto 16
Bellezza è luce che dal sommo sole 1
discende a rischiarar carcer terreno
e’n vari raggi compartir si suole
e dove più lampeggia e dove meno.
Quant’hanno di leggiadro atti o parole
tutto è mercé del suo splendor sereno,
che conformi a quel bel ch’entro si copre
fa le sembianze esteriori e l’opre.
Gemma così che di natie fiammelle 2
sfavilla e di color vago s’inostra,
cela in sue tempre ancor lucide e belle
virtù corrispondente a quelche mostra.
Quantunque il sol, la luna e l’altre stelle
sien chiari oggetti dela vista nostra,
fanno agli occhi però visibil fede
d’altro lume maggior che non si vede.
La corporea beltà chiaro argomento 3
suol dar di non men bella alma gentile,
per cento indizi dinotando e cento
di nascondere in sé forma simile.
E quasi velo dilicato e lento
o qual cristallo limpido e sottile,
fa tralucer difuor gl’interni lumi
de’ signorili e candidi costumi.
E sicome le ricche e nobil arche 4
e le vasella d’alabastro e d’oro,
non di materia vil si tengon carche
ma di cose pregiate e di tesoro
e gemmati monili ed auree marche,
balsami ed ambre sol serbansi in loro,
così sotto bei membri e belle forme
chiuder non si suol mai spirto difforme.
E come i rozzi affumigati tetti 5
e le case selvagge ed impagliate
non son da regi per albergo eletti
avezzi ad abitar logge dorate,
ma son villani e rustici ricetti
di basse genti ignobilmente nate,
così nel nido d’una spoglia oscura
rade volte soggiorna anima pura.
Deh! qual si può fra gli ordini mortali 6
discordanza veder che men convegna,
che man regger talor verghe reali
d’aratro ancor nonché di scettro indegna?
Ed orribili arpie, sfingi infernali
coronar del diadema onde si regna
e sozze fere e contrafatti mostri
che si scopron poi tali a’ danni nostri?
Fu ben saggio consiglio e sano aviso 7
quando fu in Cipro il novo rege eletto
a non voler nel regio trono assiso
uom di laido sembiante e rozzo aspetto
ma chi per grazia e nobiltà di viso
a sé traesse il popolare affetto,
sicome già del’amorosa dea
l’oracolo immortal deciso avea.
L’editto intanto dela dea di Gnido 8
in ogni angolo estremo il mondo intese,
e poiché dela Fama il chiaro grido
divulgandol pertutto il fè palese,
mill’alme in questo e’n quel remoto lido
vano desio d’ambizione accese;
né dal contorno sol l’arabo e’l siro,
ma confin più riposti il suon n’udiro.
Le vicine contrade e le lontane 9
l’odon dal Tanai al Nil, dal Gange al Beti,
region, nazion non vi rimane
per quanto e scalda Apollo e bagna Teti.
Carchi di turbe già barbare e strane
batton le penne i volatori abeti.
Omai di Cipro è ricoverta e piena
di navi e padiglion l’onda e l’arena.
Può tutta in breve l’isola vedersi 10
ripopolata di straniere genti.
La mistura degli abiti diversi
e la confusion de’ vari accenti,
dai Mori i Traci e dagl’Iberi i Persi
mostran quanto i costumi han differenti.
Ingombran mille lingue e mille affetti
di voci l’aure e di pensieri i petti.
Mentre a questo concorso ondeggia il regno 11
e la corte ne va tutta sossopra,
chi nela propria tenda e chi su’l legno,
ciascun suo studio in abbellirsi adopra
e con vari argomenti usa l’ingegno
per far che l’arte ogni difetto copra
e la semplice forma di natura
con l’industria aiutar scaltro procura.
Come s’entrar talor cauto guerriero 12
deve a pugnar nela sbarrata piazza,
terge il fin elmo, impiuma il bel cimiero,
guarda se ben chiodata è la corazza,
prova lo scudo, visita il destriero,
l’astato ferro e la ferrata mazza,
la punta al brando aguzza, il taglio arrota
e le tempre del ferro osserva e nota,
così quivi d’Amor più d’un campione, 13
sfidato quasi a militar palestra,
pria che s’esponga al periglioso agone,
sestesso ai colpi essercitando addestra.
La Diligenza i gesti suoi compone,
la Baldanza il consiglia e l’ammaestra;
Beltà, ch’a tanta impresa il move e tira,
l’armi gli appresta ond’a vittoria aspira.
Chi nodi accresce al crin, colori al volto, 14
chi dà legge alo sguardo e moto al piede,
chi grazia aggiunge agli atti e’n sé raccolto
ogni lor parte essamina e rivede
e, del tutto librando il poco e’l molto,
ciò che manca corregge e ciò ch’eccede;
e quanto è d’uopo ad emendare il fallo
insegna altrui l’adulator cristallo.
O vanità mortal, gloria de’ folli, 15
che ti compiaci d’un sì fragil velo,
ond’è che tanto il cieco orgoglio estolli
neve al sol, piuma al vento e fiore al gelo?
Tu d’insana superbia ebri e satolli
scacciasti i più begli angeli dal cielo,
per te, nebbia del’alme oscura e ria,
la creatura il creatore oblia.
Poveri specchi, s’intelletto aveste, 16
voi che di tanto mal ministri siete,
chi pria vi fabricò maledireste
schivi omai di veder ciò che vedete.
Come il contagio, oimé, di quella peste
di cui talor l’impression prendete,
del vostro bel candor macchiato e tetro
non corrompe la luce e rompe il vetro?
Parlo a voi, di voi stessi innamorati 17
o novelli luciferi e narcisi,
tanto dal proprio amore effeminati
che non pur dele donne atti e sorrisi,
ma v’avete anco omai tutti usurpati
gli ornamenti degli abiti e de’ visi,
curando più che trattar spade o lance,
nutrir le chiome e coltivar le guance.
E parlo, o donne, a voi che tanta cura 18
ponete in stemprar gomme, in stillar acque
per cancellar la natural figura
ch’al’eterno pittor di formar piacque.
Vera beltà si lava in onda pura,
quella imagin ritien che seco nacque,
ogni liscio disprezza e’nculta e schietta
quanto s’adorna men, vie più diletta.
Ma ben di cotal opra assai sovente 19
come vostra è la fraude è vostro il danno,
poich’alfin quel velen forte e nocente,
rodendo la beltà, scopre l’inganno;
ond’alcun che per voi nel’alma sente
o forse sentiria pena ed affanno,
da tosco tal contaminate e guaste
non v’ha per belle e non vi tien per caste.
Pensate forse voi quest’arti industri 20
tener, deh! stolte, ad occhio accorto ascose?
Ben ciascun vede in quelle chiome illustri
qual sofistico il zolfo oro compose;
da qual giardino il volto ebbe i ligustri
e colse a prezzo le mentite rose;
e qual pennel d’adultero cinnabro
penò lung’ora a colorirvi il labro.
Tentan costor con artifici infinti 21
di tesser velo ale bellezze vere,
perché l’arbitrio altrui, così dipinti,
sperano a lor favor meglio ottenere.
Con queste cure ala gran prova accinti
van lusingando le speranze altere
e contan l’ore in aspettar di quella
sacra sollennità l’alba novella.
Ed ecco fuor dela stellata reggia 22
ne vien del sol l’ambasciadrice e figlia
e nel paterno specchio si vagheggia
tutta di minio oriental vermiglia.
Già dela Notte, mentre il dì lampeggia,
fugge la pigra e pallida famiglia;
dela Notte, che vinta dagli albori,
piagne e del pianto suo ridono i fiori.
Sorge nel mezzo ala real cittate 23
tempio cui non eresse Efeso eguale.
Ha di tersi diaspri edificate
le vaste soglie e le superbe scale.
Lastre di smalto e tegole dorate
vestono il tetto di ricchezza tale,
che vibra lampi e folgora splendori,
dela luce del sole imitatori.
V’ha due porte maestre; al’altrui piede 24
l’una l’entrata e l’altra apre l’uscita.
L’una di luci d’or, l’altra si vede
di ruginoso e vil ferro scolpita.
Quella la strada al peregrin concede
di rosa e rosmarin tutta fiorita.
Questa lappole e dumi intorno aduna
e di spine, d’ortiche il varco impruna.
Le vetriate di cristallo alpino 25
mostrano colorite ai rai celesti
d’indico azzurro e di vermiglio fino
de’ martiri d’amor le vite e i gesti.
Di cimitero in vece havvi un giardino,
non di cipressi tragici e funesti
ma di bei mirti in cui canta Talia,
né v’entra mai la flebile Elegia.
Le squille, il cui romor quivi rimbomba, 26
son cetre ed arpe e cennamelle e lire
con suon possente a trarre altrui di tomba
e sì dolce e piacevole ad udire,
ch’a qual guerrier più franco odiar la tromba
farebbe e depor l’armi e cader l’ire
e, lasciando di Marte i piacer scarsi,
del delubro d’Amor ministro farsi.
Il campanil, sublime e nobil opra, 27
forma un leggiadro ottangolo perfetto,
ed otto colonnette havvi di sopra
che di lazzulo son forbito e netto;
e fa ch’un gran turribulo ricopra
l’ultima cima ove finisce il tetto;
e gli otto spazi voti han d’alabastri
statue scolpite da famosi mastri.
I portici dintorno e l’atrio e’l coro 28
son colonnati al’uso di Corinto.
Dele colonne e d’ogni serie loro
l’ordine a fila a fila è ben distinto.
Di mischio il busto ed ha di bronzo e d’oro
ciascuna il piè calzato e’l capo cinto;
e le mura non men tutte composte
han di marmi finissimi le croste.
Pria che si giunga al principale altare, 29
di mirto un ramoscel con l’onda viva
d’un fonte pien di lagrimette amare
spruzza la fronte al passaggier ch’arriva.
Cento lumiere intorno ardenti e chiare
in aurei candelier sacre ala diva
e cento appese lampe in forma d’urne
fregian di luce e d’or l’ombre notturne.
Innanzi al’ara ove la bella imago 30
sta di Ciprigna, un tripode d’argento
le fiamme ond’arser già Troia e Cartago
nutrisce d’odorifero alimento;
e’n quell’ardor, che sempre vivo e vago
per volger di stagion non è mai spento
e di fumi soavi innebria il senso,
rosa è la mirra e gelsomin l’incenso.
Là dove illustre di materia e d’arte 31
gran lume il tabernacolo diffonde,
l’amorose reliquie in chiusa parte
santuario profano in seno asconde.
Di mute cere e di loquaci carte
ritratti vivi e lettere faconde,
nastri di seta e trecce di capelli
guanti odorati e preziosi anelli.
Ed havvi ongare stampe, indiche vene, 32
vezzi di perle e rose di diamanti,
auree cinte e maniglie, auree catene,
fidi refugi de’ devoti amanti.
Cose che soglion far nel’altrui pene
miracoli maggior che preghi e pianti
e più ch’antica o servitute o fede
impetrano in amor grazia e mercede.
Nel’eccelse pareti e’n queste e’n quelle 33
ricche cornici e di bei fregi ornate
mille votive imagini e tabelle
serban memoria del’altrui pietate;
cantan salmi d’amor donne e donzelle,
non già nascoste da gelose grate.
Guarda il Genio i lor chiostri e cura n’have
e Priapo ortolan ne tien la chiave.
Agli egri afflitti, ai poveri infelici 34
ch’accattan del gran tempio insu le porte,
donan le belle ninfe abitatrici
sguardi, risi, piacer di varia sorte.
Vestir ignudi, ristorar mendici,
affamati cibar vicini a morte,
albergar peregrini a tutte l’ore,
queste son le limosine d’amore.
A sì fatta magione il piè drizzaro, 35
giunto il dì stabilito, i giudicanti.
Memorabil giudicio e non men chiaro
di quel ch’Ida mirò molt’anni avanti;
senon ch’un pastorel non va di paro
con senatori e satrapi cotanti;
e fanno in parte differir l’essempio
tra duo sessi diversi il bosco e’l tempio.
Del gran palagio a lenti passi usciro 36
e con ordin distinto in fila doppia
la città circondando in largo giro
fer di sé lunga linea a coppia a coppia.
Crotali intanto e pifferi s’udiro,
già squilla il corno e già la tromba scoppia;
strider fan l’aure mattutine e fresche
barbare pive e buccine moresche.
Precedon nel’andar due volte sei 37
su ben bardati ed ottimi cavalli
leggiadri araldi ed altrettanti a piei,
con nacchere, busson, tibie e taballi.
Fregiati i pennoncelli han di trofei
gli strepitosi lor cavi metalli;
e, perché Citerea nacque da’ flutti,
è ceruleo il color che veston tutti.
Passan poi mille in bipartita lista 38
armati cavalieri insu gli arcioni,
tra’ quai la cima tutta è sparsa e mista
de’ primati del regno e de’ baroni.
Fan tra gli arnesi lor superba vista
stocchi aurati, aste aurate, aurati sproni,
ma dele sovravesti han la divisa
pur colorata ala primiera guisa.
Con l’istessa livrea succedon cento 39
valletti eletti e nobili donzelli.
Baccini in una man portan d’argento,
sanguinosi nel’altra hanno i coltelli.
Fuman tepidi i vasi ed havvi drento
diversi cori di svenati augelli,
sacrificio più bel che l’ecatombe,
passere e galli e tortore e colombe.
Due squadre indi accoppiate in ordin vanno 40
di cacciatrici e sagittarie arciere,
che sovra gonne di purpureo panno
veston di bianco lin cotte leggiere.
Han gli archi al tergo e le faretre ed hanno
di carboni dorati e paste ibere
nela candida man piena una coppa,
tutte snudate la sinistra poppa.
Poi da quattro leonze un carro tratto 41
mansuete e domestiche ne viene,
là dove un vaso assai capace e fatto
a guisa d’incensier le brage tiene.
Brage di sacro foco in cui disfatto
l’olocausto amoroso arder conviene.
E tanti son gli aromati ch’anela
che di nebbia d’odor l’aria si vela.
Dietro a questa quadriga, il fianco cinte 42
pur come l’altre di turcassi e frecce,
con braccia ignude e tuniche succinte
e con disciolte e’nghirlandate trecce,
l’una con l’altra a mano a mano avinte
verginelle selvagge e boscherecce
vengon danzando e’nsu le teste bionde
han panieri di frutti e fiori e fronde.
Movon dagli anni indebolito e lasso 43
con lunghissime stole a terra stese
l’antiche poi sacerdotesse il passo
e sostengono in man fiaccole accese;
e con un mormorio languido e basso,
tra lor note alternando apena intese,
in lode dela dea formano intanto
versi diversi e con diverso canto.
Dopo costoro, in abito vermiglio, 44
e son cento vecchioni, ecco il senato.
Perché dapoi che’l re senz’altro figlio
sodisfece a natura e cesse al fato,
tosto fu d’ordinar preso consiglio
in forma di republica lo stato.
Vengon togati di prolisse vesti
e’l giudicio supremo è dato a questi.
L’ultima cosa è la reale ombrella, 45
d’un riccio sorian tessuto a foglie.
Il venerando Astreo vien sotto quella,
d’aurea mitra pomposo e d’auree spoglie.
Così di Cipro il viceré s’appella,
in cui pari all’età senno s’accoglie.
Questi di doppio grado assai ben degno
regge il gran sacerdozio e insieme il regno.
La corona e lo scettro ha in man costui 46
ch’al re novello consegnar si deve;
ma però che la forza è scema in lui
e’l ricco peso oltremisura è greve,
di qua, di là da dui ministri e dui
ed appoggio ed aita egli riceve;
e d’altra gente a piè barbara e greca
gran turba popolar dietro si reca.
Di diamante angolar da dotta lima 47
fatto è lo scettro e più che’l regno vale.
Un pomo ha di rubino insu la cima
il manico è d’iaspe orientale.
Ma la corona che non trova stima
vedesi sfavillar di luce tale
ch’al mezzo di più chiaro e più sereno
la corona del sol fiammeggia meno.
In trenta merli di fin or massiccio 48
del bel diadema il cerchio è compartito;
per l’orlo esterior serpe un viticcio
di grosse perle e candide arricchito,
con cui commesso di lavor posticcio
fregio s’attorce d’altre gemme ordito;
e tra lor, quasi re, vie più che lampa
smisurato carbon nel mezzo avampa.
Avea l’oracol dela dea d’Adone 49
quando pronunziò l’alta risposta,
ordinato che’l dì dela tenzone
fuss’ella in mano ala sua statua posta,
siché’n prova devesse ala ragione
di ciascun gareggiante esser esposta,
perché di propria man la statua istessa
in testa al vincitor l’avrebbe messa.
Alpar d’Astreo, ma da man destra, in schiera, 50
come colei che fu del re germana,
viensene con piè grave e fronte altera
la superba del Nil donna sovrana.
Stassi in gran dubbio e pur nel regno spera,
ma contro il cielo ogni sua speme è vana.
Spera però, se novità succede,
di farsene giurar libera erede.
Del regio baldacchin da quattro canti 51
i quattro aurei baston portan per via
quattro i maggior prefetti e governanti
che’n quattro città prime han signoria.
Van Salamina e Famagosta avanti,
seguono Pafo appresso e Nicosia.
Dal numero commun sola Amatunta,
come capo e metropoli, è disgiunta.
Quinci e quindi fann’ala e d’ambo i fianchi 52
quasi custodi degli arnesi regi,
vanno non men de’ primi arditi e franchi
altri duo groppi di guerrieri egregi.
Bianchi usbergi, elmi bianchi e cimier bianchi,
staffe, barde, testiere e freni e fregi
ogni propria armatura, ogni ornamento
de’ lor destrieri han di brunito argento.
Con sì fatta ordinanza e’n questa guisa 53
poiché nel sacro albergo entrati furo,
tutta la bella serie in due divisa
s’aperse in mezzo e si ritrasse al muro.
E’l carro ove devea con l’ostia uccisa
arder lo’ncendio immacolato e puro,
col vaso che d’odori il tetto sparse,
innanzi al grand’altar venne a fermarse.
In capo al’ampie e spaziose navi 54
del nobil tempio ov’è tant’arte accolta,
sovra quattro pilieri immensi e gravi
la cappella maggior curva la volta;
e da quattro grand’archi e quattro travi
la sua mirabil cupula è suffolta,
aperta in cima, onde l’eccelsa mole
per un grand’occhio sol riceve il sole.
Sotto questa tribuna è l’altar grande 55
incortinato d’un trapunto estrano
e di crespo broccato intorno spande
a quattro volti un padiglion sovrano;
e vi si può salir da quattro bande
per dodici scalin d’avorio piano,
cinti di seggi e balaustri aurati
dov’han poscia a sedere i magistrati.
Quivi in trono eminente e di pomposo 56
barbaro drappo intapezzato ancora
siede d’oro forbito e prezioso
la statua dela dea ch’ivi s’adora;
ed ha quel pomo in man tanto famoso
ch’immortalmente i suoi trionfi onora;
tutta ignuda formolla il gran maestro,
senon quanto la cinge un vel cilestro.
Sì viva è quell’effigie e sì spirante 57
che quasi ador ador si move e parla,
né vi passa romeo né navigante
che non rimanga stupido a mirarla;
e tal mirolla che furtivo amante
entrò di notte a stringerla e baciarla
e del lascivo ardor sfogato in essa
lasciò la macchia insu’l bel fianco impressa.
Havvi sculto d’Amor non men vivace 58
il simulacro di sì fatta pietra,
che come suole acciar sasso rapace
ha virtù di tirar chi più s’arretra.
A piè gli ferve inestinguibil face,
dal’omero gli pende aurea faretra,
tien l’arco in una man, con l’altra il tira,
come ferir il cor voglia a chi mira.
Tosto che’l sacro carro ivi si pose, 59
schiera comparve d’auguri indovini
avezzi a presagir future cose,
cinti di bianche bende i bianchi crini.
Esplorando costor le fibre ascose
de’ palpitanti e tremuli intestini,
pronosticaro da quegli esti aperti
di vicina allegrezza indizi certi;
e’l fino specchio di diamante terso 60
che risplendea nel pettoral d’Astreo,
in cui sovente il popolo converso
ogni evento augurava o buono o reo
e qualor fosco o pur di sangue asperso
rendea’l color, secondo l’uso ebreo,
temea di morte o danno altro futuro,
videsi lampeggiar lucido e puro.
Or per l’eburnea scala immantenente 61
presso al’idolo Astreo poggiato solo,
piegò con umil atto e reverente
la fronte al petto e le ginocchia al suolo;
e mentre chino ancor del’altra gente
nel piano inferior fremea lo stuolo,
dela ricca tiara i sacri arredi
tolse ala chioma e sela pose a piedi.
Sovra l’ultimo grado inginocchiossi 62
e vi fè varie offerte a suon d’araldi,
de’ coralli purpurei i rami grossi
con copia di berilli e di smeraldi,
de’ papaveri molli i capi rossi,
cose che fan d’amor gli animi caldi,
pose su l’ara e poi tra mille odori
diede ale fiamme gli sbranati cori.
Offerto alfine e consumato il dono 63
cessò l’alto bisbiglio e’l popol tacque
e, fatto pausa in un momento al suono,
improviso silenzio entro vi nacque.
Allora i lumi sollevando al trono
gli affisò nela dea, parto del’acque,
e congiunte le palme il sacerdote
la prese a supplicar con queste note:
– Luce del terzo ciel, pietosa diva, 64
d’ogni esser, d’ogni ben fonte fecondo,
vivo e vital principio onde deriva
quant’ha di bel, quant’ha di dolce il mondo,
che dela tua virtù generativa
empi l’aria, la terra e’l mar profondo,
anime e corpi, misti ed elementi,
linea immortal de’ secoli correnti,
tu che le cose, o venerabil madre, 65
dela necessità tutte mantieni
e le celesti e le terrestri squadre
non pur lassù, quaggiù stringi ed affreni,
ma con leggi d’amor, care e leggiadre,
stromento di concordia, le’ncateni,
Afrodisia, Amatusia e Citerea,
reina de’ piacer, Filomidea,
deh! questi fiori e questi odori e questi 66
sacrifici devoti in grado or togli
e l’antica corona, accioché resti
oggi al più degno, in propria mano accogli.
Tu la dona a colui che promettesti,
tu de’ nostri pensieri il dubbio sciogli,
scoprine tu d’un numero infinito,
per nostro meglio, il più da te gradito.
Città senza signor, senza governo, 67
cade qual mole suol senza sostegno.
Piacciati dunque o con alcun superno
segno mostrarne a cui si deggia il regno
o col bel lume del tuo foco eterno
illustrar tanto il nostro oscuro ingegno,
ch’elegger sappia almen suggetto in cui
sia la tua gloria e la salute altrui. –
Tacque e’l diadema lucido e pesante 68
ala madre assegnò del cieco dio
e da mille stromenti in un instante
il bel concerto replicar s’udio.
Mentre fornian le cerimonie sante
e de’ riti sollenni il culto pio,
stando tutti a mirar la statua bella
publica meraviglia apparve in quella.
Viderle scritte a piè, da tutti intese 69
lettre che contenean questo concetto:
«Chi mi torrà di mano il ricco arnese
per decreto fatal fia rege eletto».
Nuovo stupore i riguardanti prese
quando quel breve fu veduto e letto.
Alza ognun gli occhi e i gridi ala corona,
trema il tempio al romor, l’aria risona.
L’uno a gara del’altro allor primiero 70
volea por mano ala sublime impresa,
onde tra quei che pretendean l’impero
a nascer cominciò lite e contesa.
Astreo ch’al ben commune avea’l pensiero,
veggendo in lor tanta discordia accesa,
si fece avante e con sì fatti accenti
i bisbigli acquetò di quelle genti:
– Molto del vostro ardir mi meraviglio, 71
o voi che’nvan v’affaticate tanto,
osando andar contro il divin consiglio
manifestato in questo giorno santo.
Render a Citerea grazie ed al figlio
devreste, alzando al cielo il core e’l canto,
che degnati si son visibilmente
un miracol mostrar tanto evidente.
E voi col ciel cozzate e presumete 72
di contraporvi ala reina nostra,
conturbando la publica quiete
quando sì chiaro il suo voler si mostra.
Ch’abbia nulla a valer qui non credete
o la possanza o la superbia vostra,
nobiltà, signoria, grandezza o stato,
senon vi chiama a questo scettro il fato.
Non è scrutinio questo, alti baroni, 73
in cui possa giovar fraude o prudenza,
che con pratiche varie e fazzioni
cerchi di superar la concorrenza
o tenti altrui di suburnar con doni
per ottener le voci a compiacenza,
perché i giudici degli dei sovrani
assai diversi son da’ nostri umani.
Colui che deve agli altri esser preferto 74
determinato è già lassù ne’ cieli
e’l modo del conoscerlo n’è aperto,
quantunque il nome ancor non si riveli.
Abbiano per destin costante e certo
questa sentenza in somma i suoi fedeli,
ch’altri non sarà re senon quel solo
che dala dea fu scelto e dal figliuolo.
E bench’ognun con impeto si mova 75
per venir quantoprima al gran paraggio,
non avrete però poi nela prova,
s’ella non vel concede, alcun vantaggio.
E se quelche cerchiam non si ritrova
o non l’ha ancor prodotto uman legnaggio,
vostro malgrado ancora uopo vi fia
fin a tanto aspettar che nato ei sia.
Sarà dunque il miglior che si sopisca 76
la controversia omai che vi trattiene
e che ciascuno al ciel pronto ubbidisca,
ché sa meglio di voi ciò che conviene. –
Qui fa punto al parlar, né v’ha chi ardisca
d’opporsi a quel ch’ei consigliò sì bene.
Allora seco insu l’aurato scanno
cento barbe canute a seder vanno.
La bassa plebe dale guardie esclusa 77
nela gran piazza le novelle attende;
e d’ogni moto altrui, com’è sempr’usa,
intenta aprova e curiosa pende;
e ne’ suoi voti garrula e confusa
con discorde parer tra sé contende,
che’n ogni affar sentenziando il vero
vuol quasi sempre il vulgo esser primiero.
Fu Cupidoro, principe d’Epiro, 78
il primo a comparir de’ pretendenti.
Erano gli occhi d’un gentil zaffiro
sovra cui si sporgean ciglia ridenti;
eran le labra del color di Tiro
sotto cui si chiudean perle lucenti;
avea sguardo benigno, andar superbo,
fanciul maturo e giovinetto acerbo.
Nela fronte purissima biancheggia 79
senza rossore alcun semplice latte,
ma nele guance ove’l candor rosseggia,
con la neve la grana inun combatte;
e la mistura è tal che si pareggia,
quasi d’avorio e porpora sien fatte;
ma con due d’or in or picciole fosse
suole un riso gentil farle più rosse.
Ondeggia il Tago insu la bionda testa, 80
il crin piove diffuso in ricca massa
e del bel tergo a quella parte e questa
in più ricci pendente andar si lassa.
Ceruleo è il manto e la leggiadra vesta
che dela coscia il termine non passa
e d’un lubrico raso i cui reflessi
somiglian nel color gli occhi suoi stessi.
Un cappel serican ch’erge la piega, 81
tinto di puro oltramarino il pelo,
gli ombra la fronte e per traverso spiega
piuma pur di color simile al cielo;
e’nsu la falda la conficca e lega
con grossa punta del più fino gelo
di quella gemma un lucido fermaglio,
laqual del sangue sol cede al’intaglio.
L’animato del piè molle alabastro, 82
ch’oscura il latte del sentier celeste,
stretto ala gamba con purpureo nastro
di cuoio azzurro un borsacchin gli veste,
in cui da saggia man di nobil mastro
fur di vario lavor gemme conteste,
e’n massicci rilievi effigiate,
di fibbie ad uso, imaginette aurate.
Tanti non ha l’ambizioso augello 83
nele penne rosate occhi dintorno
quando quasi un aprile o un ciel novello,
di cento fior, di cento stelle adorno,
del’ampia rota sua superbo e bello
apre il ricco teatro al novo giorno
e’l tesor vagheggiando ond’ella è piena
a semedesmo è spettatore e scena,
quanti pien di vaghezza e di baldanza 84
il garzonetto intorno a sé n’accolse,
loqual mentre al’altar, che la sembianza
tenea di Vener bella, il piè rivolse
di tutta quella nobile adunanza
usurpando le viste, i cor si tolse
e tutti abbarbagliò di meraviglia
co’ lampi dele gemme e dele ciglia.
Del’Invidia però l’occhio cerviero 85
che’n spiar l’altrui mende è lince ed argo,
di quello spazio investigando il vero
ch’al bel fonte del riso è sponda e margo,
pur venne ad osservar che quel sentiero
che divide le labra è troppo largo,
e che’n somma la bocca, ov’entro è messo
il tesoro d’amor, pecca in eccesso.
Uccubo a cui decrepita l’etate 86
quasi col mento avea congiunto il naso
e sì le fauci rotte e sfabricate
che con tre denti soli era rimaso
e le tempie e le ciglia avea pelate
e calvo il capo e crespo il volto e raso,
vacillante di polso e d’intelletto
trovò questa calunnia al giovinetto.
Egli per l’ampia scala il passo spinse 87
finché pur di Ciprigna a piè ne venne.
Tentò le preci, usò le forze e strinse
la bramata mercé, ma non l’ottenne,
perché quando a levarle egli s’accinse
la corona di man, stretta la tenne,
tanto che’n dietro alfin con occhi bassi
girò confuso e taciturno i passi.
Tal cervo a cui talor tronca o caduta 88
la selva sia dele ramose corna,
vergognosetto in solitaria e muta
valle s’appiatta e’n tana erma soggiorna.
Tal pavon che per caso abbia perduta
la gemmata corona onde s’adorna,
fuggendo il sole e disamando il lume
piagne la povertà dele sue piume.
Succede il campo a passeggiar Lucindo, 89
che di Bitinia i popoli governa.
Canti tanta beltà cigno di Pindo
o piova Apollo in me vena superna.
Non vide mai dal mauritano al’indo
più morbido candor la lampa eterna.
Ben opimo di polpe il corpo estolle,
cresciuto anzi stagion tenero e molle.
Spuntan nel piano ove’l bel volto ha meta, 90
d’una fronte serena i puri albori.
Seguono ingiuriosi al gran pianeta
di duo bei soli i mobili splendori,
nela cui luce amorosetta e lieta
nutre un verde smeraldo umidi ardori.
Rosse le chiome ha più che sangue o foco
e son le ciglia sue d’oro e di croco.
Quelche più si rileva in mezzo al viso, 91
si curva sì, ma nel curvarsi è parco
e de’ duo fini estremi ond’è diviso,
l’un si risolve in punta e l’altro in arco.
Serra e disserra il labro al dolce riso
di finissimo cocco un picciol varco,
là dove chiude Amor, rare a vederle,
tra due sponde di rose un mar di perle.
Bianco damasco di diamanti asperso, 92
lungo al tallone, ala cintura angusto,
ch’ha d’armellini candidi il riverso
e scorciato il collar gli copre il busto
e scopre ignuda del bel collo terso
la neve ond’anco il gel fora combusto;
del medesmo è il cosciale e’l guernimento,
un passaman di martellato argento.
Berretta ha di fin or cerchiata in testa 93
d’un terzopel che parimente è bianco
ed havvi sù d’un’aghiron la cresta
che le’mpenna la rosa al’orlo manco.
Collana, di rubin tutta contesta,
gli orna la gola e simil cinta il fianco.
Scarpe ha nel piè d’innargentate squame
cui fan boccole d’oro aureo serrame.
Rimirato, ammirato, e sen’accorge, 94
espon sestesso a publica censura,
né la stella d’Amor quando risorge
insu i principi dela notte oscura,
tanto di luce al’emisperio porge
quant’ei n’apporta intorno a quelle mura;
e nel primo apparir parve l’aurora
che co’ raggi del sol spuntasse allora.
Egli è ben vero, e solamente è questo 95
quanto appor d’imperfetto altri gli pote,
che fan con poche macchie ingiuria al resto
spruzzate di lentigini le gote.
Fu forse opra d’Amor, ch’accinto e presto
a temprar le saette insu la cote,
mentre l’oro affinava ale faville
gliene sparse insu’l volto alquante stille.
Mauriffo allor, sindicatore accorto, 96
ogni altra parte a specolare intento,
alo sguardo accostò debile e corto
d’un suo limpido occhial l’asta d’argento
e’n lui languir, quasi senz’alma, ha scorto
Beltà, perché di grazia ha mancamento.
– Che val guancia (dicea) vermiglia e bianca,
se venustà, se leggiadria le manca?
Quest’è quel non so che tanto attrattivo 97
ch’alletta gli occhi e che contenta il core,
raggio puro di Dio, spirito vivo,
sale ond’i cibi suoi condisce Amore.
In costui non lo scorgo e s’ei n’è privo
indarno aspira al trionfale onore.
Stiamo dunque a veder se la dea nostra
conforme al mio parer l’effetto mostra. –
In questo mezzo inver l’altar s’invia 98
e giunto il bel garzon viene ala prova;
ma’l pregio a riportar ch’egli desia
qualunque sforzo suo poco gli giova,
perché, come con chiodi affissa sia,
la guardata corona immobil trova;
onde colmo di duol, tinto di scorno,
fa come in alto ascese, ingiù ritorno.
Entra terzo in arringo il bel Clorillo, 99
Clorillo il bel, che’nsu’l mattin degli anni
d’entrambo i genitor orbo pupillo
soffri per morte intempestivi affanni.
Onde, poich’al dominio il ciel sortillo
che tenner di Cirene i gran tiranni,
stende lo scettro suo per quanto dura
il tratto dela libica pianura.
I cadaveri in mummie ivi risolve 100
la mobil sempre e tempestosa arena.
Flutti di sabbia e turbini di polve
con oscura procella africo mena;
e chi s’arrischia a tragittarla involve
tra’ globi ognor dela volubil piena:
stranio naufragio, onde sommerso uom pare
nocchiero in terra e peregrino in mare.
Ma che non pote avidità d’impero? 101
Ecco pur tenta in Cipro altre fortune.
Non è bianco il bel viso e non è nero,
nere le ciglia e le pupille ha brune.
Due stellette smorzate e due nel vero
volge la fronte innecclissate lune,
di cui però, con vostra pace o stelle,
non ha l’ottavo ciel luci più belle.
Brunetta anco la chioma il tergo inonda, 102
un teschio di leon gli fa celata.
Graziosa la bocca e rubiconda
né si restringe assai né si dilata.
Mostra affabile aspetto, aria gioconda,
la statura è mezzana e dilicata;
siché ciascun di quella gente e questa
stupido insieme e cupido ne resta.
Lucente arnese i vaghi membri ammanta 103
di sciamito argentino, il cui lavoro
abbordata la vesta ha tuttaquanta
di girasoli rilevati d’oro;
ed è sazia di gemme in coppia tanta
e sì chiaro splendore esce di loro,
che potrebbe abbagliar la vista altrui,
senon vi fusse quel degli occhi sui.
Più bello in terra o più gentil composto 104
a morte non potea nascer soggetto;
e certo alcun che’l rimirò di scosto,
giudicollo celeste al primo aspetto.
Ma quando poi s’avicinò, fu tosto
conosciuto mortale in un difetto;
un sol difetto in lui trovato brutto
fè tant’altre eccellenze oscure intutto.
– Io non mi voglio già (dicea Senorre, 105
un critico sottil, del vero amico,
cui con gemina riga al petto scorre
in duo fiumi d’argento il pelo antico),
già non mi voglio al’altre parti opporre
ma dela man, sol dela mano io dico,
ch’oltre, ch’ella non è latte né neve,
fuor del giusto decoro è grossa e breve.
Tra quante doti in sé Natura unisce 106
non possiede la man gli ultimi onori,
poiché non pur col proprio bel rapisce,
ma fa l’altre bellezze anco maggiori.
Questa, qual vaga artefice, abbellisce
il volto e’l sen di porpore e di fiori
e porgendo ostro al labro, oro al capello,
è sua mercé quant’ha beltà di bello.
Perdonimmi begli occhi e biondi crini, 107
scusino l’ardir mio labra odorate:
benché sien fresche rose e sien rubini,
benché sien fiamme ardenti e fila aurate,
dela mano ai candori alabastrini
io vo’ la palma dar d’ogni beltate.
Cedan gli ostri ale perle e ceda il loco
l’oro al’avorio ed ala neve il foco.
Ancorché belle e ciglia e chiome e bocca, 108
non son, com’è la man, pegni di fede.
Quelle si miran sol, questa si tocca
e può felicitar chi la possiede.
Da quelle amor le sue saette scocca,
questa sana le piaghe ond’egli fiede.
Quelle per arder l’alma accendon l’esca,
questa gl’incendi suoi tempra e rinfresca. –
Tacque con questo dir, né fur parole, 109
come il fatto mostrò, fallaci o false,
perché, sebene in cima al’alta mole
di scaglione in scaglion Clorillo salse,
a lei però che colassù si cole
la corona di man sveller non valse;
siché tornato onde partì pur dianzi,
un altro emulo suo si trasse innanzi.
Rodaspe, in Meroe nato, in quella vece 110
volse, quantunque invan, tentar la sorte.
Publicò sue fattezze e mostra fece
di pelle arsiccia e brevi chiome attorte.
Vincon col fosco loro ebeno e pece
nari aperte e schiacciate e labra sporte;
ed è de’ lumi suoi l’orbe visivo
nero più del’inchiostro onde il descrivo.
Ferve in guisa colà l’estiva arsura 111
che quasi incarbonir gli uomini pote;
onde porta ciascun di notte oscura
dal diurno splendor tinte le gote;
e’l sol vicino a terra oltremisura
gira sì basso le lucenti rote,
che poco men che con le mani istesse
si potrebbe toccar senon cocesse.
Scopre il candido dente adora adora 112
d’una schietta granata il labro tinto.
Forato è l’orlo e pendon dale fora
cerchietti d’or di bei zaffir distinto.
Così le parti ond’ode ed onde odora
reggon pendenti d’indico giacinto
e lunghe filze d’unioni elette,
ricchi tributi d’isole soggette.
Un frontal d’etiopico ametisto 113
l’adusta fronte illuminando inaura,
siché d’oro e di foco un lampo misto
quando intorno si volge, aventa al’aura
e di qualunque cor languido e tristo
la mestizia rallegra, il duol restaura;
gemma più ch’altra fulgida e serena
che quasi occhio di vergine balena.
D’un farsetto leggier, qual si costuma 114
tra’ satrapi indiani egli è vestito.
Di lana no, ma di minuta piuma
di strani augelli a lista a lista ordito,
tutto squamoso di dorata spuma
e di mille color tutto fiorito.
Lieve tocca cangiante in mezzo il cinge,
che con groppo leggiadro il lega e stringe.
Un de’ padri coscritti era Gelardo, 115
già duce in guerra, or consigliero in pace.
Par questi in vista uom sonnacchioso e tardo
e tra cupi pensier immerso tace,
ma, sotto pigra fronte e lento sguardo,
vigila ingegno arguto e cor vivace.
Spesso grave sembiante e basso ciglio
cela pronto discorso, alto consiglio.
Mostrò costui con ottima ragione 116
ch’Amor molto non ama oscura scorza,
peroché’n spento e gelido carbone
senz’alcun lume il foco suo s’ammorza.
Il piacer ch’ad amar n’è sferza e sprone
da color differenti acquista forza.
Natura sol per variar s’apprezza,
da tal varietà nasce bellezza.
Aggiungi poi che raccorciato insuso 117
quelche fa duo spiragli al’odorato,
troppo curvo e ritorto e troppo ottuso
spalanca troppo il gemino meato.
Così con due repulse alfine escluso
dala diva in un punto e dal senato,
tutto avampando di sdegnoso foco
partesi e cede a Ligurino il loco.
E Ligurino al paragon comparse, 118
lavor ben degno del’eterna mano.
Non so s’apar di quel possa trovarse
ben tagliato e disposto un corpo umano.
Venne però che’l cor d’invidia gli arse
l’altero stato del maggior germano.
Germano era minor del re Licaba
ch’avea sotto il suo scettro Arabia e Saba.
Sì vivo un dolce da’ bei lumi spira 119
che forza ha in sé di foco e di saetta
e con tanta virtù rapisce e tira
che ferendo ed ardendo anco diletta.
Sparsa di bella cenere si mira
scolorita la guancia e pallidetta,
pallida sì, ma quel pallore è tale
ch’è pallore amoroso e non mortale.
Langue nel labro dolcemente onesto 120
una fresca viola alquanto smorta.
Gravi ha gli atti e composti e nel modesto
sembiante signoril la grazia porta,
e, dove giri con furtivo gesto
l’occhio predace una rivolta accorta,
d’ogni rubello a forza ottien la palma:
senon gli doni il cor, ti ruba l’alma.
Né stringe in nastro il crin, né in benda appiatta, 121
ma pettinato insu le spalle il versa,
di quel biondor ch’ha la castagna tratta
del suo guscio spinoso o l’ambra tersa.
Con sottil arte e magisterio fatta,
l’addobba e’nfino al piè gli si attraversa
frappata una giornea, che copre e cela
sotto nero velluto argentea tela.
Sovra l’omero stretta e larga in punta 122
l’una manica e l’altra ingiù trabocca
e si dilata si che quando è giunta
su i confin dela man, la terra tocca.
Dala manica manca il braccio spunta
per lo taglio maggior che le fa bocca
e del ricco giubbon scopre la trama
ch’è di semplice argento in pura lama.
Non così bella alo sparir del giorno 123
dopo pioggia talor la dea di Delo
l’innargentato e luminoso corno
trasse giamai tra nube e nube in cielo,
come, tutto illustrando il tempio intorno,
del’aria aperse co’ begli occhi il velo
il real damigello, il cui bel viso
fea visibile in terra il paradiso.
Fè segno Citerea, sì tosto come 124
dela scalea fu su la cima sceso,
volergli circondar le belle chiome
del’onorato e desiato peso,
e funne insieme col famoso nome
gran rimbombo d’applauso intorno inteso;
ma poich’esser deluso alfin s’accorse,
senza replica indietro il piè ritorse.
La centuria degli arbitri che quivi 125
i concorrenti a giudicar s’aduna,
onde tal disfavore in lui derivi
le ragion ricercando ad una ad una,
altra imperfezzion trovar che’l privi
dela spoglia real, non sa fuorch’una:
un picciol neo che’nsu la destra gota
sparge tre nere fila in lui sol nota.
Somiglia in puro latte immonda mosca, 126
anzi vago arboscello in prato ameno;
e quantunque non sia chi non conosca
ch’egli non n’è per questo amabil meno,
poiché su’l bel candor quell’ombra fosca
è qual lucida stella in ciel sereno;
ch’ella è macchia però convien ch’accetti
ch’ancorché belle sien, son pur difetti.
Segue Timbrio di Smirna, infra i primieri 127
garzon lodato e d’ogni onor ben degno,
a molcir l’aure insu i teatri alteri
con la cetra bicorne unico ingegno.
Altri non sia di lui che meglio speri
i registri toccar del curvo legno;
tempra al musico suon versi canori
e sciogliendo gli accenti annoda i cori.
In virtù di sua voce ei si dà vanto, 128
celeste cigno, angelica sirena,
trar dale selci intenerite il pianto,
mitigar del’inferno ogni aspra pena.
La melodia di quel mirabil canto
le fere arresta, anzi le sfere affrena.
Pongon le dolci corde ai fiumi il morso,
danno le dolci note ai monti il corso.
Al’arguto stromento, al vago volto, 129
ala zazzera istessa ei sembra Apollo.
Né tutto errante il crin né tutto accolto,
quinci pende ala fronte e quindi al collo.
Quelche dopo l’orecchie iva disciolto,
sparse allor egli ad arte e dilatollo;
del’altro, il terso e sottilissim’auro
tenero implica un ramoscel di lauro.
E del color dele medesme foglie 130
s’affibbia intorno un’assettata cotta,
laqual nel mezzo in spesse crespe accoglie,
tutta in fodera d’or trinciata e rotta.
E tutti i trinci dele belle spoglie
congiunti son per man leggiadra e dotta
con branchigli di smalto ed auree stampe
che figuran di grifi artigli e zampe.
Il globo interior dela pupilla 131
ne’ suoi lumi vivaci è tutto negro,
ma nel più largo circolo sfavilla
dolce color d’un fior di lino allegro.
Esce de’ raggi lor luce tranquilla
da sanar ogni cor languido ed egro;
fuga ogni nebbia ed ogni lume adombra
e rende oscuro il sole e chiara l’ombra.
Dal curvo dele ciglia arco supremo 132
tra guancia e guancia un bel profil si stende,
a poco a poco assottigliato e scemo
da linea sì gentil che non offende;
alto alquanto al principio e’nver l’estremo
tanto s’aguzza più, quanto più scende;
dela cui base il termine più basso
in due conche divide egual compasso,
e la contesa dele due vicine, 133
emule di beltà, gote diparte,
limitando ala porpora il confine
che colorisce questa e quella parte.
Rose sì vive e fresche e purpurine
in quel viso amoroso Amor ha sparte,
che non so se la guancia ha più fiorita
la bella dea dale rosate dita.
Cotanto in lui di maestà riluce 134
mentre drizza le piante al bel trofeo,
che se da lor la nobiltà traluce
non mostra in alcun atto esser plebeo,
anzi ne’ gesti suoi l’antica luce
chiara scorger si può del sangue acheo,
ma sì fatti splendori in parte imbruna
oscuro stato e povera fortuna.
Oltre costui sen venne e si fè presso 135
ala tutrice de’ fedeli amanti,
non però punto meglio avenne ad esso
di quelch’agli altri er’avenuto avanti
e ben a comprovar questo successo
fu concorde il parer de’ circostanti,
che fra tante bellezze in lui notaro
l’ordin solo de’ denti oscuro e raro.
E Serion, tra que’ vecchioni assiso, 136
pallido, inculto e qual Catone austero,
dal piede al capo essaminandol fiso,
del mal, del bene esplorator severo,
il primo fu che s’accorgesse al riso
ch’ogni suo dente era ineguale e nero,
perché vide il garzon che quella parte
quando ridea talor copriva ad arte.
Se per opra di carmi e per sonoro 137
metro spiegato da felice stile
si potesse ottener corona d’oro,
già tuo fora l’onor, Timbrio gentile.
Soffrilo in pace e del’usato alloro
contentati intrecciar la chioma umile,
che chi l’anime altrui regge col plettro
non deve dominar con altro scettro.
Passa a provarsi il baldanzoso Evasto, 138
del Libano signore e del’Oronte,
e l’alterigia onde va gonfio e’l fasto
s’avanza al par del suo superbo monte.
Viene arrogante al giovenil contrasto
con le ciglie ballando e con la fronte;
di breve corpo e picciola statura:
ma l’audacia è maggior d’ogni misura.
Pretende questi che da’ sommi giri 139
per quanto scorre e quanto scorge intorno
dal’ariete a’ pesci altro non miri
somigliante beltà l’occhio del giorno.
E perché pien di tumidi desiri
per tante doti ond’è più ch’altri adorno
l’orgoglio agguaglia ala sembianza bella,
il Narciso di Siria ognun l’appella.
Di più color che l’iride non mostra, 140
gli occhi ha dipinti e tutto nero il ciglio.
La guancia, com’al sol pomo s’inostra,
dolcemente gl’incarna un bel vermiglio,
onde di leggiadria litiga e giostra
con la rosa purpurea il bianco giglio;
e sovra lor con lascivetta sferza
in cento brilli il biondo crin gli scherza.
Filato d’oro sì lucente e bello 141
del bel mento la cima un fiocco impela,
e del labro sovran, simile a quello,
un riccamo sì fin l’ostro gli vela
che par proprio di Colco il ricco vello,
né tale il Tago entro i suoi fondi il cela.
Per guardia forse di sue vive rose
queste produsse amor siepi spinose.
Intero un zibellin di color fosco 142
e cuffia in capo e morion gli scusa,
di cui più fin giamai Tartaro o Mosco
per le sue balze di tracciar non usa.
Di paradisi per pennacchio un bosco
gemma v’aflige in or legata e chiusa,
rara fra quante al sol la terra n’apra,
gemma che rassomiglia occhio di capra.
Veste due volte insanguinato e tinto 143
del licor dela murice africana,
e con aurei cordon da’ fianchi avinto,
un guarnel di sottile e molle lana;
bottonato nel petto, in mezzo cinto
d’una cintura a meraviglia estrana,
che di spoglia di vipera è costrutta
e di gran perle incoronata tutta.
Quattro vaghi scudier gli alzan di dietro 144
dela lunga faldiglia il lembo sciolto;
ed altri duo d’adamantino vetro
gli sostengono un specchio innanzi al volto.
Non guarda intorno e non si volge indietro,
dele proprie bellezze amante stolto,
perché fuorché’n sestesso, il giovinetto
sdegna occupar la vista in altro oggetto.
Ma Melidonio, che dagli anni il fianco 145
rotto, sedea tra la discreta schiera
e nel cui corpo estenuato e stanco
dela mente il vigor fiacco non era,
ma sotto pelle crespa e capel bianco
nutria di senno integrità sincera,
piantatosi allor dritto insu la vita
dela rugosa mano alzò due dita.
– Due son l’eccezzion (disse) ch’io veggio, 146
per cui non molto ha questi onde presuma:
la prima è quella che lodar non deggio,
quantunque intempestiva, ispida piuma,
perché là dove ha primavera il seggio
è quasi tra bei fiori orrida bruma,
per cui qualor s’accosta e si congiunge
bocca a bocca baciando, il bacio punge.
Gli manca poi quelche vie più s’apprezza: 147
l’unità che conviensi a leggiadria.
E chi non sa ch’altro non è bellezza
se non proporzione e simmetria?
Or in tanta superbia ed alterezza
dov’è questa visibile armonia?
Certo che mal rispondano mi sembra
a sì alti pensier sì corte membra.
Come da varie suol voci concordi 148
la musica al’udir farsi soave
quando avien che si tempri e che s’accordi
col duro il molle e con l’acuto il grave;
così, se membra un corpo ha in sé discordi
la composizion grazia non have;
dele parti col tutto armonizzate
risulta consonanza ala beltate. –
Così ragiona e su’l gran soglio intanto 149
salita è già quella beltà superba;
ma vede alfin che la vittoria e’l vanto
dela bella aventura altrui si serba,
onde il tergo volgendo al nume santo,
sì l’ira il vince e l’aspra doglia acerba
che squarcia i fregi d’or, lo specchio frange
e di rabbia e di duol sospira e piange.
Vien Luciferno il fier dopo costui, 150
così di Scizia un saracin si noma.
Il Saca e’l Battrian soggiace a lui,
il Margo ha vinto e la Sarmazia ha doma;
e la gloria rapir presume altrui
per irta barba e per irsuta chioma.
Mostra ruvide membra, ossa robuste,
lungo capo, ampie nari e tempie anguste.
L’occhio pien di terrore e di bravura 151
infra nero e verdiccio, altrui spaventa
e con torvo balen di luce oscura
la fierezza e’l furor vi rappresenta.
Portamento ha superbo e guatatura
sì feroce ed atroce e violenta,
che rassembra aquilon qualor più freme
e col torbido Egeo combatte insieme.
Su la giuba che tinta ha di morato, 152
rete si stende d’or sottile e ricca,
e con puntali pur d’oro smaltato
gli angoli dele maglie insieme appicca;
porta sotto l’ascella il manto alzato,
il manto che dal’omero si spicca
e’l lembo che dal braccio a terra cade,
con lunga striscia il pavimento rade.
Di lavoro azimin la scimitarra 153
larga, breve e ricurva appende al’anca;
dietro ha il carcasso e per traverso sbarra
l’arco serpente insu la spalla manca.
In forma di piramide bizzarra
un globo intorno al crin di tela bianca
erge, com’è de’ barbari costume,
d’aviluppate fasce alto volume.
Con la test’alta e con le nari rosse, 154
con furibonda e formidabil faccia
sbuffando un denso fumo egli si mosse
a guisa di leon quando minaccia.
Snudò le terga ben quadrate e grosse,
brandì le forti e nerborute braccia,
di forza, di vigor, d’asprezza piene,
scropolose di muscoli e di vene.
Stanno tutti a mirarlo attenti e cheti 155
da Scommo infuora un vecchiarel ritroso,
de’ satirici più che de’ faceti,
ma carco il pigro piè d’umor nodoso
che gli tien tra gli articoli secreti
dele giunture un freddo gelo ascoso,
onde del corpo stanco il grave incarco
sovra torto bastone appoggia in arco.
Questi il capo crollò, le ciglia torse, 156
segni fè di disprezzo, atti di scherno:
– Vattene (disse) pur là sotto l’orse
tra le fere a regnar, mostro d’averno.
Prove di gagliardia bisognan forse
del paese amoroso al bel governo?
No no, di comandar più degno sei
là sui gioghi arimaspi e su i rifei.
Chi non ravisa in quel color ferrigno 157
di questo cavalier tremendo e forte
e’n quel volto tra scialbo ed olivigno
dele Furie l’effigie e dela Morte?
Non vedete qual folgore sanguigno
dale luci saetta oblique e torte,
con cui di seminar prende ardimento
tra bellezze ed amori, odio e spavento?
Principe e re non dirò già di regno, 158
che spesso è dono di Fortuna insana,
ma di titolo d’uomo ancora indegno,
vivo spirto ferino in forma umana.
Vil pensier, rozzo cor, selvaggio ingegno,
intesa a basse cure alma villana
veggio nel tuo sembiante infellonito,
che ti mostra malnato e malnutrito.
E pur entrando al’onorata gara, 159
così ne vien sovr’ogni merto audace
come fusse lo dio che’l dì rischiara
o il bel fanciul dal’arco e dala face.
Villania per valor non fu mai cara,
più gentilezza che beltà ne piace.
Amor più fere allor ch’è men feroce
e bellezza innocente assai più noce. –
Alfin di questo dir gli occhi volgendo 160
al’orgoglioso barbaro insolente,
videlo dal’altar scender fremendo
delo strano rifiuto impaziente,
ed accusando con sembiante orrendo
la bella dea d’ingiusta e d’inclemente,
detestando del figlio e fiamme e dardi,
batteva i denti e stralunava i guardi.
Così toro non domo a cui le spalle 161
giogo non preme ancor duro e pesante,
poiché lasciò nela diletta valle
il rival vincitore e trionfante,
mugghiando va per solitario calle
rabbioso insieme e sconsolato amante
e, pien d’angoscia il cor grave ed acerba,
aborre il fonte e gli dispiace l’erba.
Languia del sol nel mar quasi sommerso 162
moribonda la luce e semiviva
e l’ombra, che coprir suol l’universo,
la gran faccia del ciel discoloriva.
Col pel fumante e di sudori asperso
chini d’Esperia inver l’estrema riva
per pascersi ne’ prati occidentali
gl’infiammati corsier piegavan l’ali.
Smarrita ale sue tende e poco lieta 163
la turba giovenil fece ritorno
e sciolta l’union dela dieta
sen giro i vecchi a procacciar soggiorno.
Ma finché fusse il principal pianeta
sorto dal’Indo a suscitare il giorno,
lasciaro per timor del’altrui frodi
la corona a guardar molti custodi.
Era del dì la luce ancora acerba 164
e’nsu le mosse il sol del gran viaggio,
né ben rasciutte avea nel’umid’erba
le notturne rugiade il primo raggio,
quando la gioventù vaga e superba
e seco il parlamento e’l baronaggio
con la medesma ancor pompa sollenne
nel loco usato ad assembrar si venne.
Da capo incominciò le prove istesse 165
la scelta de’ miglior quivi raccolta,
ma nessun si trovò che più facesse
di quelche gli altri fer la prima volta.
Restan con fronti stupide e dimesse,
e quasi loro ogni speranza è tolta,
i ministri del regno e i senatori,
confusi i petti e conturbati i cori.
Ma nel’occaso allor allora avea 166
chiuso il carro dorato Apollo stanco
e la vaga sorella in ciel rompea
le nere nubi col suo corno bianco,
onde, perché ciascun girne volea
nel proprio albergo a riposare il fianco,
il senato con gli altri uscia del tempio
quando v’entrò d’ogni beltà l’essempio.
Il bell’Adon che con l’occulta scorta 167
di Mercurio, d’Amore e dela madre,
tardi, benché per via facile e corta,
giunt’era ala città che fu del padre,
notturno entrò per la superba porta
poiché n’uscir le congregate squadre
ed a lume di lampade le cose
dela gran mole a contemplar si pose.
In un canton del tempio alfin distese 168
sovra il duro terren le membra lasse
e quasi prima in occidente scese
la notte che dal sonno ei si destasse.
Desto, ala luce dele faci accese
per mirar ben l’altare oltre si trasse
mentre i soldati, acconcio il capo al manto,
dopo lungo vegghiar dormiano alquanto.
Trova quivi Barrino, un greco astuto, 169
villan di stirpe, uom vile e fraudolento
ed al cui corpo picciolo e minuto
la malizia supplisce e’l tradimento,
di capo aguzzo e di capel ricciuto
e senza più che quattro peli al mento,
rosso, ma d’un rossor che pende al fosco
ed ha sguardo fellone ed occhio losco.
Veste di fronte intrepida e secura 170
pensier malvagio ed animo maligno,
né mai cangia color la faccia oscura
che picchiata è di giallo e di sanguigno.
Accoppia a pronto dir lingua spergiura,
porta in core il veleno, in bocca il ghigno.
Diria per poco argento e per poc’oro,
«Giove, non ti conosco e non t’adoro».
Costui, mentre che gira e che passeggia 171
intorno ai sacri e preziosi arredi
e cerca come, sich’altri non veggia,
alcuna cosa tacito depredi,
visto il garzon che come sol lampeggia,
prima il prende a squadrar da capo a piedi,
poi s’accosta, il saluta e l’accarezza
e comincia lodar tanta bellezza.
E scherza e dà scherzando a poco a poco 172
campo al’intenzion perfida e ladra
e l’induce a rapir, come per gioco,
l’aurea corona con la man leggiadra,
quasi sol per provar se dal suo loco
mover la pote e s’ella ben gli quadra.
Il fanciullo a pensar molto non stette;
leggiermente la piglia e sela mette.
Stupisce l’altro e quasi apena il crede 173
e pien d’invidia e di livor ne resta
e con finto sorriso a lui la chiede
poscia ch’alquanto ei l’ha tenuta in testa.
Semplicemente Adon gliela concede,
Barrin sela ripon sotto la vesta
e col fido favor del’ombra oscura,
fatto il bel furto, agli occhi suoi si fura.
All’albergo d’Astreo ratto sen corre, 174
ché vuol con la corona il regno ancora.
Sorto era Astreo, ch’ogni riposo aborre,
prima che fusse ancor sorta l’aurora.
Qui comincia la favola a comporre
e le menzogne sue sì ben colora,
che tutti quei ch’ad ascoltarlo stanno
prestano fede al non pensato inganno.
Dice che mentre al’ultimo scalino 175
là dove a terminar va la salita,
a piè del sacro trono in cui d’or fino
sta dela dea l’imagine scolpita,
al suo nume immortal supplice e chino,
chiedea di notte in qualch’affare aita,
si sentì, si trovò, né sapea come,
di quel cerchio real cinte le chiome.
Lieto il buon vecchio il ciel ringrazia e piove 176
per gran gioia dal cor lagrime pie.
Prende Barrin per mano e’l passo move
per le calcate e ricalcate vie
e senza ordine alcun vassene dove
far la prova deveasi il terzo die,
né ch’esca il sol dale contrade eoe
attender cura e’l segue ogni altro eroe.
Intanto ver gli antipodi discaccia 177
le pigre stelle il vincitor del’ombra
e’l negro vel, che la serena faccia
di Giunon bella orribilmente ingombra,
apre co’ raggi orientali e straccia
e le nemiche tenebre disgombra.
Già gli ardenti destrier che fan ritorno
chiamano co’ nitriti il novo giorno.
Or il nunzio del ciel, che ben veduta 178
la fraude avea del mentitor ladrone,
tosto d’effigie e d’abito si muta
e nel gran concistor conduce Adone.
Peregrina sembianza e sconosciuta
d’uom canuto e stranier finge e compone.
Quivi lo sguardo ai giudici converse
ed a questo parlar le labbra aperse:
– Dunque uom perfido e reo contro la legge 179
e fatale e divina è tanto audace
che di pugno a colei che Cipro regge
ruba i tesori con la man rapace?
e pur non si punisce, anzi s’elegge
qual regnator leggittimo e verace?
né v’ha pur un ch’ai popoli delusi
così perversa iniquitate accusi?
Stamane allor ch’ebro di sonno e cieco 180
giacea lo stuol che custodiva il tempio,
io io vid’io questo donzel ch’è meco
torre il diadema e consegnarlo al’empio.
Così la dea che’n testimonio arreco
pari ala fellonia mandi lo scempio,
com’ha il pregio involato e falsamente
l’altrui s’usurpa e’n ciò che narra ei mente.
Ragion dunque non fia né mi par giusto 181
contro l’ordin celeste e contro il vero
ch’ei di quell’oro indegnamente onusto
dele glorie non sue ne vada altero;
ed a chi meritò d’essere augusto,
giudicato dal ciel degno d’impero,
si neghi da’ più saggi e si defraude
l’onor dela mercede e dela laude.
Ma perché sceleragine cotanta 182
sia nota a tutti e’l dubbio apien si scioglia,
se pur vera è la prova onde si vanta,
riponga al loco suo la tolta spoglia,
indi di novo ancor dala man santa
come dianzi la tolse or la ritoglia;
e s’avverrà che quindi ei non la spicchi,
provinsi ancora i più famosi e ricchi.
Ma ricchezza e valore e quanto dona 183
talor con larga man prodiga sorte
poco può rilevar, credo, a persona
che stella incontri il cui tenor sia forte.
Or quando avegna pur che la corona
per cui tanto in contrasto è questa corte
non sia per altra man levata o mossa,
veggiasi se costui mover la possa. –
L’autorità dela favella grave 184
mosse ciascuno e del divin sembiante.
Ciascun mira Barrin che tace e pave
tutto confuso e pallido e tremante.
Sparso allor d’ognintorno odor soave
e volto il tergo, il messaggier volante
dileguossi e disparve in un momento
come spuma nel’onda o fumo al vento.
A prodigio sì strano ed improviso 185
Astreo gridò pien d’un festivo zelo:
– Lodato il ciel, quest’è del cielo aviso;
chi può stornar quelch’è prefisso in cielo? –
Preso è Barrino, e sbigottito in viso
e pieno il cor di timoroso gelo,
sospinto a forza al grand’altar s’appressa,
alfin, nulla operando, il ver confessa.
Già verso Adon con la minuta gente 186
del senato il favor concorre insieme,
ma la parte più ricca e più possente
lo sdegna è biasma e ne sussurra e freme.
Vuol Astreo ch’ognun torni immantenente
nela corona a far le prove estreme,
ma nonché trarla fuor, tentano invano
crollarla pur dala tenace mano.
Or di quanti quel dì volser provarse 187
giovani di beltà competitori
più non restava alcun, quando comparse
Adon di tutti ad oscurar gli onori.
Serenò l’aria in apparire e sparse
lume ch’al giorno ingeminò splendori
e nel passar con gloriose palme
mille spoglie portò di cori e d’alme.
Parve a vedere intempestiva rosa 188
in bel cespo talor tra pruni e stecchi
nata colà nela stagion nevosa
quando restano i prati ignudi e secchi.
Rivolti ala beltà meravigliosa
del novo aventurier stupiro i vecchi,
stimandol quasi, alpar degli altri belli,
peregrina fenice infra gli augelli.
Era tra que’ confin che fa l’etate 189
di fanciullezza in gioventù passaggio;
dale placide luci innamorate
uscia d’un bel seren tremulo raggio;
nele tenere guance e dilicate
fresca fioria la porpora di maggio;
tra le labbra in color di rosa viva
il sorriso degli angeli s’apriva.
Di fin vermiglio si colora e tinge 190
la vesta e di fin or fregiata splende;
barbara zona a mezzo il sen la stringe,
poco sotto il ginocchio il lembo scende;
di zendado un scaggial l’omero cinge
da cui sonoro avorio al fianco pende;
la faretra ha da tergo e’l piede eburno
aureo gli copre e serico coturno.
Non ha la testa ignuda altro ornamento, 191
né pari a sì bel crin pompa si trova,
se non di mirto un fil minuto e lento
che smeraldo con or confonde a prova.
Par ch’egli giri un cielo ad ogni accento
e par ch’un sole ad ogni sguardo muova,
par che produca ad ogni riso un fiore
e par che calchi ad ogni passo un core.
Più non dirò, né saprei meglio in carte 192
tanta beltà delinear giamai,
né di tal luce ombrar picciola parte,
cieco dalo splendor di tanti rai.
Onde poich’al desir mancando l’arte
dal suggetto lo stil vinto è d’assai,
industre imitator del gran Timante,
gli porrò del silenzio il velo avante.
Ben tra color ch’al gran giudicio uniti 193
volgon dubbiosi opinione incerta,
sotto veli poria falsi e mentiti
forse giacer la verità coverta,
se già senz’altre omai dispute o liti
non la mostrasse lucida ed aperta
nonch’ai saggi e prudenti, anco ai più sciocchi
il chiarissimo sol di que’ begli occhi.
Lo splendor di quegli occhi ogni occhio abbaglia, 194
la bella bocca ogni altra bocca serra,
onde conchiude ognun che non l’agguaglia
veracemente altra bellezza in terra.
– Cosa mortal ch’a tanto pregio saglia
chi cerca omai (dicean) vaneggia ed erra,
non sol per quanto fuor l’occhio ne vede
ma per quanto il pensier dentro ne crede. –
Una colomba allor, che fuggitiva, 195
del sacrato coltello avanzo solo
era quel proprio dì campata viva,
venne a fermargli insu la spalla il volo.
Onde il buon vecchio Astreo che ne gioiva
e de’ presaghi aruspici lo stuolo,
vaticinando aventuroso stato,
con lieto annunzio interpretaro il fato.
Qui sorse un grido universal che crebbe 196
di laude insieme e di letizia misto:
– A lui sol si conceda, a lui si debbe,
trofeo de’ suoi begli occhi, il degno acquisto. –
E con plauso qual altro ancor non ebbe,
siché da molti invidiar fu visto,
udissi un mormorio chiaro e distinto
che diceva acclamando: – Ha vinto, ha vinto! –
Mentre che già s’appresta al’alta impresa 197
ecco il popol di fuor grida e schiamazza,
ed ecco entrar molti scudieri in chiesa
ed ha ciascuno in man dorata mazza,
ond’ala multitudine sospesa
d’ognintorno allargar fanno la piazza
innanzi ad un, ch’a prima giunta sembra
aver belle fattezze e belle membra.
Falsirena costui chiamato avea 198
da remote contrade e regioni,
dov’ei la signoria tutta reggea
di Pigmei, di Catizi e d’Arcamoni.
Quindi il trasse a bell’arte e lo facea
tra le gare venir di que’ garzoni
perché’l regno ad Adon fusse intercetto
dal più brutt’uom del mondo e più imperfetto.
Per meraviglia inusitata e strana 199
di duo semi difformi informe ei nacque.
Fu d’un can generato e d’una nana
laqual a forza al’animal soggiacque.
Di Feronia ella fu maggior germana,
Feronia ch’al garzon tanto dispiacque
e tanta già nel mal noia gli accrebbe
mentre chiuso in prigion la maga l’ebbe.
Cinisca ell’avea nome, ala cui mano 200
lo scettro s’attenea de’ Cappadoci.
Venne a metterle campo il fier Turcano,
tiranno già de’ Tartari feroci
ed, avendola un tempo astretta invano
con lunghi assedi e con battaglie atroci,
alfin pensò l’inespugnabil terra
per froda conquistar, senon per guerra.
Trattò seco allianza e voler finse 201
di già nemico divenir marito,
persuase, promise e la sospinse
con lettre e messi a credere al partito
e con sacri protesti il patto strinse
e strinse il coniugal nodo mentito
per trovar via da disfogar lo sdegno
ed occupar con tal inganno il regno.
Fu dal falso imeneo placato Marte, 202
onde a dura tenzon pace successe.
La misera lo stato a parte a parte
e la persona al barbaro concesse.
Ma dapoi che’l fellon con sì nov’arte
la donna ottenne e la cittade oppresse,
schernì con ingratissima mercede
il fatto accordo e la giurata fede.
Nutriva ei con lo stuol di molti alani 203
un suo nero molosso, il più membruto,
il più sconcio, il più fier che tra Spartani
o tra gli Arcadi mai fusse veduto.
Era terror de’ più tremendi cani
ed avea come lupo il cuoio irsuto.
Grugnon fu detto, in orride tenzoni
avezzo a strangolar tigri e leoni.
Or per disprezzo a tal consorte in moglie 204
sottoporre il crudel fè la meschina
e comandò che dele proprie spoglie
ignuda tutta, incatenata e china
preda restasse ale sfrenate voglie
del’ingorda libidine canina
e, dele nozze patteggiate in vece,
dal’osceno mastin coprir la fece.
Così, poiché più volte ella sostenne 205
l’indegna villania del sozzo cane,
dal’iterata copula ne venne
ingravidata a concepir Tricane.
Trican dal Dente è questi, il qual ritenne
forme parte canine e parte umane.
Mezzo dal cinto insù d’uomo ha sembianza,
tutto simile al padre è quelch’avanza.
Dal Dente ei detto fu, peroch’aguzza 206
in fuor del grugno ed arrotata zanna
che di schiume sanguigne il mento spruzza,
a guisa di cinghial gli esce una spanna.
Con quest’arme talora in scaramuzza
più che col ferro altrui lacera e scanna.
Parla, ma voce forma orrida ed atra
che con strepito rauco ulula e latra.
Volto affatto non ha nero ed adusto, 207
né candido deltutto e colorito.
Crespo di chiome ed è di tempie angusto,
del color d’Etiopia imbastardito.
Ha vasto il capo e pargoletto il busto,
col difetto l’eccesso insieme unito;
fanno quinci Erittonio e quindi Atlante
un innesto di nano e di gigante.
Gonfio sen, braccia lunghe e cosce corte, 208
ispida barba e peli irti e pungenti,
luci vermiglie e lagrimose e torte,
sguardi d’infausto e fiero foco ardenti,
fronte rugosa, oscure guance e smorte
e sotto bianche labra ha biondi denti.
Armato poi le man d’acuto artiglio
ben mostra altrui che di tal bestia è figlio.
Aggiunse di natura al’altre cose 209
ancor nova sciagura il caso istesso.
Quando del ventre fuor la madre espose
l’orribil peso e si sconciò con esso,
dapoich’ebbe con strida aspre e rabbiose
dale viscere immonde il parto espresso,
accrebbero le serve e la nutrice
cumulo di miserie al’infelice.
La balia ch’allevollo e l’aiutante 210
di recarglielo in braccio ebber piacere.
Raccapricciossi nel vedersi avante
quelle sembianze abominande e fiere,
svenne d’angoscia e di terror tremante
le braccia aperse e se’l lasciò cadere,
ond’ei portò dala materna poppa
un piè travolto ed una gamba zoppa.
L’avea con acque magiche e con versi 211
volto la fata in un donzel sì vago,
ch’apena sotto il sol potea vedersi
la più leggiadra e signorile imago;
e seco in paggi altr’uomini conversi
parimenti in virtù del licor mago,
pur dela stirpe sua gente minuta,
orribile, difforme e disparuta.
Ch’arditamente ad Amatunta il piede 212
senza indugio volgesse ella gli disse,
perché di Cipro ad acquistar la sede
cosa non troveria che l’impedisse
e la palma, il trionfo e la mercede
verrebbe a riportar del’altrui risse,
ch’unita la beltà del mondo tutta
fora alato ala sua per parer brutta.
Or qua venia da lei sospinto e tratto 213
da’ suoi propri desir leggieri e sciocchi.
Tre volte intorno intorno il contrafatto
torse caninamente il ceffo e gli occhi.
Di reverenza o di saluto in atto
non chinò fronte e non piegò ginocchi,
ma per mezzo lo stuol quivi raccolto
portò superbo il portamento e’l volto.
Passa al’altare, orch’è coverto il cucco 214
sott’altre penne, orgogliosetto in vista.
Veste di pelle d’indico stembucco
colletto che di perle ha doppia lista,
di prezioso ed odorato succo
di muschio e d’ambracan temprata e mista.
Damaschina ha la storta al lato manco
e dorato il pugnal dal’altro fianco.
Vermiglio palandran vergato d’oro 215
gli cade al tergo e’l fregio è d’aurea trina
e d’un tabì di simile lavoro
fatta è la calza e frastagliata a spina.
Un cappelletto di sottil castoro
porta che pur la piuma ha purpurina;
e guernito le man d’arabi guanti
vien ninfeggiando, amoreggiando avanti.
Questa vana magia durò sol tanto 216
ch’ei più dapresso ala gran dea comparve;
ma giunto innanzi al simulacro santo,
si dileguar le mentitrici larve,
s’aprì la nube si disfè l’incanto
e la finta beltà ratto disparve,
ond’ancor negli astanti al’improviso
si trasformò la meraviglia in riso.
Qual uom che sotto maschera nascosto 217
inganna altrui con abito mendace,
altro che prima appar, poich’ha deposto
dela non sua sembianza il vel fallace,
tal quel brutto omicciuol rimase tosto
che nela sua tornò forma verace;
e Saliceo, che’n stima era tra’ vegli
del più grave censor, ne rise anch’egli.
Di quel collegio reverito e sagro 218
è questo Saliceo tra’ principali,
maninconico in vista, asciutto e magro,
ma sempre in bocca ha le facezie e i sali
e punge con parlar mordace ed agro,
ma sono i motti suoi melati strali,
onde trafige e gratamente uccide
e fa rider altrui, seben non ride.
Poiché l’arco costui, secondo l’uso, 219
dela lingua piccante ebbe arrotato,
torse ghignando e sorridendo il muso
e col gomito urtò chi gli era a lato.
– Or chi (dicea) non rimarrà confuso
in risguardar quest’atomo animato?
O quale sfinge indovinar sapria
che qualità di creatura ei sia?
Da qual nicchio sbucò di Flegetonte 220
un granchio tal, cui par non fu mai scorto?
con qual bertuccia si congiunse Bronte,
onde ne nacque un sì stupendo aborto?
Se l’arco avesse in man, la benda in fronte,
l’ali su’l tergo e’l piè non fusse torto,
e’ mi parebbe ale fattezze estrane
lo dio d’amor de’ topi e dele rane.
Ale parti del corpo io non m’oppongo 221
se nol guastasse alquanto il piedestallo;
e se fusse un sommesso almen più longo,
per Ganimede io l’avrei tolto in fallo.
Sotto quel suo cappel somiglia un fongo,
al vestire, ala piuma un pappagallo.
Sembra nel resto una grottesca a gitto
overo un geroglifico d’Egitto.
Veramente a ragion biasmar non posso 222
sì gentil personaggio e sì bel fante,
che se la base è picciola al colosso,
il torso è però grande e torreggiante;
e s’io ben miro, il naso ha così grosso
che ne staria fornito un elefante,
benché di schiatta elefantina un mostro
il dimostrino ancora il dente e’l rostro.
Donde derivi in lui tanta arroganza 223
veder non so davante a sì gran nume.
Per aver di Vulcan la somiglianza
forse con Citerea tanto presume.
Ma dove manca la civil creanza,
la natura supplisce al vil costume,
poiché mentre traballa or alto or basso,
suo malgrado s’inchina a ciascun passo.
Ma se col fasto eccede e con l’orgoglio 224
ogni proporzion di sua statura,
scusar lo deggio e perdonar gli voglio,
ch’aver vuolsi riguardo ala figura
in cui, qual pittor saggio in breve foglio,
le sue grandezze impicciolì Natura.
S’egli, ancorché si drizzi, è sì piccino,
or che farebbe inginocchiato e chino?
Abbiasi dunque mira ala corona, 225
pongasi doppia cura e doppia mente
perché mentre fra gli altri or si tenzona
non la rapisca il semideo valente;
ch’essendo per cagion dela persona
poco men ch’invisibile ala gente,
se vorrà torla contro i sacri patti,
uopo non fia che fugga o che s’appiatti. –
Per questo ragionar non si ritira, 226
anzi pur oltre il paladin procede,
che seben dela turba il riso mira,
dele vergogne sue nulla s’avede.
Ma quando altero al’aureo cerchio aspira
e di toccarlo e di levarlo ei crede,
trema in guisa l’altar ch’altrui spaventa
e la dea folgorando un calcio aventa.
Nel volto con tant’impeto battuto 227
fu dal piè dela statua il sozzo nano,
che sossovra in un globo andò caduto
di grado in grado a rotolar nel piano.
Quel piacevol prodigio allor veduto,
sentissi il riso raddoppiar lontano;
rimbombonne il teatro a voce piena
e chiuse in atto comico la scena.
Levossi il semican superbo e rio 228
e del publico oltraggio al ciel latrava;
dela rabbia paterna infuor gli uscio
di bocca il fiel col sangue e con la bava;
e bestemmiando del’alato dio
la madre in vista minacciosa e brava,
contro la maga iniqua e maledetta
giurò sovra il suo dente alta vendetta.
Or giunto al trono ove sedea Ciprigna 229
col viso alzato e col ginocchio chino
disse Adon supplicante: – O dea benigna
per cui scalda il mio petto ardor divino,
s’hai virtù di placar stella maligna,
se pende dal tuo cenno il mio destino,
piacciati, prego, a questo servo indegno
come donasti il cor, rendere il regno. –
Fu vista a quel parlar la dea cortese 230
quasi in sereno ciel lampo di stella,
disserrar un sorriso e’ntanto stese
l’aurea corona e l’adornò di quella.
Né cinta di bei raggi e fiamme accese
fu la fronte d’Apollo unqua sì bella
o dele fronde del più verde alloro,
com’apparve la sua fregiata d’oro.
Mentre che tutti di conforme voto 231
son del reame ad investirlo intenti,
con popolar tumultuario moto
ecco nel tempio entrar calca di genti.
Antica donna e di sembiante noto
presa menan colà molti sergenti;
e già grida ciascun, mentre s’appressa:
– Ecco Alinda, ecco Alinda, è certo dessa. –
Alinda era costei nutrice fida 232
di lei ch’Adone ingenerato avea
e del malvagio amor complice e guida
fu già nel’opra incestuosa e rea.
Ella fra tanti strazi e tante grida
mercé pregava e l’ascoltar chiedea;
ond’ale turbe Astreo silenzio indisse;
allor sciolse la lingua e così disse:
– Non bram’io no dal mio canuto crine 233
torcer la falce onde fia tronco inbreve.
Principi, o che lontane o che vicine
sien l’ore ultime mie, nulla m’è greve.
Venga omai pur, ch’è già maturo il fine
de’ pochi giorni che’l destin mi deve.
Non vo’, di morte degna e di catena,
scusar il fallo o ricusar la pena.
Io di vietato amor nefande prede 234
trassi Mirra a rapir dal padre istesso.
Al’inganno amoroso ardir mi diede
pietà del suo languir; l’error confesso.
Ma se quando dal male il ben procede
suol perdonarsi ogni più grave eccesso,
ben può, d’effetto buon ministra ria,
perdono meritar la colpa mia.
Lunge dal patrio suol, così la punse 235
vergognoso timor, fuggì tremante;
né me da lei lungo camin disgiunse,
sempre del vago piè seguace errante.
Misera, in tronco alfin cangiata aggiunse
verdura ai boschi e numero ale piante.
Ma dal gravido sen, com’al ciel piacque,
sovr’ogni altro leggiadro un figlio nacque.
Nacque colà tra quelle piagge apriche 236
dove l’unico augel s’annida e pasce
che’ncenerite le sue piume antiche
di sé padre ed erede e more e nasce.
Al bel parto apprestar le ninfe amiche
fiorita cuna ed odorate fasce,
ch’ove il latte mancò, nutrito intanto
fu dele stille del materno pianto.
Stupor dirò che l’altrui fede avanza: 237
sotto la poppa del sinistro lato
il bel corpo portò fuor d’ogni usanza
mirabilmente il fanciullin segnato.
D’una rosa vermiglia ala sembianza
purpurea macchia vi dipinse il fato,
quasi volesse pur la dea d’amore
del carattere suo stampargli il core.
Questi in Arabia vive, ove ancor io 238
ho menata fin qui vita selvaggia.
Ma come prima il vostro editto uscio,
abbandonai quella deserta spiaggia
e qua ne venni al mio terren natio
perché’n altrui l’elezzion non caggia.
Non dee giusta ragion di questa sede
torre il proprio retaggio al vero erede. –
Qui tacque e Luciferno il fiero scita, 239
cui lacerava il cor verme di rabbia,
de’ suoi scorni sdegnoso e che rapita
tanta gloria di mano un garzon gli abbia,
poiché d’Alinda ebbe l’istoria udita
si trasse avante con enfiate labbia
e, sbarrando le braccia, alzò feroce
in questo suon la temeraria voce:
– Qual leggerezza o qual furor v’aggira, 240
voi che di dotti v’usurpate il nome?
e qual, fuor di ragion, ragion v’inspira
suppor sì frale appoggio a sì gran some?
Dela follia ch’a vaneggiar vi tira
non v’accorgete omai canute chiome?
forse interesse in voi corrompe onore?
o vi move lascivia a tanto errore?
Cosa dunque vi par degna di voi 241
che sen porti costui sì fatta preda?
e che’l premio negato a tanti eroi
a fanciullo inesperto or si conceda?
Benché, s’io guardo ai portamenti suoi,
più tosto che fanciul, femina il creda.
Un ch’agli abiti, agli atti, ala favella
con vergogna d’ogni uomo uomo s’appella.
Meglio saprà con quel suo bruno ciglio, 242
col biondo crin, con la purpurea guancia
l’armi adoprar di Venere e del figlio
che regger scettro o sostener bilancia.
Vie più ne’ giochi delo dio vermiglio
tra tirsi ed edre ove si tresca e ciancia
con satiri a scherzar vani e leggieri
atto sarà ch’a maneggiare imperi.
Pettini e specchi imbelli e feminili 243
tratti, al subbio si volga, al’ago, al fuso;
tessa a suo senno pur, riccami e fili,
tal de’ suoi pari è l’essercizio e l’uso;
stiasi pur tra donzelle inermi e vili
e del letto e del foco in guardia chiuso,
guardi i tetti domestici e le mura,
ma lasci altrui del governar la cura.
Potrà forse in voi tanto un volto osceno, 244
tanto fia che v’accechi un desir folle,
ch’abbiate di voistessi a dar il freno
a rege inetto, effeminato e molle?
E voi, gente viril, dentro il cui seno
nobil zelo di gloria avampa e bolle,
vi lascerete tor senza contesa
quelche tanta costò fatica e spesa?
Che forze avrà questo campion? che lena 245
da regger peso tal che non trabocchi?
Tremerà, piangerà se fia ch’apena
un sol lampo d’acciar gli offenda gli occhi.
Torni la mente omai chiara e serena
siché stimol d’onor vi punga e tocchi,
facendo possessor di vostra terra
chi l’orni in pace e la difenda in guerra. –
Prima che Luciferno oltre seguisse, 246
strano prodigio e repentino avenne.
Quella statua d’Amor che già si disse
lo stral ch’avea su l’arco a scoccar venne.
Volando il crudo stral, l’asta gli affisse
nel costato miglior fino ale penne.
Cadde e giacque il meschin gelido e muto,
frecciato il cor di passatoio acuto.
Di stupor, di terror la gente resta, 247
a sì fiero spettacolo confusa.
Intanto a tutti Adon si manifesta
e de’ propri natali il vero accusa
e per prova maggior sotto la vesta
scopre l’impression celata e chiusa,
dove l’ultima costa appresso al fianco
forma l’arco minor del lato manco.
E però che’l re morto avea già fatto 248
palese a tutti il ricevuto scherno,
veggendogli il bel fior nel cor ritratto
e nel viso gentil l’aere paterno,
tutto il senato con sollenne patto
giurogli omaggio e poselo al governo.
Sciolta è la balia e, conosciuto il segno,
lo stringe, il bacia e l’accompagna al regno.
Fu da Dorisbe e dala madre Argene 249
con dimostranze affettuose accolto
e, seben tronca a’ lor desir la spene,
non so se’l cor si conformava al volto,
come del sangue al debito conviene,
nascondendo il livor, l’onorar molto.
Venne Sidonio e con aperte braccia
corse a scontrarlo ed a baciarlo in faccia.
Smarrito dal’insolito accidente, 250
di corte ogni baron gli s’avicina.
Folto il popol concorre, e reverente
a salutarlo re ciascun s’inchina.
D’oricalchi e di bossi ecco si sente
musica barbaresca e saracina;
straccian l’aria le trombe a mille a mille
ed assordano il ciel timpani e squille.
Falcato carro e nobilmente instrutto 251
perché dal tempio al regio albergo ei torni,
vien da sei coppie innanzi al re condutto
di ben guerniti e candidi alicorni.
Lavorato è d’avorio ed ha pertutto
d’azzurro e d’oro i suoi fogliaggi adorni
e’nsu quattr’archi eccelsi e trionfali
spiega l’insegne de’ trofei reali.
Del’istessa materia e del’istesso 252
lavor tra l’aurea poppa e’l bel timone,
in guisa pur di tribunale, è messo
seggio che braccia e branche ha di leone.
Qui con suoi primi ufficiali appresso
sotto un gran pallio d’or s’asside Adone.
Presso, ma non del pari, innanzi al piede
Astreo con quattro satrapi gli siede.
L’aurea corona tien su gli aurei crini, 253
ma però ch’a portar troppo gli pesa,
duo fanciulletti in forma d’amorini
d’or e d’ostro piumati, in man l’han presa
e da tergo eminenti a lui vicini
gliela tengono in fronte alto sospesa.
Così pian pian tra la real famiglia
dritto al mastro palagio il camin piglia.
Primi van gli scudier, costor seconda 254
di paggi e camerieri ordin d’onore.
Il carro poi la baronia circonda
dov’ha de’ maggior duci accolto il fiore.
Schiera dietro ne vien lieta e gioconda
di danzatrici vergini e canore.
Altri ne stanno insu balconi e logge
grandinando di fior purpuree piogge.
I ministri del re ch’a piè gli stanno, 255
di passo in passo infra le turbe liete
dala prodiga man spargendo vanno
in segno di letizia auree monete.
E tanta forza ha in sé l’oro tiranno,
tanto può di guadagno avida sete,
che la plebe a raccorlo intenta e fissa
cangia la festa in strepitosa rissa.
Con sì fatto apparato in gioia e’n riso 256
ala gran reggia arriva il re novello.
Poggia su l’alta sala e quivi assiso
straniero attende e messaggier drappello.
Cipro, bench’or dal’isola diviso
sia’l continente, era già unita a quello;
e nove regni avea seco ristretti
ch’ancor son per tributo a lei soggetti.
Nove son dunque ad onorarlo presti 257
di nove regni ambasciadori accolti,
per lunga barba e lungo manto onesti
e di crespi turbanti il capo avolti;
a baciargli la man ne vengon questi,
pongon le destre al petto, a terra i volti.
Ei gli raccoglie e innanzi a sé per dritto
seder gli fa sovra origlier d’Egitto.
L’ambasciata ad espor preser costoro 258
e i doni inun de’ tributari regi;
cose di cui nel sen non ha tesoro
l’antartico Nettun che più si pregi.
havvi gran padiglion di seta e d’oro
sparso di varie cacce e vari fregi;
d’istorie v’ha tapezzaria reale,
arazzi da guernir camere e sale.
Cinquanta ai cigni di candor simili 259
destrier, che d’oro han paramenti e selle,
vengon condotti a man vaghi e gentili
da vie più che carbon nere donzelle.
Robusti schiavi insu le terga umili
portan d’argento ancor gran conche e belle,
dov’è molt’oro accumulato e molto
in medaglie battuto e’n verghe accolto.
Poi da credenza un barbaro apparecchio 260
di bei vasi di smalto ecco ne viene
e v’ha tra lor del più purgato e vecchio
balsamo oriental molt’urne piene.
Non di cristallo no segue uno specchio
sì grande ch’a fatica altri il sostiene,
ma d’un intero e limpido zaffiro
e di turchina ha la cornice e’l giro.
Duo preziosi anelli: in un si chiude 261
la nobil pietra che resiste al foco,
onde chi l’ha, benché voraci e crude,
prende le fiamme e le faville a gioco.
L’altro gemma contien di tal virtude
ch’ha di tosco maligno a temer poco,
perché sentendo il rio velen che noce
ferve e s’infiamma sì che’l dito coce.
Un’oriuol di ricche gemme adorno 262
che quasi viva ed animata mole
col numero e col suon l’ore del giorno
segnar non pur mirabilmente suole,
ma con le rote sue si volge intorno
come volgonsi in ciel le stelle e’l sole.
Giran le sfere e di fin or costrutti
muovonsi del zodiaco i mostri tutti.
Temperato in Damasco, obliquo e corto 263
stocco vien poi ch’ha di rubino ardente
le guardie e’l pome e di diaspro torto
sotto manico d’oro else lucente;
gravi di perle, a cui l’occaso o l’orto
non vede eguali, ha cintola e pendente;
di diamante il puntale e smeraldina
d’un verd’osso di pesce è la vagina.
Questi i presenti fur ch’ala presenza 264
del bell’Adon fur presentati allora.
Data egli ai messi alfin grata licenza
si ritrasse in disparte a far dimora.
Ma la madre d’Amor che viver senza
l’anima sua non può contenta un’ora,
tosto de’ bianchi augelli insu le penne
tacita e sola a visitar lo venne.
Poiché più volte l’accoglienze nove 265
partì col vago suo la dea vezzosa,
perch’era astretta in breve a girne altrove
ed era del suo ben troppo gelosa,
seco pensò di ricondurlo dove
l’ebbe pur dianzi in chiusa parte ascosa,
onde lasciando Astreo regger sua vece
al’usato giardin tornar lo fece.
Fu Barrin condannato a giusta pena, 266
ma perché tanta e sì sollenne festa
di gaudi tutta e d’allegrezze piena
conturbar non devea cosa funesta,
bastò ch’avesse al piè ferrea catena
s’aver non valse aurea corona in testa;
bastò che’n cambio del supplicio estremo
trono un banco gli fusse e scettro un remo.
Già scintillando in compagnia d’Arturo, 267
Espero uscia dala magion dorata
e già l’argento suo candido e puro
fuor del’ombre traea la dea gelata;
steso in terra la Notte il velo oscuro,
aperse in ciel serenità stellata
e diviso un sol foco in più faville
spense una luce e ne raccese mille,
quando nel letto, ove i primieri ardori 268
sfogar già de’ desir caldi e vivaci,
colombeggiando i duo lascivi cori
si raccolser tra lor con baci e baci.
La bella dea de’ vezzi e degli amori
intesse al’amor suo nodi tenaci
e da’ begli occhi con sospiri ardenti
gli rasciuga le lagrime cadenti.
Pasce il digiun del’avido desire 269
sovra le piume immobilmente assisa
che’l piacer del mirarlo e quel martire
di dever fra poche ore irne divisa,
le va con tanto duol l’alma a ferire
e’l più vivo del cor le tocca in guisa
che fuor di sé dubbiosa e sbigottita
non sa prender partito ala partita.