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Giovan Battista Marino Adone IntraText CT - Lettura del testo |
Canto, allegoria 18
La MORTE. Nella congiura di Marte e di Diana contro Adone si dà a conoscere che tanto l’animo bellicoso quanto il casto sogliono odiare il brutto piacere; l’uno come occupato nelle asprezze della milizia, intutto contraria alle morbidezze dell’ozio, per sua generosità lo sdegna; l’altro per propria virtù è inclinato ad aborrire tutte quelle licenze che trappassano i confini della modestia. Nella morte d’Adone ucciso dal cinghiale si fa intendere che quella istessa sensualità brutina di cui l’uomo seguita la traccia è cagione della sua perdizione. Nel pianto di Venere sopra il morto giovane si figura che un diletto lascivo amato con ismoderamento, alla fine mancando, non lascia senon dolore. Nella scusa che fa il porco con la dea, si dinota la forza della bellezza, che può alle volte commovere gli animi eziandio ferini e bestiali. Nel tradimento d’Aurilla, che pentita finalmente si uccide ed è da Bacco trasformata in aura, si disegnano gli effetti dell’ira, dell’avarizia, della ebrietà e della leggerezza.
Canto, argomento 18
Spinta da Falsirena Aurilla infida
dà del rival di Marte a Marte aviso;
poiché dal fier cinghiale il vede ucciso
il gran dolor fa che sestessa uccida.
Canto 18
Son due fiaccole ardenti Amore e Sdegno 1
che’nfiamman l’alme di penosa arsura;
stanno nel core e turbano l’ingegno,
né da lor la Ragion vive secura.
Son d’egual forza ed emuli nel regno,
ma contrari d’effetto e di natura:
l’uno è dolce trastullo e dolce affetto,
l’altro produce solo odio e dispetto.
Quando talor questi aversari fieri 2
pugnan tra lor, l’uom ne languisce e geme
e’l cor, ch’è picciol campo a duo guerrieri
e seggio angusto a duo signori insieme,
da conflitto mortal, d’aspri pensieri
combattuto delpar, sospira e freme.
Quinci fervida schiuma e quindi intanto
versa doglioso ed angoscioso pianto.
L’anima afflitta in sì crudel battaglia 3
mentre a prova con quel questo contende,
sicome libra le cui lance agguaglia
doppio peso conforme, in dubbio pende;
ed al gemino spron che la travaglia
or di desire, or di furor s’accende;
quando di là, quando di quà la gira
alternamente o l’appetito o l’ira.
Nela guerra però che quella e questa 4
passion discordante a gara fanno,
vincitor le più volte alfin ne resta
e ne trionfa il lusinghier tiranno
che’l gran competitor preme e calpesta,
onde la rabbia poi diventa affanno,
e là dove pur dianzi era reina
serve di cote ov’ei gli strali affina.
Sovente, allor che di quant’egli brama 5
il fin di conseguir non gli è permesso
dal’amata beltà che nol riama,
suol congiurar col suo nemico istesso.
Amor lo Sdegno in suo soccorso chiama
ch’ala vendetta inun s’arma con esso.
Quel disprezzo lo stimula e l’irrita
a congiungersi seco e dargli aita.
Ma s’avien che, dal’Ira a terra spinto, 6
Amor caggia dal trono ov’egli siede,
poiché pur una volta ella l’ha vinto
e debellato ed abbattuto il vede,
qual servo il tien sott’aspro giogo avinto,
né sorger né regnar più gli concede;
anzi lo sforza con superbo impero
a disamar quelch’egli amò primiero.
Di queste due facelle il core accesa 7
Falsirena la falsa incantatrice,
tutta del bell’Adone ai danni intesa
sembra stolta baccante o furia ultrice.
Il modo sol da vendicar l’offesa
pensa e come dar morte al’infelice;
e secondo il Furor che la consiglia
or questo or quel parer lascia e ripiglia.
Non cotanti color cangia la piuma 8
che’ngemma ala colomba il collo intorno
quando mostra a colui che il mondo alluma
il suo bel vezzo in varie guise adorno,
quanti la passion che la consuma
và mutando pensier la notte e’l giorno.
Alfine i dubbi onde la mente involve
in un partito perfido risolve.
– S’amor (seco dicea) non può giovarmi, 9
se lusinga, promessa, oro non giova,
se de’ tremendi miei magici carmi
vana riesce ogn’infallibil prova,
se non vaglion le forze, i ferri e l’armi,
s’altro rimedio un tanto mal non trova,
a far almeno il mio desir contento
varrà forse l’inganno e’l tradimento. –
Aurilla era una ninfa ancella antica 10
dela diva di Cipro e di Citera,
bella ma poco saggia e men pudica,
avara alquanto e garrula e leggiera.
Era costei di Bacco amata amica
più ch’altra allor del’amorosa schiera.
Conosciuta costei mobile e vaga,
volse il suo mezzo adoperar la maga.
Colsela quando incontro a Citerea 11
d’alcun lieve sdegnetto era ancor calda
e’n tempo apunto ch’asciugata avea
più d’una tazza del licor che scalda.
Menovvi un mostro suo la fata rea
contro cui non restò fede mai salda.
Così la vinse e non trovò ritegno
ad esseguire il suo crudel disegno.
L’Interesse vi venne e con l’uncino 12
trasse l’avida ninfa ala sua rete.
O fame infame del metallo fino,
o sacra troppo ed essecrabil sete
che non mai satollarti hai per destino,
ch’ognor quanto più bevi hai men quiete,
a che non sforzi tu gli umani petti
signoreggiati da tiranni affetti?
Carca d’oro la mano e d’ira il seno, 13
d’ira che chiusa più, vie più sfavilla,
cieca dal fumo di quel rio veleno
che da’ soavi pampini distilla,
di quanto far bisogna instrutta apieno
vassene dunque la malvagia Aurilla
e dritto il passo move a quella parte
là dove sa che ritrovar può Marte.
Ritrovollo solingo e come quella 14
che di prudenza a fren mai non soggiacque,
gli fè con lunga e lubrica favella
cose udir che d’udir forte gli spiacque:
narrò gli amori dela dea più bella
e de’ progressi lor nulla gli tacque,
l’età del vago e la beltà dipinse
e’n più discorsi il suo parlar distinse.
Scioglie la lingua baldanzosa e pronta 15
e non senza alcun fregio il ver gli espone;
gli afferma che per fargli oltraggio ed onta
data s’è in preda a un rustico garzone.
E l’istoria e la beffa indi gli conta
quando nascose e fè fuggire Adone,
che per tema appartato alquanto il tenne,
poi richiamato subito rivenne.
Dicegli che di lui seco soletta 16
sempre si ride e scorni aggiunge a scorni,
gli soggiunge ancor poi che la diletta
partita è dal suo ben per qualche giorni.
E gli conchiude alfin che la vendetta
molto facil gli fia pria ch’ella torni.
E gl’insegna e gli mostra e gli divisa
il tempo, il loco commodo e la guisa.
Nel fier signor dele sanguigne risse 17
non era intutto ancor spento il sospetto
e, daché l’infernal serpe il trafisse,
sempre un freddo velen celò nel petto;
onde quando colei così gli disse
l’agghiacciò lo stupor, l’arse il dispetto.
Tacque e’l ciel minacciando e gli elementi
torse gonfi di rabbia i lumi ardenti.
Qual robusto talor tauro si mira, 18
superbo duca del cornuto armento,
che col fiero rivale entrato in ira
schiuma sangue, ala foco e sbuffa vento,
dagli sguardi feroci il furor spira,
ne’ tremendi muggiti ha lo spavento,
nella bocca e negli occhi orror raddoppia
folgore che rosseggia e tuon che scoppia,
tal da gelosi stimuli ferito, 19
tra sé fremendo il capitano eterno,
poich’ha l’annunzio inaspettato udito,
par furia agli atti ed ha nel cor l’inferno,
fuor del’albergo e di sestesso uscito,
il ferro appresta a vendicar lo scherno
e senza indugio, ebro d’orgoglio insano,
il giovane sbranar vuol di sua mano.
Avea l’illustrator degli emisperi 20
nel’Atlantico mar la face estinta.
L’oscura terra avea di vapor neri
la faccia al chiaro ciel macchiata e tinta.
Reggeva il Sonno gli umidi destrieri
dela Notte di nebbie e d’ombre cinta
e con placido corso e taciturno
volgea le stelle al gran camin notturno.
Nel proibito altrui bosco selvaggio 21
vassene Marte alo sparir del sole,
ch’alo spuntar del mattutino raggio
sa ben ch’Adon tornar dentro vi vole.
Quivi appoggiato ad un troncon di faggio
del’ore pigre si lamenta e dole.
Quivi s’asside ad aspettar la luce
degli esserciti orrendi il sommo duce.
Pensando ai torti suoi sì gravi e tanti, 22
geme in un mormorio flebile e fioco,
si distempra in sospir, si stilla in pianti
e giace in ghiaccio e si disfoga in foco.
Ha le labra di fiel verdi e spumanti,
né trova al gran martir requie, né loco;
e sì forte è l’affanno e sì possente
che le corde del cor spezzar si sente.
Mentre che con l’amor l’ira combatte, 23
il dolor s’interpone; e dice alfine:
– Dunque di quelle ch’io stimava intatte
bellezze incomparabili e divine
posseditrici indegne, oimé, son fatte
rozze braccia selvagge e contadine?
quelch’io bramar apena osai lontano,
preda divien d’un cacciator villano?
O vie più dele passere fugaci 24
che tranno il carro tuo vaga e leggiera,
quanto ne’ vezzi tuoi finti e fallaci
stolto è chi crede e misero chi spera.
Mi promisero questo i detti e i baci
dela bocca bugiarda e lusinghiera,
quand’io, credulo a quel che mi giurasti,
lasciai caderti a piè tutti i miei fasti?
Chi mai tanta beltà vide in suggetto 25
sì mobile, incostante e disleale?
e in amante sì fido e sì perfetto
tanta disaventura e tanto male?
Or qual sarà entro l’inferno Aletto
se la figlia di Giove in cielo è tale?
che faran l’altre donne infami e ree
se scelerate son l’istesse dee?
Perfido sesso, ahi com’inganna e mente 26
quella beltà ch’a torto il ciel ti diede.
Volubile qual fronda è la tua mente,
instabile qual onda è la tua fede.
Io per me spererei più facilmente,
ch’una sola fedele a chi le crede
fra tante false, ingrate e mentitrici,
tra gli augelli trovar mille fenici.
Ma dov’è Marte il tuo furore? e dove 27
l’alto valor che signoreggia i ferri?
Quegli innocenti e miseri ch’a Giove
gridan mercé, senza pietate atterri;
contro chi meno il meritò si move,
talor fuor di ragion l’ira disserri.
Di strugger squadre armate hai pur trastullo
e t’offende e schernisce un vil fanciullo.
Sei tu colui che i popoli e gli imperi 28
mieter dala radice hai spesso in uso?
per cui la Parca innaspatrice interi
vota talvolta i secoli dal fuso?
Non se’ tu quei ch’hai degli Sciti alteri,
del Gelon, del Biston, l’orgoglio ottuso?
dietro al cui carro invitto umil ne viene
il Terror col Furor stretto in catene?
Ed or l’armi e i trofei basso e vulgare 29
concorrente mortal di man ti toglie
e soffri pur che quelle membra care
sien delizie communi al’altrui voglie.
Che ti giovano omai tante e sì chiare
prede, palme, corone, insegne e spoglie,
s’un pargoletto ogni tua gloria uccide
e de’ trionfi tuoi trionfa e ride?
Se fusse tuo rival quel re superno, 30
che dal ciel move il tutto e’l tutto pote;
se fusse emulo tuo quel ch’ha in governo
l’acque e col eran tridente il mondo scote;
se fusse quel ch’ad Ecate d’Averno
donò lo scettro ruginoso in dote,
potresti almen di quest’oltraggio audace
darti con più ragion conforto e pace.
Quella destra immortale è forse stanca 31
per cui sol treman Rodope e Pangeo?
è forse rotta quella spada franca
che già percosse Encelado e Tifeo?
No no, l’usata forza in te non manca;
pera dunque il donzel perfido e reo
e, benché sia di divin ferro indegno,
fa che col sangue suo spenga il tuo sdegno. –
Così doleasi il cavalier del cielo, 32
trafitto il cor dal dispietato aviso,
e vie più fredde del notturno gelo
eran le brine onde bagnava il viso;
quando colei, ch’è reverita in Delo,
affaccioglisi innanzi al’improviso
e degli uditi gemiti feroci
ruppe nel mezzo le crucciose voci:
– Che val (gli disse) il tuo tormento ignoto 33
a quest’ombre narrando orride e nere,
senz’alcun pro del bosco ermo e remoto
assordar l’aure e risvegliar le fere?
Altri gioisce e tu qui bravi a voto,
altri i riposi tuoi stassi a godere;
e tu minacci e col tuo van lamento
tagli gran colpi al’aria e sfidi il vento.
Sembri schermendo la spezzata spada 34
tigre che dietro al cacciator s’affretta,
ma trattiene il suo corso a mezza strada
su’l bel cristal ch’a vaneggiar l’alletta
e mentre sta pur neghittosa a bada,
perde la prole insieme e la vendetta,
quando volar devrebbe e con gli artigli
toglier la vita a chi le tolse i figli.
Tu però, dio sì prode e sì gagliardo, 35
non dei d’un sangue vil tinger le mani.
Potresti e chi nol sa? sol con un guardo
subbissar quel fanciul, disfarlo in brani.
Per quella poi che d’amoroso dardo
ti punse il core i tuoi dolor son vani;
sai che fermezza in lei può durar poco,
sendo figlia del mar, moglie del foco.
A consiglio miglior volgerai dunque, 36
s’a mio senno farai, l’animo offeso,
lasciando a me per questo e per qualunque
misfatto suo di castigarla il peso;
ch’io non ho meno incontr’a lei, quantunque
per altro affare, il cor di sdegno acceso,
né di te meno ad esserle nemica
m’obliga giustamente ingiuria antica.
Questa, obbrobrio del ciel, putta celeste 37
quando comparve al suo lascivo amante
sotto la casta e virginal mia veste,
sotto le forme mie pudiche e sante,
per ricoprir con apparenze oneste
la sfacciatagin sua, gli venne avante
e con sue frodi in altro manto chiuse
la pueril simplicità deluse.
Sempre poi col suo drudo in biasmo mio 38
vibrò la lingua temeraria e sciocca
e con parlar ingiurioso e rio
spesso in cose d’onor pose la bocca;
e benché in terra e’n ciel nota son io,
un sì maligno ardir troppo mi tocca;
ritrovar mai non seppe altro pretesto
per da me desviarlo, eccetto questo.
Ella d’Adon la signoria m’ha tolta 39
che pronto era a seguir gli studi miei,
ma con lunghi sermon più d’una volta
da quel camin lo distornò costei.
Or per punir questa insolenza stolta
io vo’, nocendo a lui, nocere a lei,
che, quantunque immortal, l’ama sì forte
che so ch’ella morrà nela sua morte.
Toccar quel suo malnato osò le crude 40
armi pericolose, armi interdette,
quelle ov’ancora il mio furor si chiude,
dico di Meleagro arco e saette.
Queste, il giur’io per l’infernal palude,
da sestesse faran nostre vendette,
perché son tali che giamai non sanno
portar a chi le porta altro che danno.
Oltre di ciò, quando a cacciar dimane 41
riede, secondo l’uso, il folle arciero,
d’irritar contro lui fuor dele tane
un mio cinghial talmente io fo pensiero,
che d’Atteone alcun rabbioso cane
nel suo signor non si mostrò sì fiero,
né fu mai fiero e formidabil tanto
l’altro, al cui nome ancor trema Erimanto. –
Così di Tracia al paladin tremendo 42
favellò Cinzia, ond’ei l’armi depose;
e più distinto poi l’ordin tessendo
dele disposte e concertate cose,
seco insieme in agguato ivi attendendo
finché venisse il bel garzon, s’ascose,
per dar effetto ala crudel congiura
tra i vietati confin di quelle mura.
Già del difeso e riservato parco 43
poiché Vener partissi, Adone ardito
non sol più volte il periglioso varco
tentato avea, ma n’era salvo uscito.
Né mica per timor di spiedo o d’arco
il lasciaro que’ mostri irne impunito,
ma perch’ala beltà del giovinetto
ed ala dea del loco ebber rispetto.
Quinci malcauto e temerario accrebbe 44
tant’orgoglio nel cor, tanta fidanza
che, presumendo poi più che non debbe,
di rientrarvi ognor prese baldanza;
onde il crudo destin ch’allor ben ebbe
d’esseguir l’ira sua campo abastanza,
trassel, mentre Ciprigna era lontana,
tra l’insidie di Marte e di Diana.
Sorgea l’Aurora, ma dolente e mesta 45
e con pallida faccia e nubilosa
si dimostrava ben nunzia funesta
quel dì crudel d’alcuna infausta cosa.
Portava dela Notte il velo in testa,
la ghirlanda sfrondata e sanguinosa,
onde il sol che ben chiaro ancor non era,
pur allor si levava e parea sera,
quand’ei ch’una gran caccia il giorno dianzi 46
dentro il loco medesmo avea bandita,
più d’una truppa a far ch’oltre s’avanzi
di cacciatori e cacciatrici invita.
Clizio il gentil pastor si tragge innanzi
e gli promette ogni fedele aita.
La bella Citerea pria che partisse,
– Ti raccomando il bell’Adon – gli disse.
Tosto i più fieri e generosi cani, 47
di cui gran moltitudine adunossi,
per densi boschi e per aperti piani
fur da’ maestri lor guidati e mossi.
Segusi e veltri e co’ feroci alani
vennervi i formidabili molossi,
figli d’angliche madri e corse e sarde
ed altre varie ancor razze bastarde.
Armasi Adon, da folle audacia spinto, 48
e gli arnesi malvagi appresta e prende.
Già del’arco essecrando il collo ha cinto,
già l’infausta faretra al lato appende,
il curvo corno ha dopo’l tergo avinto
in cui lo smalto insu l’avorio splende.
Ma l’avorio però candido e bianco
cede ala bella mano ed al bel fianco.
Oltre l’arco e gli strali ha nella destra 49
grossa mazza pesante e noderuta,
che fu rozzo troncon d’elce silvestra
e ferrata è da capo a punta acuta.
Con la manca conduce ed ammaestra
un suo levrier che’n ogni affar l’aiuta;
né movon mai discompagnati il piede
con bel cambio tra lor d’amore e fede.
Quest’era il caro, il favorito e nato 50
d’una cagna spartana era e d’un pardo.
Non fu giamai sì lieve augello alato,
non sì rapido mai partico dardo,
non sì veloce zefiro ch’a lato
al suo presto volar non fusse tardo.
Non corse unqua sì snella o damma o tigre
ch’appo a quel can non rassembrasser pigre.
Spirto vivace avea, corpo ben fatto 51
e la fuga sì pronta e sì leggiera,
che spesso il daino e il cervo agile e ratto
fermò col dente e giunse ala carriera.
Avea testa di serpe e piè di gatto,
schiena di lupo e pelo di pantera.
Saetta egli avea nome ed era al corso
saetta sì, ma più saetta al morso.
Era al collo il collar conforme apunto, 52
ricco monil che l’amorosa dea
d’un bel serico brun tutto trapunto
di propria man con sottil ago avea.
E v’avea, non pensando, in forte punto
istoria espressa dolorosa e rea:
di Cefalo la caccia empia e funesta,
tragico augurio, è in quel lavor contesta.
Così guernito, con secura faccia, 53
colà sen gio dove fortuna il trasse,
nela famosa e memorabil caccia
il bell’Adone a compartir le lasse;
già’l lungo odor dela ferina traccia
seguono i bracchi con le teste basse,
già vanno i veltri a coppia a coppia intorno,
ma non si sente ancor voce né corno.
Adon dela foresta il sito prese 54
e’l tumulto in silenzio alquanto tenne,
poi d’ognintorno ben legate e tese
lunghe linee di corda a tirar venne.
Gran numero pertutto indi v’appese
di colorite e tremolanti penne,
perché desser talor, mosse dal vento,
ale bestie selvagge ombra e spavento.
Ciò fatto, del cacciar l’ordine dassi 55
e la guardia s’assegna ad ogni strada,
accioché quando a dar l’assalto avrassi
senza bisogno altrove altri non vada.
Ciascun guarda il suo posto e tutti i passi
son omai chiusi ove’l camin si guada.
Intenti e presti a custodir gli aguati
stan su l’aviso i cacciatori armati.
Qui comincia a levarsi il romor grande, 56
di latrati e di gridi il ciel risona.
Rimbombo tal moltiplica e si spande
che la selva stordisce e l’aria introna
e fa per entro a fronte e dale bande
degli arbori tremar l’ampia corona
ed eco risentir, che’n quelle tane
raro o mai non rispose a voci umane.
Ecco vulgo smacchiar fuor dele cove 57
di mansuete fere ed innocenti.
La lepre vile in dubbio il corso move,
né’l timido coniglio i passi ha lenti;
sparsi van quinci e quindi e non san dove
de’ vecchi cervi i fuggitivi armenti;
sola la volpe astuta il piè sospende
ch’ad ingannar l’ingannatore intende.
Ma’l tropp’ardito Adon, che d’aver crede 58
altrettanto valor quant’ha bellezza,
di fugace animal minute prede,
quasi indegne di lui, disdegna e sprezza.
Fieramente leggiadro andar si vede
ed a prove aspirar d’alta prodezza.
Bella ferocità nel suo bel viso
aspreggiato ha d’orgoglio il dolce riso.
Tal di Grecia il garzon Tessaglia scorse 59
del dì cacciando alleggerir la noia
e recar poi di tigri uccise e d’orse
al maestro biforme orride cuoia.
Tal già le selve sue trascorrer forse
vide Cartago il giovane di Troia
ed aspettar con baldanzosa fronte
se superbo leon scendea dal monte.
E tal vid’io di cani e di cavalli 60
menando il gran Luigi elette schiere,
talor di Senna per l’amene valli
castigar l’ozio e seguitar le fere
e con l’invitta man che regge i Galli
e ch’è nata a domar genti guerrere,
tra i lor covili più riposti ed ermi
espugnar per trastullo i mostri inermi.
Tutta la selva di scompiglio è piena, 61
chi teso l’arco a saettar s’accinge,
chi la rete racconcia e la catena,
chi la fune rallenta e chi la stringe.
Altri il can che squittisce a forza affrena,
altri, sciolto il cordon, l’irrita e spinge,
questi col rauco suon la fera sfida,
quei sovra un faggio di lontan la sgrida.
Scorre Adon la verdura, entra soletto 62
tra i più folti cespugli e scende e poggia
tanto che trova un torbido laghetto
accumulato di corrotta pioggia
e s’accosta ala costa, ove gli è detto
che gran cinghiale e spaventoso alloggia,
perché veder, perché distrugger vole
quell’animata e smisurata mole.
– Or qual ti mena a volontaria doglia, 63
fanciullo incauto, o tua sciocchezza o sorte?
Del’aspro teschio e del’irsuta spoglia
non fia giamai che’l bel trofeo riporte.
Cangia, deh cangia l’ostinata voglia,
fuggi, deh fuggi la vicina morte.
D’aver uccisa una vil fera il vanto
picciol premio fia troppo a rischio tanto. –
Parea queste parole ed altre assai 64
dicesser l’erbe a lui dintorno e i fiori,
che trar virtù da’ suoi sereni rai
soleano e da’ suoi fiati aver gli odori.
– Ritorna indietro, o folle, ove ne vai? –
Da lunge gli dicean ninfe e pastori.
–Ah torci il piè dalo spietato stagno! –
gridava Clizio, il suo fedel compagno.
– Fuggi Adon, fuggi, oimé, non esser sordo 65
al mio caldo pregar, la fera orrenda.
Di Venere i ricordi io ti ricordo,
non voler che te pianga e me riprenda,
non far che di fierezza un mostro ingordo
un mostro di beltà strugga ed offenda.
Che tu vada a cercar tanto periglio,
mi perdoni il tuo genio, io non consiglio. –
Ei nulla intende e nulla cura e dritto 66
colà sen va dove l’audacia il guida.
Capita al fatal loco ov’ha prescritto
il fine al viver suo stella omicida,
dove il ministro del mortal delitto
per corre il fior d’ogni beltà s’annida,
infausta, infame ed infelice selva
che dà ricetto al’arrabbiata belva.
Tra duo colli ch’al sol volgon le spalle 67
dense di pruni e di fioretti ignude,
nel cupo sen d’una profonda valle
giace un vallon che forma ha di palude;
e senon quanto ha solo un picciol calle
scagliosa selce in ogni parte il chiude.
Quel macigno che’l cerchia alpestro ed erto
lascia sol, bench’angusto, un varco aperto.
Quivi nel mezzo, di funeste fronde 68
ombreggiato pertutto, un lago stagna,
che con livido umor di putrid’onde
sempre sterile e sozzo il sasso bagna.
Non ha dintorno ale spinose sponde,
perché scoscese son, molta campagna,
ma breve piazza insu’l sentier si scerne,
tutta di greppi cinta e di caverne.
Non toccò mai l’abominabil riva, 69
bench’affamato e sitibondo, armento,
che l’erba e l’acqua fetida e nociva
d’assaggiar, di gustar, prende spavento.
Non sol la ninfa e’l fauno ognor la schiva,
non sol l’aborre il sole e l’odia il vento,
ma dala spiaggia immonda ed interdetta
fuggon lontano il lupo e la civetta.
Quest’è l’albergo, del cinghial non dico, 70
ma del’ira del ciel che lo produsse.
Taccia pur Calidonia il grido antico
del flagello crudel che la distrusse.
L’arabo inculto o il garamanto aprico
mostro non ebbe mai ch’egual gli fusse.
Qui s’accovaccia e dentro l’acqua nera
stassi attuffata la solinga fera.
Nel pantan che circonda un mezzo miglio 71
tra siringhe palustri il ventre adagia.
Splende nel fosco e minaccioso ciglio
d’un orribile ardor luce malvagia.
Fiaccola accesa par l’occhio vermiglio,
spruzzato ferro o stuzzicata bragia.
Calloso ha il cuoio, il fianco e’l rozzo tergo
arma di dure sete ispido usbergo.
Ossa sporge ben lunghe e di sanguigna 72
schiuma bavose il grugno, aguzze e torte,
la cui materia rigida e ferrigna
è vie più che l’acciar tagliente e forte,
onde qualor le batte e le degrigna
pria che faccia morir mostra la morte,
talché’n dubbio è chi muor, né s’assecura
se la piaga l’uccida o la paura.
Dà fiato allor subitamente al corno 73
stupido Adon d’un animal sì grosso,
onde di ninfe e di sergenti intorno
con cani e dardi un folto stuol s’è mosso.
che tentan fuor del’umido soggiorno
farlo sbucar del paludoso fosso.
D’urli confusi e di latrati insieme,
che danno anima agli antri, il bosco freme.
L’orgoglioso cinghial, che di duo numi 74
cova in seno il furor, si leva e vanne,
e, stralunando gl’infocati lumi
ed arrotando le rabbiose zanne,
fiacca intorno le spine e spezza i dumi,
fa le frasche strisciar, sonar le canne
e dele voci infuriato al grido
per cacciarsi nel bosco esce del nido.
Come quando aquilon rapido e stolto 75
rompe le sbarre e le catene scioglie
e sorgendo di Scizia in nembo folto
l’aride nubi e tempestose accoglie,
mentre gonfia soffiando il nero volto
fa le piante tremar, cader le foglie
e sferza i lidi orribilmente e spazza
tutta del mar la spaziosa piazza,
così, saltata alfin la bestia brutta 76
del fangoso canneto oltre i confini,
fa stracciata stormir la selva tutta,
scote le querce e schioma i faggi e i pini,
onde par che percossa e che distrutta
da procelloso turbine ruini;
le pietre schianta e degli antichi arbusti
sbarba i tronchi più saldi e più robusti.
Torce obliqua la testa e con più stizza 77
ch’indomito torel grugnisce e mugge
e, mentre inver la selva il corso drizza,
ciò che s’oppon tra via, sbaraglia e strugge.
Vendicarsi però di chi l’attizza
ancor non pote, ognun s’arretra e fugge.
Senza pur adoprar le zanne orrende
sol col terror degli occhi ei si difende.
Le macchie attraversando e le boscaglie 78
altrui malgrado, insuperbito passa.
Le doppie reti e le ben grosse maglie
squarciate a terra e dissipate lassa.
Corre e con l’urto abbatte aste e zagaglie,
spiedi e spunton con l’impeto fracassa.
Se guata o morde, orribile e pungente
par lo sguardo balen, fulmine il dente.
Apre le turbe e le ritorte sforza, 79
né v’ha più chi l’affronti o chi l’arresti.
Ebro di sangue il suo furor rinforza
e ne lascia in altrui segni funesti.
Superato ogni intoppo ei passa a forza
e fa fuggir que’ cacciatori e questi;
fuggono e poi da questa rupe e quella
lanciano di lontan lance e quadrella.
Ei tra la folta, omai rotta e divisa, 80
travalca i guadi e i colpi altrui non cura,
né d’un’intacco ha pur la pelle incisa,
sì soda di quel pelo è l’armatura.
I cani che’l seguiano ha conci in guisa
che ne giace più d’un per la pianura;
molti sdruciti la spietata zanna
ne lascia, altri ne squarta, altri ne scanna.
Adon che quel crudel mostro inumano 81
scorge cotanta far strage e ruina,
non sbigottisce, anzi con l’armi in mano
sen corre ad incontrar l’ira ferina.
Eccol giunto da’ suoi tanto lontano,
ecco tanto la fera ha già vicina,
quanto da forte man lentato e scarco
n’andria scoppio di fionda o tratto d’arco.
L’arco ha già stretto e la saetta ha mossa 82
e segna e tira e dove vuol colpisce;
ma così forte è dela scorza grossa
la corazza, che’l coglie e nol ferisce,
anzi vana non solo è la percossa,
ma l’irrita più molto e l’inasprisce,
e quel furor ch’ha già raccolto in seno,
cresce senza riparo e senza freno.
Imperversa accanito infra le genti, 83
oltre si scaglia e co’ mastin s’azzuffa.
Le puche dela fronte irte e pungenti
e dela pelle setolosa arruffa.
Dele picciole luci i fuochi ardenti
vibra e s’arriccia e si rabbuffa e sbuffa,
di scintille di sangue orridi lampi
par che secchino i fiumi, ardano i campi.
Non perde Adon coraggio e dà di piglio 84
al secondo quadrel ch’è vie più fino
e spera nel cinghial farlo vermiglio
perché’n Etna il temprò fabro divino.
Di Vener bella al faretrato figlio
tolto l’avea per suo peggior destino,
onde nel fiero e furioso core
s’accoppiaro due furie, Ira ed Amore.
Lo stral, che’l miglior fianco al mostro colse, 85
d’umano ardor l’alma inumana accese,
onde quando al fanciul gli occhi rivolse
che da lunge il trafisse e non l’offese,
vago del danno suo non sene dolse,
ma per meglio mirarlo il corso stese
ed ingordito di beltà sì vaga,
miracol novo, inacerbì la piaga.
Chi dunque stupirà che del fratello 86
ardesse Bibli con infame ardore?
e Mirra, di cui nacque Adone il bello,
ad amar s’accendesse il genitore?
Qual meraviglia fia che questo e quello
per la propria sua specie infiammi Amore,
se nel cor d’una fera ebbe ancor loco
sì violento e mostruoso foco?
L’animoso garzon veggendo il verro 87
che gli si gira intorno e gli s’accosta,
non monta per salvarsi olmo né cerro,
non cerca per fuggir grotta riposta,
ma gitta l’arco e del’astato ferro
gli rivolge la punta inver la costa
e sovra il guado ove la strada ha presa
intrepido si ferma ala difesa.
Prima il guinzaglio al suo Saetta allenta 88
e la lassa discioglie ornata e ricca,
loqual non si spaventa, anzi s’aventa
per l’orecchio afferrargli e’l salto spicca;
quel volge il grifo ove la presa ei tenta
e nela gola il curvo osso gli ficca;
con la zanna di sangue immonda e sozza
al coraggioso cane apre la strozza.
Ode guaire il suo fedele e gira 89
Adon le luci ov’ei si giace ucciso
e d’affetto gentil, mentre che’l mira,
informa il vago e dilicato viso.
Corre pietoso ov’anelando spira,
malvolentier dal suo signor diviso;
gli chiede aita con lo spirto in bocca,
col muso il lecca e con la zampa il tocca.
Tanto si dole Adon, tanto si sdegna 90
che giaccia estinta la sua fida scorta,
che mentre vendicarla egli disegna
vie più l’ardir che la ragione il porta.
Faccia senno o follia, che che n’avegna,
vuol che mora il crudel che gliel’ha morta,
viver non cura e pur che’l porco assaglia
non chiede al proprio cor se tanto ei vaglia.
Desperato s’appresta ala vendetta 91
tentando impresa ove valor non vale
ed espon sé, per troppo amar Saetta,
senza riscossa a volontario male.
Fassi incontro al feroce, indi l’aspetta,
pria brandisce lo spiedo e poi l’assale.
Sopra il manco si pianta e mentre il fiede
segue la destra man col destro piede.
Con la tenera mano il ferro duro 92
spigne contro il cinghial quanto più pote,
ma più robusto braccio e più securo
penetrar non poria dov’ei percote.
L’acuto acciar, com’abbia un saldo muro
ferito overo una scabrosa cote,
com’abbia in un’ancudine percosso,
torna senza trar fuor stilla di rosso.
Quando ciò mira Adon, riede in sestesso 93
tardi pentito e meglio si consiglia.
Pensa alo scampo suo se gli è permesso
e teme e di fuggir partito piglia,
perché gli scorge in risguardarlo appresso
quel fiero lume entro l’orrende ciglia
ch’ha il ciel talor, quando tra nubi rotte,
con tridente di foco apre la notte.
Fugge, ma’l mostro innamorato ancora 94
per l’istesso sentier dietro gli tiene
ed intento a seguir chi l’innamora
per abbracciarlo impetuoso viene.
Ed ecco un vento al’improviso allora,
se Marte o Cinzia fu non so dir bene,
che per recargli alfin l’ultima angoscia
gli alzò la vesta e gli scoprì la coscia.
Tutta calda d’amor la bestia folle 95
senza punto saper ciò che facesse,
col mostaccio crudel baciar gli volle
il fianco che vincea le nevi istesse
e, credendo lambir l’avorio molle,
del fier dente la stampa entro v’impresse.
Vezzi fur gli urti: atti amorosi e gesti
non le insegnò Natura altri che questi.
Vibra quei lo spuntone e gli contrasta 96
ma l’altro incontra lui s’aventa e serra,
rota le zanne infellonito e l’asta
che l’ha percosso e che’l disturba afferra
e di man gliela svelle e far non basta
Adone alfin che non sia spinto a terra.
L’atterra e poi con le ferine braccia
il cinghial sovra lui tutto si caccia.
Tornando a sollevar la falda in alto 97
squarcia la spoglia e dala banda manca
con amoroso e ruinoso assalto
sotto il vago galon gli morde l’anca,
onde si vede di purpureo smalto
tosto rubineggiar la neve bianca.
Così non lunge dal’amato cane
lacero in terra il meschinel rimane.
O come dolce spira e dolce langue, 98
o qual dolce pallor gl’imbianca il volto!
Orribil no, ché nel’orror, nel sangue
il riso col piacer stassi raccolto.
Regna nel ciglio ancor voto ed essangue
e trionfa negli occhi Amor sepolto
e chiusa e spenta l’una e l’altra stella
lampeggia e morte in sì bel viso è bella.
Tu, Morazzon, che con colori vivi 99
moribondo il fingesti in vive carte
e la sua dea rappresentasti e i rivi
del’acque amare da’ begli occhi sparte,
spira agl’inchiostri miei di vita privi
l’aura vital dela tua nobil’arte
ed a ritrarlo, ancor morto ma bello,
insegni ala mia penna il tuo pennello.
Arsero di pietate i freddi fonti, 100
s’intenerir le dure querce e i pini
e scaturir dale frondose fronti
lagrimosi ruscelli i gioghi alpini.
Pianser le ninfe ed ulular da’ monti
e da’ profondi lor gorghi vicini,
driadi e napee stempraro in pianto i lumi,
quelle ch’amano i boschi e queste i fiumi.
V’accorse Clizio ed al soccorso seco 101
venne, ma’ndarno, intempestiva gente,
ch’ad appiattarsi in solitario speco
sen gio la fera e sparve immantenente.
Così lupo ladron per l’aer cieco,
poi ch’ha nel gregge insanguinato il dente,
ricoverto dal vel del’ombra fosca
serra al ventre la coda e si rimbosca.
Dove, Venere bella, ahi! dove sei? 102
e dove son le tue promesse tante,
quando lassù nel regno degli dei
per rincorar lo sbigottito amante,
dicesti, ch’a placar gl’influssi rei
di quel pianeta irato e minacciante
bastava un sol de’ tuoi benigni sguardi?
or ecco i detti tuoi falsi e bugiardi.
Ecco come a schivar prefissa morte 103
poco giova consiglio incontro al fato
e’l furor mitigar di stella forte
mal può di luce amica aspetto grato.
Così vuol chi’l destin regge e la sorte,
sotto sì fatte leggi il mondo è nato.
Ma tu, lassa, che fai? perché non riedi
a tor piangendo gli ultimi congedi?
Era senza colui che l’innamora 104
ogni piacer di Venere imperfetto,
ch’amor e gelosia moveanle ognora
gran lite di pensier nel dubbio petto;
a cui la notte imaginosa ancora
raddoppiava timor, crescea sospetto,
però che con sembianza infausta e ria
Adon, ne’ suogni suoi, sempre moria.
Fioria tra molti che n’avea Citera 105
un favorito suo mirto felice.
Questo di più per man crudele e fera
tronco mirò dal’ultima radice;
dimanda il come e la dogliosa schiera
dele driadi piangenti alfin le dice
che con tartarea e rigida bipenne
l’empia megera ad atterrarlo venne.
Nel’ora che calando al’oceano 106
quasi ogni stella in occidente è scorsa,
onde, restando in ciel solo e lontano
impallidisce il guardian del’orsa,
la bella dea, che si distrugge invano
da mille acute vipere rimorsa,
dopo lungo pugnar col suo desio
concesse gli occhi ad un profondo oblio.
Ed ecco in questi torbidi riposi 107
tra le notturne e mattutine larve
con occhi, ahi quanto oscuri e lagrimosi,
del bell’idolo suo l’ombra l’apparve.
Cotal non già, qual ne’ giardini ombrosi
quando in Cipro il lasciò, vivo le parve;
sconciamente ferito e’n vista essangue,
dal bel fianco piovea gorghi di sangue.
La chioma il cui fin or più d’una volta 108
dele glebe del’Indo il pregio ha vinto,
squallida, bruna e bruttamente incolta
l’usato suo splendor le mostra estinto.
Il viso, ov’ogni grazia era raccolta,
dela notte d’averno è sparso e tinto
e macchiato del fumo è d’Acheronte
il chiaro onor dela superba fronte.
Poiché di lui ch’avea nel cor ritratto 109
la nota effigie riconobbe apena,
– Ahi qual altrui perfidia o tuo misfatto
(gridò), qual fato a tanto duol ti mena?
E dond’avien che sì dolente in atto
conturbi del mio ciel l’aria serena?
Se’ tu’l mio Adone? o da fallaci forme
deluso il tristo cor vaneggia e dorme?
Dunque in preda mi lasci a pianto eterno? 110
dunque iniquo destin tanto ha potuto?
Ti rapì forse in cielo o nel’inferno
per amor Giove o per invidia Pluto?
Rispondi o caro mio; perché ti scerno
in tanta afflizion tacito e muto?
Dove son, mia dolcezza e mio tesoro,
le parole di mele e i motti d’oro?
Dove degli occhi le pietose faci, 111
che furo il faro al’alte mie procelle?
Adon, se morto sei, morto mi piaci,
tue bellezze per me fien sempre belle.
Cotesto sangue io suggerò co’ baci,
t’arderò co’ sospir cento facelle,
purché morto ancor m’ami e non ti spiaccia
aver la tomba tua tra le mie braccia. –
Risponde: – È questo, oimé, crudele amica, 112
quanto dal vostro amor sperar mi deggio?
così s’oblia quel’alta fede antica
ch’avrà mai sempre in questo petto il seggio?
Voi qui tra giochi e balli, ond’a fatica
vi tragge il sonno or occupata io veggio
e, le miserie mie curando poco,
più non vi risovien del nostro foco.
Deh, se non fredda intutto entro il cor vostro 113
vive di tanto ardor qualche scintilla
e se pur l’esser dea del terzo chiostro
amorosa pietà nel sen vi stilla,
volgetevi a mirar qual io vi mostro
la faccia un tempo già lieta e tranquilla
e qual di furiali aspre catene
duro groppo mi stringe e mi ritiene.
Poiché pur al mio strazio acerbo ed empio 114
negan l’aita vostra i fati rei
e d’ogni altro amator misero essempio
più non deggio goder quelch’io godei,
tornate almeno a riveder lo scempio
che fè crudo cinghial de’ membri miei.
Pregovi sol che non vogliate ancora
che di tormento un’altra volta io mora.
S’Atropo ha rotto insu’l rotar del fuso 115
il fil del’ore mie ridenti e liete
ed al’ombre del’orco, ov’io son chiuso,
dato m’ha prigionier, deh! non piangete,
poiché de’ vostri amori anco laggiuso
fia ch’io sempre mi glori in riva a Lete.
Uom più viver non dee cui tanto lice
e, morendo per voi, moro felice.
A dio, mi parto, ir mi convien fra l’alme 116
il cui pianto a pietate altrui non piega. –
Così dicendo le tremanti palme
tender si sforza e’l duro ferro il nega,
il duro ferro che d’indegne salme
con tropp’aspro rigor le man gli lega.
A quel moto, a quel suon di ferri scossi
sciolsesi il sonno e Citerea destossi.
Da quella vision tremenda e fiera 117
sbigottita si leva e nulla parla.
Ben si consola assai che non fu vera,
duolsi sol ch’ei svanì senza abbracciarla.
Esce là dove la festiva schiera
sta di mille ministri ad aspettarla
e mentre che le fan folta corona
le ninfe citeree, così ragiona:
– Già vosco in questa a me terra diletta 118
indugiar più non posso, o fide mie.
Già la custodia del mio ben m’aspetta
e mi richiama ale magion natie.
Troppo del’altru’ invidia il cor sospetta
non mel vada a furar per mille vie.
L’onda del mar dala rapace arsura
de’ ladroni d’amor non m’assecura.
Volgo, né molto in alcun dio mi fido, 119
di certo danno opinioni incerte.
Temo non abbia dela Fama il grido
de’ miei secreti le latebre aperte
e l’orme già nel più riposto nido
del mio dolce deposito scoverte.
Cipro di tanto ben non è capace
e’l mio crudo figliol troppo è sagace.
Le fere altrove con acuto strale 120
il bell’Adone a saettare intende.
Qui, lassa, a me d’antiveduto male
dardo vie più pungente il petto offende;
ei con veltri mordaci i mostri assale,
del cui forte abbaiar diletto prende,
io da più fieri can d’aspro tormento
che mi latrano al cor, morder mi sento.
Ahi! ben nela stagion fosca e tranquilla 121
posan le membra insu l’agiate piume;
il cor non già che si distrugge e stilla
povero d’altro sole e d’altro lume.
Al primo suon dela diurna squilla
le palpebre appannar talor presume.
Quando le luci che dormir mal ponno
al pianto aprir devrei, le chiudo al sonno.
E’l sonno, il sonno ancor pietoso anch’esso 122
del’amorose mie penaci cure
qualche raggio del ver mi mostra spesso
tra l’ombre sue caliginose e scure
e del mio ben visibilmente espresso
in sanguinose e pallide figure
con sollecito orror che mi spaventa
simulacri talor mi rappresenta.
Giorno non è che con infauste cose 123
non mi minacci alcun prodigio tristo.
Deh! quante volte l’intrecciate rose
per sestesse cader dal crin m’ho visto?
e quante scaturir dal’amorose
poppe insieme col latte il sangue misto?
La mano il petto involontaria offende
e malgrado degli occhi il pianto scende.
Mi sembra il lieto applauso urlo funesto 124
e le cetre per me non son canore;
non so che d’infelice e di molesto
misera me, mi presagisce il core.
Col sol che sorge a dipartir m’appresto,
troppo lunghe fur qui le mie dimore;
prima al ciel che m’attende e poi gir deggio
a riveder colui che sempre veggio. –
Detto così, spalma il bel carro e poi 125
per l’aura oriental la sferza scote
e l’auree nubi de’ confini eoi
rompendo va con le purpuree rote.
Ma pur lassa in andando aver co’ suoi
travagliati pensier tregua non pote
ed ondeggiando ognor tra questi e quelli
vola assai più con lor che con gli augelli.
– Oimé, dunque il mio ben (dicea tra via) 126
in lochi malsecuri e perigliosi
ad ogn’incontro di fortuna ria
solo ed a mille rischi in preda esposi?
Ebbi core, o mio core, anima mia,
di lasciarti tra mostri empi e rabbiosi?
nemici di pietà, mostri arrabbiati,
ma molto men di me crudi e spietati.
E forse apunto allora intenta io m’era 127
ne’ giochi a trastullarmi e nele feste
quando devevi tu, gioia mia vera,
con la morte scherzar per le foreste.
Ben mi staria ch’avesse alcuna fera
tinte nel sangue tuo l’unghie funeste.
Ben per un fallo inescusabil tanto
giusta pena mi fora eterno pianto.
Deh! sarà ver ch’ancor tra queste braccia 128
stringer ti possa un’altra volta mai?
degg’io più ribaciar la cara faccia?
rivedrò de’ begli occhi i dolci rai?
Begli occhi, ahi qual timore il cor m’agghiaccia,
vi troverò quai dianzi io vi lasciai?
O spenta è forse pur la luce vostra,
sicome il sogno orribile mi mostra?
Sospesa sto tra lo spavento e’l duolo, 129
nulla più mi rallegra, il tutto io temo.
Su suso, augelli, accelerate il volo
ch’omai la notte è sul confine estremo.
Fugata l’ombra e rischiarato il polo
tosto a specchiarci in altro sole andremo. –
In tal guisa illustrando il mondo cieco
Venere bella si lagnava seco.
Così dubbia tra sé la madre ircana 130
spesso ha de’ propri danni il cor presago,
qualor cercando ai figli esca lontana
torce il passo da lor ramingo e vago,
temendo pur nela sassosa tana
fiero non entri a divorargli il drago
o pur furtivo intanto il piè non mova
l’astuto armeno a saccheggiar la cova.
Già di Citera ala magion celeste 131
la bella dea d’amor facea ritorno.
Già di rose e di perle inun conteste
s’avea’l crin biondo e’l bianco seno adorno;
e mentre il chiaro dio che spoglia e veste
d’ombra la terra e di splendore il giorno
stracciava dela notte il bruno velo,
l’ultime stelle accommiatava in cielo.
L’Aurora intanto che dal suo balcone 132
gli umidi lumi abbassa ala campagna,
vede anelante e moribondo Adone
ch’ancor con fievol gemito si lagna.
Vede che’l duro fin del bel garzone
ogni ninfa con lagrime accompagna
e che tutte, iterando il dolce nome,
battonsi a palme e squarciansi le chiome.
Diceano: – È morto Adone. Amor dolente, 133
or che non piagni? Il bell’Adone è morto.
Empia fera e crudel col duro dente,
col dente empio e crudel l’uccise a torto.
Ninfe, e voi non piangete? Ecco repente
Adon vostro piacer, vostro conforto,
lascia del proprio sangue umidi i fiori.
Piangete, Grazie, e voi piangete Amori.
Giace Adone il leggiadro, Adone, il vanto 134
di queste valli, in grembo al’erba giace
pallidetto e vermiglio. Il riso, il canto
lasciate, o Muse. Amor, spegni la face.
Piangete Adone, Adon degno è di pianto,
sbranato da cinghial crudo e vorace.
Adone, il nostro Adone or più non vive.
Piangete, o fonti e lagrimate, o rive.
Pianga la bella dea l’amante amato 135
se pur quaggiù dala sua sfera il mira.
Non più la bacia no, non più l’usato
sguardo soave in lei pietoso gira.
Più del mostro omicida ha il cor spietato
se’l caro Adon non piange e non sospira;
stilli in lacrime gli occhi afflitti e molli.
Piangete, o selve e rispondete, o colli.
Misero Adon, tu, pien di morte il viso, 136
versi l’anima fuor languido e stanco.
Porta piagato a un punto e porta inciso
Venere il core, il bell’Adone il fianco.
Il fianco, oimé! del bell’Adone ucciso
più del dente che’l morse è bello e bianco.
Raddoppiate co’ pianti alto i lamenti.
Piangete, o fiumi e sospirate, o venti.
Cani infelici, il vostro duce caro 137
freddo su l’erba e lacerato stassi:
piangete Adone e di latrato amaro
empiete i muti boschi, i cavi sassi.
Boschi, un tempo felici, or per avaro
destin rigido e rio dolenti e lassi,
già lieti e chiari, or dolorosi e foschi,
piangete, o sassi e risonate, o boschi. –
Così piangean le sconsolate e fora 138
uscia d’alti sospir misto il lamento.
A sì tristo spettacolo l’Aurora
stille versò di rugiadoso argento,
com’ella per pietà volesse ancora
piangendo accompagnar l’altrui tormento;
e stupida d’un mal tanto improviso
subito a Citerea ne diede aviso.
– Lascia o dea (le dicea) deh! lascia omai 139
di rotar l’orbe tuo che più non splende.
Non vedi tu laggiù, scendi, che fai?
di morte e di dolor sembianze orrende?
Cingi il bel crin, non più di rose e rai,
d’alti cipressi e di funeste bende.
Tempo non è da far per la via torta,
mentre il tuo sol tramonta, al sol la scorta. –
Non così d’Euro ale gagliarde scosse 140
trema in alto Appennin pianta novella
come al’annunzio orribile si mosse
d’accidente sì rio la dea più bella.
Fermò, vinta dal duol che la percosse,
il suo corpo, il suo cerchio e la sua stella.
Stupì, morì, fu dal mortal dolore
suppresso il pianto e s’ingorgò nel core.
Ma poich’al’ira impetuosa il duolo 141
cesse e potè del petto il varco aprire,
parte volta ale stelle e parte al suolo,
prese altamente in questa guisa a dire:
– Or qual, vivo colui che regge il polo,
ebbe tanto poter, terreno ardire?
regna il mio sommo padre? o pur insani
signoreggiano il ciel gli empi titani?
Rotte forse le rupi ha d’Inarime 142
con l’altera cervice il fier Tifeo?
da Vesevo, il cui giogo ancor l’opprime,
risolleva la fronte Alcioneo?
dale valli d’abisso oscure ed ime
fulminato risorge or Briareo?
o d’Etna in Cipro pur si riconduce
a rivedere Encelado la luce?
Non già non mi produsse in bosco o in fiume 143
di deità plebea rustica schiatta.
Siam progenie ancor noi di quel gran nume,
che del fulmine eterno il foco tratta.
Chi mie ragion di violar presume?
Ogni legge del ciel dunque è disfatta?
Che stragi, oimé! che strazi empi son questi?
chiudon tanto furor l’alme celesti?
Ingiustissimo ciel, di lumi indegno, 144
degno di ricettar sol ne, tuoi chiostri
simili apunto a quel ch’oggi il suo sdegno
nel mio bene ha sfogato, infami mostri.
Tiranni iniqui del’etereo regno,
ecco pur appagati i desir vostri.
O quanto a torto a voi gl’incensi accende
lo schernito mortale e i voti appende.
Già non osò con voglie a voi rubelle 145
quel mio, che colaggiù morto si piagne,
per assalir, per espugnar le stelle
fabricar torri o sollevar montagne.
Già non tentò con quella mano imbelle,
sol fere usa a domar per le campagne,
sovra l’umana ambizione altero
d’usurparvi l’onor, torvi l’impero.
Vanne ai templi di Scizia il tuo digiuno 146
d’uman sangue a sbramar, Giove rabbioso.
Qual fu la colpa? in che t’offese o Giuno
quell’innocente essangue e sanguinoso?
Chiedea forse arrogante ed importuno
gli abbracciamenti del tuo ingordo sposo?
Anzi umilmente e senza alcuno orgoglio
vivea romito in solitario scoglio.
Ma che gli valse, oimé? Non può celarsi 147
da maligno livor somma beltate;
or d’ogni vostro ben superbi e scarsi.
trionfando di me, lassù regnate. –
Poich’ella ha questi detti al’aria sparsi,
per le piagge del ciel fresce e rosate
portata dala gemina colomba
velocissimamente a terra piomba.
Ecuba con tal rabbia in Troia forse 148
n’andò latrando infuriata e folle,
quando lasciar la bella figlia scorse
il greco altar del proprio sangue molle;
e tal mi credo in Babilonia corse
la donna che regnar per fraude volle,
con una treccia sciolta e l’altra avinta,
con una poppa avolta e l’altra scinta.
Da lunge udì del giovane meschino 149
e dele ninfe la pietosa voce
e col timon precipitoso e chino
gli augei corsieri accelerò veloce.
Ma quando a rimirar vien da vicino
l’opra spietata del cinghial feroce,
colà si lancia ed incomposta e scalza
dal,aureo carro insu la riva sbalza.
Salta dal’aria e vede apertamente 150
Adone a duro termine condotto.
Vede dala lunata arma pungente
il vago fianco fulminato e rotto,
e’l bel collo su gli omeri cadente
e la bocca che langue e non fa motto,
e’n veggendo serrar luci sì vaghe
sente aprirsi nel cor profonde piaghe.
De’ begli occhi sereni il puro raggio 151
folto nembo di lagrime coverse.
O qual onta ale guance o qual oltraggio
fece ale chiome innannellate e terse!
Stracciolle e del bel viso il vivo maggio
di vivo sangue ed immortale asperse
ed ai caldi sospir lentando il freno
con man s’offese ingiuriosa il seno.
Tosto si gitta insu’l bel corpo e come 152
forsennata e baccante il grido scioglie;
gli dislaccia la veste, il chiama a nome,
gli ricerca la piaga e’n braccio il toglie.
Poi le sanguigne e polverose chiome
con gli occhi lava e con le man raccoglie
e del costato i tepidi rubini
terge con l’or de’ dissipati crini.
La bella man ch’abbandonata e stanca 153
rade il suol con le dita e i nodi allenta,
dentro la neve tepidetta e bianca
del’una e l’altra sua stringe e fomenta
e’n lei quel moto e quel calor che manca
di svegliar, d’aiutar s’ingegna e tenta.
Su lo smorto garzon s’inchina e piega,
lo scote, il preme e di parole il prega.
L’un con muto parlar pietà chiedea 154
profondissimamente sospirando.
L’altra con gli occhi pur gli rispondea
amarissimamente lagrimando.
– Oimé! che veggio? È questi Adon? (dicea);
chi ti ferì? come t’avenne? e quando?
chi fu, nettare mio? chi fu il crudele
che le dolcezze tue sparse di fiele?
Qual crudo mostro, oimé! qual mano ardita 155
tanta licenza a danni miei si prese?
Come ogni asprezza sua, dolce mia vita,
in te non raddolcì fatta cortese?
Ahi che ferì duo petti una ferita,
nela tua morte la mia vita offese.
Quel tuo sangue è mio sangue e quel tormento
ch’afflige il corpo a te, nel’alma io sento.
Non ti diss’io: «Di seguitar, deh lassa! 156
per inospite balze orme ferine,
ch’a guisa di balen che vola e passa
correrai tosto ad immaturo fine?»
Stato pur fusse il mio presagio, ahi lassa!
bugiardo in augurar tante ruine,
ch’essangue il tuo bel volto or non vedrei
miserabile oggetto agli occhi miei.
O troppo dele fere aspro seguace 157
ed ai consigli miei credulo poco,
quant’era il meglio tuo startene in pace
ne’ miei giardini ov’è perpetuo gioco?
Or il trofeo dela tua caccia audace
fia la perdita sol del mio bel foco.
Sventurata beltà, come in un punto
del tuo corso vitale il fine è giunto.
Dunque andran quelle luci innamorate 158
nel sen di morte a suscitar gli amori?
quelle man bianche e quelle chiome aurate
ad imbiancare, ad indorar gli orrori?
quelle labra fiorite ed odorate
dentro le tombe a seminare i fiori?
Dunque andrà lo splendor di quel bel viso
a portar negli abissi il paradiso?
O miei veri sospetti, o troppo veri 159
sogni temuti, or ben il dubbio intendo.
Or de’ prodigi spaventosi e fieri
il gran mistero e la cagion comprendo.
Ecco come indovini i miei pensieri
veraci fur del’accidente orrendo.
Ciò che previsto fu, ciò che predetto
da Mercurio e da Proteo, ha pur effetto.
Deh qual furia mi trasse? e quale errore 160
mi fece ogni dever porre in oblio,
quando per vana ambizion d’onore
solo qui ti lasciai nel partir mio?
Questa fu la mia fè, questo l’amore?
Di te dunque e di me tal cura ebb’io?
Non s’incolpi del danno iniqua sorte,
frutto del mio fallire è la tua morte.
Adone Adone, o bell’Adon, tu giaci 161
né senti i miei sospir, né miri il pianto.
O bell’Adon, o caro Adon, tu taci,
né rispondi a colei ch’amasti tanto.
Lasciami lascia imporporare i baci,
anima cara, in questo sangue alquanto.
Arresta il volo, aspetta tanto almeno
che’l mio spirto immortal ti mora in seno.
Accosta accosta al contrafatto volto, 162
misera dea, la faccia e gemi e plora
e s’alcun peregrin spirito accolto
tra quell’aride labra ancor dimora,
s’alcun tepido bacio a morte tolto
nela bocca gentil palpita ancora,
coglilo e finché’n pianto il cor si stempre
l’imagin del tuo ben bacia per sempre. –
Con semirotti e singhiozzati accenti 163
la dea del terzo ciel così si dole,
ma tanto il duol s’avanza infra i lamenti
che le lega la lingua e le parole.
Alza la fronte e i pigri occhi dolenti
già vicino al’occaso il suo bel sole,
ma vacilla lo sguardo e sparge insieme
l’alma dal petto e queste voci estreme:
– Fa forza al duolo, o mia fedele, e stendi 164
la mano alquanto ala mia man (le dice)
prendi quest’arco infortunato e prendi
questa faretra mia poco felice.
Poi l’uno e l’altra al sacro tempio appendi
dela dea boschereccia e cacciatrice.
Fa che restin per sempre ivi sospesi
con l’armi infauste i malvestiti arnesi.
Eccomi al passo ove convien purch’io 165
scenda laggiù tra gli amorosi spirti
doppiando a Stige ardor con l’ardor mio,
crescendo ombra con l’ombra ai verdi mirti,
Ma ciò ben mi si dee, che fui restio,
e perdon tene cheggio, ad ubbidirti.
Arma tu di costanza il petto franco
meglio ch’io non armai di strali il fianco.
Io, poiché dale stelle è già prescritto 166
irretrattabilmente e dagli dei
che da crudo animal deggia trafitto
oggi morir sul fior degli anni miei,
cedo al destin, né in tale stato afflitto
più, se potessi ancor, viver vorrei.
E qual mai più, vivendo, avrei conforto
se’l mio caro Saetta a piè m’è morto?
Ma pria che gli occhi addolorati e mesti 167
chiuda a quel sol che’n forte punto io vidi,
vo’ che l’ultimo dono almen ti resti:
gli altri cani ti lascio, amati e fidi.
Altro or non ho che questi crini, e questi,
pregoti, accetta e di tua man recidi
e serbagli per lui che’l cor ti diede,
reliquie di dolor, pegni di fede.
Tu, se vivrà l’amor dopo la vita, 168
cura che le mie spoglie altri non tocchi
e che vil mano in alcun tempo ardita
arco de’ miei non tenda o stral non scocchi. –
Qui gli manca la voce indebolita
e di grave caligine i begli occhi
opprime sì, ch’aprir più non si ponno,
dela notte fatal l’ultimo sonno.
Su’l bel ferito la pietosa amante 169
altrui compiange e semedesma strugge,
e sparge, lassa lei, lagrime tante
e con tanti sospir l’abbraccia e sugge
che par già d’or in or l’alma anelante
voglia fuggir dove l’altr’alma fugge.
In cotal guisa al’implacabil pena
mentre cerca alleggiarla, accresce lena.
Fur viste arboreggiar l’erbe minute 170
intorno a quel cadavere gentile,
perché volse di lor così cresciute
fargli la bara ambizioso aprile.
Fama è che l’aspre querce e l’elci irsute
incurvaro le braccia in atto umile,
dov’ei spirava ancor tra i funerali
spirti amorosi almen, se non vitali.
I cani istessi di pietate accesi, 171
raro essempio di fè dopo la morte,
presso il caro signore a terra stesi
con un flebil latrar si doglion forte;
e d’ogni atto amorevole cortesi
ne’ casi ancor dela sinistra sorte,
emuli in ciò di Venere infelice,
van lambendo a baciar la cicatrice.
Ma ceda ogni altro duolo a quella doglia 172
ch’ala bella Ciprigna il petto punge.
Ella agli occhi d’Adon, pur come voglia
compartir lor la luce, i suoi congiunge
e l’insensata e semiviva spoglia
del balsamo d’amor condisce ed unge
e col volto di lui si stringe tanto
che non dà loco alo sgorgar del pianto.
Su la guancia di fior di fiamme priva 173
tepida vena e lagrimosa versa
e’l color e’l calor desta e raviva
ch’involando ne va morte perversa.
Non sai dir s’egli estinto o s’ella è viva,
sì poco hanno tra lor forma diversa;
né discerner si può qual viva e spiri
senon solo ne’ pianti e ne’ sospiri.
Chi vide mai di nube in spesse stille 174
la pioggia che col lampo a un tempo cade,
tal temprata d’umori e di faville
imagini tra sé quella beltade.
E mentr’apria tra mille fiamme e mille
ruscelletti di perle e di rugiade,
in atti mesti e gravi si dolea,
qual deve amante e qual conviensi a dea.
L’umide luci in prima al ciel rivolse, 175
poscia a terra chinolle e’n lui l’affisse.
Lo spirto tutto in un sospiro accolse
e sospirò perché lo spirto uscisse.
Alfin la lingua dolorosa sciolse
in dolci note amaramente e disse:
– Misera! – ma sì largo il pianto abonda,
che sommerge la voce in mezzo al’onda.
– Misera (indi ripiglia) ed è pur vero 176
che si giri lassù stella sì cruda?
Or godi, invido sol, vattene altero
che’l bel’emulo tuo le luci chiuda.
Poco era in braccio al getico guerriero
avermi a tutto il ciel mostrata ignuda,
se’n strana ecclisse e’n fiero aspetto e duro
non mi mostravi il mio bel sole oscuro.
Sei tu, dimmelo Adon, l’idol mio caro? 177
Tant’osa e tanto può morte superba?
Dov’è dele tue stelle il lume chiaro?
a che fiera tragedia il ciel mi serba?
O già sì dolce, or dolcemente amaro,
com’ogni mia dolcezza hai fatta acerba!
Ben a Mirra sei tu simile intutto,
nato d’amara pianta amaro frutto.
Io per me giurerei che per dispetto 178
là nel foco di Stige e di Cocito
quell’arco tuo malnato e maledetto
temprato fu dal mio crudel marito.
E quel cinghial che t’ha squarciato il petto
di Cipro no, ma del’inferno uscito,
tutta entro a sé di Cerbero la rabbia
e’l furor dele Furie io credo ch’abbia.
Ma volse forse la malvagia fera 179
de’ tuoi chiusi pensier costanti e fidi
e dela fiamma tua pura e sincera
curiosa spiar gl’interni nidi.
Ah che farmi vedere uopo non era,
ché chiaro ognor ne’ tuoi begli occhi il vidi,
per mostrarmi il tuo amor securo e certo,
sviscerato il bel fianco e’l core aperto.
Di non poter cangiar sol mi querelo 180
col ciel l’abisso e n’ho cordoglio ed ira.
Ma come vesto incorrottibil velo
se l’alma mia per la tua bocca spira?
se la felicità ch’io godo in cielo
pende dal moto ch’i tuoi lumi gira
e la mia deità te solo adora,
com’esser può ch’io viva e che tu mora?
Morte, o del’inferno arpia rapace, 181
come sempre per uso il meglio furi;
qualunqu’altro ladron rubando tace
e cela i furti suoi negli antri oscuri;
tu di tue prede alteramente audace
ti glori e di nasconderle non curi,
anzi ne fai con mill’applausi e mille
cantar inni, arder lumi e sonar squille.
Lassa, ch’io ben vorrei l’alta rapina 182
torre al’artiglio tuo sozzo ed infame
e racquistar questa beltà divina,
troppo bell’esca a sì voraci brame.
Ma legge irrevocabile destina
che non s’annodi mai spezzato stame
e, voto il fuso e la conocchia scarca,
il filo venir men veggio ala Parca.
Gran padre, or tu che su’l gran trono assiso 183
hai dele cose universal governo,
poscia ch’hai tanto ben da me diviso,
rompi le leggi del destin superno.
L’invida man ch’ha quel bei fil reciso,
perché l’attorce ala mia vita eterno?
perché per dura ed immutabil sorte
mortalar l’immortal non può la morte?
O perché di sorbir non m’è concesso 184
in cima a un bacio o in un sospiro accolta
una morte medesma entro l’istesso
labro ove l’alma mia vive sepolta?
Impotente dolor, poiché per esso
non può dal vital nodo esser disciolta.
Ahi che troppo contraria al bel desire
questa immortalità mi fa morire. –
Con quel poco di spirto che gli resta 185
di Ciprigna i lamenti Adone udia,
né potend’altro, in flebil voce e mesta
dir le volea: – Mia vita, anima mia. –
Ma sprigionata l’anima con questa
parola aperse l’ali e volò via;
e dala bocca essangue e scolorita
in vece di – Mia vita – uscì la vita.
Uscì sdegnosa e quasi svelta a forza 186
dela cara magion poco abitata,
lasciando pur malvolentier la scorza
l’alma di sì bel corpo innamorata.
Mentre de’ chiari lumi il foco ammorza,
impietosisce ancor Morte spietata,
e sentendo scaldarsi il cor di ghiaccio
per volerlo baciar lo stringe in braccio.
Volse le labra allor la bella diva 187
con le labra compor pallide e smorte
per impedir al’alma fuggitiva
forse l’uscita e chiuderle le porte
e per raccor qualche reliquia viva
del dolce che furando iva la morte.
Misera! ma trovò secchi e gelati
negli aneliti estremi i baci e i fiati.
Lasciandosi cader fra cento e cento 188
ninfe che’n mesto e lagrimoso coro
facean co’ gridi un tragico lamento
e con le palme un strepito sonoro,
da’ begli occhi spargea fila d’argento
e da’ laceri crini anella d’oro;
né per altra beltà fu giamai tanto
bello il dolore e prezioso il pianto.
Mille piccioli Amori a trecce a trecce, 189
quasi di vaghe pecchie industri essami,
segnando nelle rustiche cortecce
l’infortunio crudel, gemon tra’ rami;
e sfaretrati e con spuntate frecce,
rotte le reti d’or, sciolti i legami,
gittate a terra fiaccole e focili,
fanno ale triste essequie ossequi umili.
Chi delle belle lagrime di lei 190
spruzza le penne e chi le labra asperge.
Chi nel’umor di que’ begli occhi rei
tempra gli strali e chi gli arrota e terge.
Chi disdegnando omai palme e trofei
la facella immortal dentro v’immerge.
Chi mentr’ella il bel crin si svelle e frange,
tutto fermo insu l’ali, ascolta e piange.
Altri da terra le spezzate ciocche 191
coglie de’ sottilissimi capelli.
Altri n’avolge le dorate cocche,
altri ricco cordon tesse di quelli.
Vanno a baciar le languidette bocche
or di questa or di quel molti fratelli.
Ufficiosi ancor molti e dolenti
volano intorno a varie cure intenti.
Qual su la guancia di squallor dipinta 192
stilla d’acque odorate un largo fiume.
Qual su i begli occhi, la cui luce tinta
d’ombra mortal, mendica è già di lume,
per suscitar qualche favilla estinta
o di vita o d’amor batte le piume.
Altri mentr’egli more ed ella langue
asciuga al’una il pianto, al’altro il sangue.
Con gli Amori piangean le Grazie anch’elle, 193
quando rivolto in lor l’afflitto ciglio,
Venere a sé chiamando una di quelle,
ratto mandolla a ricercar del figlio.
Piega il ginocchio Aglaia e dale belle
compagne di partir prende consiglio;
ma dubbiosa e sospesa il passo move,
ché trovarlo vorria né sa ben dove.
Mira e rimira il ciel, la terra e’l mare, 194
poiché per tutto Amor l’ali distende,
se del fiero fanciul vestigio appare,
ma del loco ove sia nulla comprende.
Allor da terra inver l’eccelse e chiare
region del’Olimpo in alto ascende
e’l trova alfin colà sovra i superni
poggi celesti infra i begli orti eterni.
Stavasi Amor delo stellato mondo 195
sotto un mirto fiorito entro i giardini
e duo d’aspetto amabile e giocondo
coetanei fanciulli avea vicini.
L’un che fu dele nozze autor fecondo,
di verde persa attorto i biondi crini,
d’aureo socco calzato, era Imeneo,
vago figlio d’Urania e di Lieo.
L’altro era quei ch’al regnator sovrano 196
porge il licor divino in cavo smalto.
Facean tra sé costoro un gioco estrano
e movean con le dita un strano assalto.
Or le palme stringeano, or dela mano
gittavan parte e sosteneano in alto
e quinci e quindi i numeri per scherzo
la sorte a un tempo essercitava in terzo.
Era dela contesa arbitro eletto 197
Como, dio de’ conviti e dele feste,
Como inventor del riso e del diletto,
piacer d’ogni mortal, d’ogni celeste.
E s’eran vari premi al suo cospetto
proposti già da quelle parti e queste;
recata avea di rose una corona
l’abitator di Pindo e d’Elicona.
Di nettare purpureo urna capace 198
è il pegno ch’assegnato ha Ganimede.
Amor, ch’è nudo e fuorché strali e face
cosa non ha, ma vive sol di prede,
preso ala rete sua dura e tenace
promette al vincitor spoglia e mercede:
indico augel che di smeraldo e d’ostro
ha fregiata la piuma e tinto il rostro.
E già vittorioso alfin rimaso 199
facea di gridi risonar le sfere
e’nsuperbito di sì lieto caso,
per tutto dibattea l’ali leggiere;
indi postosi a bocca il dolce vaso
tutto votollo e già fornia di bere,
quando a lui s’accostò dogliosa e bella
di Citerea la messaggiera ancella.
Come le fu nel’ambasciata imposto, 200
in disparte il tirò dal’altra gente,
né gli ebbe apieno il fier successo esposto
ch’ogni sua gioia intorbidò repente.
– Vienne, non più tardar, vientene tosto
a confortar la misera dolente,
dico la madre tua, ch’uopo ha d’aiuto,
o d’ogni forza espugnator temuto. –
Il fin di questo dir non ben sostenne 201
l’impaziente e curioso arciero.
Apena incominciò che la prevenne
senza intender distinto il fatto intero,
ed – O (squassando per furor le penne)
olà chi fu? Non mi negare il vero,
chi fu (proruppe) ardito? o chi mai fia
d’addolorar la genitrice mia?
Contro il ciel, contro il mondo e contro Giove 202
armar giuro la destra e mover guerra.
Rivestito il farò di piume nove
novi amori a furar scender in terra,
farollo ancor, se punto ira mi move,
con quella man che’l folgore disserra,
dagli stimoli miei punto ed offeso
gir solcando l’Egeo sott’altro peso.
Se fia Saturno del suo duol cagione 203
vecchio maligno e neghittoso e tardo,
l’udrai nitrir fra i regi armenti e sprone
al fianco gli sarà quest’aureo dardo.
Se di Cillene il volator ladrone
vela d’amara nebbia il dolce sguardo,
ecco in Atene or or tel dò ferito,
né l’arte gli varrà dela sua Pito.
Se da Pallade nasce il suo cordoglio, 204
fia con Vulcan ricopulata insieme
e la lutta quassù rinnovar voglio
onde già cadde il mostruoso seme.
Né delo dio ferrato il vano orgoglio,
la fierezza o l’orror per me si teme,
ché, benché cinto di diaspro e marmo,
sa ben ch’a senno mio spesso il disarmo.
S’Apollo a parte fia di tanto danno, 205
vo’ flagellarlo in duri nodi avinto
e suoi flagelli e sferze sue saranno
le foglie del’alloro e del giacinto.
Ad arder sforzerò con pari affanno
nel freddo cerchio suo la dea di Cinto.
Struggerà il cor, se’l mio furor si desta,
Climene a quello, Endimione a questa.
S’è ver che’l suo piacer turbi e’l suo gioco 206
colui che di due ventri al mondo nacque,
là dove ogni valor gli varrà poco
a novi ardori il condurrò per l’acque.
Vedrà che cede al mio l’istesso foco,
onde la madre fulminata giacque;
e s’egli col suo vino agita altrui,
io posso col mio strale agitar lui.
Se ministro sarà di questo pianto 207
del’ondoso Ocean l’umido padre,
o quelch’un tempo amore aborrì tanto
rigido re dele tartaree squadre,
incatenati e supplici mi vanto
di trargli a piè dela mia bella madre,
per mostrar quanto folle è chi non crede
ch’ala forza d’Amore ogni altra cede. –
Così disse, e col fin di detti tali 208
ala voce sfrenata il fren raccolse;
poi più veloce assai ch’un de’ suoi strali,
l’impeto ruinoso ingiù rivolse
e col gemino sibilo del’ali,
che con rapide scosse a volo sciolse,
lei precorrendo, che tra via rimase,
sdrucciolò ratto ale materne case.
Come adusto vapor, sparito il sole, 209
che con raggio possente in alto il trasse,
di lunga sferza e luminosa suole
rigar del’aria le contrade basse,
così di Citerea l’altera prole
parve foco e splendor seco portasse
quando in terra veloce a calar venne
tutto serrato nele tese penne.
Chi può l’ira narrar, narrar il duolo 210
del superbo garzon quand’egli ha scorto,
poscia che’n Cipro ha terminato il volo,
de’ duo l’una malviva e l’altro morto?
D’Adon compagno, a Venere figliuolo,
lui senza vita e lei senza conforto,
o come in preda ai desperati affanni
si squarcia il velo e si spennacchia i vanni.
Qual augellin che’l dolce usato nido 211
dove i figli lasciò voto ritrova,
gli vola intorno e con pietoso strido
assordando la valle, il duol rinova,
tal dagli occhi d’Adon, su’albergo fido,
non sa partirsi e nulla più gli giova;
piagne i perduti sguardi e’n tutto cieco
brama non esser dio per morir seco.
Ma per non raddoppiar l’acerbe pene 212
di colei che gli diede essere e vita,
l’alto dolor dissimula e ritiene
ale correnti lagrime l’uscita.
Indi per consolarla a lei sen viene
che, traendo dal cor vena infinita,
par che per gli occhi fuor voglia in tant’acque
versar tutto quel mare ond’ella nacque.
Ella a cui per morir con lui che more 213
d’esser nata immortal molto rincrebbe,
di sì fervente ed efficace amore
eternar la memoria almen vorrebbe
e con l’aspra memoria anco il dolore
che dopo morte a gran ragion gli debbe.
Quindi ognor ripetendo il caro nome
pace non vuol con l’innocenti chiome.
Mentre intorno cadean le chiome sparte, 214
meraviglia gentil nacque di loro,
ch’abbarbicate in questa e’n quella parte
trasformaro in smeraldo il lucid’oro.
Preser radice e con mirabil arte
l’erba arricchir d’un signoril tesoro;
e’l nome dela dea lacere e tronche
serbano ancor per l’umide spelonche.
Volea fuggir Amor, tanta pietate 215
del’angosce materne al cor gli venne,
ma dele lagrimette innargentate
la bella pioggia gli spruzzò le penne;
né potendo trattar l’ali bagnate,
il volo a forza entro’l bel sen ritenne
e tentò con dolcissimi argomenti
d’acquetar quelle doglie e que’ lamenti.
Tutto pien di sestesso egli s’appressa 216
e sparso d’amarissima dolcezza
la stringe e bacia e con la benda istessa
le rasciuga i begli occhi e l’accarezza.
– Madre (dicea) di consumar deh! cessa
con l’altrui vita inun la tua bellezza.
La povertà degli antri oscuri e vili
indegna è di vestire aurei monili.
Perdona al’auree trecce e poni omai 217
a sì lungo languir misura e freno;
né più turbar, ch’han lagrimato assai,
de’ duo soli amorosi il bel sereno.
Che se di dea celeste opera fai
vivo il bel foco tuo serbando in seno,
il pianger tanto un ben caduco e frale
ti vien quasi a mostrar donna mortale.
Il trono mio dentro i tuoi lumi belli 218
stassi e’l foco e lo stral che mi donasti.
Non soggiogo con altro i cor rubelli,
qui fondato è il mio regno e tanto basti.
Non pianger più che non son occhi quelli
degni d’esser dal pianto offesi e guasti.
Si stilla in quell’umor l’anima mia,
ch’altri pianga per te più dritto fia.
Che fia di me, ch’i miei per sempre ho chiusi, 219
se da te tanta grazia or non impetro?
Romperò l’armi mie, se ciò ricusi,
a piè di questo tragico feretro;
seben son già tutti i miei strali ottusi
e l’arco, ch’era d’or, fatto è di vetro,
dela face l’ardor gela e s’ammorza
ed io col pianger tuo perdo ogni forza.
Lasso, si strugge il ciel, langue natura 220
e vien quasi a mancar la stirpe nostra.
Non vedi Febo che di nube oscura
vela la fronte e pallido si mostra?
Sviene ogni fiore e secca ogni verdura
per questa già si lieta erbosa chiostra,
poiché Favonio, che scherzar vi suole,
per altri fiati respirar non vole.
I dolenti augelletti o muti tutti 221
taccion tra’ rami o fanno amari versi.
Mira le tue colombe a tanti lutti
com’hanno i baci lor rotti e dispersi;
mira nela tua cuna i salsi flutti
che par fremendo ancor voglian dolersi;
e le belle unioni a te sì care
divengon per dolor lagrime amare.
Senza quella beltà che sol mi porse 222
vita e vigore anch’io morir mi sento.
Ben potrebbe il destin punirti forse
che chi nacque di te per te sia spento.
Del pianto, che fin qui tropp’oltre corse,
qualche parte risparmia e del tormento,
per serbarmi la vita a miglior sorte
o per pianger la mia con l’altrui morte.
Pregisi che per lui piangan le dive 223
Adon tra le miserie anco beato.
Morì quanto ala vita, al’onor vive,
mortal fu il corpo, il nome è immortalato.
Piagne colà d’Arabia insu le rive
Mirra vie più costui che’l suo peccato.
Piangon gli Amori in Cipro, i bronchi, i dumi
distillan pianto e corron pianto i fiumi.
Fu bello, è ver; non però già d’alcuna 224
grazia, sia con sua pace, Adon si vanti
ch’agguagli quest’onor, questa fortuna
d’aver l’essequie da sì dolci pianti,
che’n suggetto terren mai non s’aduna
merito degno di divini amanti;
e quand’ama alcun dio cosa mortale,
la fa valer quelche per sé non vale.
Tu l’ombra di colui piangendo offendi 225
che felice riposa e lieto giace
e gode forse entro gli abissi orrendi
maggior che tu non hai quiete e pace.
Sgombra dunque ogni affanno ed a me rendi
le fiamme e i dardi miei, l’arco e la face,
che ti giuro per essi a tutti i cori
far sentir, fuorch’al tuo, piaghe ed ardori. –
Così scopriva Amor l’interno affetto 226
e volando in quei punto anco volea
per in parte esseguir quanto avea detto
già ne’ begli occhi entrar di Citerea.
Ma respingendo il crudo pargoletto
con la man bella l’infelice dea,
– Taci taci (gli disse) a che presumi
baciarmi il volto ed asciugarmi i lumi?
Tardi con questi tuoi mi torni innanzi 227
intempestivi omai vezzi e conforti.
Or mi lusinghi e’ ncontr’a me pur dianzi
l’armi volgesti e n’ebbi ingiurie e torti.
Ah che di ferità le tigri avanzi,
né brami altro giamai che stragi e morti.
È tua la colpa e non altronde uscio
la sua morte, il tuo danno e’l pianto mio.
Sù sù, vattene al bosco, affretta l’ale 228
con questi d’ogni ben vedovi Amori.
Recami preso il perfido animale,
l’empio distruggitor de’ nostri onori,
accioch’io con l’autor d’ogni mio male
possa in parte sfogar tanti dolori;
ch’almen con la sua morte a te s’aspetta
far dela vita mia qualche vendetta. –
Ubbidisce il fanciul pronto e spedito, 229
né tarda a rivestir gli usati incarchi.
Già va per tutto col drappello ardito
spiando i boschi, attraversando i varchi.
Lunge si sente per l’erboso lito
lo stridor dele penne e’l suon degli archi,
mentre ciascun di lor per la foresta
apparecchia gli arnesi e l’armi appresta.
Di saette, di spiedi e di ritorte 230
armato va l’essercito pennuto.
Qual col ginocchio a terra incurva il forte
o di legno o di nervo arco cornuto,
qual per condurre il reo cinghiale a morte
forbisce a dura cote il ferro acuto
e lievemente poi, mentre l’incocca,
con l’estremo del dito in punta il tocca.
Così qualor dale granite spiche 231
scote su l’aia il metidor l’ariste,
agli essercizi lor van le formiche
rigando il suol di lunghe e nere liste;
così tra lor le cure e le fatiche
partendo, in più d’un stuol schierate e miste,
vanno a rapire i più soavi umori
l’api dorate agli odorati fiori.
Già la selva si cerca e si circonda, 232
ciascuno il primo a prova esser s’ingegna.
Trovano in tana alfin cupa e profonda
la fera che del giorno il lume sdegna
e con la bocca ancor di sangue immonda,
poich’offesa ha colei che’n Cipro regna
e colto il fior di così nobil vita,
quivi di tanto error vive pentita.
Tirata è fuor del cavernoso sasso, 233
altri la gola, altri le gambe allaccia.
Chi sferza con la corda il fianco lasso,
chi da tergo con l’arco oltre la caccia;
move tardo e ritroso il piede e’l passo,
timida trema e sbigottita agghiaccia
l’orrida prigioniera e’n van si scote,
a cui la dea parlò con queste note:
– O di qualunque mostro aspro e selvaggio 234
più maligna e crudel furia non fera,
tu far ardisti a quel bel fianco oltraggio
che de’ colpi d’Amor degno sol era?
tu di quel sol discolorare il raggio
che facea scorno ala più chiara sfera?
romper d’un tanto amore il nodo caro
e’l dolce mio contaminar d’amaro?
Or qual rabbia infernal, qual ira insana 235
stimulò sì la tua spietata fame?
com’osò la tua gola empia e profana
di tal esca cibar l’avide brame?
potesti esser sì cruda e sì villana
in accorciar quel dilicato stame?
O di tal ferità ben degna prova,
rea ventura dal ciel sovra ti piova. –
La bestia allor, che d’amoroso dardo 236
il salvatico core avea trafitto,
quasi mordace can ch’umile e tardo
riede al suo correttor dopo il delitto,
a quegli aspri rimproveri lo sguardo
levar non osa, oltremisura afflitto;
pur la ruvida fronte alzando insuso
in sì fatti grugniti aperse il muso:
– Io giuro (o dea) per quelle luci sante 237
che di pianto veder carche mi pesa,
per questi amori e queste funi tante
che mi traggono a te legata e presa,
ch’io far non volsi al tuo leggiadro amante
con alcun atto ingiurioso offesa;
ma la beltà, che vince un cor divino,
può ben anco domar spirto ferino.
Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo, 238
il cui puro candor l’avorio vinse,
che per farsi al calor riparo e scudo
dela spoglia importuna il peso scinse;
onde il mio labbro scelerato e crudo
per un bacio involarne oltre si spinse.
Lasso, ma senza morso e senza danno
l’ispide labbra mie baciar non sanno.
Questo dente crudel, dente rabbioso, 239
d’ogni dolcezza tua fu l’omicida.
Questo ale gioie mie tanto dannoso
punisci e di tua man or si recida;
e come del’altrui fu sanguinoso,
tinto del sangue suo si dolga e strida.
Ma sappi, o dea, che se t’offese il dente,
scusimi Amor, fu l’animo innocente. –
Con tanto affetto al’unica beltate 240
i suoi rigidi amori il mostro espresse,
che del rozzo rival mossa a pietate,
di quel fallo il perdon pur gli concesse;
e per ambizion che del’amate
bellezze un mostro ancor notizia avesse,
men fosco il guardo a’ suoi scudier rivolto,
subito comandò che fusse sciolto.
Sciolta l’afflitta e desperata belva 241
cercando va la più riposta grotta;
fugge dal sole in solitaria selva
tra folti orrori ove mai sempre annotta.
Per vergogna e per duol quivi s’inselva
e la zanna crudel vi lascia rotta;
la zanna ch’oscurò tanta bellezza,
contro que’ duri sassi a terra spezza.
La scelerata allor ninfa loquace 242
che fu prima cagion di tanto male,
io dico Aurilla che la lingua audace
sciolse, Adone accusando, al gran rivale,
pentita anch’ella e non trovando pace
nel dolor che l’assedia e che l’assale,
sen fugge al bosco e gitta l’oro e dice:
– Vanne de’ cori avari esca infelice!
Oro malnato, del tuo pessim’uso 243
previde i danni il cielo e sene dolse,
e quasi in stretto carcere laggiuso
nel cor de’ monti seppellir ti volse.
Chi fu che la prigione ov’eri chiuso,
omicida crudel, ruppe e disciolse?
Del ferro istesso più crudele e rio,
senon che’l ferro fu che ti scoprio.
E pur il sol, poiché ti vide fore, 244
poiché fur le tue forze al mondo note,
si compiacque di te, del tuo splendore
e del bel carro n’indorò le rote.
Per te possanza al suo gran regno Amore
accrebbe e’n tua virtute il tutto pote;
tu fabricasti i più pungenti strali,
né fa mai senza te piaghe mortali.
Qual cor non domi? o qual valor sì forte 245
fia che senza cader teco contrasti?
qual sì ritrosa vergine le porte
non t’apre de’ pensier pudici e casti?
O pestifero tosco, o morbo, o morte
ch’i più puri desir corrompi e guasti,
ben è ragion se ne’ più cupi fondi
quasi per tema pallido t’ascondi.
Ma qual potea del mio più grave fallo 246
altri per tua cagion commetter mai?
Fu più del fragilissimo cristallo
la mia perfida fè fragile assai.
Per cupidigia d’un sì vil metallo
innocente beltà tradire osai.
Forsennato dispetto, impeto stolto,
ch’ala diva de’ cori il core ha tolto.
Fere, barbare fere, ingordi mostri, 247
uscite, orride tigri, orsi nocenti,
uscite a divorar da’ cavi chiostri
col mio corpo in un punto i miei tormenti.
Ben saranno, cred’io, gli artigli vostri
del tarlo ch’ho nel cor meno pungenti;
fere di questa fera assai più pie,
se sepolcro darete all’ossa mie.
Ma se le fere pur crude e proterve 248
per maggior crudeltà trovo men ree,
questa man, questo stral che fa? che serve
che’l sen non m’apre e’l sangue mio non bee?
Orche’n me più l’insania ebra non ferve,
la ragion sue ragioni usar ben dee,
e vendicar con piaga memoranda
di tanta fellonia l’opra nefanda.
Volgi a me gli occhi e mira i pianti miei, 249
o di prigion sì bella anima uscita,
alma, che sciolta per mia colpa sei
dal bei nodo ond’Amor ti strinse in vita.
Deh, perché non poss’io, come vorrei,
seguitarti volando ove se’ gita?
Sì sì potrò, ché di quest’aureo strale
le penne per volar mi daran l’ale.
Questo mio fido stral che tanto asperso 250
per le selve ha fin qui sangue ferino,
fia che nel sangue mio tinto ed immerso
a sì gran volo or or m’apra il camino. –
Sì disse, e nel bel sen lo stral converso,
sodisfece al tenor del fier destino,
onde di tepid’ostro un largo rio
tosto a macchiar le vive nevi uscio.
Bacco, che la mirò dal vicin colle, 251
Bacco, ch’era di lei fervido amante,
raccolse per pietà lo spirto molle
e cangiollo in leggiadra aura vagante.
Or cangiata anco in aura è vana e folle,
mobil, come fu sempre, ed incostante;
né trasformata in lieve aura sonora
di garrir cessa e mormorare ancora,
e, fatta aura raminga, a tutte l’ore 252
colà sen vola ove’l terren fiorisce,
e quivi il bell’Adon mutato in fiore
molce co’ baci e co’ sospir nutrisce
e dale belle foglie il vano odore,
vana emenda del danno, almen rapisce,
poi per lo sottilissimo elemento,
di sue dolci rapine innebria il vento.
Più che mai tardi da’ profondi abissi, 253
la notte di quel dì nel’aria ascese;
né tanto mai dapoi che’l sol partissi
le sue tenebre usate il mondo attese;
né mai velata di pietose ecclissi
sì pigra Espero in ciel le faci accese;
e quando aperse lo stellato polo,
tutt’altro illuminò che Cipro solo.