IV
LA
ROCCA D'ANGERA.
Mentre il
Malumbra viaggia verso Milano, noi, lasciandolo addietro qualche buon tratto,
vi entreremo addirittura per tosto mettere il piede nel palazzo dove risiedeva
il Conte di Virtù.
Se lo
storico, incontratosi in questo personaggio che occupa sì luminosa parte negli
annali della patria nostra, dovesse pronunciare un giudizio, non avuto riguardo
nè alla condizione dei tempi in cui uscì a primeggiare fra i potenti, nè a'
personaggi che lo precedettero e lo susseguirono nel governo della Lombardia,
certo che dovrebbe lasciar correre assai libera la parola al vituperare, e
tanto più se, svestitolo della sua clamide ducale, si facesse a considerare in
lui non altri che l'uomo. Ma quando in vece si voglia considerare questo
personaggio, in mezzo a quella mostruosa corona di principi atroci Galeazzo II,
Matteo, Bernabò, Giovanni e Filippo Maria Visconti, giovato dal vicino
confronto, tanta luce viene a posare su di lui, e le scarse sue virtù spiccano
di tanta forza che lo storico potrebbe quasi venir tentato a metterlo nel
novero di quelli a cui la patria e gli uomini sono debitori di alcuna
gratitudine; tanto più poi se si voglia esaminare le vita publica del duca
disgiunta affatto da quella dell'uomo privato.
La
dissimulazione e la perfidia sono le qualità che gli storici han raccontato
costituire principalmente il carattere del Conte di Virtù, e certo che son esse
assolutamente così abbominevoli che ci vuol una certa audacia, per trovar modo
a scusarle. Al mondo per altro sembrano assai meno vili e basse nelle cose di
stato che non nei rapporti ordinari della vita privata, e nella parola politica
pare che, sebben tacitamente, siano sottintese queste arti delle quali il Conte
di Virtù era mirabilmente fornito. Tutti gli storici, e con ragione se si
guardi da una parte, gli hanno rimproverato il tradimento fatto allo zio
Bernabò, e l'avere arbitrariamente invase le città che appartenevano al suo
dominio. Ma chi troppo bestemmia la simulata perfidia del Conte di Virtù, e
troppo compiange la sventura dello zio di lui, pare non si senta gran fatto
commosso pensando alla condizione dei sudditi del feroce Bernabò che,
angariati, tormentati, sotto il dominio di lui, si sentirono improvvisamente
sollevati alla sua caduta.
Innanzi alle
atroci insidie di cui un potente ha voluto far uso per sottometterne un altro,
il quale è stato per troppo lungo tempo lo spavento degli uomini, lo storico
chiuda un occhio, e respiri anch'esso colla povera umanità che fu confortata un
istante.
All'epoca a
cui siamo con questo racconto, il Conte di Virtù già da qualche anno era
assoluto signore di Milano, ed estendeva il suo dominio su altre ventuna città.
Già da qualche anno i poveri milanesi avevano potuto riaversi dalle lunghe e
feroci oppressioni; non già che il Conte di Virtù potesse vantare le virtù di
Tito e di Antonino; non già che a Milano fossero del tutto rallentati i ceppi;
ma egli, se non altro, aveva retto criterio ed ingegno, e le pene che
s'infliggevano a' cittadini non erano più dettate nè dal caso, nè dalla pazzia,
nè dalla ferocia.
Tra un tristo
d'ingegno e un tristo di ottusa intelligenza e di stupidi sensi, è grandissima
la differenza. Chi serve al primo potrà sempre in certo qual modo regolare le
proprie azioni e dirigerle ad uno scopo certo, mentre a chi serve il secondo
non rimane che tremare e affidarsi in tutto al caso. Si dirà forse da taluno
che la colpabilità è assai più del primo, ma quando gli effetti che produce
sono i meno cattivi, noi lasciamo che della sua coscienza si prenda il pensiero
lui e tiriamo innanzi.
Fin da quando
nel castello di Pavia fingendosi uom fiacco e inferiore alla sua condizione
stava spiando ogni mossa del terribile Bernabò, e aspettava l'occasione, a
fuggir la noia di una vita senz'azione ed il tormento del desiderio combattuto
dall'incertezza e dalla speranza s'era dato a studiare le cose che costituivano
la sapienza di quei tempi. Da questi studi s'era venuto ingenerando in lui
l'amore per le lettere e per le arti, e la stima per quelli che decorosamente
le professano, a tal che godeva intrattenersi con essi, e manifestamente li
proteggeva. Fra i molti che il Conte di Virtù guardava con occhio di stima e
d'amore, eravi anche il cavaliere Alberigo Fossano.
In una stanza
su in alto del palazzo ducale di Milano, tutto intento ad osservare la
prim'alba d'un giorno d'agosto, stavasi il nostro Alberigo seduto vicino ad un
finestrone. Aveva presso una tavola, su cui stavano molti fogli scritti, appesa
alla parete la sua spada, su di un tavoliere il suo liuto. Chi avesse posto il
piede nella sua stanza, senza saperne altro, avrebbe al certo potuto indovinare
chi egli fosse e che facesse. La sera prima, nella gran sala ducale dove erano
intervenuti tutti i cortigiani del Conte di Virtù, il fiore de' cavalieri e
delle gentildonne milanesi, egli s'era fatto applaudire col suo liuto e col suo
canto. Aveva ottenuto ciò che in que' tempi era difficile, per non dire
impossibile, ad ottenere: ammirazione all'ingegno ed all'arte.
Avendo
intraveduto i pensieri del Conte che mirava ad estendere il proprio dominio, il
Fossano ne lusingava di solito col canto l'ambizione, non per il fine esclusivo
di farselo amico sempre più, ma perchè, amantissimo com'era della propria
patria, vedeva che coll'estendersi il dominio del Conte, veniva ad accrescersi
anche l'importanza politica di lei. Per queste particolari sue doti, a voler
tacere delle altre, il Visconti l'avea carissimo, e fattolo alloggiare presso
di sè, non era cortesia che non gli usasse. Il Fossano adunque, dotato com'era
di tante virtù, ammirato e festeggiato da tutta la sua patria, osservato con
compiacenza dalle più belle lombarde, distinto da quel potente Visconti, doveva
sentire le vere gioie dell'esistenza. Eppure a vedere con che trista gravità,
in quella sua cella solitaria, volgeva gli occhi come passando di pensiero in
pensiero, e li fermava poscia, quasi fissandosi di preferenza in uno di essi,
non pareva che di quella felicità egli gustasse punto.
Già era alcun
anno ch'egli era fuggito di Padova con Valenzia. Siccome allora viveva ancora
Bernabò, e d'aggiunta a' cinque suoi figli aveva già assegnato il governo dei
distretti che tra loro aveva divisi, senza toccar Milano s'era ritirato in una
sua terricciuola che aveva sul lago d'Orta, perchè appartenendo que' luoghi al
Conte di Virtù, non poteva temere che Valenzia venisse per nessun modo ad
essere riconosciuta nè molestata dal figlio di Bernabò. La lunga dimora ch'egli
dovette fare colà, l'assoluta solitudine nella quale aveva dovuto vivere,
quantunque insieme alla sua Valenzia non dovesse avere altri desiderii, la
profonda malinconia di che essa fu assalita appena che passarono i primi giorni
dell'effervescenza della passione, gli avevano per tal guisa fatta noiosa
quella dimora che appena gli giunse a notizia la cattura di Bernabò, risolse
insieme a Valenzia venirsene a Milano, Qui giunto, s'accorse che non era per
essi luogo migliore, dachè per la continua affluenza de' gentiluomini che
seguitavano l'ambasceria veneziana, Valenzia correva troppo pericolo di essere
alla fine riconosciuta, a meno che non si fosse risoluta a chiudersi nelle sue
stanze per non uscirne mai più. Veduto che assolutamente non potevano
acconciarsi a quel nuovo tenore di vita, mosso dalle preghiere di Valenzia, che
temeva per la vita del padre suo, e però desiderava star celata agli occhi di
tutti, pensò ritornarsene ancora a quelle sue terre.
Per caso,
essendo di quel tempo capitato a Milano un gran principe, al quale volle il
Conte di Virtù mostrare tutta la magnificenza della propria corte; il nostro
Alberigo ebbe espresso ordine d'intervenire ad una delle feste che all'ospite
suo offeriva il Visconti, il quale, maravigliato dell'ingegno di Alberigo,
volle ad ogni conto che il giovane venisse ad alloggiare nel palazzo ducale; di
qui non era via d'uscire, e quando ogni cosa era già disposta per la partenza,
il Fossano dovette a mal suo grado accogliere quel partito e rimanersi. Si
oppose bensì Valenzia per un pezzo a questa determinazione, pregando Alberigo
che, senza più, mettesse innanzi dei validi pretesti ad ottenere licenza; ma il
Fossano non seppe farla contenta, e soltanto la provvide di un alloggio fuori
del palazzo ducale, per tenerla, più che fosse possibile, celata altrui.
Parecchi mesi passarono senza che avvenisse cosa che meritasse venir notata; ma
una sera mentre il Fossano e Valenzia passeggiavano per una delle contrade di
Milano, due gentiluomini fermatisi a guardare Valenzia, che era di una bellezza
straordinaria, pronunciarono queste formate parole: - L'hai tu veduta? - Sì
l'ho veduta; - parole che in fondo non volevano dir nulla, e che soltanto
potevano significare la meraviglia di che que' due gentiluomini erano stati
presi alla vista di quella non comune bellezza. Ma tanto bastò perchè Valenzia,
che benissimo udì quelle parole, s'intestasse di essere stata riconosciuta, e
però detto ad Alberigo che a lei non conveniva per nessun modo il rimanere
ancora in Milano, tanto fece che quella notte medesima si partirono per la
riviera d'Orta. Colà fermatosi per qualche giorno anche il Fossano, alla fine
gli convenne tornare a Milano dove era aspettato dal Conte di Virtù, e Valenzia
tutta sola, se tu ne tolga la compagnia di una fante e di due servi, a cui
Alberigo raccomandolla caldamente, si rimase a vivere i suoi dì, recandosi
spesso nella chiesa di San Giulio a pregar Dio per Alberigo, per Candiano e per
sè.
Se quando
fuggirono di Padova alcuno avesse loro profetato i dì venturi, certo che, senza
aspettar altro, que' due giovani si sarebbero divisi per sempre, e Valenzia,
qualora le fosse stato possibile, sarebbe ritornata con suo padre a Venezia. Il
lettore che forse si aspettava di assistere alla più intensa felicità di que'
due giovani, così miracolosamente uniti, non si rimanga troppo sorpreso
all'udire che, dopo un anno d'intervallo, una tristezza noiosa e senza pari fu
il frutto ch'ebbero raccolto da quella loro passione.
Valenzia era
pur sempre piena del pensiero del suo Alberigo ma quella sua vita claustrale,
il silenzio non mai interrotto delle eterne ore del giorno, quel non so quale
sgomento di un avvenire incerto e sventurato che l'assaliva di tratto in
tratto, la lontananza del padre suo, che le si era più e più fatto caro appunto
per la disperazione di poterlo rivedere; in una parola una ragione di vita così
opposta a quella che aveva vissuto nella brillante e romorosa Venezia, dove non
era stanza per quanto segreta e interna, nella quale non pervenisse un'onda di
frastuono ad indicare l'esistenza e l'operosità di tante migliaia d'uomini,
aveva per tal modo cambiata la direzione delle sue idee, per tal modo
sconcertata la sua sensibilità, che il più delle volte senza sapere il perchè,
piangeva per delle ore parecchie, e pregava, ed errava di pensiero in pensiero,
ma pur troppo senza mai trovar pace.
Ad Alberigo
poi in tutto quel tempo che visse lontano da Valenzia, si era assai freddato
quel primo amore. Quella malinconia assidua della quale aveva visto esser presa
Valenzia, quel suo facile acconciarsi a vivere lontana da lui, gli parve
fossero indizi ch'ei le fosse venuto a noia. Pensava tuttavia che la colpa era
più propria che di lei, in quanto egli avrebbe dovuto rifiutarsi a vivere in
corte, ed essere compagno indivisibile di chi lo aveva con tanto ardore amato
una volta, allora fermava di presentarsi al duca, e prendere da lui licenza, e
volare presso alla Valenzia per non spiccarsene mai più; e in quei lucidi
intervalli lo prendeva una tenerezza spasimata di lei, se la figurava innanzi
bella di tutte le più care doti che l'adornavano; si richiamava in mente il
primo istante in cui l'avea veduta, le prime parole ch'eran corse tra loro, e
provava un cotal rimorso considerando che il suo cuore oramai batteva troppo
lentamente per lei. Ma tosto che dalla sua stanza usciva in publico, che nelle
splendide feste del duca sentivasi fatto segno d'interminati applausi, e il suo
occhio veniva abbagliato dalla lusinghiera e incomparabile beltà delle
fanciulle lombarde, l'imagine della sua Valenzia gli si ritraeva in fondo in
fondo della memoria, vicinissima a solversi in nulla, e allora perfino un
pentimento lo assaliva..........
Chi mi legge,
se male non mi appongo, è già dispettoso della delusa sua aspettazione, e in
vece di questo Alberigo avrebbe voluto un tipo di eterna immarcescibile
costanza, uno di quegli uomini che per mutar di vicende giammai non si mutano,
e tanto più che pareva promettere di dover riuscire uno di costoro appunto. Ma
pur troppo laddove è più d'ingegno e più di passione, dove l'anima è più
procellosa, dove la fibra è più sensibile alle esterne sensazioni, queste
colpevoli incostanze si verificano il più delle volte; e i lettori forse
avvezzi a vedere ne' libri quegli invariabili ideali, non sapranno acconciarsi
a tener dietro ai passi di un uomo di sì diversa natura. Ma appena si considera
che il cuore umano è un labirinto in cui troppo facilmente smarrisce chi ne
vuol tentare i recessi, che i caratteri degli uomini non possono essere sempre
immutabili come le teste dei re sui nummi e sulle monete, che più c'è da
imparare dove è più il vario, che la penosa lotta tra i desiderii e i doveri,
che i tardi ma generosi pentimenti meritano pure di essere considerati
d'appresso, se non altro per raccogliere larga messe di lezioni d'esperienza, è
a sperare si vorrà tener dietro a ciascun passo del nostro Alberigo.
A raffreddare
ancora più l'affetto ch'egli aveva per la sua Valenzia, a dare il crollo alla
bilancia, un mese prima del momento in cui abbiam trovato il Fossano nella sua
stanza solitaria, eragli intervenuto un caso inaspettato.
La contessa
Giulia M..... di Milano che, appena uscita del monastero senza che punto
venisse interrogato il cuor suo, era stata sposata al marchese T..., uomo
sessagenario, non avendo essa tocchi neppure i diciott'anni, introdotta a
corte, messa nel numero delle dame che facevano il corteggio di Caterina
Visconti, aveva veduto e udito il nostro Alberigo. Il confronto tra lui ed il
sessagenario marito, è troppo ragionevole che sia stato a danno dell'ultimo. Ma
la giovinetta appassionata, inesperta e un cotal po' leggiera, di tanta forza
si sentì presa del giovine cavaliere, che non potendo tenere in sè il segreto
di quella sua passione, si lasciò condurre a palesarla ad un'amica sua, la
quale non essendo donna che peccasse per soverchia rigidezza di pensamenti e di
costumi, risolse far contenta la povera contessa Giulia, e vendicarsi del
marchese T.... che certamente doveva averla offesa in qualche duro modo. Una
sera, prima che cominciassero le feste, un paggetto di palazzo si reca alle
stanze del cavaliere Alberigo, e le dà una lettera. Quella lettera non era
sottoscritta da nessuno, ma diceva queste precise parole: «Stanotte alle due,
nel gabinetto verde, siete aspettato.» L'Alberigo quantunque non sapesse che si
pensare a quelle parole, tuttavia fu puntualissimo, e all'ora indicata si trovò
nel gabinetto indicato. Egli vi si trovò solo, e stette aspettando per qualche
tempo; alla fine ode lo stropiccio de' piedi e di una gonna: entra la
bellissima contessa Giulia.
Ella non
sapeva nulla della lettera, ma in quel gabinetto l'avea mandata l'amica sua
dicendole esservi taluno che le voleva parlare. L'Alberigo alla di lei comparsa
se ne sta fermo e tacito; ella s'arresta, e non osa dire una parola. Quella
confusione però e il vivo rossore della bella contessa, misero in sospetto il
giovane Fossano, che parlò il primo, e fatto animoso della lettera che
interpretò alla vera foggia, le volse parole a cui l'appassionata e inesperta
sposa rispose assai bene. Da quella notte cominciò la novella tresca che lo
fece troppo alieno della povera sua Valenzia. Col continuare di quella pratica
però s'accrebbe sempre più l'amaro della sua vita, perch'egli è certissimo che
gli uomini non possono nè potranno mai gustare con pace sincera i frutti
vietati.
Di quando in
quando gli arrivavano lettere di Valenzia piene di una dolce ed amorosa
mestizia, ma se pure lo facevano per un istante pentito del suo trascorso, non
valevano a riaccendergli in cuore colla primitiva forza, il suo affetto per
lei. La bontà poi, la generosità incomparabile di Candiano, che a lui aveva
affidata con tanta sicurezza la propria figlia, lo colpivano di sì gran forza
che non trovava modo a scusare la propria condotta.
Quella
mattina, mentre se ne stava guardando il sorgere dell'alba, pensava appunto a
queste cose, ed aveva l'anima così arrovesciata che mai non aveva provato un
momento più pesante, più noioso, più molesto di quello in tutta la vita, e per
quanto procurasse, dirò quasi, artificiosamente accrescere i meriti di Valenzia
col figurarsela innanzi nella forma la più lusinghiera, non gli veniva già fatto
il suo desiderio; si era come ottuso in lui, quasi per morbo, l'impeto de' suoi
più generosi affetti.... e soltanto quando la sventura, l'ultima sventura lo
incalzerà dappresso, quando gli eventi gli contenderanno di più avvicinarsi a
Valenzia, allora, proprio allora che non sarà più in tempo, torneranno a
sboccargli nel cuore con un impeto improvviso e senza pari; ma saranno
tormentosi, ma saranno esacerbati dal rimorso. Di tal guisa troppo spesso i
crudi destini raggirano l'uomo fra le ambagi di questa vita mortale.
A toglierlo
da quella sua attonitaggine, gli entrò nella stanza un paggetto di corte ad
avvisarlo che la cavalcatura era pronta, e che già tutto il corteggio era
abbasso per accompagnare l'eccellentissimo Conte di Virtù in villeggiatura. Il
Fossano, che più non si ricordava di questo, s'alzò di volo, si gettò il
mantello sulle spalle, e copertosi il capo con una berretta di velluto riccio,
discese lesto le scale in compagnia di quel paggio. Discese in quella, che
anche il Conte di Virtù usciva del vestibolo, e da due scudieri gli veniva
condotto innanzi il giannetto, sul quale tosto salì aiutato da due bellissimi
paggi che gli tenevano la staffa.
In una
magnifica paravereda, messa a velluto e ad oro, trovavasi l'eccellentissima Caterina
sua moglie colla Violante Visconti, e in un momento il tutto fu all'ordine, e
il corteo si mosse. Lo formavano ventiquattro cavalieri aurati fra' quali il
Fossano, dodici dame al servigio di Caterina e della Violante, e trenta labarde
comandate da un Dal Verme, fratello del gran capitano. Attraversata la città
uscirono dal portello del castel di porta Giovia.
Ogni anno
soleva il Conte di Virtù recarsi a villeggiare verso il mese di settembre, alla
rocca d'Angera per indi recarsi a fare una visita a tutte le terre ch'egli
aveva sul lago Maggiore. Anche questa volta il suo viaggio era diretto a quel
paese, ed altre cause, assai più gravi che quella non è del dilettarsi, lo
avevano spinto a recarvisi allora segnatamente.
Già da
qualche tempo parlavasi d'una calata di Francesi in Italia, a ciò sobillati dai
Fiorentini, che vedevano malvolontieri l'ambizione fortunata di Galeazzo, il
quale, in pochi anni, aveva tanto disteso il suo dominio da far temere che
presto l'Italia non sarebbe bastata intera alle sue mire. Il duca di Savoja,
quantunque fosse strettissimo suo parente, pure temendo per sè, ed avvisato
dalla sventura di altri piccoli sovrani, che furono sacrificati dal Visconti
con un'astuzia e freddezza senza pari, s'era segretamente unito ai Fiorentini,
ed aveva promesso lasciar libero il passaggio ai Francesi. A tener lontano il
pericolo di un'invasione, ed a scemare nei suoi nemici le troppo agili
speranze, Galeazzo aveva mandate sull'ultimo confine dei suoi possedimenti in
Piemonte, gran parte delle sue truppe comandate dal celebre Dal Verme.
Ultimamente
poi un uomo di Francia, che era stato al servigio del conte d'Armagnac, venuto
segretamente a Milano, aveva fatto noto al Visconti, colla speranza di un
grande compenso, che Carlo, il secondogenito di Bernabò, il quale dopo la morte
paterna erasi rifugiato in Francia, ed aveva dato l'anello alla sorella del
conte d'Armagnac che presto morì, partito di là aveva preceduto l'esercito
francese, ed erasi già introdotto ne' di lui stati; però se ne guardasse, chè
colui era pronto a tentare un partito disperato. Dopo qualche tempo ebbe
notizia dal suo castellano di Arona che una notte, una barca di alabardieri, la
quale scorreva pel lago alla visita dei posti, inseguita per un pezzo una
barchetta, che alla lor vista s'era data a rapidissima fuga, non avevan potuto
raggiungerla; ma però per molti indizi avevan potuto capire trovarsi in quella
persone d'altissimo affare. Per tutte queste cose aveva il Conte di Virtù fatti
raddoppiare i presidii in tutte le rocche che aveva sul lago Maggiore e aveva
stabilito recarsi egli medesimo ad Angera, col fine di allontanare coloro che
per avventura si fossero rifugiati in que' paesi; in quanto poi alla propria
sicurezza, teneva sempre intorno a sè dodici fidatissime labarde, che
toglievano di speranza chiunque avesse voluto tentar su di lui qualche violento
disegno.
Quando il
Fossano sentì parlare di Carlo Visconti che segretamente erasi introdotto negli
stati di Galeazzo, e da quella notizia del castellano si venne a congetturare
potesse mai essersi celato in una di quelle terre del lago Maggiore, a tutta
prima, come è ben naturale, quantunque fosse tutt'altro che d'animo vile,
temette per sè e per Valenzia. Ma considerando poscia che egli non era
conosciuto di persona dal figlio di Bernabò, il quale d'altra parte non sapeva
i pericolosi suoi segreti, e risguardava Valenzia siccome morta, tosto mise
l'animo in pace, nè vi pensò altro.
Mentre
viaggiava però, tenendosi un po' discosto dagli altri, perchè non desiderava,
triste com'era, di venire importunato da inutili parole, venne così per caso ad
incontrarsi in quel pensiero, e tra per aver l'animo già troppo inclinato a
credere il peggio, tra che in quella mattina, senza che sapesse comprenderne il
perchè, Valenzia non le poteva uscire di mente, il timore che alcuni dì prima
aveva scacciato come una pazzia, lo invase di tal maniera che tenne per certo
il figlio di Bernabò fosse appositamente venuto in Italia per Valenzia.
L'affetto antico che un'ora prima inutilmente erasi sforzato a risuscitarsi in
cuore per lei; al pensiero di quella terribile sventura gli risorse improvviso,
e di tanta forza che già traevasi a maledire il suo signore, per accompagnare
il quale egli doveva viaggiare con tanta lentezza, egli che in quel momento
avrebbe voluto trovarsi già nella sua casa ad Orta, ed assicurarsi del vero. Ma
quegli impeti sbollirono presto, e appena una più fredda considerazione tornò a
mostrargli che il suo timore era pazzia, appena che il sole erompendo
improvviso da quella zona di nubi che avea resa un po' fosca la mattina,
rallegrò la faccia della terra, e per un fenomeno quanto vero altrettanto
incomprensibile, rallegrò anche i pensieri dell'uomo; appena che la contessa
Giulia, che faceva parte del corteo del duca, gli si avvicinò dicendogli parole
piene d'amore e di lusinghe, e abbagliandolo colla sua bellezza, che in quella
mattina sfolgoreggiava più dell'usato, tutti i tristi pensieri svanirono, e con
loro pur troppo si dileguò la pallida figura di Valenzia.
Giunti che furono
a Legnano, tutti alloggiarono nel palazzo dell'arcivescovo Ottone Visconti.
È inutile che
noi descriviamo a minuto tutto il viaggio fatto dall'eccellentissimo Conte di
Virtù col suo corteggio. Ci basterà il dire che v'impiegarono tre giorni interi
fermandosi lungo il cammino in tutte le castella presso cui passavano.
All'alba del
terzo dì arrivarono a Sesto; da quel paesello ad Angera avrebbero potuto
avviarsi per terra, ma per essere le strade incolte, deserte, disagiate, tali
insomma da rendere a più doppi lungo e noioso il viaggio, vollero in vece
prender la via del lago. A quest'uopo in un seno entro terra, stavano colà
rafferme dieci barche fatte allestire il dì prima dal maggiordomo ducale. Come
tutta la gente del duca si fu in esse raccolta, si volsero le prore alla volta
d'Angera. Veleggiando quasi terra terra avveniva che quando passavano innanzi
ad alcun paesello sparso per la riviera, i villeggiani accorrevano a vedere il
magnifico corteggio, e battevano palma a palma accorgendosi ch'era quello del
Conte di Virtù. La barca ove questi trovavasi insieme a Caterina Visconti sua
moglie, portava un baldacchino di velluto rosso e frange d'oro; i sedili erano
coperti di cuscini di seta d'oro e d'argento, e alcuni drappi di peregrina
stoffa e stupendo lavoro, gettati intorno intorno sull'orlo della barca a
coprire la rozzezza del legno, lasciavano cadere i lembi dorati che
s'immergevano nelle acque. Nelle altre barche messe con minor magnificenza
risplendevano le ricchissime vesti, gli ornamenti d'ogni sorta delle dame e dei
cavalieri. Il sole, sorto da qualche ora, mandava già alcuni fasci di raggi su
quel tratto di lago che le barche percorrevano, e rifranto in mille modi
brillava tremolando sulle gemme, sugli ori, sulle corazzine, sull'else; tutti quelli
oggetti poi che al guardo apparivano l'uno dall'altro così distinti, riprodotti
capovolti nel lago, si venivano a confondere insieme rendendo stranissime
forme, e sempre varie per l'agitarsi continuo delle acque, ed a produrre una
tal mistione di colori che nessuna tavolozza di pittore saprebbe rendere
degnamente. La bella apparenza del tempo, la calma serena dell'ora, la ridente
prospettiva della fertilissima riviera, aveva messa tanta alacrità e vivezza
negli animi, che di barca in barca volavano lepide parole, e frizzi, e risa, e
gentilezze d'ogni sorta, e un romorio, un cicaleccio incessante rompeva la
quiete del lago. Soltanto nella barca ove trovavasi Galeazzo e Caterina
Visconti, la calma era inalterabile.
Appoggiato
così a sdraio su d'un cuscino, il Conte di Virtù pensava, e ripensava a' propri
dominii, al modo d'estenderli sempre più, agli ostacoli che si frapponevano,
alle vittime che avrebbe dovuto sagrificare, e, conseguenza finale di tutto,
alla corona di re, desiderio e tormento assiduo di quell'ambizioso principe. E
allora mentre pensava che Bernabò era morto, che il durissirno degli ostacoli
era tolto, volgevasi a guardar di sott'occhio Caterina, che forse incontratasi
essa pure in quel momento nella ricordanza orribile della morte paterna, posava
gli sguardi su lui con un fremito ascoso. Così, senza mai volgersi una parola,
in poche ore giunsero ad Angera.
Nella parte
più alta di questo contado, ergesi ancora la rocca dove allora entrò il duca
Galeazzo. In una grandissima sala abbandonata, ancora si vedono pregevoli
dipinti che rappresentano le gesta dell'arcivescovo Ottone Visconti, e che
allora erano di poco tempo stati eseguiti per ordine del medesimo Conte di
Virtù. In un brolo di quella rocca, le molti iscrizioni che vi si vedono, tra le
quali segnatamente quella di C. Metilio Marcellino, ci attestano l'antichità di
quel paese, intorno al quale alcuni dottissimi uomini, forniti di una
imaginazione veramente prodigiosa, raccontano cose che forse saranno vere, ma
che per noi sono incredibili, basti il dire che un certo Anglo, nipote del pio
Enea, la edificò e la volle dedicata ad Angerona, la quale è nientemeno che la
dea del silenzio.
E se in quel
dì le campane della chiesa di San Pietro e Paolo, non avessero suonato a
festeggiare l'arrivo del duca, e a loro non avessero risposto con pari lena le
campane degli altri innumerevoli paeselli sparsi su pel lago; la dea Angerona
non avrebbe avuto a muovere un lamento.
Ma per tutto
quel giorno in vece fu uno scampanare così continuo e così disteso, che a molte
miglia di lontananza si venne a sapere che l'eccellentissimo duca era arrivato.
E si accorse
anche colui che più di tutti aveva interesse a quell'arrivo.
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