II.
La nobiltà del Manzoni.
In una delle sue lettere alla propria moglie, Massimo d'Azeglio le
narrava una visita fatta al paese originario di casa Manzoni: «Ci hanno detto
(egli scrive) che i vecchi della famiglia, ai tempi feudali, avevano un certo
cane grosso, che quando andava per il paese i contadini erano obbligati a
levargli il cappello, e dirgli: Reverissi, sur can (La riverisco, signor
cane).»
Un proverbio della Valsássina, ove i Manzoni una volta
spadroneggiavano come signori del luogo insieme con la famiglia de' Cuzzi,
suona ancora così:
Cuzzi, Pioverna e Manzòn
Minga intenden de
resòn.
Cioè, le famiglie Cuzzi e Manzoni ed il torrente Pioverna, quando
straripa, non intendono punto la ragione. Dalla Valsássina la famiglia Manzoni
passò ad abitare in quel di Lecco, dove il signor Pietro Manzoni, padre del
nostro Poeta, possedeva molte terre ed una bella palazzina detta Il Caleotto,
che nell'anno 1818 Alessandro Manzoni fu costretto a vendere, insieme con gli
altri beni per la mala amministrazione di chi aveva tenuto, per oltre un
decennio, la procura ed il governo di quelle terre, una parte delle quali si
trovava nel Comune di Lecco, altre in Castello, altre in Acquate, il villaggio
per l'appunto de' Promessi Sposi. Come Renzo si trova obbligato a
lasciare il proprio villaggio ed a vendere la propria vigna per recarsi ad
abitare nel Bergamasco; così il nostro Poeta dovette, per salvar la villa di
Brusuglio, abbandonar luoghi che gli erano cari, dove aveva passata una parte
della sua infanzia, dov'era tornato a villeggiare tra gli anni 1815 e 1818,
onde non è meraviglia l'intendere dallo Stoppani che in quegli anni, per l'appunto,
Alessandro Manzoni si trovasse pure a capo dell'amministrazione del Comune di
Lecco; meno ancora ci meraviglieremo, dopo di ciò, che la scena de' Promessi
Sposi sia stata posta dall'Autore nel villaggio di Acquate, nel territorio
di Lecco, nei luoghi ove lo riportavano le prime e le più care sue reminiscenze
e dai quali egli s'era dovuto staccare per sempre con un vivo dolore, tre anni
e mezzo soltanto innanzi ch'egli incominciasse a scrivere il proprio romanzo.
I Manzoni erano dunque nobili, ma nobili decaduti dai loro titoli
di nobiltà e dalla loro antica potenza. Avevano dominato una volta con la
forza. La fortuna d'Italia volle che col sangue del Manzoni, che la tradizione
ci rappresenta quali uomini violenti, si mescolasse un giorno un sangue più
gentile, e che, per gli ufficii dell'economista Pietro Verri e, come vuolsi,
del poeta Giuseppe Parini, l'illustre marchese Cesare Beccaria sposasse un
giorno la non ricca, ma bella, giovine ed intelligente sua figlia Giulia al
proprietario del Caleotto, a Don Pietro Manzoni, uomo intorno alla
cinquantina; e che da quelle nozze fra una nobile fanciulla milanese ed un
grosso signorotto di provincia, il 7 marzo dell'anno 1785, nella città di
Milano, nascesse un figlio.
Se mi si domandasse ora qual conto il nostro Poeta facesse della
sua origine nobilesca, mi troverei alquanto imbarazzato a rispondere. Nel suo
discorso, nel suo contegno, tutto pareva in lui signorile; ma, nel tempo
stesso, egli si adoprava a riuscir uomo semplice ed alla mano2. Forse in gioventù aveano desiderato dargli
una educazione più aristocratica che la sua vera condizione di nobile decaduto
non comportasse; Don Pietro Manzoni, uomo alquanto materiale, venuto dalla
provincia a stabilirsi in Milano3, dovea, fra i nobili milanesi, trovarsi
alquanto spostato e l'arguta intelligenza del figlio potè sentire, per tempo,
ciò che v'era di falso in quella condizione della propria famiglia fra l'alto
patriziato lombardo. Se è vero che, nella educazione del giovane Ludovico,
divenuto poi Fra Cristoforo, il Manzoni abbia inteso, in qualche modo,
rappresentare la propria gioventù, convien dire ch'egli non avesse della
propria nobiltà gentilizia, per la stima che se ne faceva a Milano, una
opinione superlativa; ma, come discendente dagli antichi signori di Barzio
nella Valsássina, come antico proprietario del Caleotto egli dovea pure
ricordare che i suoi padri erano stati una volta il terrore delle terre da loro
dominate e persuadersi che, se la sua nobiltà contava poco a Milano, avea
contato troppo dalle parti di Lecco. Questa speciale contradizione nella stima
ch'egli potea fare della propria nobiltà, lo tirava ora a farsi piccino con
Renzo, ora a immaginarsi grande con l'Innominato, ora a collocarsi
ragionevolmente fra i due con la figura di Fra Cristoforo. Ma quali fossero i
panni, di cui gli piacesse vestirsi, o rivestirsi, egli doveva sentir sempre
l'altezza del proprio ingegno sovrano, la quale poi si dimostrava altrui molto
più nella modestia che ne' vanti volgari. Poichè uno de' privilegi degli uomini
grandi (un privilegio che talora può anche divenire una loro debolezza) è
quello di trovar compiacenza nel farsi piccini. Crediamo, dice, con molto
garbo, il conte Carlo Belgioioso, che una squisita modestia convivesse coi
Manzoni con una ben misurata stima di sè. Egli riconobbe di certo i privilegi
della propria intelligenza, e ne ringraziò Dio; ma li scordò davanti agli
uomini. Della nobiltà del Manzoni altri si occuparono, non lui; quando il
signor Samuele Cattaneo di Primaluna4 pensò fargli cosa grata,
inviandogli l'antico stemma de' Manzoni ch'egli avea ritrovato nella casa di
Barzio, il Poeta ringraziò tosto del pensiero amorevole, ma non aggiunse altro.
Gli pareva sul serio di offender qualcheduno, quando avesse lasciato capire
ch'egli sapesse o sentisse, e, peggio ancora, si compiacesse d'appartenere ad
una casta privilegiata. Ma tanto fa, egli era un signore; e, quando s'accostava
al popolo per fargli del bene, mosso da un sentimento di umanità, di giustizia,
di carità cristiana e da una gentilezza squisita, quando, nella vendita del Caleotto
e delle sue terre ereditate dal padre in quel di Lecco, egli tirava un frego
sopra i debiti de' suoi contadini e affittaioli e li perdonava tutti, si
mostrava generoso ed umile al modo di quell'ottimo suo marchese erede di Don
Rodrigo de' Promessi Sposi: quel marchese, se vi ricordate, volendo far
del bene a Renzo ed a Lucia e riparare verso di essi i gravi torti del suo
predecessore, compra la vigna di Renzo pagandola il doppio del prezzo
richiesto; poi invita i due fidanzati al suo palazzotto, fa loro imbandire un
buon desinare ed ordina che venga servito bene, anzi lo serve, in parte, da sè,
ma non si mette addirittura a tavola coi villani. A questo punto il Manzoni
entra direttamente in iscena, ed osserva: «A nessuno verrà, spero, in testa di
dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve
l'ho dato per un brav'uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; vi ha
detto ch'era umile, non già che fosse un portento di umiltà. N'aveva quanta ne
bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro
in pari.» Questo brano mi pare abbastanza eloquente per sè, nè mi obbliga ad
aggiugnere altro intorno al modo con cui il Manzoni sentiva la propria signoria5,
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