IV.
Primi versi.
Invero, ch'egli amasse molto i versi e ne scrivesse fin dal tempo,
nel quale sedeva ancora sui banchi della scuola, ce lo dice egli medesimo in un
sermone giovanile diretto al suo compagno Giambattista Pagani di Brescia8,
onde rileviamo ch'egli prediligeva già, fra tutti i metri, il verso sciolto, e
che non gli toccarono mai, per cagione di poeti, quali Orazio, Virgilio e il
Petrarca, quelle battiture che non gli saranno certamente mancate per altre
ragioni. Ma, ingegno precocemente riflessivo, egli dovette accorgersi assai
presto della vanità degli esercizii rettorici, ne' quali i frati maestri del
Collegio de' Nobili in Milano costringevano allora, e così non li
costringessero più ora, frati e non frati, nelle scuole d'Italia, i giovinetti
ingegni. Nel suo sermone al Pagani egli si burla delle gonfie orazioni che,
giovinetto, gli toccava comporre nella scuola, travestito, com'ei dice
satiricamente, da moglie di Coriolano, e dell'arte rettorica, per la quale si
chiude «in parole molte, poco senso,» precisamente l'opposto di quello ch'egli
fece dipoi, dicendo sempre molto in poco:
Pensier null'altro io m'ebbi infin dal
tempo
Che a me tremante il precettor severo
Segnava l'arte, onde in parole molte
Poco senso si chiuda; ed io, vestita
La gonna di Volunnia, al figlio irato
Persüadea, coi gonfii sillogismi,
Ch'umil tornasse disarmato in Roma,
Allor sol degno del materno amplesso.
Me dalla palla spesso e dalle noci
Chiamava Euterpe al pollice percosso
Undici volte, nè giammai di verga
Mi rosseggiò la man, perchè di Flacco
Recitar non sapessi i vaghi scherzi,
O le gare di Mopso o quel dolente
«Voi che ascoltate in rime sparse il
suono.»
Ma vi ha di più: io sono lieto di potervi oggi recare una nuova
prova meravigliosa della precoce potenza, con la quale Alessandro Manzoni sentì
sè stesso. Uno de' più geniali amici della sua vecchiaia, il professor Giovanni
Rizzi, poeta gentile e sapiente educatore, conservava inedito presso di sè un
mirabile Sonetto, composto dal Manzoni nell'anno 1801, il che vuol dire sul
fine del suo quindicesimo o sul principio del sedicesimo anno della sua vita.
Egli mi permise, per tratto di grande amorevolezza, in questa occasione a me
tanto solenne, di levarlo dall'oblio immeritato, in cui rimaneva da
settantasette anni. È, come vedrete, un ritratto fisico e morale che lo
stupendo giovinetto faceva di sè stesso; vi è qualche cosa d'ingenuo
nell'espressione, ma nel tempo stesso vi si ammira, insieme con una grande e
preziosa sincerità, il felice presentimento di una vita lunga e gloriosa.
Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,
Naso non grande e non soverchio umìle,
Tonda la gota e di color vivace,
Stretto labbro e vermiglio, e bocca esìle.
Lingua or spedita or tarda, e non mai
vile,
Che il ver favella apertamente o tace;
Giovin d'anni e di senno, non audace,
Duro di modi, ma di cor gentile.
La gloria amo e le selve e il biondo Iddio9.
Spregio, non odio mai; m'attristo spesso,
Buono al buon, buono al tristo, a me sol
rio.
All'ira presto, e più presto al perdono,
Poco noto ad altrui, poco a me stesso,
Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.
Quest'ultimo verso profetico mi scioglie dall'obbligo di qualsiasi
commento. Vi è qui tutto l'afflato del genio potente, che doveva rivelare al
suo secolo ed alla sua terra una nuova poesia.
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