VII.
Il Manzoni poeta satirico.
In questi versi vi è già la forza, ma non ancora la finezza dell'umorismo
manzoniano. Egli li apprese troppo di fresco nelle scuole, per poterli già
smettere, quell'accento rettorico, quel fare magniloquente che presto sdegnò ed
evitò poi sempre negli altri suoi scritti. La rima stessa doveva inceppargli il
pensiero; la terzina imporgli quasi l'obbligo d'imitare ora il Dante ora il
Monti, quando, non imitando alcuno, egli avrebbe già, fin d'allora, potuto
rivelarsi come Manzoni. Negli anni seguenti, sebbene egli ricordasse ancora
altri modelli poetici, avendo preferito il verso sciolto e quella forma di
sermone pedestre che, nel secolo passato, il veneziano Gaspare Gozzi avea messo
in qualche voga, il Manzoni potè sfogar meglio il suo umore satirico. I suoi Sermoni
giovanili che si conoscono, pubblicati dal professore Antonio Stoppani,
risalgono agli anni 1803 e 1804. Il terzo Sermone, diretto all'amico Pagani, fu
scritto dalla patria stessa del Gozzi, nel marzo dell'anno 1804.[Veggasi la
lettera diretta da Venezia al Pagani, pubblicata dal signor Carlo Romussi] Il
Poeta sente d'avere un po' malato il cervello; egli s'era innamorato in quel
tempo, egli, diciottenne studente, di una ragazza veneziana sulla trentina, ed
era andato tanto in là ne' desiderii e nelle speranze da chiederle la mano.
«All'età vostra (gli fu risposto) si pensa ad andare alla scuola, non a fare
all'amore.» - «Sotto quella doccia a freddo (scrive lo Stoppani) la guarigione
fu istantanea, nè di quell'aneddoto altro rimase al Manzoni che la memoria per
riderne piacevolmente coi famigliari negli anni più tardi.»
Egli si consola dunque della disgrazia amorosa nella gioconda vita
e nei versi; non ha ardori belligeri, nè smania di divenire un gran filosofo,
od un legislatore e uomo di Stato potente; la sua cura solenne sono i versi:
Valido è il corpo in prima, e tal che
l'opra
Non chiegga di Galen; men sano alquanto
Il frammento di Giove, e non è rado
Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
O la febbre d'onor, mi giovin l'erbe
Dell'orto epicureo. Chè se mi chiedi:
«A che l'ingegno giovinetto educhi?»
Non a cercar come si possa in campo
Mandar più vivi a Dite, o, con la forza
Del robusto cerèbro, ad un volere
Ridur le mille volontà del volgo,
E i feroci domar; ma freno imporre
Agli indocili versi, e i miei pensieri
Chiuder con certo piè; questa è la febbre,
Di cui virtù di farmaco o di voto
Non ho speranza che sanar mi possa.
A scuola, noi lo abbiamo già detto, i versi gli erano sempre
piaciuti; ora che egli, avendo il primo pelo sul mento, potrebbe quasi già
venir coscritto fra le milizie del Regno, risolve consacrar tutto il suo tempo
alla poesia:
Ed or di pel già sparso il mento e quasi
Fra i coscritti censito, in quella mente
Vivo, e quant'ozio il fato e i tempi
iniqui
A me concederanno, ho stabilito
Consacrarlo alle Muse. Or come il mio
Furor difenda, dolce amico, ascolta.
Egli, discepolo ideale del Parini, non cura le ricchezze, nè
l'illustre discendenza, nè i palazzi, nè la gran signoria, nè il rumore di
eccelsi fatti, perchè ne parlino i tardi nepoti; Giove, a lui più mite, lo
obbliga ai versi. Ma quali versi? Oramai gli vennero a noia i sonanti, e però,
prendendo nota di ciò che vede intorno a sè, che non è degno di poema, egli
prosegue a scrivere umili sermoni, ad occuparsi di quella povera plebe, che
sarà pure primissima cura dell'Autore de Promessi Sposi:
Or ti dirò perchè piuttosto io scelga
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Detti e gesta d'eroi. Fatti e costumi
Altri da quei ch'io veggio a me ritrosa
Nega esprimer Talìa.
Egli avrebbe bisogno, per rappresentar degli eroi, di vederne
intorno a sè; ma non ne vede pur troppo; quelli che vorrebbero passare per
eroi, invece di destare in lui ammirazione, lo fanno più tosto ridere. Quando
la fantasia lo porta fra gli antichi, al fervido pensiero, ei dice:
Mi s'attraversa Ubaldo, il qual pur ieri
Pitocco, oggi pretor, poco si stima
Minor di Giove e spaventar mi crede
Con la novella maestà del guardo.
Se anche il nostro tempo, ei dice, opera cose grandi, lo tentano
poco le odierne guerre e le paci, e i nuovi Greci e Quiriti, e la ghigliottina
nuovamente inventata per affrettar la morte che finqui pareva venire all'uomo
troppo lenta:
... quella cieca
Famosa falce, che trovò l'acuto
Gallico ingegno, onde accorciar con arte
La troppo lunga in pria strada di Lete.
Un altro Sermone dello stesso anno 1804 fu diretto ad un autore di
cattivi versi per nozze. Il giovine Poeta si sdegna che si mettano a far versi
i medici e gli avvocati, come se fosse cosa facile il frenare
Di questa plebe indocile i tumulti.
Si burla il poeta dell'uso di scrivere versi per ogni matrimonio
che si celebra, onde vengono fuori tanti cattivi poeti e tanti versi
scellerati; ognuno deve fare l'arte sua; ma ogni arte ha bisogno d'essere
appresa; egli non crede che la poesia sia un'arte sacra e necessaria; ride anzi
volentieri di chi lo pensa e lo dice; necessaria è l'agricoltura, che insegna
all'uomo il modo di alimentarsi, necessaria la scienza della legislazione; ma è
un'arte, insomma, anche la poesia e domanda molto studio. I versaiuoli che cantano
sopra ogni cantante, e scrivono per ispassarsi, quelli certamente non sudano.
Ma sudava invece il divino Parini nel tornire i suoi versi oraziani:
Quando sull'orme dell'immenso Flacco
Con italico piè correr volevi,
E dei potenti maledir l'orgoglio,
Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
Al crin mentito ed a la calva nuca
Facessi oltraggio. Indi è che, dopo cento
E cento lustri, il postero fanciullo
Con balba cantilena al pedagogo
Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
Dopo il
Parini, il giovine Poeta rende uno splendido omaggio all'Alfieri morto Fanno
innanzi15, per condannare con esso i poeti Metastasiani; quindi, come
pensa Paolo Ferrari, il poeta viene pure a condannare il melodramma grottesco
con le maschere, la tragi-commedia, il dramma semi-serio che ottenne favore
sulle scene italiane e francesi nel principio di questo secolo:
Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
Alto minaccia, e la viril sua fiamma
Ad Antigone svela, o con l'armata
Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
Odi sclamar dai palchi: «Oh duri versi!
O duro amante! Dal tuo fero labbro
Un ben mio! non s'ascolta. Oh
quanto meglio
Megacle ad Aristea, Giulia ad Orazio!»
Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
Primo signor dell'italo coturno?
Te ad imparar come si faccia il verso,
Degli itali aristarchi il popol manda.
Mirabil mostro in su le ausonie scene
Or giganteggia. Al destro piè si calza
l'alto coturno e l'umil socco al manco;
Quindi va zoppicando. Informe al volto
Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
Grondan lagrime e sangue. Allor che al
denso
Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
Di voci e palme un suon, che per le cave
Vôlte rumoreggiando, i lati fianchi
Scote al teatro e fa sostar per via
Maravigliato il passeggier notturno.
Qui il verso è già intieramente sicuro; l'artista appare padrone
della sua materia e la domina; il fanciullo sembra intieramente scomparso. Il
Manzoni a diciannove anni è uomo. I compagni di scuola del Manzoni,
Giambattista Pagani, Ignazio Calderari, Luigi Arese, incominciano a mescolare
all'affetto un po' di ammirazione; il Foscolo gli diviene amico16, il
Monti incomincia a temerne i giudizii. Poco prima, egli aveva sul giovinetto
autorità di maestro e quasi di padre.
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