VIII.
Il Manzoni e Vincenzo Monti17.
Il professore Stoppani narra un aneddoto, secondo il quale il
giovinetto Manzoni sarebbe stato corretto dal vizio del giuoco, per un solo
affettuoso rimprovero che gli fece Vincenzo Monti. «Il così detto Ridotto
del Teatro alla Scala» era allora precisamente un ridotto di biscaiuoli.
L'inesperto Alessandrino si era lasciato prendere all'esca, confessando egli
stesso più tardi che si sentiva già fortemente invasato da quella terribile
passione, che può in brev'ora trasformare un amoroso padre di famiglia in un parricida,
e in suicida un giovine morigerato. Una sera Alessandro Manzoni sedeva al banco
dei giuocatori. Tutto a un tratto si sente leggermente battere sopra la spalla.
Voltosi indietro, si trovò in faccia lo sguardo affascinante di Vincenzo Monti,
il quale gli disse queste semplici, ma gravi parole: «Se andate avanti così,
bei versi che faremo in avvenire!» Dopo di quella sera il Manzoni, quantunque,
per avvezzarsi a contemplare lo spettacolo del vizio, senza lasciarsene
signoreggiare, abbia continuato di proposito, per un altro mese, a frequentare
ogni sera il Ridotto, non giuocò più. Ma il giovinetto che nel bollore
degli anni primi aveva potuto cedere egli stesso all'impeto di qualche passione
infelice, non tardò ad acquistare non pure tra' suoi compagni, ma presso il
proprio maestro, una singolare e veramente straordinaria autorità come
consigliere sapiente. Onde, per esempio, quando il Monti, che apparteneva forse
più di ogni altro poeta all'irritabile genus, entrò in lunga briga col
mediocre letterato e poeta De Coureil e sostenne contro di lui un'acerba
polemica letteraria, gravemente ammonito per lettera dal giovine suo discepolo
che quello scandalo gli avrebbe fatto gran torto e diminuito quel prestigio che
il Monti aveva sperato invece di accrescere rispondendo al De Coureil, il
maestro ne rimase così colpito, che ne fece motto in una sua lettera del 6
febbraio 1805, diretta ad Andrea Mustoxidi, dandogli facoltà di pubblicare, se
lo credeva utile, la lettera del Manzoni consigliatrice del partito più
ragionevole, se pure non era il più piacevole all'amor proprio ferito del
poeta-storiografo delle Alfonsine18.
Ma nel 1805, conviene pur dirlo, il Manzoni era già lontano da
quel primo entusiasmo, col quale quindicenne, nel Trionfo della libertà,
ammirando più che altro la gloria di colui che chiamavano allora il Dante
ringentilito, egli aveva glorificato e difeso contro i suoi detrattori il suo
maestro Vincenzo Monti. Questo magnifico ed enfatico elogio del Monti fatto dal
giovinetto Manzoni merita di venir riscontrato col famoso iperbolico epigramma,
col quale ei lo piangeva morto, dopo ventott'anni:
Salve, o Divino, cui largì natura
Il cor di Dante e del suo Duca il canto;
Questo fia 'l grido dell'età ventura,
Ma l'età che fu tua tel dice in pianto.
Piacque al giovine Manzoni la gloria del suo maestro, ed è ben
chiaro dal fine del saluto del nostro mirabile giovinetto al Monti, ch'egli
sperava già o ardeva, almeno, del desiderio di acquistarne una simile:
Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
Fai de' tuoi carmi e trapassando pungi
La vil ciurmaglia che ti striscia ai
piedi.
Tu il gran cantor di Beatrice aggiungi
E l'avanzi talor; d'invidia piene
Ti rimirali le felle alme da lungi,
Che non bagnâr le labbia in Ippocrene,
Ma le tuffâr ne le Stinfalie fogne,
Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
Cigni non già, ma corvi da carogne.
Ma tu l'invida turba addietro lassi
E, le robuste penne ergendo, come
Aquila altera, li compiangi e passi.
Invano atro velen sovra il tuo nome
Sparge l'invidia, al proprio danno
industre,
Da le inquiete sibilanti chiome;
Ed io puranco, ed io, vate trilustre,
Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
A me fo scorta ne l'arringo illustre.
E te veggendo su l'erto cacume
Ascender di Parnaso, alma spedita,
Già sento al volo mio crescer le piume.
Forse, ah che spero? io la seconda vita
Vivrò, se alle mie forze inferme e frali
Le nove suore porgeranno aita.
Notiamo presso quell'ambizioso io, vate trilustre, quel
prudente, ma non meno ambizioso forse tutto manzoniano, messo innanzi al vivrò
immortale che ci prenunzia già l'Autore del Cinque Maggio predestinato a
sciogliere all'urna del primo Napoleone un cantico
Che forse non morrà.
Quando il Manzoni scrive, nell'anno 1803, al Monti, lo fa già in
un tuono di una certa famigliare baldanza che rivela la poca soggezione, e gli
dà del voi. Il Monti invitato a dir la sua opinione sopra l'Idillio del
Manzoni, gli risponde lodandolo sinceramente, facendo i migliori augurii al
giovinetto e dicendogli finalmente: «Io non sono da tanto da poterti fare il
dottore.» Fra maestro e discepolo un tale linguaggio colpisce. Nella risposta
del Monti, il maestro dice che egli ha incominciata la stampa del Persio.
Nel marzo dell'anno 1804, il Manzoni si trovava a Venezia e scriveva di là al
suo amico Pagani, studente di giurisprudenza a Pavia; nella sua lettera è una
parola impaziente contro il Monti, che può già dimostrare la scaduta riverenza
del discepolo. «Se Monti (egli scrive) vuol mandarmi il Persio, lo
faccia avere, nel nome di Dio, a mio padre, a Milano.» Questi indizii mi
bisognava raccogliere per ispiegare non pure la vivacità del battibecco
letterario che nacque dipoi fra i Manzoniani e i Montiani sopra l'argomento
della mitologia nella poesia moderna, ma ancora per illustrare qualche passo
del Carme In morte dell'Imbonati.
Il giovine Poeta rammentando l'indegna educazione ed istruzione
ch'egli avea ricevuta specialmente nel Collegio de' Nobili, non rattiene, com'è
ben noto, il proprio sdegno, e lo sfoga in una forma intemperante che non si
trova poi più in alcun altro suo scritto; ed accennando in particolare ad un
maestro di poesia che lo disgustò, dice che da lui si rivolse, invece, agli
antichi poeti:
Questa
Qual sia favilla, che mia mente alluma,
Custodii com'io valgo e tenni viva
Finor. Nè ti dirò com'io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto
Dell'insipida stoppia, il viso torsi
Dalla fetente mangiatoia, e franco
M'addussi al sorso dell'ascrea fontana;
Come, talor, discepolo di tale,
Cui mi sarìa vergogna esser maestro,
Mi volsi ai prischi sommi, e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente e ragionar con loro.
Qui mi arresta un dubbio assai penoso. Chi fu mai codesto maestro,
da cui il Manzoni, sentendo vergogna di lui, si diparte per correre ad
inspirarsi direttamente presso i poeti antichi?
Io so bene che, a questo punto, qualche amico discreto mi
raccomanderà discrezione, invitandomi a passar oltre, a non arrischiar
congetture che potrebbero riuscir vane ed ingiuriose. Ma passar oltre vuol dire
o non capire o non voler capire. E se noi contemporanei ci contentiamo di
leggere così il primo fra i nostri scrittori viventi, come potranno sperare
d'intenderlo meglio quelli che verranno dopo di noi? So bene che il vivente
discepolo del vecchio Vincenzo Monti, l'illustre Andrea Maffei, il quale
ricorda pur sempre come, dopo l'anno 1820, il Manzoni visitasse spesso il Monti
infermo, come nel mandargli la cantafera de' suoi Promessi Sposi
glieli raccomandasse affettuosamente19, come lo encomiasse morto con
lodi iperboliche, non farà buon viso alla nostra congettura; ed essa ripugna
pure vivamente a me stesso, come ripugna, per dire il vero, ogni maniera o
specie d'ingratitudine. Ma io non posso tacere che corsero parecchi anni, ne'
quali il Manzoni ed il Monti apparvero veramente come avversarii; la storia
letteraria ha i suoi diritti, e, per quanto c'incresca vedere il Manzoni, che
aveva egli stesso fatto grande abuso, ne' primi suoi studii poetici, della
mitologia, divenirci aperto derisore del Monti che volea mantenerla in onore, e
colpirlo direttamente con l'Ode satirica intitolata: L'ira d'Apollo,
ove, con nuova malizia, s'imita pure lo stile cancelleresco della Polizia
austriaca, quale era adoprato allora da un poeta da strapazzo, Pietro Stoppani
di Beroldinghen, e da un giornalista venduto, il Pezzi, grandi lodatori
entrambi di Vincenzo Monti divenuto buon servitore dell'Austria, il Manzoni,
che giovinetto avea molto ammirato e lodato, come sappiamo, il suo maestro
Monti, divenuto amico di Ugo Foscolo, imparò forse da lui a giudicarne con
minore indulgenza la condotta politica; e nella diminuzione di stima per l'uomo
è assai probabile che siasi pure diminuito il concetto che il Manzoni si
formava del Monti poeta. Recatosi poi a Parigi, in mezzo a una società, per la
massima parte repubblicana, anzi che pietà, parve ch'egli concepisse un vero
disprezzo pel Monti. Il Manzoni dice che tra i prischi sommi, egli cercò
prima di Omero, per la traduzione del quale specialmente nacque tra il Foscolo
ed il Monti così fiero dissenso, e, nominando Omero, sembra volerne, per
antitesi, ferire il traduttore:
.... Non ombra di possente amico,
Nè lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco e divin raggio di mente
Che per la Grecia mendicò cantando.
Nè era, io debbo pur ripeterlo, forse intieramente innocente e
fuor d'ogni intendimento malizioso Ugo Foscolo, quando in una nota al suo Carme
de' Sepolcri, volendo nominare il Manzoni, per mostrargli il conto ch'ei
ne faceva e com'ei fosse memore di lui lontano, citava precisamente que' versi
relativi ad Omero, ove si dice più tosto quello che non era stato Omero e
quello ch'era invece qualche altro moderno poeta. L'amico Pagani, che
ristampava a Milano il Carme per l'Imbonati, desiderava egli forse distruggere
il sospetto che si alludesse con que' versi al Monti, quando, senza averne
avuto l'incarico, dedicava, anche a nome dell'Autore, il poemetto a Vincenzo
Monti? Lo ignoriamo; ma ci è noto intanto che l'imprudenza e l'arbitrio del
Pagani maravigliarono ed irritarono grandemente il giovine Poeta, e furono per
guastare l'amicizia di que' due buoni compagni di scuola. Il Manzoni voleva,
invero, obbligare il Pagani a pubblicar subito una protesta che disdicesse la
dedicatoria. Il Pagani gli opponeva che il dedicare non è un avvilirsi; che
anche l'Alfieri avea fatto delle dedicatorie, e nessuno potrebbe negarlo uomo
libero ed indipendente. Il Manzoni rispondeva esser vero, ma l'Alfieri essere
stato «un modello di pura, incontaminata, vera virtù, di un uomo che sente la
sua dignità e che non fa un passo, di cui debba arrossire.» - «Ebbene
(soggiungeva ancora da Parigi il nostro giovine Poeta), Alfieri dedicò; ma a
chi, e perchè dedicò? Dedicò a sua madre, al suo amico del cuore, a Washington,
al popolo italiano futuro.» Ci è noto finalmente come il Manzoni deplorava il
Carme per l'Imbonati per altre ragioni più gravi che non fossero le allusioni
al Collegio de' Nobili. Una di queste ragioni può essere stato il tacito
biasimo del Monti, e l'altra ragione la vedremo in breve.
Fu detto da qualche biografo che, quando nel 1801 il Manzoni
pubblicò l'Urania, il Monti abbia esclamato: «Questo giovine incomincia
dove vorrei finire.» È possibile che un giorno il Monti abbia reso un tale
omaggio al suo discepolo; ma a questo detto suppongo che siasi attribuita
un'origine troppo recente. Il Manzoni non incominciava più con l'Urania;
da ben sette anni egli scriveva, ed i primi suoi componimenti il Monti aveva
letti e lodati; è assai probabile quindi che il complimento, di cui si tratta,
siasi fatto veramente dal Monti, ma nel 1801, poich'egli ebbe conosciuto il Trionfo
della libertà, poema che il discepolo avea scritto per imitare, forse per
emulare il maestro, e che termina in ogni modo, come abbiamo già udito, con la
esaltazione del Monti sopra lo stesso Dante.
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