Le
due lettere del Manzoni al Calderari e la lettera intermedia al Pagani,
pubblicate dal Romossi, volgono intorno alla malattia ed alla morte dell'Arese;
le riproduco, perchè rivelano bene l'animo ed i pensieri del giovine Manzoni,
il preteso ateo che dovea fare il miracolo di convertirsi:
«Parigi,
7 settembre 1806,
«Mio
Calderari,
L'amara novella che mi hai data mi ha
riempito di dolore e di melanconia. Io era per iscrivere a te, a Pagani, al
povero Arese per annunciarvi il mio ritorno a Parigi, e per chiedere di voi
tutti. Non puoi credere quanto m'abbia colpito l'annuncio della grave malattia
del nostro Arese. La speranza che tu conservi, rianima la mia; ma le
circostanze che tocchi, la indeboliscono pur troppo (In questo passo si vede
già l'amore speciale del Manzoni per le antitesi, amore che si può pure
avvertire nella lettera del 1803 al Monti già citata.) L'apparato della
morte è quello che la accelera. Chi ha avuto il cuore di dargli la sentenza
finale? Di farlo soffrire nei forse ultimi suoi momenti? Oh piaccia a Dio che
io possa avere da te nuova del suo rivivere! Quando un malato ha presso di sè
dei veri amici che gli nascondono il suo stato, egli muore senza avvedersene;
la morte non è terribile che per quelli che rimangono a piangere. Ma quando gli
amici sono allontanati, quando vi sentite intronare all'orecchio: Tu devi
morire! allora la morte appare nel suo aspetto più deforme. Povero Arese! Ho
sempre davanti gli occhi quella sua camera deserta degli amici, senza te, senza
Pagani che potreste sollevarlo. Alcuni sono morti che sarebbero guariti, pel
timore solo cagionato loro dalla sentenza che fu data al povero nostro Arese.
Ti prego di scrivermi presto e senza interruzione; non ho bisogno di
raccomandartelo. Mia madre divide la mia afflizione, e freme parlando della
fredda crudeltà che è tanto comune nei nostri paesi. Scrivimi, ti prego, a
lungo ogni minuzia che riguarda Arese. Povero Arese! nel fiore dell'età! Ti
prego di scrivere a Pagani che io non ho ora testa nè tempo di scrivergli, ma
che, al primo ordinario, lo farò sicuramente. Se mai il mio silenzio gli fosse
dispiacente, digli che io sono sempre il suo Manzoni; al mio Pagani ciò deve
bastare. Tu amami, Calderari, e sii certo che io ti amo e ti riverisco
veramente, e scrivimi presto. Addio; dammi nuove di Arese.
Il
tuo
MANZONI
B.a»
«Mio Pagani,
M'hai tu dimenticato davvero? Sono tre
mesi che non ho tue nuove; e l'ultima mia lettera, nella quale ti annunciava la
mia partita da Parigi, è rimasta senza risposta. Non posso dubitare della tua
salute, giacchè il nostro aureo Calderari che mi scrive, me ne avrebbe senza
dubbio fatto cenno. Io sperava che Zinammi, col quale ci siamo abboccati,
avesse qualche tua lettera a consegnarmi; ma, non vedendone ed aspettandone di
giorno in giorno, tardai a scriverti fino al mio ritorno. Scrivimi al più
presto, dimmi se sei ancora il mio Pagani, com'io sarò sempre il tuo Manzoni;
dammi nuove di te, e di tutto quello che ti è a cuore.
Non puoi credere quanta pena mi abbia
fatto la nuova della grave malattia del nostro povero Arese; e mia madre, che
divide ogni mio affetto, ne fu pure assai triste ed in timore. Calderari mi
annunciò qualche miglioramento che mi riempì di gioia e di speranza. Duolmi
amaramente che gli amici non abbiano adito al suo letto, e che invece egli
debba aver dinanzi agli occhi l'orribile figura di un prete. Nè puoi figurarti
quanto dolore ed indignazione abbia in noi eccitato il sentire da Calderari che
ad Arese era stata annunciata la fatale sentenza (spero, per Dio! che sarà
vana). Crudeli, così se egli schiva la morte, avrà dovuto nullameno assaporare
tutte le sue angosce! E quante volte l'annunzio della morte ha ridotto agli
estremi dei malati che, ignorando il loro stato, sarebbero guariti? Basta: i
mali del caro ed infelice Arese, che ho sempre dinanzi agli occhi, mi
allontanano sempre più da un paese, in cui non si può nè vivere nè morire come
si vuole. (Qui vi sono accenti intieramente foscoliani.) Io preferisco
l'indifferenza naturale dei Francesi, che vi lasciano andare pei fatti vostri,
allo zelo crudele dei nostri, che s'impadroniscono di voi, che vogliono
prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro
maniera di pensare, come se chi ha una testa, un cuore, due gambe e una pancia,
e cammina da sè, non potesse disporre di sè e di tutto quello che è in lui a
suo piacimento.
Mi accorgo di aver fatto un pasticcio di
parole, pazienza! Il mio Pagani è buono. Due parole di me. Io continuo il ben
cominciato modo di vivere, senza cangiamento, senza interruzione. Se tu rileggi
le mie passate lettere, ti farà ben maraviglia l'udire da me che mia madre,
quest'unica madre e donna, ha aumentato il suo amore e le sue premure per me.
Eppure la cosa è così. Io sono più felice che mai, e non mi manca che d'esserlo
vicino a te e ai pochi scelti nostri amici, che si riducono ad Arese che vorrei
risanato, e a Calderari che vorrei felice come egli merita. Ho vergogna di
dirti che, dopo i versi stampati, non ne ho fatto più uno: ora però voglio
mettermi il capo tra le mani, e lavorare, massime che mia madre non ha mai
lasciato di punzecchiarmi, perchè io cacci la mia pigrizia.
A proposito di versi, devo parlarti di un
affare che mi è a cuore assai assai, e che in conseguenza premerà anche a te.
Io non ho avuto dal libraio un soldo per l'edizione, e mi sono messo in
puntiglio di non rilasciargli niente niente, perchè non voglio essere lo
zimbello di nessuno e massime d'un libraio. La sua renitenza o noncuranza è
veramente stomachevole. Nè ha alcun appiglio per eludere le mie richieste e per
evitare di rendermi il mio. Perchè o le copie sono vendute e mi dia il danaro,
o sono invendute e me le renda. Arese si era impegnato di parlargli. Rispose
che egli aveva ottocento copie non vendute: io scrissi a Zinammi quello che
doveva fargli dire da Arese, ma il povero Arese cadde malato. Ecco la mia
risposta: rendere al signor Zinammi, procuratore di mia madre, il prezzo delle
200 vendute e le 800 copie invendute. E veramente mi fa maraviglia che il
numero di quelle che sono in bottega sia così grande, non già perchè io
credessi che dovessero avere grande spaccio (giacchè v'è un ostacolo a ciò, non
so se per colpa dell'opera o dei lettori), ma perchè tu mi avevi annunziato che
si vendevano a furia.
Come tu facesti il negozio col libraio,
così spero che vorrai ora ridurlo a fine, e te ne prego caldamente. Ho veduto
su un giornale di Roma un giudizio di quei versi, con una lode tanto esagerata,
che non ardisco riportarlo.
«Caro Pagani, scrivimi ed amami, anzi
amaci, giacchè tu sai che mia madre non ha mediocre stima di te e desiderio
della tua amicizia. Scrivi a lungo e vale.»
Il tuo
MANZONI
B.a»
«Parigi,
30 ottobre 1806.»
«Caro
il mio Calderari,
O Arese, giovine buono, amico vero della
virtù e degli amici, giovine che in tempi migliori saresti stato perfetto, ma
che nella nostra infame corruttela ti conservasti incontaminato, ricevi un vale
da quelli che ti amarono caldamente in vita, e che ora amaramente ti
desiderano. Povero Calderari, tu lo amasti, tu lo desideri e tu non hai potuto
vederlo, consolarlo! Egli è morto nel fiore degli anni, nella stagione delle
speranze, e l'ultimo oggetto che i suoi occhi hanno veduto non è stato un
amico. Egli che era degno di amici! Povero Calderari! Mia madre ed io piangiamo
sopra di Arese e sopra di te. Seppi da Buttura che tu eri assiduo alla sua
porta, che le tue lagrime mostravano la forza del tuo affetto, ma invano. Noi
rileggiamo le lettere di Arese, quel che ci resta di lui, quello che rimane in
questo mondaccio di quell'anima fervida e pura. Odi quello che egli ci scrisse
nell'ultima lettera, dove traspira quasi un presentimento della sua separazione.
Egli parla con mia madre e con me, e par ch'egli non abbia voluto darmi
l'ultimo addio, se non unendomi con Lei che tutto divide con me, e che abbia
voluto così render più sacre per me le ultime sue parole. La lettera è del mese
di giugno o di luglio al più tardi:
«Ho veduto con sommo dolore partire il mio
Pagani. Mi rimane Calderari, che è un angelo. È veramente degno di miglior
sorte e di.... Le sue disgrazie, che egli soffre con animo veramente forte, mi
stringono a lui più fortemente, e mi servono di un grande esempio. Oh Giulia,
Giulia! non è così rara in Italia la virtù come tu pensi!»
E finisce con queste parole che mai non
rileggiamo senza un fremito di dolore e di speranza: «Giulia, Alessandro, ci
rivedremo certamente. Un giorno, superiori all'umano orgoglio, beati e puri
ragioneremo sorridendo delle passate nostre debolezze. Addio.»
Oh sì! ci rivedremo. Se questa speranza
non raddolcisse il desiderio dei buoni e l'orrore della presenza dei perversi,
che sarebbe la vita?
Calderari, noi siamo afflitti di non poter
essere con te. Tu sei degno d'aver degli amici, e in noi troveresti del cuore,
quello di cui tu hai bisogno.
Non posso scrivere a Pagani. Egli pure
deve essere conturbato.
In verità la morte di un amico nel fior
degli anni vi lascia, oltre il dolore, un certo risentimento; pare un'orribile
ingiustizia. Addio, caro ed infelice Calderari, amami e scrivi. Addio.
Il tuo