X
Carme autobiografico.
Quantunque già pubblicato a Lugano in fronte alle Vite degli
illustri italiani di Francesco Lomonaco, fino a pochi anni innanzi era
pochissimo noto il Sonetto giovanile di Alessandro Manzoni, ove si muove
lamento, perchè l'Italia trascuri i suoi migliori ingegni, fin che son vivi,
per piangerli morti:
Tal premii, Italia, i tuoi migliori; e
poi,
Che pro se piangi e 'l cener freddo adori,
E al nome vôto onor divini fai?
Sì, da' barbari oppressa, opprimi i tuoi,
E ognor tuoi danni e tue colpe deplori
Pentita sempre, e non cangiata mai.
Nel principio del Sonetto, diretto a Francesco Lomonaco, si
compiange la sorte di questo giovine e già illustre esule napoletano, obbligato
a condur vita misera e raminga come Dante, l'antico esule gloriosa fiorentino,
del quale il Lomonaco aveva narrata la vita. Due anni innanzi, in una nota al
terzo canto del Trionfo, ove si descrivono le stragi di Napoli, il
Manzoni raccomandava già «l'energico e veramente vesuviano rapporto fatto da
Francesco Lomonaco patriotta napoletano». Vogliono che il Manzoni vecchio
dicesse avere in gioventù concepite del Lomonaco grandi speranze, che non
furono poi mantenute; ma chi riferì quelle parole del Manzoni dovette
frantendere; il Lomonaco non ebbe tempo d'acquistar maggior gloria, poichè
nell'anno 1810 che era, a pena, il trentesimoprimo della sua vita, egli
miseramente s'uccise. L'ingratitudine è cosa mostruosa in tutti, ma più nei
grandi ingegni. Ora io non posso credere che il Manzoni degli scrittori che lo
fecero maggiormente pensare, e quello che importa, pensar giusto. Io ho voluto
rileggere la Vita di Dante scritta dal Lomonaco. Ora, udite quali parole
si leggono in fine di quella Vita: «I benemeriti della repubblica
letteraria non sono i pedanti, o i servili imitatori, bensì quei che informati
di una qualche potenza vivificativa sanno altamente e profondamente pensare. Un
filosofo interrogò una volta l'Oracolo: quai mezzi praticar dovesse per divenir
immortale, e l'Oracolo gli rispose: Segui il tuo genio.» Ci sono
simpatici quegli scrittori che esprimono meglio i nostri proprii sentimenti; il
Manzoni deve aver detto leggendo tali parole: esse furono scritte per me; ed
averle presenti quando, due o tre anni dopo, scriveva in Parigi il suo
programma civile e poetico, ossia il Carme per l'Imbonati23.
È vera fortuna per l'Italia che, nella primavera dell'anno 1805,
Alessandro Manzoni abbia dovuto recarsi in Francia. È possibile, invero che
proseguendo a rimanere in Milano, a respirar l'aria delle scuole letterarie d'Italia,
a vivere tra le maldicenze puerili e pettegole de' nostri letterati, egli, a
malgrado di tutta l'originalità del proprio ingegno, non avrebbe trovato così
presto quella forma chiara, schietta, popolare di linguaggio, pel quale
veramente col Carme dell'Imbonati per la nostra poesia incipit vita nova.
A Parigi egli si trovò libero d'ogni impaccio scolastico, ed il suo genio, per
la prima volta, potè spaziare per vie proprie e non ancora battute. Sentir
e meditar: ecco la sua gran formola poetica; in Francia egli trovò pure
il modo di esprimere naturalmente questi sedimenti meditati, per
l'esempio che gli offrivano gli scrittori francesi.
Il Carme per l'Imbonati è una prova eloquente che il Manzoni ha
sentito, meditato e imparato a scrivere con semplicità e naturalezza.
Esaminiamo ora dunque quali forti sentimenti dovessero agitarlo e
commuoverlo, quali pensieri governarlo, quando egli scrisse a vent'anni, in
Parigi, il bellissimo Carme.
Che cosa sia veramente avvenuto nella famiglia Manzoni, nel principio
dell'anno 1805, quando la signora Giulia Beccaria s'indusse a lasciare
precipitosamente Milano in compagnia del figlio Alessandro, non si può fino ad
ora bene affermare. Che il giovine Alessandro avesse avuto in Milano de' grossi
dispiaceri, si può argomentare dai versi stessi del Carme, ov'egli si sfoga
contro i vili che armarono contro il suo nome l'operosa calunnia. Carlo
Imbonati era morto il 15 marzo dell'anno 1805, in Parigi, assistito dalla
signora Giulia Beccaria, madre del Manzoni. La Giulia accompagnò le spoglie
dell'amico a Brusuglio: villa, di cui egli, sebbene avesse parecchie sorelle,,
l'aveva fatta erede. La madre ed il figlio, dopo quella morte, partirono per
Parigi, lasciando solo Don Pietro in Milano; l'eredità lasciata alla Giulia Beccaria
diede occasione a molte ciarle; ora le ciarle, nelle quali anche gli uomini
eletti che vi si abbandonano, diventano volgo, le nove volte su dieci, come
sono figlie dell'ozio, sono madri di maldicenza. La signora Giulia Beccaria non
dovette essere risparmiata. Che fece allora il figlio? Prima di tutto, egli non
l'abbandonò più, e poi si preparò a vendicarne, come potè, la fama oltraggiata.
Del padre che morì settantenne in Milano, due anni dopo la morte dell'Imbonati,
e a cui il figlio, avvertito troppo tardi in Parigi, non arrivò in tempo a
chiudere gli occhi, non troviamo se non un rapido cenno, abbastanza freddo, per
annunciarne la morte, in una lettera che il Manzoni diresse nel marzo del 1807
all'amico Pagani da Brusuglio, ov'egli s'era per pochi giorni condotto con la
madre a mettervi in ordine i suoi affari più urgenti. Nella stessa lettera,
invece, il Manzoni rappresenta all'amico la propria «felicità di avere per
madre ed amica una donna, parlando della quale, egli dice, troverò sempre più
ogni espressione debole e monca.»24 Ignazio Calderari, comune amico del
Manzoni e del Pagani, avendo poi, allora per l'appunto passato, com'ei diceva:
«due mezze giornate in paradiso,» o sia, nella villa dell'amico Manzoni a
Brusuglio, scrivendo nel giorno stesso al Pagani, gli fa il ritratto della
signora Beccaria: «Che dirotti di sua madre? Mi palpitava il cuore nel viaggio
pel desiderio di conoscere una tal donna, che io già amava e venerava come
quella che forma la felicità del nostro Manzoni, e da quanto vidi non posso
ingannarmi che l'uno formi la contentezza dell'altro, perchè nulla è tra loro
di segreto: l'uno a vicenda ambisce di prevenire i desiderii dell'altro, e si
protestano l'un dell'altro indivisibili. Tu trovi in lei una donna, cui, non
mancando alcuna delle vere grazie che adornano una donna, è dato un senno
maschio ed una facile quanto soave ed affettuosa parola; è poi nel discorso
tutta sentimento; ma quel che più attrae l'ammirazione, è il vedere queste
prerogative d'ingegno e di cuore accompagnate da modestissimo contegno e
spoglie affatto d'ogni donnesco, benchè minimo pettegolezzo; mi pare insomma
che essa si assomigli perfettamente a quello che ce la rappresentavano le sue
lettere a te e al sempre caro e adorabile Arese, quando le leggevamo insieme.
Che bella coppia è mai quella! In verità, io credo non si possa pregare miglior
cosa ad un uomo che di avere una tal madre o un simile padre!»
Ma è pure unica la fortuna di una donna, la quale abbia avuto per
padre un Cesare Beccaria25 e per figlio un Alessandro Manzoni26.
La madre del Manzoni, quando si recò a Parigi, non si faceva chiamare
altrimenti che la signora Giulia Beccaria; il nome del Beccaria servì di
passaporto e di commendatizia anche al nostro giovine Alessandro presso la più
eletta e la più colta società parigina, ov'egli ebbe pure occasione di
conoscere, fra gli altri valentuomini, lo storico piemontese Carlo Botta, il
quale, non potendo ancora presagire in lui il futuro caposcuola del
romanticismo in Italia, gli divenne amico27. Il Manzoni stesso, in quel
tempo, un poco per farsi meglio conoscere, ma molto più forse per compiacere
alla propria madre, firmava le proprie lettere col doppio nome di
Manzoni-Beccaria; quando poi l'amico suo Pagani fece ristampare in Milano, per
conto dell'Autore28, il Carme In morte dell'Imbonati, egli lo
pregò di aggiungere pure sul frontispizio il nome del Beccaria, specialmente
dopochè il poeta Lebrun, allora molto in voga, inviandogli un suo nuovo
componimento stampato, lo avea, senz'altro, salutato col nome di Beccaria,
soggiungendo nella dedicatoria manoscritta queste parole: «C'est un nom trop
honorable pour ne pas saisir l'occasion de le porter. Je veux que le nom de Lebrun choque avec
celui de Beccaria.»29 Il Pagani o dimenticò o
finse o volle dimenticare il singolare desiderio espressogli dall'amico, il
quale dovette contentarsi di sentirsi chiamare semplicemente: Alessandro
Manzoni.
I versi per l'Imbonati non furono dunque scritti, come sembrami
siasi creduto fin qui, immediatamente dopo la morte di colui, che, discepolo
del Parini, dovea, se avesse vissuto, divenire la guida spirituale del Manzoni;
ma parecchi mesi dopo, nel febbraio dell'anno 1806, quando s'appressava
l'anniversario della sua morte, ed assai probabilmente per dare, in quel giorno
funebre, una consolazione alla nobile amica derelitta dell'Imbonati. Noi
sappiamo ora intanto dal signor Romussi che, per quell'anniversario funebre, il
Manzoni faceva ristampare i suoi versi in Milano, per mezzo del suo amico
Pagani, al quale soggiungeva il seguente poscritto:
«Il 15 corrente è il fatale giorno anniversario della morte del
virtuoso Imbonati. Mia madre dice che un tuo sospiro per lui sarà a lui un
omaggio, una consolazione a lei, e che in quel momento le nostre anime saranno
unite.»30 Nel Carme commemorativo, ove si esalta la virtù
dell'Imbonati, ove si confessa pubblicamente l'amicizia che lo legava a Giulia
Beccaria, ove si promette dal poeta all'ombra dell'Imbonati ch'egli avrebbe
seguito i sapienti consigli dell'amico di sua madre, si esalta insieme e si
consola la virtù e il dolore della madre. Sotto questo aspetto speciale, parmi
che il Carme, sebbene già notissimo, In morte dell'Imbonati, possa ora
venir riletto dagli ammiratori del Manzoni, con più viva, se pure non nuova,
curiosità, poichè insieme col genio nascente del poeta ci mostra il coraggioso
ed eloquente affetto del figlio vendicatore dell'onore materno31.
Incomincia il Poeta accortamente col rivolgersi alla madre,
rammentando com'egli fosse solito a scusarsi presso di lei, per avere fino a
quel di coltivata solamente la poesia satirica, poichè non gli era apparso
sopra la terra un solo raggio di virtù, al quale potesse consacrare l'ingegno
poetico. Ma, dopo avere inteso come la madre rimpiangesse la rara virtù dell'amico
che le era stato tolto, gli parve almeno che il ricordo di quelle virtù potesse
destare in alcuno il proposito di farle rivivere in sè. Il giovine Poeta vede
veramente o immagina d'avere veduto in sogno il conte Carlo Imbonati, ma in
figura di malato già consunto dal proprio male. Egli serba tuttavia sempre
molta calma nell'aperto volto e nell'aspetto, i quali inspirano pronta fiducia
anche agl'ignoti. Pensosa è la fronte di lui, mite e sereno lo sguardo, il
labbro sorridente. Il Poeta ventenne fa prontamente atto di volerlo abbracciare
e di favellargli:
ma irrigidita
Da timor, da stupor, da reverenza
Stette la lingua.
Allora l'Imbonati stesso prende a parlare, e dice come un affetto
imperioso lo muova a ritornar presso di lui, che, nel fine di sua vita, era
stato oggetto dei suoi più vivi desiderii:
E sai se, quando
Il mio cor nelle membra ancor battea,
Di te fu pieno, e quanta parte avesti
Degli estremi suoi moti. - Or, poi che
dato
Non m'è, com'io bramava, a passo a passo,
Per man guidarti su la via scoscesa,
Che, anelando, ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza.
L'Imbonati, non credendo forse ancora imminente l'ultimo suo
giorno, avea diretta al giovine Manzoni che, in quel tempo, dovea condurre fra
la gioventù milanese una vita alquanto dissipata, una prima ed ultima lettera
eloquente, dove gli dava alcuni suoi consigli amorosi, fiducioso certamente di
deporre il buon seme in ottimo terreno. Il Manzoni, alla sua volta, rispose con
una lettera caldissima; ma la risposta arrivò all'Imbonati, quand'egli avea già
chiusi gli occhi alla luce.
Mi si domanderà: Come sapete voi questo? In quale biografia
l'avete voi letto? Avreste, per avventura, vedute quelle preziose lettere? No:
lo non le ho vedute; ma ho semplicemente letto, con intento biografico, i versi
stessi del Manzoni. Gli abbiamo letti anche noi, e sono chiari abbastanza da
non abbisognare di commenti. Io ne convengo perfettamente, e vi prego dunque
soltanto di rileggerli ancora una volta:
.... Allor ch'io l'amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime fôro, e la dolcezza
Dell'esser teco presentìa, chi detto
M'avrìa che tolto m'eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
Che non sarìa dagli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
Il Manzoni non pare dunque aver conosciuto l'Imbonati, ma
essersene solamente innamorato per la fama delle sue molte virtù e per
l'affetto sincero e profondo che egli aveva inspirato alla signora Beccaria; il
che è intieramente regolare, poichè sappiamo dal Fauriel che la Beccaria s'era
recata a Parigi con l'Imbonati fin dai primi anni del Consolato. Si spiega
quindi pure come, per un certo periodo della vita giovanile di Alessandro Manzoni,
appaia educatrice di lui non già la madre, ma una zia uscita da uno de'
conventi soppressi, nel tempo in cui i Manzoni abitavano nella Via di Santa
Prassede32. Essa aveva l'incarico di accompagnare in chiesa il
giovinetto, e di fargli dare lezioni di musica e di danza, forse pure di
scherma. Come spiegarsi altrimenti che l'Imbonati fosse così poco noto al
figlio di colei, per la quale egli era tutto, e che, invece di parlare al
Manzoni, egli si risolvesse a scrivergli?
Un giorno qualche altra lettera inedita ci darà forse la chiave di
questo enigma biografico; intanto proseguiamo la nostra lettura:
Io sentìa le tue lodi; e qual tu fosti
Di retto, acuto senno, d'incolpato
Costume e d'alte voglie, ugual, sincero,
Non vantator di probità, ma probo,
Com'oggi, al mondo, al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor dell'altrui danno. Egli ascoltava
Con volto nè superbo, nè modesto.
Io, rincorato, proseguia: se cura,
Se pensier di qua giù vince l'avello,
Certo so ben che il duol t'aggiugne e il
pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto.
L'Imbonati sorride mestamente, e risponde:
Se non fosse
Ch'io l'amo tanto, io pregherei che ratto
Quell'anima gentil fuor delle membra
Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
Di Quei ch'eterna ciò che a Lui somiglia.
Che, fin ch'io non la veggo, e ch'io son
certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso. A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo;
Ma, per gli occhi d'entrambi, il cor
parlava.
Dopo questo omaggio che il giovine Poeta, preteso ateo, rende per
le parole dell'Imbonati alla credenza in Dio e nella immortalità dell'anima
umana, egli domanda all'ombra dell'Imbonati quale impressione essa abbia
provato nel punto della morte33. Essa risponde evasivamente che non
provò alcun dolore, che le parve liberarsi da un breve sonno; ma poi, ridesta
alla vita eterna, le increbbe non ritrovarsi più vicina la cara donna che
vegliava, con amorosa pietà, al fianco di lui infermo. Altro l'Imbonati non può
rimpiangere di questa vita mortale, nè il tristo mondo ch'egli abbandonò. Anima
virtuosamente stoica e scettica ad un tempo, comunica il proprio scetticismo
all'amica diletta ed al carissimo alunno:
Che dolermi dovea? forse il partirmi
Da questa terra, ov'è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier dalla parola è sempre
Altro, è virtù per ogni labbro ad alta
Voce lodata, ma ne' cor derisa;
Dov'è spento il pudor, dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e frutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi e i buoni in
fondo.
Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura e, pur troppo, disugual la guerra
Contro i perversi affratellati e molti.
Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E all'onor vano e al lucro, e delle sale
Al gracchiar vôto, e del censito volgo
Al petulante cinguettìo, d'amici
Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e
norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Noti ti partir, se sai.
Qui, dove torna pure ad affacciarsi in parte il poeta de' Sermoni
che si mostra alieno dai pubblici affidi, appaiono chiare le ragioni, per le
quali il Manzoni, disgustato della società milanese, si recò in Francia con la
madre. Segue il già citato ricordo dell'educazione ricevuta in collegio, quindi
l'allusione allo innominato maestro ch'egli disprezza; viene infine l'alunno
sdegnoso alle calunnie dei vili che assalirono il nome del giovine poeta
in Italia, alle quali egli non diede risposta, unico modo savio per farle
cadere; e caddero infatti così bene, che non si potrebbe oggi più argomentare
con qualche fondamenta di qual natura veramente esse fossero e onde partissero.
È possibile tuttavia, se è vero che il Manzoni abbia, in qualche modo, nella
gioventù di Lodovico, voluto raffigurar la propria ch'egli, non ignaro, per
averle particolarmente studiate, delle leggi cavalleresche, invece di sfidare
il suo avversario calunniatore l'abbia disprezzato, per mostrare poi in età più
matura, con tutta la forza stringente della sua logica poderosa, e per
l'esempio del duello di Lodovico, come un tal partito, tragico insieme e
ridicolo, non risolva mai alcuna questione d'onore. I versi giovanili del
Manzoni ci dicono, in somma, in modo indiretto, che egli nè entrò in polemica
letteraria, nè chiese a' suoi calunniatori alcuna riparazione di sangue:
Nè l'orecchio tuo santo io vo' del nome
Macchiar de' vili che, ozïosi sempre,
Fuor che in mal far, contra il mio nome
armâro
L'operosa calunnia. Alle lor grida
Silenzio opposi, e all'odio lor disprezzo;
Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
Ond'io lieve men vado a mia salita
Non li curando:
non curanza che, ricordando il disdegnoso verso dantesco,
Non ti curar di lor, ma guarda e passa,
conferma pure il verso del Manzoni giovinetto:
Spregio, non odio mai.
Per quale intima associazione d'idee non si potrebbe ora ben dire,
il giovine Manzoni domanda quindi all'Imbonati, se sia vero quello che di lui
si va dicendo, ch'egli abbia, cioè, disprezzato i poeti e le Muse. Ma
l'Imbonati è pronto a soggiungere che gli furono venerandi e cari Vittorio
Alfieri e Giuseppe Parini, ma ch'egli disprezza, invece, i poeti triviali,
arroganti, viziosi, di perduta fama, i quali fanno un vergognoso mercato di
lodi e di strapazzi, e dai quali si attende una vecchiaia oscura e ignominiosa;
e qui forse il Manzoni mirava ancora al cavaliere storiografo Vincenzo Monti od
all'improvvisatore Francesco Gianni che viveva a Parigi, e metteva in verso i
bollettini delle vittorie napoleoniche. La vecchiaia dell'Autore della Bassvilliana
e della Mascheroniana fu, pur troppo, quale il Manzoni la pronosticava
ai venali poeti, dai quali egli abborriva; al Gianni fu invece, dopo la caduta
di Napoleone, conservata la sua lauta pensione. Udite, pertanto, le generose
parole dell'Imbonati, il Manzoni prorompe egli stesso e conchiude stupendamente
il Canto:
Gioia il suo dir mi prese, e non ignota34
Bile destommi; e replicai: deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar; di poco
Esser contento; dalla mèta mai
Non torcer gli occhi; conservar la mano
Pura e la mente; delle umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle; non ti far mai servo;
Non far tregua coi vili; il santo vero
Mai non tradir; nè proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il
raggio
Non mi sia spento, a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
L'ingegno e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava; al mio
Pianto ei compianse, E, non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente. Ora colei, cui figlio
Se' per natura e, per eletta, amico,
Ama ed ascolta, e di figlial dolcezza
L'intensa amaritudine le molci;
Dille ch'io so ch'ella sol cerca il piede
Metter su l'orme mie; dille che i fiori
Che sul mio cener spande, io li raccolgo,
E li rendo immortali; e tal ne tesso
Serto che sol non temerà nè bruma,
Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
Delle sue belle lagrime irrorato.
Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
Turba m'assalse; e, da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
Alla cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno, io mi rimasi;
E con l'acume del veder tentando
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lagrima sul ciglio.
Qui tutto è vero e caldo come fiamma viva; qui spira l'alito di
una poesia originale e potente. L'ombra dell'Imbonati, in conformità delle idee
svolte nell'Ode pariniana Sull'Educazione e di quelle del Fauriel (il
prediletto tra i pochi ed intemerati amici del Manzoni in Parigi), il
quale, intorno a quel tempo, stava, per l'appunto, meditando una storia dello
Stoicismo, traccia al discepolo e, per mezzo di esso, a noi, un intiero
bellissimo programma di Filosofia stoica. Con un tale espediente, non saprei
dire se più ingegnoso o affettuoso, avendo l'Imbonati parlato per mezzo del
figlio all'amico, la signora Giulia Beccaria dovette persuadersi come, per la
virtù dell'amor figliale, divenuta poesia sovrana, la madre non solamente potea
consolarsi, ma avesse ogni ragione di inorgoglirsi, nella lieta certezza di
aver fatto all'Italia il dono celeste di un nuovo grande poeta35.
|