XII.
L'Urania. - L'Idillio manzoniano.
Fu scritto molto e forse troppo sopra gli amori molteplici e non
tutti egualmente ammirabili e confessabili di Volfango Goethe. Il capitolo che
tratta degli amori del Manzoni sarà assai più breve e più discreto, ma, come
parmi, non privo d'importanza per chi s'occupi di psicologia letteraria. Io non
piglio molto sul serio e però non dovrei curar qui il breve disgraziato
amoretto di Venezia, del quale ho già fatto un breve cenno, perchè non sembra
aver lasciata alcuna traccia profonda nell'arte manzoniana. Ma non posso,
tuttavia, passare sotto silenzio che Niccolò Tommaseo aveva veduto un Sonetto
giovanile del Manzoni, ov'era un verso molto espressivo. Il nostro Poeta, fin
da giovinetto, aveva fermata la sua mente ad un alto ideale, e rivolgendosi
alla sua Musa inspiratrice le prometteva di serbar fede al virtuoso ideale,
arrecandone in pegno una ragione stupenda per la sua naturalezza:
Perch'io non posso tralasciar d'amarti!
Questo bel verso ci assicura già che per Alessandro Manzoni
l'amore non sarà una debolezza, ma una sola grande virtù, e che dalla donna
egli avrebbe ricevuto soltanto inspirazioni gentili e benefiche. Dopo avere
pubblicato il Carme In morte dell'Imbonati, e ricevute per esso
magnifiche lodi in Italia ed in Francia38, il Manzoni che, in una
variante del suo Sonetto Ritratto giovanile, aveva scritto questo verso
singolarissimo:
Di riposo e di gloria insiem desìo,
contento di quel primo saggio della propria gloria, si riposò, e
trovò in quel riposo una specie di voluttà, della quale, mi si perdoni la
confusione di parole che sembrano farsi guerra, pensando prima da stoico, poi
da cristiano, godette molte volte, nella sua vita, con una squisita
compiacenza, non vorrei dire da epicureo. Di questa sua beata pigrizia poetica
egli fu più volte piacevolmente rimproverato e canzonato da' suoi amici, uno
de' quali, il poeta Giovanni Torti, lo raffigurava, anzi, sotto il nome di
Cleon nostro
Di beato far nulla inclito speglio39.
Dicono che il Manzoni vecchio si compiacesse molto di quella
canzonatura dell'amico, e non mi parrebbe niente improbabile, che quelle famose
parole de' Promessi Sposi, le quali si pigliano generalmente come un
complimento puro e semplice al poeta Giovanni Torti, fossero pure un'amabile
vendetta intima di Cleone. L'Innominato una volta avea intorno a sè molti
bravi, e tra questi, come si capisce, pochi galantuomini; dopo la conversione
del padrone si dispersero, e rimasero soltanto presso l'Innominato alcuni
fidati amici, pochi e valenti come i versi del Torti, il quale
probabilmente ne aveva pure anch'esso dispersi e distrutti molti cattivi, prima
di far grazia ai pochi che gli parevano riusciti secondo il suo cuore40.
Ad ogni modo, per molti mesi dopo la pubblicazione del Carme In morte
dell'Imbonati, il Manzoni non iscrisse più versi; nè gli valse «il dolce
sprone» materno a toglierlo da quella specie di letargia. Quale fu dunque
l'occasione, o, per dirla con Massimo d'Azeglio, la tentazione tentante
che mosse il giovine Poeta, nell'anno seguente, a comporre il nuovo poemetto Urania?
A me pare di non ingannarmi dicendo semplicemente che il Manzoni, in
quell'anno, s'era innamorato della fanciulla, che divenne poi sua moglie,
Enrichetta Blondel, e che l'Urania fu scritta specialmente per piacerle.
Il Poeta incomincia ad invocare le Grazie per cantare un nuovo inno, il quale
sia ascoltato, non solo all'ombra de' pioppi lombardi, ma anco presso i sacri
colli dell'Arno, ai quali il Carme foscoliano De' Sepolcri, uscito nella
primavera di quell'anno, dovea più fortemente tentarlo. Anch'egli desidera
venire ascritto, non alla turba, ma «al drappel sacro» de' poeti d'Italia
«antico ospizio delle Muse.» La recrudescenza nel desiderio della gloria presso
i poeti risponde quasi sempre ad una recrudescenza d'amore; le donne amanti di
poeti furono quasi sempre o autrici o principali collaboratrici della loro
gloria; anche il Manzoni, il meno erotico forse di tutti i nostri grandi poeti,
sentì crescere l'ardore poetico all'improvviso sollevarsi nel suo petto di una
fiamma gentile. Ma, dopo ch'egli s'era scostato dagl'imitatori per accostarsi,
com'egli canta, «ai prischi sommi,» la poca gloria poetica non bastava più alla
sua giovanile ambizione, aut Caesar, aut nihil; anche il nostro pensava dunque
fra sè, dopo avere conosciuto il Pindaro Lebrun, o Pindaro, o Dante, o Manzoni;
e, dopo avere lodato il primo, si velava sotto la figura del secondo; per avere
il diritto di ascoltare il glorioso discorso delle Muse. Dante vien celebrato
per aver primo dato le bende ed il manto alla poesia italiana, per averla,
primo, condotta a fonti illibate, per averla, maestro dell'ira nell'Inferno
e del sorriso nel Purgatorio e nel Paradiso, creata degna di
emular la madre latina:
.... e nelle stanze sacre
Tu le insegnasti ad emular la madre,
Tu dolce maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
Tu nostra.
Quanta maestà e virgiliana soavità di affetto In quel nostro!
- A questo punto, nondimeno, il Poeta che non ha per anco rinunciato a tutte le
reminiscenze della scuola, si ricorda troppo d'avervi studiata la Mitologia
greca; onde quello stesso Manzoni che, pochi anni dopo, scriverà l'Ode satirica
intitolata: L'ira d'Apollo, nella quale, in pena d'aver posto da banda
le vecchie ciarpe mitologiche, il poeta riformato si farà giocosamente
condannare da Apollo a non più bere l'onda Castalia, a non cingersi più la
fronte d'alloro, a non più salire sul Pegaso, a non più volare, a cantar sempre
in umile stile quello ch'egli sentirà e nulla più:
Rada il basso terren del vostro mondo,
Non spiri aura di Pindo in sua parola;
Tutto ei deggia da l'intimo
Suo petto trarre e dal pensier profondo;
quello stesso poeta, per rappresentare gli antichi beneficii che
le nove Muse recarono un giorno ai mortali, immagina che, discesa dal cielo, la
stessa dea Urania gli abbia un giorno cantati al poeta Pindaro. Non sono da
sperare stupendi effetti poetici da una tale intonazione mitologica, e però
tutto l'Inno, nel tutt'insieme, riesce manierato e freddo. Pure qua e là la
natura potente vince l'arte delle scuole, e ne vien fuori qualche verso di
calore, di colore e di sapore tutto manzoniano, ove l'effetto è proprio cavato,
come in molte delle immagini dantesche, dalla potenza di meditar sopra lo
impressioni: questi, per esempio:
Fra il romor del plauso,
Chinò la bella gota, ove salìa
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.
Sono versi pittoreschi; ma il Manzoni ricordava senza dubbio, nel
comporli una impressione propria, essendo ben noto agli amici del Poeta,
com'egli soleva, innanzi a lodi che gli facevano piacere, arrossire come
fanciullo.
In questi altri versi, il primo è da notare per l'equivoco della
parola amanti, la quale si può riferire alla Gloria, come a tutte le
donne amate in genere; ed è vero pur troppo, che di mille innamorati, i quali
sognano la gloria, uno solo riesce, con pena, a conseguirla; parecchi de' versi
che seguono, sentono come un soave afflato virgiliano:
V'è la Gloria, sospir di mille amanti:
Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la Diva. All'appressarsi,
Dell'aura sacra all'aspirar, di lieto
Orror compreso in ogni vena il sangue
Sentìa l'eletto, ed una fiamma lieve
Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.
Poi che nell'alto della selva il pose
Non conscio passo, abbandonò l'altezza
Del solitario trono, e nel segreto
Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
Come talvolta ad uom rassembra in sogno
Su lunga scala, o per dirupo, lieve
Scorrer col piè non alternato all'imo,
Nè mai grado calcar, nè offender sasso;
Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
Discendea la Celeste.
L'immagine seguente ci ricorda un'analoga similitudine dantesca;
quella che vien dopo ha pure per noi qualche importanza biografica, perchè,
sotto la impressione provata dal poeta Pindaro, reso improvvisamente dubitoso
delle sue forze, dopo aver fatto concepire di sè solenni speranze, sono da
riconoscersi i sentimenti particolari che dovea provare il Manzoni divenuto
quasi inerte, dopo le lodi forse più ambite che sperate, onde fu coronato il
Carme per l'Imbonati; ed anco questi versi, ove l'Autore trae l'espressione dal
proprio modo di sentire, riescono pieni di poetica efficacia:
Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido,
E blandamente gli sorride in volto
Per ch'ei non pianga; un tal divino riso
Con questi detti a lui la Musa aperse:
«A confortarti io vegno. Onde sì ratto
L'anima tua è da viltade offesa?
Non senza il nume delle Muse, o figlio,
Di te tant'alto io promettea.» - «Deh!
come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai degl'Immortali alcuno
Rendesse all'uom, chi mai d'ostie e di
lodi,
Chi più di me, di pregi e di cor puro,
Venerò le Camene?41
Or, se del mio
Dolor ti duoli, proseguir, deh! vogli
L'egro mio spirto consolar col canto»
Tacque il labbro, ma il volto ancor
pregava,
Qual d'uom che d'udir arda, e fra sè tema
Di far, parlando, alla risposta indugio.
Allor su l'erba s'adagiàro, il plettro
Urania prese; e gli accordò quest'inno
Che, in minor suono, il canto mio ripete.
Ma spogliando il Carme del suo apparato mitologico, noi troviamo
in esso i sentimenti particolari del poeta e però un nuovo elemento biografico,
del quale ci giova tener conto. Il poeta Pindaro, dopo aver dato prove del suo
valore poetico ed onorate le Muse, riesce improvvisamente dubitoso delle
proprie forze; onde la Musa discende a rimproverarlo insieme ed aggiungergli coraggio.
Il Manzoni, quantunque vago di riposo, quando s'accingeva all'opera non
s'arrestava facilmente innanzi alle cose difficili; anzi, metteva più forte
impegno per riuscire; il modo con cui tormentò sè stesso negli Inni Sacri,
lo sforzo giovanile per frenare i versi volubili e ribelli, il lungo, ostinato
studio ch'egli, lombardo, pose nella parlata fiorentina, possono servire di
commento a questi versi dell'Urania:
.... Baldanza a quel voler non tolse
Difficoltà, che all'impotente è freno,
Stimolo al forte.
Le Muse e le Grazie discendono sulla terra e recano i loro
benefici ai mortali, cioè la pace, la concordia, la pietà. I versi seguenti del
Manzoni, non ancora cattolico, concordano perfettamente col fine dell'Inno
sulla Pentecoste, e col precetto evangelico che la mano sinistra non
deve sapere quello che fa la destra, e ci dimostrano insomma ch'è una poco pia
menzogna il miracolo della conversione dall'ateismo, dal materialismo e dal
cinismo del Manzoni, che non fu mai nè ateo, nè materialista, nè cinico. Ma su
questo argomento avremo occasione di ritornare; intanto, spogliando della loro
veste classico-mitologica i versi che seguono, compiacciamoci di veder già vivo
sotto di essa un Manzoni cristiano. Scrivendo nel 1805 al Monti, il giovine
Manzoni gli ricordava già che le lettere non sono buone a nulla, se non servono
a ringentilire i costumi; nell'Urania, le Muse devono fare qualche cosa
di più, insegnarci la pietà ed il perdono delle offese, e la carità benefica e
modesta:
Così dal sangue e dal ferino istinto
Tolser quei pochi in prima; indi lo
sguardo
Di lor, che a terra ancor tenea il costume
Che del passato l'avvenir fa servo.
Levâr di nuova forza avvalorato.
E quei gli occhi giraro, e vider tutta
La compagnia degli stranier divini,
Che alle Dive fea guerra. Ove furente
Imperversar la Crudeltà solea
Orribil mostro che ferisce e ride,
Viver pietà che mollemente intorno
Ai cor fremendo, dei veduti mali
Dolor chiedea: Pietà, degl'infelici
Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta
Con alta fronte passeggiar l'Offesa
Vider, gl'ingegni provocando, e mite
Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
Lo spontaneo Perdon che con la destra
Cancella il torto e nella manca reca
Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.
Per virtù delle Muse nasce nell'uomo l'amor della fatica industre,
il sentimento dell'onore, della fedeltà, dell'umana ospitale fratellanza,
.... che gl'ignoti astringe
Di fraterna catena; e tutta in fine
La schiera pia nell'opra affaticarsi
Videro, e nuovo di pietà, d'amore
Negli attoniti sorse animi un senso,
Che infiammando occupolli.
I poeti si destano e cantano alla turba le vedute bellezze,
la terra non più squallida, ride; al discendere dell'armonia nel cuore dei
mortali, l'ira tace e sii sveglia un secreto ardente desiderio di carità e di
pace, onde la vita si fa bella e riposata:
L'ira
V'ammorzava quel canto, e dolce, invece,
Di carità, di pace vi destava
Ignota brama.
Dopo aver'cantato, le Muse risalgono all'Olimpo e ne ricevono le
lodi di Giove, ma per tornar sollecite presso Pindaro, a que' luoghi che un
gentile ricordo rende cari,
.... chè ameno
Oltre ogni loco a rivedersi è quello
Che un gentil fatto ti rimembri.
Le Muse spiegano a Pindaro che, se egli, a malgrado dell'amor
delle Muse, non potè ancora sciogliere canti immortali, ciò accade per la
vendetta d'un Nume, poich'egli, fino ad ora, negò il canto alle Grazie; senza
le quali nè pure gli Dei
.... son usi
Mover mai danza o moderar convito.
Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
E di gentile, e sol qua giù quel canto
Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna delle Grazie attinga.
Queste implora coi voti, ed al perdono
Facili or piega. E la rapita lode
Più non ti dolga. A giovin quercia accanto
Talor felce orgogliosa il suolo usurpa;
E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor delle digiune frondi:
Ed ecco il verno le dissipa; e intanto
Tacitamente il solidario arbusto
Gran parte abbranca di terreno, e mille
Rami nutrendo nel felice tronco
Al grato pellegrin l'ombra prepara.
Signor così degl'inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia regnerai: compagna
Questa lira al tuo canto, a te sovente
Il tuo destino e l'amor mio rimembri.
Qui il Manzoni sembra certamente voler fare qualche allusione
personale. È evidente ch'egli lascia rivolger la parola a Pindaro, perchè gli
parrebbe cosa troppo vana ed orgogliosa obbligar le Muse a discendere
dall'Olimpo per lui e augurargli di regnar solo in Olimpia. Se così è, noi
dobbiamo riconoscere in questa giovine quercia olimpica, che un giorno regnerà
sola, il Manzoni stesso, e domandargli chi possa nascondersi sotto la felce
orgogliosa che ingombra intanto la via alla giovine quercia, ma che, in pena
della sua temerità, vivrà un anno solo. Gl'indizii precisi od anco probabili ci
mancano per arrischiarci a qualsiasi congettura. Osservo, invece, come una
potente ragione segreta dovette determinare il Manzoni a compiere la sua prima
formola poetica sentir e meditare, con un nuovo elemento che le mancava,
la grazia. Il Manzoni vecchio diceva che l'arte deve aver per oggetto il
vero, per fine l'utile, per mezzo l'interessante, ossia il
bello. Il senso dei versi dell'Urania è il medesimo:
.... sol qua giù quel canto
Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna delle Grazie attinga.
Io dubito che l'amore abbia dettato que' versi, e che nell'anno
1807 il Poeta avesse già veduta la giovinetta che dovea l'anno seguente
sposare. L'Urania, a malgrado della bellezza di alcune parti, riesce,
tuttavia, un componimento freddo e stentato, a motivo specialmente della morta
Mitologia evocata a velare più che a significare i sentimenti vivi e
contemporanei del Poeta. Lo studio ch'e' fece per nascondersi, dopo essersi
molto e forse troppo scoperto nel Carme per l'Imbonati, gli fece parer buoni
quegli stessi mezzi mitologici, sopra i quali, pochi anni dopo, egli medesimo
dovea gettar tanto ridicolo. Ed è a dolersi che l'amico Fauriel non abbia
sconsigliato il Manzoni dal ritentar quella vana forma poetica. È da dolersi,
ma non da stupire; poichè, in quel tempo medesimo, il Fauriel traduceva la Parteneide,
poema alpestre del poeta danese Jens Bággesen42, ove non solamente si
rimettono in iscena gli Dei ma si crea una nuova dea della Vertigine,
dove la Jungfrau o la Vergine è allegoricamente rappresentata
come una poetica persona viva.
Nè pago il Fauriel di tradurre in francese il poema che il
Bággesen avea composto in tedesco, invitava il Manzoni a tradurlo in italiano.
Ma il Manzoni, che intanto avea già fatto, con la madre, nel 1806 il suo
viaggio in Isvizzera e ammirato dappresso le montagne, che vi ritornò forse nel
1807, invece di tradurre, si provò a comporre un poema originale sopra le
montagne, accompagnandone l'invio al Fauriel suo secondo duca alpestre,
come il Bággesen era stato il primo, con una epistola in versi, della quale il
Sainte-Beuve ci ha fatto conoscere un frammento «Alla Vergine ideale» del
Danese egli opponeva nell'epistola e nel poema una Vergine che le somigliava,
da lui conosciuta sui colli orobii, in una villa del Bergamasco: siamo,
ove precisamente egli conobbe la sua Enrichetta Blondel. Il suo matrimonio con
essa si celebrò in Milano il 6 febbraio dell'anno 1808 innanzi all'ufficiale
civile. Enrichetta Blondel aveva sedici anni, era nata a Casirate, apparteneva
ad una famiglia di origine ginevrina, di confessione evangelica riformata, onde
nel giorno stesso in cui celebravasi il matrimonio civile, veniva in Milano da
Bergamo il pastore protestante Giovanni Gaspare Degli Orelli a benedire quelle
nozze evangelicamente; testimone dello sposo era non solo un cattolico, ma un prete,
il sacerdote Francesco Zinammi (o Zinamini?). Dopo le nozze, gli sposi
partirono per Parigi, ov'era rimasta la signora Beccaria. Il 31 agosto
dell'anno 1808, il Manzoni scriveva da Parigi al suo amico Pagani: «Ho trovato
una compagna che riunisce veramente tutti i pregi che possono rendere veramente
felice un uomo e me particolarmente; mia madre è guarita affatto, e non regna
fra di noi che un amore ed un volere.» In Parigi nasce al Manzoni una figlia;
vien battezzata secondo il rito cattolico e le s'impone il nome di Giulia, in
onore della madrina ch'era la nonna, e di Claudina, in onore del padrino
Claudio Fauriel.
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