XIV.
Il Manzoni a Brusuglio. Gl'Inni Sacri e la Morale
cattolica.
Sopra la luna di miele manzoniana noi non abbiamo altre notizie,
oltre quelle che il Sainte-Beuve e il Loménie avevano potuto raccogliere dai
ricordi del Cousin e del Fauriel. Il Manzoni44,già convertito alla fede
cattolica, tediato delle ciarle, alle quali quella conversione avea dato
motivo, in compagnia della madre e della giovine sposa, ch'egli adorava, si
ritrasse alla sua villa di Brusuglio, e parve nelle cure agresti dimenticare
ogni tumulto della vita mondana. Il Loménie trova un'analogia fra il Manzoni ed
il Racine(45), rapportandosi per l'appunto ai primi anni del
soggiorno di Alessandro Manzoni in Brusuglio, e la sua comparazione non è priva
d'ogni fondamento; non ispiega tuttavia come il nostro Poeta, in mezzo agli
splendori della natura ed alle contentezze domestiche trovasse così scarse
occasioni d'ispirazione poetica. Mi duole dover ripetere che nello sforzo lungo
e doloroso che il Manzoni dovette fare per credere, isterilì per alcuni anni il
proprio ingegno, costretto a lavoro che dovette riuscirgli ingrato dall'autorità
riverita del proprio confessore. Il Tosi volendo fare del Manzoni un poeta
cattolico, gli aveva ordinato di comporre gl'Inni Sacri e le Osservazioni
in difesa della Religione cattolica rivolte contro il Sismondi. Gli Inni
Sacri doveano, nel primo intendimento, riuscir dodici come i dodici
Apostoli o come i dodici mesi dell'anno46; ma il Manzoni stentò tanto a
comporli, che in sette anni ne terminò a fatica cinque. L'Inno della Risurrezione
fu incominciato nell'aprile del 1812, e compiuto soltanto i l 23 giugno; anzi
l'ultima lima ricevette più tardi; il Manzoni vi notò di suo pugno, che era
ancora da correggersi; nel vero, l'autografo e la stampa differiscono
notevolmente. Il 6 novembre del 1812, il Manzoni si accinse a comporre l'inno, Il
Nome di Maria; durò sei mesi in quel breve lavoro, e vi si affaticò
grandemente; Io stento appare ora grandissimo anche nel leggerlo: fu terminato
il 19 aprile 1813. Il Natale, pieno di cancellature, costò più di
quattro mesi di lavoro: incominciato il 15 luglio 1813, ebbe compimento il 29
novembre dello stesso anno, ma con poca soddisfazione dell'Autore che vi appose
questa nota: explicit infeliciter. L'Inno della Passione costò un
anno e mezzo di lavoro; fu ripreso in quattro volte: la prima nel 3 marzo
dell'anno 1814, la seconda nel di 11 luglio dello stesso anno, la terza nel 5
gennaio del 1815, la quarta nell'ottobre di quell'anno. La Pentecoste,
ch'è il più bello, il più inspirato, il più caldo degli Inni Sacri, fu
bensì incominciato nel giugno 1817, ma abbandonato nel suo primo disegno dal
Manzoni che vi scrisse sopra rifiutato, e ripreso soltanto il 17 aprile
del 1819 e terminato, fra molte soste e cancellature, il 2 ottobre di
quell'anno. Esso appartiene dunque già al nuovo periodo più agitato e più
operoso della vita poetica manzoniana. Queste note cronologiche sopra la
composizione degl'Inni Sacri devono avere per la critica la loro
importanza. La lentezza del comporre non accenna a una troppo grande vivezza
del sentire, ma l'ostinazione che il Manzoni pose per finirli, anche a dispetto
delle Muse, provano la sua ferma volontà di credere, e la sua persuasione che
fosse necessario comunicare altrui la propria fede; ma questa maniera di fede,
pur troppo, male si comunica.
Vivo il Manzoni, osai fare sopra gl'Inni Sacri il seguente
giudizio, ove nel rendere un omaggio riverente all'Autore intendevo lasciare
aperto un adito alla critica dell'opera. «Gl'Inni Sacri, io diceva,
hanno creato in Italia una nuova forma di poesia, il contenuto della quale che
si giudicò, da prima, romantico, era semplicemente biblico, li Manzoni ha il
gran merito d'avere liberato in Italia la poesia cristiana dalle forme
convenzionali ereditate dal Paganesimo; forme convenzionali per noi moderni,
che ci studiamo d'imitarle, mentrechè, invece, per gli antichi erano proprie,
naturali, e frutto spontaneo e necessario di quella civiltà. Egli restituì ai
poeti d'Italia la loro libertà, e col proprio esempio disse loro: essendo
cristiani, inspiratevi da Cristo; essendo moderni, diffondete la parola di Cristo
con la lingua vostra ch'è la lingua del cuore. Per questo rispetto gli Inni
Sacri segnano nella storia della nostra poesia una vera rivoluzione
letteraria, della quale saranno sentiti per sempre, ed invano si
dissimulerebbero, i benefici effetti. Io non chiamo, senza dubbio, tali i
numerosi inni nati dipoi in varie parti d'Italia ad imitazione di que' primi
che avean fatto, se bene lentamente, fortuna; gl'imitatori avevano ne' loro
esercizii dimenticato l'essenziale, cioè che per cantare la religione bisogna
almeno portarla un poco, anzi molto nell'anima; essi lavoravano a soggetto come
gli antichi istrioni, sul modello degl'Inni Sacri, ma per istemperare i
primi colori, stancare le prime immagini, e dir poco in molto, come il Manzoni
avea detto molto in poco. E questo carattere distintivo della poesia manzoniana
parmi pure creare il suo difetto principale; poichè lo studio di restringere un
gran senso in brevi parole fa sì che talora queste brevi parole siano adoperate
ad esprimere più che naturalmente esse non potrebbero, e a diventare talora
semplici formole astratte: il che se prova la potenza del poeta del concentrare
le sue idee, impedisce per altro che la sua poesia riesca popolare, e le toglie
molta parte di quell'impeto lirico e di quel calore che si comunica, tanto
necessario ad ogni poesia, ma alla lirica religiosa in modo specialissimo. Il
Manzoni giovine fece opera da vecchio, costringendo in linguaggio matematico le
verità della religione che gli eran nuovamente apparse in modo luminoso, quasi
egli volesse porsele innanzi, ed estrinsecarsele in una forma più precisa per
potersi meglio persuadere della loro realtà e più durevolmente contemplarle ed
adorarle. Ma ci sembra di non rischiar troppo, dicendo come il Manzoni vecchio,
innamorato com'egli è e maestro nelle bellezza del linguaggio popolare, se
dovesse oggi cantar la religione, sceglierebbe una via opposta a quella ch'ei
tenne in gioventù, escludendo ogni parola equivoca che il popolo non potesse
comprendere da sè ed ogni trasposizione men naturale di parole, per riuscire
subito al desiderato effetto di dare al popolo un canto che non muoia appena
recitato, che si diffonda senza bisogno d'interpreti, e che consoli veramente
chi si muove a cantarlo.»
Ma, nell'ordine specialmente de' pensieri religiosi volendo
sollevare l'espressione all'altezza del pensiero e chiudere quest'ultimo in una
forma sacra ed immobile, che non gli permetta di deviare ad alcun senso
profano, o l'espressione manca od assume un carattere mistico che non può
riuscir popolare. L'età nostra non è punto mistica; il Manzoni dovea sentirlo
più d'ogni altro. Per un verso egli voleva credere, e per rendersi degno della
propria fede si adoprava ad esprimerla per infonderla in altri. Ma il lungo
meditare sopra un sentimento religioso, più tosto che accrescerlo, lo
diminuisce. In un'Ode sopra l'Innesto del vaiuolo, rimasta inedita, e
forse incompiuta, dominato, senza dubbio, da un sentimento religioso, e
riflettendovi lungamente sopra, per trovargli una espressione corrispondente,
il Manzoni sentendo che egli usciva dal vero, e che fuori del vero fortemente
amato non può più essere vera poesia, si scusava con due bellissimi versi, che
sono pure una eccellente scappatoia:
E sento come il più divin s'invola,
Nè può il giogo patir della parola.
Quanto più il pensiero del poeta s'innalza, tanto più la materia
fonica diviene inerte e incapace di farsene messaggiera; ma è vero ancora che,
lanciando imprudentemente il pensiero in un campo, ove esso non può prender
radice, invece di fecondarvisi, muore di sterilità. Il Manzoni parafrasando
spiritosamente in prosa il pensiero dissimulato ne' due versi citati,
accompagnava l'invio di un frammento d'Inno sacro inedito alla signora Louise
Colet con questa scusa per non averlo finito: «Je me suis aperçu (diceva egli)
que ce n'était plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui
m'essoufflais a courir après elle.» Ed i pochi versi erano questi, che
celebravano la presenza, l'onnipotenza, l'onnisapienza di Dio nella natura:
A lui che nell'erba del campo
La spiga vitale nascose,
Il fil di tue vesti compose,
Di farmachi il succo temprò,
Che il pino inflessibile agli austri,
Che docile il salcio alla mano.
Che il larice ai verni, e l'ontano
Durevole all'acque creò;
A quello domanda, o sdegnoso,
Perchè sull'inospite piagge,
Al tremito d'aure selvagge,
Fa sorgere il tacito fior,
Che spiega davanti a lui solo
La pompa del pinto suo velo,
Che spande ai deserti del cielo
Gli olezzi del calice e muor.
Il Manzoni, per propria confessione, voleva dimostrare che non vi
è nulla e nessuno inutile a questo mondo; che come Dio ha le sue ragioni per
far crescere il fiore nel deserto, così anche i monaci, anche gli eremiti
sebbene apparentemente inutili alla società, avranno qualche merito, per le
loro solitarie e segrete virtù, innanzi al Creatore. Ma ancora qui il
ragionamento vince ed ammazza il sentimento. Il Manzoni ha pensato molto più
che sentito gl'Inni Sacri. Non gli uscirono dal cuore per impeto di una
fede ardente, ma dalla testa, per disciplina della propria ragione piegata e
costretta a quell'esercizio letterario dai consigli, dagli eccitamenti, anzi
dai precetti di monsignor Luigi Tosi suo confessore. Egli obbedì, ma era
evidente che l'obbedienza gli costava molta fatica. Si voleva fare dell'ode Pariniana
un'ode Cattolica, e si toglieva alla lirica il principale dei suoi caratteri,
la spontaneità. Nello sforzo per riuscir sublime, molte volte il Manzoni negl'Inni
Sacri riuscì oscuro; una tale oscurità non si dissimulava egli medesimo, e,
anzi che scusarsene a chi gli domandava schiarimento di qualche passo ambiguo,
rispondeva su per giù come a Luigi Frati, il quale aveva assunta l'apologia
degl'Inni Sacri contro il sacerdote Salvagnoli-Marchetti, autore di un
opuscolo che li bistrattava: "Si contenti ch'io non dica nulla sul passo,
dove Ella incontra difficoltà, e che, del rimanente, non porta il prezzo che
Ella se ne occupi, appunto perchè v'incontra difficoltà; giacchè le parole
hanno a dire da sè, a prima giunta, quel che voglion dire; e quelle che hanno
bisogno d'interpretazione, non la meritano."47
L'Inno sacro del Manzoni è assai dotto, grave, solenne, elevato,
quasi epico; è evidente che, dopa essersi immerso nella lettura della Sacra
Scrittura per derivarne immagini, e tradurle in un linguaggio più moderno, il
Manzoni fece quanto poteva per inalzarle. Ma in questo sforzo egli tolse un po'
di naturalezza e di evidenza al sentimento; volle fare un commento poetico,
anzi un compendio della leggenda biblica, e in questo lavoro tutto sintetico
arrivò talvolta ad interpretarla in modo grandioso, ma non mai, o quasi che non
mai, in modo popolare. L'Inno sacro manzoniano è buono per l'artista che vuol
credere, ma non pel popolo che crede. Cristo col suo mondo storico appare,
negl'Inni Sacri, come qualche cosa d'antico, di lontano da noi, che la
sola immaginazione storica può ritrovare, non già presente, non già vivo, che
nasce, che soffre, che risorge. Le immagini degl'Inni Sacri, quasi tutte
bibliche, non sono più vive per la nostra moderna poesia, e non corrispondono
quasi mai all'altezza de' pensieri e de' fatti che dovrebbero esprimere e far
più evidenti. Tutti hanno a memoria le due prime strofe del Natale cioè
l'immagine d'una valanga che ci ricorda il Manzoni alpinista, tornato di fresco
da un viaggio nella Svizzera e dall'ammirazione della Parteneide del
Bággesen; la valanga è stupendamente descritta:
Qual masso, che dal vertice;
Di lunga erta montana,
Abbandonato all'impeto;
Di romorosa frana,
Per lo scheggiato calle,
Precipitando a valle,
Batte sul fondo e sta;
Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole,
Nè per mutar di secoli
Fia che riveggia il Sole
Della sua cima antica,
Se una virtude amica
In alto nol trarrà;
a questo
punto il lettore s'arresta, perchè ha bisogno di ripigliar fiato, come l'avrà
di certo ripreso assai lungo il Manzoni scrivendo, e questo riposo che l'autore
ed il lettore sono obbligati a prendere dopo due strofe, non è atto troppo ad
agevolare l'intelligenza di quello che deve seguire. Lasciando poi stare che
non è mai venuto in mente ad alcuno, e al Manzoni meno che ad altri, che alcuna
virtù amica possa immaginarsi di far risalire in cima d'un monte quel
macigno che n'è precipitato, nessuno si sentirà disposto a commuoversi al
pensiero poco dopo espresso che l'uomo, per il peccato originale, sia caduto
nella condizione medesima di quel macigno che non può da sè risorgere a
quell'altezza, onde la giustizia o la vendetta di Dio lo precipitò. La
comparazione dal maggior numero de' lettori che declamano l'Inno del Natale,
non è, per fortuna, intesa; si guarda alla similitudine e non all'oggetto
comparato; se fosse intesa, più tosto che commuovere, quasi offenderebbe. Ed il
Manzoni non era di certo commosso, quando intonava il suo Inno. Proseguendo, il
Poeta s'infiamma nel suo canto mistico e trova parole eloquenti per esprimere
alcuni alti concetti; ma il Bambino Gesù si vede poco, quel Bambino che nei
rozzi canti popolari di Natale, i quali si sentono in Italia, in Francia, in
Ispagna, si ode veramente piangere, ha freddo, è povero, è accarezzato, è
venerato. Io mi ricordo essermi intenerito, da fanciullo, cantando in coro con
ingenua fede uno di que' rozzi idillii natalizii innanzi al Presepio; nessuno
potrebbe innanzi al Presepio cantare ora tutto il Natale del Manzoni,
perchè troppi versi vi sono, i quali avrebbero bisogno di commento per venire
intesi, atti benissimo a significare alle persone colte (che pur troppo, in
Italia almeno, non vanno più in chiesa a cantar inni) la grandezza del mistero
che si vela nel nascimento di Cristo, ma non già a rappresentarlo in forma viva
al popolo, al quale la poesia sacra è specialmente destinata. Il fine dell'Inno
manzoniano sul Natale assume il tono del canto popolare; tuttavia qua e
là occorrono ancora versi o immagini troppo sapienti. Il popolo capirà, per
esempio, perfettamente il principio di questa strofa:
Dormi, o Fanciul non piangere,
Dormi, o Fanciul celeste;
Sovra il tuo capo stridere
Non osin le tempeste.
Il popolo capisce questa specie di tenerezza; ma essa non avrebbe
mai aggiunto di suo i tre versi rettorici che seguono, i quali descrivono le
tempeste:
Use su l'empia terra,
Come cavalli in guerra,
Correr dinanzi a te;
oltre che al nostro popolo l'idea che la terra sia empia
non può entrare. Il popolo intenderà i due primi versi della strofa che segue:
Dormi, o Celeste, i popoli
Chi nato sia non sanno;
e non più i seguenti:
Ma il dì verrà che nobile
Retaggio tuo saranno;
Che in quell'umil riposo,
Che nella polve ascoso
Conosceranno il Re.
Per il popolo il Bambino nasce ogni anno. Il Manzoni si riporta
col suo pensiero all'anno storico della nascita del Redentore, per profetare
che un giorno il Bambino sarà adorato «in quell'umil riposo» come il Re. Ma il
popolo che canta il Bambino che nasce, e però la poesia del Natale, non
si cura di quello che ne penseranno i posteri; il Bambino è nato a posta per
esso, esso lo canta, lo adora, come suo proprio Dio, che crescerà per lui, che
per lui farà miracoli e si lascerà un giorno ammazzare. Il Manzoni volle, nel
suo Inno, abbracciare il passato e l'avvenire, cantare ad un tempo come un
antico cristiano, e come un cattolico del secolo XIX, quasi da Dio mandato a
spiegare con la poesia i misteri del Cristianesimo. Egli compose parecchi bei
versi, espresse alcuni alti e nobili concetti; come poeta, sostenne e forse
accrebbe la propria fama, ma, sebbene gl'Inni Sacri si leggano, si
spieghino e si raccomandino nelle scuole e nei seminarii d'Italia, nessuno è
riuscito fin qui a farli imparare a memoria e cantare dal nostro popolo. Il Manzoni
credette talora con immagini popolari render più chiari i suoi concetti morali;
ma l'immagine, senza dubbio, chiarissima ed in Manzoni quasi sempre pittoresca,
per la sua troppa luce abbaglia, e c'impedisce di veder bene quello che è
destinata ad illuminare. Nella Passione ci si descrive, per esempio,
l'altare della chiesa parato a bruno:
Qual di donna che piange il marito.
Ecco l'immagine di una realtà ben viva; ma bisogna andare a
pensare che la Chiesa ha chiamato sè stessa la Sposa di Cristo, per intenderne
il motivo; onde, per capire l'immagine bisogna presupporre nel popolo una
nozione che gli manca. Nella Risurrezione, per dirci che Cristo non durò
alcuna fatica a rovesciare il marmo del suo sepolcro, il Manzoni ricorre ad una
similitudine, per la quale il Redentore ci appare in figura di uno di que'
poderosi Giganti della leggenda popolare indoeuropea, che senza alcuna fatica
operano prodigiosi tours de force; e la lenta cura che pone il Poeta nel
rappresentarci la similitudine, diminuisce l'efficacia dell'atto taumaturgico
attribuito al Cristo:
Come, a mezzo del cammino,
Riposato, alla foresta,
Si risente il pellegrino
E si scote dalla testa
Una foglia inaridita,
Che dal ramo dipartita
Lenta lenta vi ristè;
Tale il marmo inoperoso,
Che premea l'arca scavata,
Gittò via quel Vigoroso,
Quando l'anima tornata
Dalla squallida vallea
Al Divino che tacea:
Sorgi, disse, io son con te.
Ma quando il Manzoni, nell'Inno medesimo, lascia stare i dogmi od
i miti, per tornare a predicar semplicemente quella carità cristiana ch'egli
sentiva già fortemente anche prima di mettersi nelle mani del suo confessore,
quella carità ch'è principio, fonte, alimento d'ogni religione, il suo
linguaggio torna semplice, naturale, eloquente. Nella festa della Pasqua, ossia
nella risurrezione primaverile, tutto il mondo si rallegra e sorride, ed i
Cristiani si danno il bacio fraterno del perdono, e siedono democraticamente ad
una mensa comune; ma perchè tutti mangino, il ricco non deve mangiar troppo;
onde il Manzoni ci canta:
Sia frugal del ricco il pasto;
Ogni mensa abbia i suoi doni;
E il tesor negato al fasto
Di superbe imbandigioni
Scorra amico all'umil tetto;
Faccia il desco poveretto
Più ridente oggi apparir.
Nel Nome di Maria notasi non pure lo stento dei pensieri,
ma ancora un certo stento di parole, non di rado antiquate48; il
Manzoni si ricordò forse troppo delle nostre antiche Laudi spirituali, e
questo riuscì certamente l'Inno più cattolico del Manzoni. Ma il puro
Cattolicismo non seppe mai inspirar nulla di grande; e se non si sapesse che il
Manzoni non ischerzava mai con le cose sacre, si direbbe in alcune strofe
ch'egli, anzi che scrivere un inno originale, volesse parodiare certi poeti
classicheggianti. È strano infatti il trovare in una sola poesia manzoniana forme
come queste: quando cade il die, invita ad onorarte, d'oblianza il copra, se
ne parla e plora, d'ogni laudato esser la prima, in onor tanto avémo, vostri
antiqui Vati, i verginal trofei, nosco invocate. Conviene invece a tutti i
Cristiani, siano cattolici, sian protestanti, l'Inno manzoniano della Pentecoste,
ossia l'inno dell'amore, l'inno della carità. Il Manzoni sta per uscir dalla
tutela troppo opprimente della sua guida spirituale. Egli è arrivato finalmente
a riposare non più nel genere, ma in una sua propria specie di fede; ma egli
vuole poi esser libero di cantarla come la sente, non vuol più traccie, la
traccia egli se la darà questa volta da sè; non teme oramai più il ridicolo,
che da principio lo disturbava ed irritava, è arrivato alla calma, anzi a
quella pace che il mondo irride, ma non può rapire, e chi ha la
pace nell'anima è libero e padrone di sè. Perciò, nel suo Canto della Pentecoste,
che appartiene già ad un nuovo ciclo della vita manzoniana, il Poeta ritrova
nuovamente sè stesso, tutta la sua originalità, tutta la sua potenza; noi
sentiamo risorgere il Manzoni dell'Imbonati, ma rinvigorito, ma più eloquente,
ma più sereno e più grande; noi recitiamo commossi la sua magnifica invocazione
lirica all'Amore cristiano, perchè si diffonda e si comunichi a tutte le
vite, a tutte le età della vita:
Noi t'imploriam; nei languidi
Pensier dell'infelice
Scendi, piacevol Alito,
Aura consolatrice;
Scendi bufera ai tumidi
Pensier del vïolento;
Vi spira uno sgomento,
Che insegni la pietà.
Per te sollevi il povero
Al ciel ch'è suo, le ciglia;
Volga i lamenti in giubilo,
Pensando a Cui somiglia;
Cui fu donato in copia,
Doni con volto amico,
Con quel tacer pudìco,
Che accetto il don ti fa.
Spira dei nostri bamboli
Nell'innocente riso;
Spargi la casta porpora
Alle donzelle in viso;
Manda alle ascose vergini
Le pure gioie ascose;
Consacra delle spose
Il verecondo amor.
Tempra dei baldi giovani
Il confidente ingegno;
Reggi il viril proposito
Ad infallibil segno;
Adorna la canizie
Di liete voglie sante;
Brilla nel guardo errante
Di chi sperando muor.
Dopo queste strofe sacre il Manzoni non ne scrisse altre; egli
sentì che non si poteva andare più in su, tutti i dogmi religiosi si riducono
finalmente ad una sola parola: amate. Dopo aver cantato l'amore, dopo averlo
probabilmente sentito nella sua maggior veemenza, e sotto le varie forme, con
le quali nella vita si può amare, il Manzoni stava per espandere liberamente il
suo genio giovanile già temprato, e per drizzare il suo proposito virile a
segno infallibile. Ma il confessore gli stava ancora presso per ricordargli
ch'egli avea dato di sè pubblico scandalo, e che come pubblico era statolo
scandalo, pubblica dovea essere la riparazione49. Non bastava che ci
fosse diventato cattolico, e che egli avesse composto inni intieramente
ortodossi; doveva adoprare tutto il suo ingegno in difesa della religione
cattolica. La Chiesa sapeva bene quanto quell'ingegno valesse, e se lo volle
appropriare. Al Manzoni fu imposto come penitenza da monsignor Tosi l'obbligo
di scrivere le Osservazioni sopra la Morale cattolica. Noi leggiamo con
ammirazione nella Vita dell'Alfieri che il grande Astigiano ordinava al
suo servitore di legarlo fortemente alla sedia per obbligarsi al lavoro; ma non
abbiamo letto senza una grande pietà e confusione, che monsignor Tosi chiudeva
in camera Alessandro Manzoni, perchè mandasse innanzi il libro sulla Morale
cattolica che non voleva andare avanti. Il fatto ci è assicurato
dall'egregio biografo del Tosi, professor Carlo Magenta, il quale scrive precisamente:
«Il Tosi, vedendo che quel lavoro procedeva lento, perchè l'Autore era occupato
in altri studii, trovandosi a Brusuglio, ad una cert'ora del giorno andava a
chiudere il Manzoni nel suo studio, dichiarandogli che non l'avrebbe lasciato
escire, finchè non avesse scritto un certo numero di pagine.» Dallo stesso
biografo abbiamo appreso con una specie di terrore che il Tosi consigliava il
Manzoni a mettere in versi la storia di Mosè ed un lavoro ascetico, di cui ci è
rimasta una traccia. Basterà per saggio che io ne riporti l'introduzione:
«L'uomo aspira a riposare nella contentezza, ed è agitato dal desiderio di
sapere; e, pur troppo, abbandonato a sè stesso cerca la soddisfazione in vani
diletti ed in una scienza vana. Oggi ci è dato un Consolatore che insegna.
Felici noi, se sappiamo comprendere che l'unica vera gioia e l'unico vero
sapere vengono dallo Spirito che il Padre ci manda, nel nome di Gesù Cristo.»
Come non fremere al pensiero che, se il Manzoni s'imbecilliva in un'opera di
tal natura, l'Italia non avrebbe forse mai avuto i Promessi Sposi? E chi
sa quante belle pagine de' Promessi Sposi sono andate perdute per la
condanna di quel bravo e sant'uomo, che era monsignor Tosi!
Il signor Magenta ci dice che il Tosi «avrebbe voluto togliere quel
brano bellissimo dei Promessi Sposi, in cui il Padre Cristoforo, dopo
avere sciolta Lucia, soggiunge quelle commoventi parole che tutti sanno: Peccato,
figliuola? peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che
faccia uso dell'autorità che ha ricevuta da essa, e che essa ha ricevuta da
Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; certo,
se mai m'è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli; ora
non vedo perchè Dio v'abbia a voler separati;» parrebbe che questo passo
fosso abbastanza religioso: ma al Tosi non bastava; ei si faceva ancora
scrupolo, non avrebbe prosciolto Lucia dai voti, e da cattolico conseguente non
poteva permettere che l'Autore del romanzo, posto che Lucia avea fatto voto alla
Madonna di non isposar Renzo, li mandasse finalmente insieme all'altare. Ma si
trovò, per fortuna, in Milano un altro prete di manica più larga, un altro
amico, Don Gaetono Giudici, al quale il Manzoni dava a leggere gli stamponi dei
Promessi Sposi, e Don Giudici vedendo che il Manzoni, per obbedienza al
confessore, stava già per dar di frego a quelle parole e a parecchie altre
pagine, vi si oppose energicamente. Il Manzoni lavorava dunque sotto una
duplice censura, l'austriaca e l'ecclesiastica; ed abbiamo tutte le ragioni di
credere che, se la prima sacrificò qualche parola, la seconda ci privò di molte
belle pagine e chi sa forse d'intieri volumi manzoniani. Non apprendiamo forse
dalle lettere del Manzoni al Tosi che questi cercava pure distoglierlo, nel
1824, dal lavoro sulla lingua italiana, al quale il Manzoni fin da quel tempo
attendeva, temendo ch'egli vi si affaticasse troppo ed entrasse in polemiche
letterarie? Polemiche contro il Sismondi per la difesa del Cattolicismo si
potevano fare, e non erano da temersi; il Manzoni dovea invece più tosto
riposarsi in un ozio beato ed infingardo, che correre il pericolo di agitare in
Italia alcuna nuova questione letteraria che poteva divenir nazionale. Ma io
qui mi fermo, per timore di cambiare il mio studio biografico sopra il Manzoni
in una specie di processo contro il suo confessore, che, lo ripeto, era uomo di
santi costumi, ed aggiungerò ancora di svegliato ingegno e d'animo liberale ed
amantissimo della patria; ma i sillogismi cattolici sono terribili e fatali per
la loro angustia; chi si rassegna a ragionare in quel dato modo, come
l'esemplare delle opere del Voltaire già possedute dal Manzoni, avrebbe potuto
indifferentemente sopprimere il genio del Manzoni. Alcune delle lettere di lui
al Tosi ci fanno paura; questa per esempio: - «Veneratissimo e Carissimo Signor
Canonico. Le rispondo immediatamente, perchè Ella possa assicurare la nota
persona che tutto sarà saldato. Io intanto ringrazio vivamente il Signore che
ci ha offerto questo fortunato mezzo di propiziazione per noi peccatori, e
ringrazio pure di cuore la carità di Lei, del cui Santo Ministero Dio si vale
per tutto quel bene ch'io possa fare. Dico senza esitare questa parola, perchè
malgrado la mia profonda indegnità sento quanto possa in me operare la
Onnipotenza della Divina Grazia. Si compiaccia di pregare il buon Gesù che non
si stanchi di farne risplendere i miracoli in un cuore che ne ha tanto bisogno.
È inutile raccomandarle il segreto. Si ricordi intanto d'una famiglia che tanto
la venera ed ama, e mi tenga sempre Suo umilissimo e affezionatissimo Figlio in
Gesù Cristo, ALESSANDRO MANZONI.» - Questo eccesso di umiltà cristiana ci
atterra. La lettera allude, senza dubbio, ad una buona azione, a qualche opera
di carità, per la quale il futuro Autore di quei bei versi, in cui si
raccomanderà di far l'elemosina:
Con quel tacer pudìco
Che accetto il don ti fa,
domanda il segreto. Ma il linguaggio di quella lettera, pur
troppo, ci umilia. Per fortuna, il Manzoni stesso reagì da sè medesimo contro
quella servitù e contro quell'unzione di linguaggio, per tornare uomo anche col
proprio confessore. Si trovano perciò con piacere molte altre lettere, nelle
quali il Manzoni scrive al Tosi con molta naturalezza, e si rivela bonariamente
qual è, senza prendere ad imprestito alcuno stile d'occasione e di convenienza
o di obbedienza; che se il Manzoni solamente cattolico ci faceva
l'effetto di un uomo asfissiato, noi ci sentiamo in esse inondare da un aere
più spirabile che ci rinfresca e ci rasserena.
Il Manzoni stesso temette, del resto, egli medesimo d'esser preso
per più cattolico ch'egli veramente non fosse e non si sentisse, e in un
momento di molta, se non ancora di perfetta, sincerità, nei primi giorni
dell'anno 1828, se ne confessava candidamente ad una donna, alla poetessa
piemontese Diodata Saluzzo Roero, la quale rallegravasi con lui, perch'egli
fosse apparso al prete Lamennais di allora «religieux et catholique jusqu'au
profond de l'ame.» Quell'opinione lo spaventava come eccessiva, e però egli le
scriveva: «Egli è vero che l'evidenza della religione cattolica riempie e
domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni
morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse
che pur si trovano senza la sua scorta, non mi sembrano intere, fondate,
inconcusse, se non quando sono ricondotte ad essa ed appaiono quel che sono,
conseguenze della sua dottrina. Un tale convincimento dee trasparire
naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro, perciocchè,
scrivendo, si vorrebbe esser forti e una tale forza non si trova che nella
propria persuasione. Ma l'espressione sincera di questa può, nel mio caso,
indurre un'idea pur troppo falsa, l'idea di una fede custodita sempre con
amore, e in cui l'aumento sia un premio di una continua riconoscenza; mentre
invece questa fede io l'ho altre volte ripudiata e contraddetta col pensiero,
coi discorsi e colla condotta; e dappoichè, per un eccesso di misericordia, mi
fu restituita (avvertasi la parola restituzione, la quale implica
soltanto che vi furono anni, in cui il Manzoni negò o più tosto non custodì
bene la fede cattolica, in cui era stato allevato, e diminuisce perciò il
merito taumaturgico degli operatori della conversione di lui), troppo ci manca
che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio
raziocinio. E non vorrei avere a confessare di non sentirla mai così vivamente,
come quando si tratta di cavarne delle frasi; ma almeno non ho il proposito
d'ingannare, e col dubbio d'aver potuto anche involontariamente dar di me un
concetto non giusto, mi nasce un timore cristiano d'essere stato ipocrita, e un
timore mondano di comparire tale agli occhi di chi mi conosce meglio.» Questa
preziosa confessione può ridursi ad una sola formola: dal Manzoni cattolico
uscirono, in somma, sole voci di testa; ed ora udremo, se vi piace, le sue più
gagliarde e spontanee voci di petto, e vedremo finalmente spiegarsi tutta la
singolare originalità del genio manzoniano.
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