XV.
Il Manzoni Poeta drammatico.
Un psicologo troverebbe argomento di uno studio molto importante,
esaminando in qual modo la mente del Manzoni abbia potuto, nel 1815, scrivere,
dopo il Carme In morte dell'Imbonati, una Canzone stentata e rettorica, e
poi rivelarsi di nuovo, con insolito splendore, nei Cori del Carmagnola.
Ma converrebbe pure che fosse aiutato, in questa indagine, da qualche indizio
biografico. Ora la biografia manzoniana dal 1810 al 1818, o tace intieramente,
o ci dice soltanto che il Manzoni in quel tempo rimase sotto la disciplina
religiosa di monsignor Tosi, scrisse alcuni Inni Sacri e s'occupò
d'agricoltura. È troppo poco per ispiegarci la singolare, quasi febbrile e
potente operosità dell'ingegno manzoniano che muove dall'anno 1818 e va fino al
termine dell'anno 1824, sei anni preziosi, ne' quali veramente si è rivelato
tutto il genio poetico del Manzoni. Le lettere di quel tempo dirette dalla
Giulia Beccarla e dal Manzoni al Tosi ci mostrano Don Alessandro molto malato
di nervi; ebbene, erano forse le insonnie del genio agitato da una specie di
furore divino. Nel 1818, il Manzoni aveva pure avuto uno de' più grossi
dispiaceri della sua vita; era stato costretto a vendere il Caleotto, la
casa, le terre di suo padre, presso Lecco. In mezzo a que' disastri economici
cercò forse sollievo nella poesia; il dramma che si compieva nella sua vita,
gli fece forse eleggere la forma drammatica. Studiando una volta la storia di
Venezia con l'intendimento di scrivere un poema sopra la fondazione della città
delle Lagune, si era probabilmente innamorato della figura del Carmagnola; ma
il momento non era più per lui da poemi; l'animo del Manzoni agitato, non più
contenuto dalla pietà e dalla rassegnazione, che monsignor Tosi non si stancava
di raccomandargli, avea bisogno di sfogarsi, mettendo fra loro in poetico
contrasto drammatico diversi affetti. Forse la vendita del Caleotto avea
dato occasione in Milano a nuove chiacchiere che lo avevano disgustato; la
madre, la moglie, il Tosi, forse pure il Fauriel, a cui, dopo alcuni anni di
silenzio, egli era tornato con più vivace affetto, aveano cercato di calmarlo;
e vi erano, senza dubbio, riusciti in parte: ma il maggior conforto egli avea
dovuto provarlo, ritirandosi in sè stesso, e creandosi, come avveniva in casi
simili al Goethe, a sua immagine un proprio mondo poetico. In quel mondo tutto
ideale egli poteva liberamente sfogare i suoi sentimenti, in quella finzione
storica esprimere ad un tempo e nascondere i proprii dolori. E coi proprii il
Manzoni sentiva pure profondamente i dolori della patria avvilita ed oppressa
sotto l'ignominia d'un Governo straniero.
Nella Prefazione del Conte di Carmagnola il Manzoni stesso
dichiarò che una delle ragioni che lo determinarono a introdurvi i Cori, fu
questa, che «riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona
propria, (essi) gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di
prestare ai personaggi i suoi proprii sentimenti, difetto dei più noti negli
scrittori drammatici.» Ma, quando leggiamo uno scrittore come il Manzoni,
dobbiamo guardar sempre al senso preciso che vogliono aver le parole; egli non
dice già che i Cori toglieranno, ma solamente che essi diminuiranno
all'autore la tentazione di mettersi in iscena. Approfittiamo dunque di questa
mezza negazione, che implica necessariamente una mezza affermazione. In una
bella lettera che il Manzoni scrisse nel febbraio dell'anno 1820 al suo amico
abate Gaetano Giudici di Milano, rimasta fino ad oggi inedita, trovo, fra le
altre, queste parole: «Io aveva sentito che le circostanze e le azioni del
Carmagnola non erano in proporzione coll'animo suo e coi suoi disegni; ma
questa dissonanza appunto è quella che io ho voluto rappresentare. Un uomo di
animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla
debolezza e colla perfidia de' suoi tempi, e con istituzioni misere,
improvvide, irragionevoli, ma astute e già fortificate dall'abitudine e dal
rispetto, e dagl'interessi di quelli che hanno iniziativa della forza, è egli
un personaggio drammatico?»50
Quest'uomo potrebbe essere così bene il Manzoni posto fra gli
uomini del suo tempo, con un Governo come quello di Lombardia, posto a rischio
continuo di perdere, nell'adempimento dei suoi doveri civili, la pace domestica
e la vita, come il Conte di Carmagnola. In ogni modo, nelle parole della
tragedia che s'intitola dal Conte di Carmagnola, più che i sensi di un
capitano di ventura del Medio Evo, noi ritroviamo spesso l'animo, i pensieri, i
dubbii, gl'interni combattimenti del Manzoni, geloso del suo buon nome, timido
nell'opera, ardito ne' concepimenti, pio, delicato, amante della patria e della
famiglia. Queste parole messe in bocca al Conte di Carmagnola non
istonerebbero, per esempio, ove si collocassero nel Carme In morte
dell'Imbonati:
Oh! beato colui, cui la fortuna;
Così distinte in suo cammin presenta
Le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote
Correr certo del plauso e non dar mai
Passo, ove trovi a malignar l'intento
Sguardo del suo nemico. Un altro campo
Correr degg'io, dove in periglio sono
Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
Nome d'ingrato, l'insoffribil nome
Di traditor. So che de' grandi è l'uso
Valersi d'opra ch'essi stiman rea;
E profondere a quel che l'ha compita
Premi e disprezzo, il so; ma io non sono
Nato a questo; e il maggior premio che
bramo,
Il solo, egli è la vostra stima, e quella
D'ogni cortese; e, arditamente il dico,
Sento di meritarla.
Così avrebbe parlato, così forse parlava allora il Manzoni a' suoi
proprii accusatori. Noi sappiamo già che prima della pubblicazione del Carme In
morte dell'Imbonati, ossia nell'anno 1805, si era ciarlato molto in Milano
contro il Manzoni, e che si tornò a ciarlare contro di lui, quando, nel 1819,
egli malato di nervi ritornò con la madre e con la moglie a Parigi. La madre
del Manzoni, nell'aprile dell'anno 1820, scriveva a monsignor Tosi che il
Manzoni preferiva «il soggiorno di Parigi a quello di Milano, per il gran
ribrezzo che gli produce quella benedetta mania che si ha di parlare degli
affari degli altri. Si ricorda di tante ciarle e di tante supposizioni fatte
sul nostro viaggio; e qualche volta questa idea lo mette di cattivo umore:» Il
malumore, o almeno un po' di malumore, penetra pure in alcuni versi del Conte
di Carmagnola. Ma il sentimento cristiano e l'amor patrio vincono
finalmente ogni altra cura. Il Manzoni assai più che il suo Conte di Carmagnola
esplorava il suo tempo e cercava persuadersi ora che la salute d'Italia sarebbe
venuta dalla Toscana, ora dal Piemonte.
Il Carmagnola, infatti, alludendo ai Fiorentini, dice:
A molti in mente
Dura il pensier del glorïoso, antico
Viver civile; e subito uno sguardo
Rivolgon di desìo, là dove appena
D'un qualunque avvenir si mostri un
raggio,
Frementi del presente e vergognosi;
e al suo Piemonte belligero fida, con la propria, la vendetta
d'Italia:
Voi provocate la milizia. Or sono
In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
Ch'io non ci nacqui; che tra gente io
nacqui
Belligera, concorde; usa gran tempo
A guardar come sua questa qualunque
Gloria d'un suo concittadin, non fia
Che straniera all'oltraggio ella si tenga.
Ma, in pari tempo, nelle parole che Marco rivolge all'amico suo il
Conte di Carmagnola, ritroviamo la prudenza manzoniana; si direbbe che Marco
sostiene presso il Conte quella parte medesima che il Fauriel presso il
Manzoni; è l'amico Fauriel, al quale la tragedia è per l'appunto dedicata:
...... Consiglio
Di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
Io non ti do, nè tal da me l'aspetti;
Ma tra la noncuranza e la servile
Cautela avvi una via; v'ha una prudenza
Anche pei cor più nobili e più schivi;
V'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
Senza discender fino ad esse; e questa
Nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.
Il Conte, ossia forse il Manzoni, vorrebbe fidarsi al suo destino,
e non curar troppo le male arti de' nemici; Marco, ossia ancora, come si può
sottintendere,, il Fauriel gli pone innanzi l'immagine della moglie e della
figlia amatissime, ma forse in qualche momento dimenticate per alcun'altra più
forte attrattiva, per l'amore della patria:
Vuoi che una corda io tocchi
Che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia,
A cui tu se' sola speranza; il cielo
Diè loro un'alma per sentir la gioia,
Un'alma che sospira i dì sereni,
Ma che nulla può far per conquistarli.
Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
Che il tuo destin ti porta; allor che il
forte
Ha detto: io voglio, ei sente esser più
assai
Signor di sè che non pensava in prima.
Il Manzoni poeta cristiano detta ancora queste pie parole al fiero
Conte condannato a morte:
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
Io le provai quest'empie gioie anch'io;
Quel che vagliano or so.
E quest'altre affettuose alla moglie Antonietta paiono suggerite
al Conte da Enrichetta Blondel, la moglie del Manzoni:
......O sposo
De' miei bei dì, tu che li fêsti, il core
Vedimi; io moio di dolor, ma pure
Bramar non posso di non esser tua.
Vi è finalmente tutta la pietà cristiana del Manzoni, molto più
che il carattere storico del Carmagnola, in queste parole del Conte:
Allor che Dio sui buoni
Fa cader la sventura, ei dona ancora
Il cor di sostenerla.... Oh! pari il
vostro
Alla sventura or sia. Godiam di questo
Abbracciamento; è un don del cielo
anch'esso.
.... Il torto è grande,
Ma perdona; e vedrai che in mezzo ai mali
Un'alta gioia anco riman.
.... Oh gli uomini non hanno
Inventata la morte; ella sarìa
Rabbiosa, insopportabile, dal cielo
Essa ci viene, e l'accompagna il cielo
Con tal conforto, che nè dar nè tòrre
Gli uomini ponno.
Così sono uscite dal cuore di un marito credente, del Manzoni, in
somma, queste belle e solenni ultime parole, con le quali il Conte raccomanda
la moglie e la figlia al Gonzaga:
Quando rivedran la luce,
Di' lor... che nulla da temer più resta.
Poco, lo ripeto, sappiamo, pur troppo, della vita del Manzoni in
quegli anni che corsero dal suo matrimonio alla pubblicazione del Conte di
Carmagnola e dell'Adelchi; ma forse non andremmo troppo lontani dal
vero, supponendo che alcun grande dolore abbia agitato l'animo del Manzoni nel
tempo, in cui, venduto il Caleotto, egli scrisse le sue tragedie51
ed incominciò il proprio romanzo. Vi sono versi che non si possono scrivere
altrimenti che sotto una impressione molto viva e dolorosa; ed i versi che ho
citati, mi fanno dubitare che il Manzoni abbia desiderato in quegli anni
prender parte a qualche congiura politica, che, per una recrudescenza d'amor
patrio, abbia corso qualche gran rischio e temuto assai per la propria famiglia
e siasi poi sentito accusare di qualche debolezza: la malattia nervosa che lo
visitò, appena terminata la sua tragedia, le varie ciarle alle quali diede
occasione il suo ritorno a Parigi, hanno forse qualche relazione con alcun
fatto che ignoriamo, ma del quale potrebbe darsi che si trovassero indizii ne'
suoi scritti di quel tempo. Fu caso fortunato che i componimenti del Manzoni
cadessero sotto gli occhi del Goethe, ma non già caso che il Goethe se ne
compiacesse. Vi era naturale simpatia fra que' due ingegni olimpici; anche il
Goethe in quasi tutte le sue opere poetiche ha rivelato sè stesso in modo che
la biografia di lui può farsi quasi che tutta sopra la sola guida de' suoi
scritti. Il Manzoni sfogò meno le sue passioni, si frenò di più, tenne più
fermo ad un solo alto segno il proprio ideale; ma sotto la sua calma apparente,
sotto quella mirabile temperanza di linguaggio, è ancora possibile scorgere le
tempeste d'un animo agitato, in continua lotta con sè medesimo, e più ancora
che lottante fra il dovere e il piacere, contrastato fra due doveri diversi. I
due doveri diversi, fra i quali il Manzoni lottò, dovettero essere la patria e
la famiglia, come per un altro verso la libertà del pensiero e la fede. Il
Goethe, come il Manzoni, mirava alla perfezione; ma io credo che, senza alcuna
esagerazione, si possa dire che il primo mirava particolarmente ad una
perfezione intellettuale, il secondo alla perfezione morale, che costa qualche
cosa di più, poichè obbliga pure a qualche maggior sacrificio.
Nell'Adelchi si palesa generalmente assai meno il
sentimento individuale dell'autore; tuttavia è lecito in più d'un passo, ove
parla il giovine eroe longobardo, riconoscere i privati sentimenti del Manzoni.
La tragedia fu terminata, quando, fallita la rivoluzione piemontese, parecchi
de' migliori amici del Manzoni dovettero andare o in esigilo, o al carcere
duro. Il Nostro si dolse, certamente, seco stesso di non aver potuto far nulla
per la patria e di dovere nascondere il suo potente ed inspirato Inno
rivoluzionario dedicato a Teodoro Koerner, e, per amore della famiglia, evitare
ogni imprudenza. S'io non m'inganno, è il Manzoni del 1821 che parla in questi
versi posti in bocca ad Adelchi:
Il mio cor m'ange, Anfrido; ei mi comanda
Alte e nobili cose; e la fortuna
Mi condanna ad inique: e, strascinato,
Vo per la via che non mi scelsi, oscura,
Senza scopo; e il mio cor s'inaridisce,
Come il germe caduto in rio terreno
E balzato dal vento.
Il Manzoni fu sempre un po' repubblicano; se ne lagnavano nel 1848
il Giusti e l'Azeglio, quando lo vedevano diffidar troppo delle promesse del re
Carlo Alberto. E da repubblicano, con poca verosimiglianza storica, egli faceva
parlare il moribondo Adelchi al re Desiderio suo padre:
Gran segreto è la vita; e noi comprende
Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno;
Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a
questa
Ora tu stesso appresserai, giocondi
Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
Gli anni, in cui re non sarai stato, in
cui
Nè una lagrima pur notata in cielo
Fia contra te, nè il nome tuo saravvi
Con l'imprecar de' tribolati asceso.
Godi che re non sei, godi che chiusa
All'oprar t'è ogni via; loco a gentile,
Ad innocente opra non v'è; non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede e fa nomarsi
Dritto; la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra mèsse non dà.
Tutto ciò è grande, è vero, è degno del Manzoni, e si capisce che
dovesse piacere al Mazzini, ma stona nel linguaggio di un Principe longobardo
del IX secolo. Come tragedie storiche, il Carmagnola e l'Adelchi,
mi paiono, sia detto con tutto il rispetto de' loro pregi letterarii, lavori
sbagliati; ma essi, oltre all'importanza che hanno per le novità che
introducono nella drammatica italiana, obbligando le persone tragiche a parlare
un linguaggio umano e a muoversi naturalmente, senza l'impaccio delle regole
così dette aristoteliche intorno alle unità, contengono un gran numero di
particolari poetici manzoniani, il che vuol dire nuovissimi, per i quali se non
vi si andrà a cercare la verità storica e se essi non si potranno rappresentare
sulle scene, vi si troveranno sempre affetti eloquentemente espressi, pensieri
elevati, caratteri bene scolpiti, descrizioni pittoresche, intendimenti civili
e patriottici che li faranno ammirare. Il Manzoni dedicava l'Adelchi,
dodici anni dopo il suo matrimonio, a sua moglie Enrichetta Blondel, e non
senza un motivo particolare, oltre i motivi generali che egli dovea parer di
avere per dare un pubblico segno d'onore e d'affetto alla sua compagna. Come
m'è parso di sentire nell'amicizia di Marco pel Conte di Carmagnola quella del
Fauriel pel Manzoni, onde, perciò forse, veniva particolarmente dedicata al
Fauriel la prima tragedia manzoniana; così mi paiono da ricercarsi nella
tragedia stessa le ragioni particolari, per le quali Enrichetta Blondel fu
onorata della dedicazione dell'Adelchi. «Il signor marchese Capponi
(scrive il Tommaseo), nel conoscere la prima moglie, non bella e di poche
parole, a quello appunto e al portamento sentì che la vera ispiratrice del
Manzoni era lei.» Disse il simile qualche anno dopo un giornale di Francia,
che, recando i versi di Ermengarda morente: Amor tremendo è il mio, ec.,
soggiunge: Ah questa, signor Manzoni, non è roba vostra; ve l'ha dettata una
donna. Rileggiamoli dunque insieme questi bei versi che il Manzoni avrebbe
rubati a sua moglie. Ermengarda, in amoroso delirio, si rivolge col memore
pensiero allo sposo che la tradì:
......O Carlo,
Farmi morire di dolor tu il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
Dolor ne avresti. Amor tremendo è il
mio;
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai; tu eri mio; secura
Nel mio gaudio io tacea, nè tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l'ebbrezza del mio cor segreto.
Nel personaggio di Adelchi, il Manzoni stesso confessò d'aver voluto
foggiare un suo ideale; il medesimo si può dire dell'Ermengarda, sopra i
sentimenti della quale la storia non ci dice nulla; ora gl'ideali che si
coloriscono al di fuori della storia e che riescono caratteristici come questo
di Ermengarda, non si possono concepire altrimenti che supponendoli determinati
dagli stessi sentimenti più vivi del Poeta nell'ora in cui egli scrisse. Io non
posso insistere di più sopra un argomento così delicato come le relazioni di
Alessandro Manzoni con Enrichetta Blondel; ma parmi che un rimorso gentile
dell'Autore verso la sua compagna che egli potè forse turbare co' suoi
ardimenti patriottici o con alcun'altra sua imprudenza, abbia fatto parlare
Ermengarda in quel modo straordinariamente appassionato, e che la dedica solenne
dell'Adelchi alla sua compagna sia stata come una pubblica riparazione
di qualche segreta lacrima domestica. S'io mi sono ingannato, ne domando
perdono alla memoria del Manzoni; ma come ai critici del Goethe fu lecito de
tracciare sopra i suoi versi la storia de' suoi amori, non ho potuto spiegarmi
altrimenti, come in un dramma, dove l'amore non entrava, sia apparso l'unico
tipo veramente poetico di una moglie ideale che ci presenti la poesia italiana,
e che il Dramma stesso porti la seguente dedicazione glorificatrice:
ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE
ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI CONIUGALI
E CON LA SAPIENZA MATERNA
POTÈ SERBARE UN ANIMO VERGINALE
CONSACRA QUESTO ADELCHI
L'AUTORE
DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLENDIDO
E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO
RACCOMANDARE IL CARO NOME E LA MEMORIA
DI TANTE VIRTÙ.52
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